Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Attività 1999

Conferenze e convegni

GREGORIO MAGNO, IL PALESTRINA, BOB DYLAN:
LA CHIESA DI FRONTE ALLA MUSICA

in collaborazione col Centro dipartimentale "La Soffitta"
del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna, col sostegno di Bologna2000

Bologna, palazzo Marescotti


Giulio Cattin

Due premesse

(1) Il titolo è doppiamente provocatorio: una sequenza di personaggi così accostati – sebbene essa manchi di omogeneità (un promotore, un compositore, un cantautore), o forse proprio in ragione della stessa non omogeneità – suggerisce l’idea d’un piano inclinato, la cui direzione dall’alto al basso esprime la degradazione fino agli estremi margini di accettabilità o, perfino, alla non accettabilità, mentre il movimento in salita può segnare un percorso di raggiungimenti sempre più perfetti. Poiché in partenza nessuna delle due direzioni è presunta o accettata, gli interventi degli esperti dovrebbero aiutare a discernere, scegliere e, se necessario, modificare.

(2) La dislocazione dei personaggi sulla linea della storia non comporta necessariamente l’esclusione di altri punti di vista o criteri di analisi che possono addirittura precedere la storia o accompagnarsi all’intero suo svolgimento nel tempo. Sono tali, ad esempio, l’eventuale necessità di chiarificazioni concettuali e la conseguente adozione d’un lessico adeguato; oppure il riferimento ad orizzonti filosofici e a sistemi epistemologici d’un tempo e/o attuali; o ancora l’inserimento nelle problematiche del linguaggio e della comunicazione; e in modo peculiare l’inevitabile rapportarsi con altre conviventi forme di comunicazione, come i riti e i segni della liturgia o della devozione.

La storia

(1) Fino al periodo rinascimentale – Il percorso della musica per il culto cristiano secondo la storia è troppo noto perché ne sia necessaria una globale ripresa; vi si può tornare per i necessari approfondimenti tutte le volte che la lezione della storia dovrà essere fruttuosamente rivisitata in funzione dei temi particolari sui quali s’intende intervenire. Appare invece più urgente il confronto su quanto di musicale – in senso stretto e nelle sue connessioni più ampie – la storia della musica ha accumulato e depositato nell’oggi della chiesa. È piuttosto da sottolineare la necessità di rispettare rigorosamente le differenti stratificazioni cronologiche: ad esempio, le problematiche del mottetto nei secoli XIII-XIV non sono le stesse del mottetto cinquecentesco.

Il panorama delle conoscenze storiche si è inopinatamente allargato nel nostro tempo, anche se la vita musicale delle comunità cristiane dei primi secoli ci è nota esclusivamente tramite i monumenti e le tradizioni liturgiche delle varie chiese. Le fonti liturgiche sono la principale risorsa a cui ci si può rivolgere. A partire dal secolo IV-V la creazione di repertorii stabili per l’eucologia e la liturgia della parola lascia supporre che analogamente si andassero stabilizzando anche i canti all’interno delle grandi famiglie rituali cristiane e, prima ancora, all’interno delle medesime regioni o province ecclesiastiche. Per ovvi motivi la nostra attenzione sarà vòlta principalmente al repertorio musicale dell’Occidente latino, considerato come entità già formata. Visti gli obiettivi del presente incontro, non sembra necessario indugiare sulle problematiche origini del canto cristiano (derivazione ebraica e/o greco-romana), per quanto sarebbe utile anche per la chiesa del nostro tempo conoscere i meccanismi che hanno condotto alla formazione del primitivo canto cristiano.

Del periodo patristico si ricorderanno gli interventi polemici dei Padri (soprattutto i latini), le cui severe censure contro la musica corruttrice trovano ragione – e sarà questo un dato ricorrente fino al pieno medioevo – non tanto in argomenti di natura strettamente musicale, quanto piuttosto in motivi collegati ai testi (lascivi, blasfemi, ecc.) e agli ambienti nei quali i canti si eseguivano (all’interno di riti pagani, negli spettacoli teatrali e negli stadi, ecc.). Nel medesimo contesto si spiega la forte avversione all’uso di strumenti troppo compromessi con momenti rituali pagani o con altre abitudini pagane civili o private.

Nell’epoca che corre dalle origini cristiane al rinascimento il canto per il culto cristiano non conobbe insanabili o laceranti controversie, né si trovò in condizioni d’insopportabile disagio a fianco dei generi musicali profani. I confini tra sacro e profano, per noi tutt’altro che chiari anche a causa del regime di oralità nel quale il repertorio si trasmetteva, si andarono via via precisando. Per quel tempo i documenti testimoniano d’un intenso transito delle melodie dal versante sacro al profano e, meno vistosamente, dal profano al sacro. Per i primi repertorii profani scritti (repertorii trobadorico e trovierico e movimenti derivati che videro la luce in altre regioni europee) il fatto è incontestabile. Voci di condanna da parte di uomini di chiesa, o i non pochi canoni di sinodi e concili, non entrano quasi mai nell’ambito della tecnica musicale in senso stretto: i mali denunciati toccano di norma gli esecutori (giullari, danzatori, ecc.), i testi osceni e gli ambienti. Fa eccezione forse la bolla Docta sanctorum patrum (1223), ove i timori provengono anche da motivazioni tecniche, peraltro sempre in relazione ai testi: le inattese interruzioni del ritmo (quelle specialmente dovute all’hoquetus) e l’introduzione, legittimata ormai dai compositori, di valori ritmici minori (prime avvisaglie della notazione dell’ars nova), che mettono a repentaglio la comprensibilità delle parole.

La nascita e lo sviluppo della polifonia, da sempre invocati come elemento di corruzione del canto cosiddetto gregoriano, vanno oggi giudicati da una premessa assai differente: l’apparizione della notazione con pretese di mensuralità fu preceduta da una lunga tradizione di "polifonia semplice" ben più estesa di quanto un tempo si pensasse, al punto da far nascere il sospetto che le stesse aree interessate dalle diverse famiglie della notazione neumatica fossero immerse in un "contenitore" (= continente) nel quale la prassi esecutiva polivocale era consuetudine assai comune.

D’altra parte, sia pure in contesto diverso, qualcosa di analogo si verificò anche più tardi, in pieno Cinquecento e oltre. La storia della musica per il culto che ci è familiare è la storia dei grandi centri: celebri monasteri, cattedrali e poco più. Soltanto ora sono in atto ricerche relative alle chiese minori nelle città e nel territorio, come parrocchie e simili. Il risultato più sorprendente è che vi si faceva musica, alla pari forse delle più alte istituzioni: solo che la musica non era la stessa, trattandosi di repertorii lontani dai modelli franco-fiamminghi, adatti o adattati alle forze di cui si disponeva. È una storia della musica liturgica che, sia pure per differenti ragioni, deve essere riscritta.

Altra osservazione: poiché è un caso paradigmatico, si valutino il peso e il significato delle prescrizioni del Concilio di Trento o, più precisamente, delle conseguenze dovute all’introduzione dei libri liturgici di Pio V. Com’è noto, le valutazioni sono anche oggi divaricate: blocco della creatività liturgica per alcuni, provvidenziale ritorno all’ordine per altri; eliminazione di interi repertorii (ad esempio i tropi e, con le risapute eccezioni, le sequenze), eccetera. Vi si aggiunga la coeva nascita d’una nuova musica per il culto cristiano, quella luterana, e, più genericamente, le musiche della Riforma: è nota la preziosa specificità del nuovo filone, anche a confronto con la tradizione cattolica.

In conclusione, se il nostro tempo si è musicalmente arricchito grazie alla riappropriazione dei repertorii liturgici antichi, la loro assimilazione non avvenne senza difficoltà o senza aprire nuovi problemi, e questo rimane vero anche per il settore più nevralgico, quello della gregorianistica, la cui crescita è stata caratterizzata da numerosi episodi di litigiosità.

(2) Dal Seicento all’Ottocento – Anche il Seicento conobbe vaste plaghe nelle quali il linguaggio musicale rimase comune, ma i solchi d’una sempre più netta distinzione si fecero via via più profondi. Il linguaggio della musica profana, in forza della tipizzazione imposta anche dal melodramma e della proliferazione delle nuove forme strumentali, si avviò per sentieri autonomi provocando la chiara differenziazione tra gli styli (ecclesiasticus, cameralis, theatralis) a livello della trattatistica. Nella pratica le differenze si approfondirono più vistosamente secondo le tradizioni locali che, già notevoli nel secondo Cinquecento, furono più tardi consolidate. Si affermò così nella stessa musica per il culto la contrapposizione tra la scrittura "alla Palestrina" e lo stile dei "moderni", e inoltre si aprirono ampli spazi alla musica "religiosa", che nel genere dell’oratorio poté tenere il passo con lo sviluppo della scrittura per l’opera e raggiungere così traguardi di altissimo valore. Questo fu il nuovo terreno delle ibridazioni: non si contano gli sconfinamenti dall’uno all’altro versante, sebbene sia assai difficile valutare il grado di consapevolezza che i promotori ne avevano. Certamente, la situazione era mutata rispetto al Cinquecento: lo attesta anche il tono degli interventi dell’autorità ecclesiastica, ad esempio quello di Benedetto XIV alla vigilia dell’anno santo del 1750. Peraltro la quasi nulla efficacia di simili documenti attesta l’ormai avvenuta emancipazione e il conseguente distacco della cultura europea dalla dimensione religiosa; ne è prova altresì il fatto che nei decennii successivi al 1750 l’inarrestabile impoverimento delle composizioni per il culto è messo a nudo dalla crescente tendenza a fare propri stilemi e forme della musica secolare, soprattutto nei paesi nei quali fu preponderante la produzione teatrale: le trascrizioni per organo delle arie rossiniane o delle romanze di Verdi erano in bella mostra anche nelle infime cantorie delle chiese.

Ma l’Ottocento vide anche il nascere d’una grossa novità, il movimento liturgico e, quasi di conseguenza, il movimento ceciliano, i cui esiti, almeno in alcuni paesi, presero evidenza nel secolo successivo.

(3) Alle soglie del nuovo millennio – Oltre alle cause della profonda crisi appena enunciate, nel secolo XX il dissolversi dell’unità del linguaggio musicale, il divario tra avanguardia e tradizione, lo stacco tra musica d’ispirazione colta e i grandi movimenti musicali di dimensioni planetarie hanno provocato ripercussioni profonde anche nell’ambito della musica liturgica. Tutto questo accadeva mentre un documento pontificio destinato ad avere in senso sia positivo sia negativo non poche conseguenze nel corso dei seguenti decennii – mi riferisco al motu proprio di Pio X del 1903 – canonizzava il canto gregoriano e la polifonia "classica" come i repertorii propri e privilegiati della Chiesa cattolica (con il senno di poi, ci si chiede se si poteva ancora sperare di risolvere il problema della musica per la liturgia giocando all’interno delle proprie ricchezze passate e solo con qualche concessione al canto devozionale in volgare). Purtroppo, come contrappeso negativo ad alcuni brillanti risultati acquisiti nel recupero del repertorio gregoriano, il cecilianesimo si dimostrò impari ad affrontare e a risolvere la stasi dell’attività compositiva per la musica di chiesa. La fase centrale del secolo, con i contraccolpi d’un dopoguerra più problematico d’ogni previsione, toccò il culmine del dissesto e della disaffezione e sfociò nella decisione di Giovanni XXIII di convocare il Concilio Vaticano II. L’assise ecumenica si trasformò in un severo scrutinio sul passato e il presente della Chiesa, ma, facendo propri la parte maggiore degli obiettivi del movimento liturgico, lanciò anche segnali di grande speranza.

A distanza di qualche decennio si osserva con chiarezza come nel Vaticano II tutti i nodi irrisolti (e alcuni perfino inediti o non previsti) siano venuti al pettine. Le costituzioni conciliari, specialmente quella sulla liturgia, divennero il crinale che divise sostenitori e contrari in nome degli stessi documenti e con argomenti apparentemente solidi, perché fondati su realtà nuove che neppure il Concilio aveva potuto prevedere. Non mettiamo in dubbio la buona fede di alcuno, ma non possiamo ignorare che l’irrigidimento di molti e la presunzione di possedere tutta la verità siano stati causa di enorme confusione e sofferenza.

Come minuscolo contributo a sfatare alcuni luoghi comuni mi limito a citare l’art. 39 della Sacrosanctum Concilium: "Intra limites in editionibus typicis librorum liturgicorum statutos, erit competentis auctoritatis ecclesiasticae territorialis, de qua in art. 22, par. 2, aptationes definire, praesertim quoad administrationem Sacramentorum, quoad Sacramentalia, processiones, linguam liturgicam, musicam sacram et artes, iuxta tamen normas fundamentales quae in hac Constitutione habentur". L’autorità ecclesiastica territoriale, della quale parla l’art. 22, è costituita dalle Conferenze episcopali riconosciute dalla Santa Sede. Questo mi sembra uno snodo di fondamentale importanza: i pignoli noteranno che il problema della lingua liturgica e della musica sacra è elencato dopo i sacramentali e le processioni, ma con queste parole è il Concilio stesso a riconoscere alle Conferenze episcopali legittime il compito di definire gli adattamenti ritenuti opportuni in tema di lingua liturgica e di musica sacra. Purtroppo, mentre è noto quanto avvenne per la lingua liturgica (cancellazione del latino), sulla musica sacra le encicliche e numerosi altri documenti successivi (cfr. I sentieri della musica sacra, a cura di F. Rainoldi, Roma, CLV, 1996) non hanno recato analoga chiarezza e, anzi, hanno dato la certezza che non la si poteva pretendere. In tali documenti è stato compiuto un notevole sforzo per elaborare finalmente in termini positivi il concetto di musica sacra; ma questo non ha evitato che un senso di profondo smarrimento investisse molti operatori del settore, chiamati a scelte di gran lunga superiori alle loro forze. In ogni caso, semplificando al massimo e senza contare peculiarità di pur notevole significato, gli atteggiamenti dei singoli si sono coagulati in posizioni che hanno assunto denominazioni oggi assai note (Universa laus, ecc.): da un lato stanno coloro che ritengono una perdita irreparabile la scomparsa di un patrimonio legato al passato (essenzialmente al latino) e ritengono che soltanto con un ritorno alla tradizione del passato si possano ancora affrontare e risolvere i problemi della musica di chiesa per il presente; dall’altro sono coloro che, pur reputando deprecabile l’inconsulto abbandono del gregoriano e delle ricchezze del passato, sentono l’obbligo e la responsabilità di affrontare l’oggi musicale della chiesa con uno sforzo positivo che si propone di salvare gli splendori del passato, ma nel contempo adotta il linguaggio musicale odierno per arredare la liturgia in volgare di testi e melodie all’altezza della funzione assegnata.

Non si possono ignorare le difficoltà che si oppongono a un siffatto programma: dai ritardi accumulati in Italia a causa del nostro individualismo ecclesiale (mi si passi la contraddizione), per cui l’allestimento di testi e canti comuni cozza contro impedimenti invincibili; alla scarsa sensibilità – e questo anche da parte dei preti – per il valore d’un buon testo e d’una buona musica, per cui certe forme di celebrazione che dovrebbero essere destinate a gruppi assai definiti, hanno invaso indifferentemente tutte le assemblee per ragazzi giovani e adulti, ove regna il suono d’un solo strumento (che non è l’organo); all’impreparazione a valutare l’entità e il valore dell’atto comunicativo; fino al peso contagioso di alcune scelte che, soprattutto perché operate in scenari di altissimo prestigio (il titolo della nostra giornata la dice lunga), sembrano segnalare direzioni privilegiate ed esemplari.

Non vorrei concludere al negativo, con un indice di guai, che sono sotto gli occhi di tutti. Mi auguro che la giornata induca a riflettere e che gli interventi siano d’aiuto a discernere con realismo e coraggio.


S. E. Mons. Ernesto Vecchi

Osservazioni preliminari

Il titolo assegnato a questa giornata di studio, definito dalla relazione di base "doppiamente provocatorio", mi chiama direttamente in causa, perché l’accostamento del menestrello americano a san Gregorio Magno e al noto compositore Giovanni Pierluigi da Palestrina penso sia dovuto a un precedente accostamento non meno provocatorio, di cui sono in gran parte responsabile: quello tra Giovanni Paolo II e Bob Dylan, la sera del 27 settembre 1997 al Centro Agroalimentare di Bologna, davanti a quattrocentomila giovani, la vigilia della "Statio Nationis" del XXIII Congresso Eucaristico Nazionale.

Penso sia anche la ragione dell’invito che, con umile risolutezza e tanta gradita cortesia, la professoressa Giuseppina La Face Bianconi ha voluto farmi pervenire. Ben volentieri porto il saluto della Chiesa di Bologna a questa iniziativa che il Centro di promozione teatrale "La Soffitta" del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna ha organizzato, in collaborazione con l’Associazione culturale "Il Saggiatore musicale". Estendo questo saluto al relatore e coordinatore Mons. Giulio Cattin, docente all’Università di Padova, e ai partecipanti a questa singolare e stimolante tavola rotonda, tanto ampia quanto ricca di talenti, coinvolti a diverso titolo, nel vasto areopago della musica, specialmente nel suo rapporto secolare con la liturgia della Chiesa.

Il mio intervento ha il carattere dell’osservazione preliminare, non offre considerazioni erudite e non vuole affatto condizionare il dibattito. È solo un riflesso di un’esperienza pastorale, nata dal magistero appassionato e coraggioso del cardinal Giacomo Lercaro, applicato soprattutto durante vent’anni di ministero parrocchiale nell’estrema periferia di Bologna.

Un tema delicato ed esigente

Il tema posto alla nostra attenzione, nonostante la crescente assuefazione di fronte ad approcci superficiali e talvolta spregiudicati, rimane delicato ed esigente, perché mal sopporta le metodologie proprie della parcellizzazione del sapere, oggi giustamente applicate nelle varie discipline delle scienze umane, ma bisognose di un contesto cattolico (cioè "secondo il tutto"), quando entrano, come Mosè, nell’area santa del roveto ardente (cfr. Es 3, 5).

La relazione-base del professor Cattin, che da il La a questa tavola rotonda, mi sembra ben strutturata, equilibrata, non priva di quel pizzico di provocazione capace di stimolare i partecipanti a dare il meglio di sé, al fine di portare un consistente e alto contributo allo scioglimento dei nodi e delle contraddizioni che ancora appesantiscono il rapporto della liturgia con il canto e la musica.

Riassorbire la conflittualità nei principii della riforma

Giovanni Paolo II, nella Lettera apostolica Tertio millennio adveniente, afferma che la migliore preparazione alla scadenza bimillenaria sta nel rinnovato impegno di applicazione fedele dell’insegnamento del Concilio Vaticano II alla vita personale e di tutta la Chiesa.

Nel contesto di questa verifica emerge una domanda molto importante ai fini di un corretto e proficuo sviluppo del tema all’ordine del giorno: "È vissuta la liturgia come "fonte e culmine" della vita ecclesiale, secondo l’insegnamento della "Sacrosanctum Concilium""?

Ora, questo insegnamento viene sintetizzato dallo stesso Pontefice nella Lettera apostolica Vicesimus quintus annus, attraverso i tre principii direttivi che furono alla base della riforma liturgica e che restano fondamentali per una partecipazione attiva, consapevole e fruttuosa alla liturgia, anche mediante la musica:

(1) la liturgia attualizza il mistero pasquale di Cristo;

(2) nella liturgia è presente la parola di Dio;

(3) la liturgia è un’epifanìa della Chiesa. Celebrando il culto, la Chiesa esprime ciò che è: una, santa, cattolica e apostolica.

In questi principii noi troviamo il comune denominatore che permette di guardare con fiducia all’"oggi musicale della Chiesa". Esso, infatti, racchiude in sé tutte le idealità e le potenzialità necessarie per sostenere uno "sforzo positivo" comune alle due anime soggiacenti all’esperienza musicale ecclesiale, anime che ora stentano a collaborare, per il recupero e lo sviluppo del patrimonio liturgico-musicale, perché svolga il suo ruolo ministeriale, al servizio della doppia finalità della liturgia: la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli:

(a) da un lato, la liturgia come mistero recepisce le istanze del Movimento ceciliano che, fin dai tempi del motu proprio "Tra le sollecitudini" di san Pio X (1903) reagisce ad una pura partecipazione esteriore e tende al recupero del senso del sacro (auspicato anche dal "Sinodo Straordinario a vent’anni dal Concilio"), attraverso alcuni obiettivi proposti nell’oggi della Chiesa: collaborazione tra liturgisti e musicisti, formazione liturgico-musicale degli animatori, ispirazione biblica e sicurezza teologica dei testi, bontà e santità delle forme musicali;

(b) dall’altro lato, la liturgia come epifanìa della Chiesa recepisce le istanze pastorali chiamate a sostenere la Chiesa nel suo edificarsi quotidiano, con la forza dello Spirito, ma dentro la storia, per porsi nella società come "sacramento universale di salvezza". L’ottica pastorale, dunque, vede la ministerialità del canto e della musica a servizio di quanto lo Spirito dice alla Chiesa, attraverso i segni dei tempi.

In questa doppia prospettiva si è mossa la riforma liturgica del Concilio Vaticano II. che il Papa ha così sintetizzato a venticinque anni dalla sua promulgazione: è giunto il momento di ritrovare il "grande soffio" che sospinse la Chiesa nel momento in cui la Costituzione Sacrosanctum Concilium fu preparata, discussa, votata, promulgata e conobbe le prime misure di applicazione. L’opera di rinnovamento, comunque, deve assumere le caratteristiche della "crescita organica", tanto più vigorosa quanto più profondamente radicata nella tradizione.

In quest’ottica il Papa detta quasi una legge quadro entro la quale costruire il rapporto tra passato, presente e futuro: "nell’opera del rinnovamento liturgico bisogna tener presente con grande equilibrio la parte di Dio e quella dell’uomo, la gerarchia e i fedeli, la tradizione e il progresso, la legge e l’adattamento, il singolo e la comunità, il silenzio e lo slancio corale. Così la liturgia della terra si riannoderà a quella del cielo".

In quest’orizzonte, appare veramente la luce di una nuova aurora, purché non venga oscurata dalla ormai logore "diatribe pregiudiziali a esclusivo favore del latino o del volgare, del gregoriano o della musica moderna, del canto del coro o di quello dell’assemblea".

La via maestra delle note ecclesiali

Un criterio sicuro per un rilancio corretto della partecipazione attiva alla liturgia mediante il canto e la musica porta a seguire le quattro piste delle note della Chiesa proclamate nel Credo:

(1) la via dell’unità: favorisce il canto (antico o nuovo) che promuove l’"unanimità" dell’assemblea auspicata dalla Sacrosanctum Concilium. La comunione intraecclesiale, oggi in difficoltà, può essere promossa anche dalle grandi potenzialità comunionali della musica sacra, chiamata a sviluppare lo spirito di fraternità;

(2) la via della santità: la musica nella liturgia si fa veicolo della santità che viene da Cristo, favorendo la crescita interiore, la conversione, le aspirazioni più alte;

(3) la via della cattolicità: la liturgia della Chiesa è una liturgia cattolica, cioè orientata ad irradiarsi in ogni angolo della terra e a recepire ciò che di vero, di bello e di buono trova sul suo cammino, per orientarlo secondo il Vangelo; è dunque una liturgia "secondo il tutto", perciò capace di accogliere "tutte le forme della vera arte, dotate delle dovute qualità";

(4) la via dell’apostolicità: questa nota si riconosce nel canto liturgico quando trasmette ed esprime la fede fondata sulla testimonianza degli Apostoli; è necessaria, perciò, una grande attenzione ai contenuti i quali debbono certamente rispondere alle istanze profonde dell’uomo, ma per condurle all’uomo nuovo Gesù Cristo, la parola definitiva che in Lui, il Padre ha detto sull’uomo e sulla storia: la Parola che salva dal male, dalla morte, e – di conseguenza – dal non senso della vita.

E per finire, Bob Dylan

Nella Chiesa l’ottica dei grandi eventi, specialmente dei Congressi Eucaristici, non è mai fine a sé stessa, parte sempre dal recupero di una persuasione che da sempre accompagna il cammino della Chiesa tra le alterne vicende della storia, indipendentemente dal grado della sua consapevolezza teologica: l’aver ricevuto nell’Eucaristia il codice genetico della sua identità e l’inesauribile sorgente della sua potenzialità, cioè un dono pieno ed esclusivo, che la pone di fronte al mondo come sacramento di "salvezza sociale" integrale.

Questa persuasione è stata rafforzata dal decreto conciliare Presbyterorum ordinis, quando ha codificato che "l’Eucaristia si presenta come fonte e culmine di tutta l’evangelizzazione".

Ora, volendo il XXIII Congresso Eucaristico Nazionale porsi nella prospettiva della nuova evangelizzazione a tutto campo, e perciò anche "oltre la cortina d’incenso"; avendo inoltre esaminato a fondo con un’indagine sociologica il fenomeno giovanile della conflittualità generazionale, esso ha voluto tentare un’esperienza di aggancio e di sintonia con le nuove generazioni, nell’ottica pre-annuncio del Vangelo alla vigilia della "grande festa eucaristica" nella "Statio Nationis" di fine secolo.

Alle soglie del terzo millennio, si è pensato di inserire nella dinamica del Congresso uno spazio di incontro e di riflessione tra autori, cantautori e giovani che, in dialogo col Papa e attraverso il linguaggio musicale, hanno inteso riscoprire le sorgenti della vita, della libertà e dell’autentica festa.

L’intento è stato di rimettere in circolazione risorse idonee a debellare i crescenti conflitti generazionali e di ricostruire la mappa dei referenti sicuri per riorganizzare la speranza nel mondo giovanile, riproponendo senza reticenze, come ha fatto il Papa, la figura di Cristo, come icona di ogni autentica libertà e lo Spirito Santo come risposta alle grandi domande che soffiavano nel vento delle canzoni di Bob Dylan.

Quando ho visto gli occhi lucidi di questa rock star, curva davanti al Papa, ho pensato che, forse, il rischio della nostra sfida non è stato vano.

In questo caso il rapporto della Chiesa con la musica non coinvolgeva la liturgia, tanto è vero che, per non correre rischi, abbiamo allestito due grandi palchi distinti, ma appaiati: uno, "lindo e ordinato", sormontato da un’immensa croce, destinato alla celebrazione eucaristica; l’altro, "fitto di cavi e di riflettori, attrezzato per la trasmissione televisiva".

L’obiettivo è stato di sperimentare lo strumento multimediale per inviare messaggi positivi all’Italia, all’Europa, al mondo intero.

In questo contesto, Gesù di Nazaret, intuito, ricercato, intravisto, spesso ignorato, combattuto, ma sempre inquietante e affascinante, è apparso all’alba della nuova era come Stella radiosa del mattino, che invita tutti alla festa di nozze del Figlio del Re con l’umanità riscattata: una festa che ora allieta i nostri altari e proseguirà nella Domenica senza tramonto.


Juan Carlos Asensio, La Chiesa spagnola e l’antico canto ispanico – Il rapporto della Chiesa spagnola col suo rito originario ha sperimentato momenti di maggiore o minore appoggio istituzionale, unitamente a difficoltà politiche e a pressioni per l’adozione del rito romano, culminate alla fine del secolo XI. Sebbene per decenni la Chiesa spagnola abbia saputo resistere alla "presenza" franco-romana, l’adozione del rito romano fu comunque completata nella Spagna sottratta al dominio musulmano, secondo vicende ancora da chiarire. La conservazione dell’antica pratica liturgica nelle parrocchie di Toledo a partire dal 1085, data della reconquista della città, non sembra essere stata appoggiata da parte della Chiesa, governata da prelati in maggioranza provenienti dalla Francia (per oltre un secolo la più alta gerarchia ecclesiastica non venne eletta fra il clero autoctono, ma tra gli ecclesiastici di origine francese). Paura di una contaminazione con gli antichi rituali?

Alcuni tentativi di restaurazione sono riusciti a mantenere viva la fiamma del rito ispanico nella Chiesa peninsulare. Juan Vázquez de Cepeda (secolo XV) ma soprattutto Francisco Jiménez de Cisneros, cardinale primate, riescono a recuperare il rito e a restituirgli parte dell’antico splendore, dedicandogli perfino una cappella all’interno della propria cattedrale, cosa impensabile alcuni secoli prima. I testi e le musiche (?) vengono attualizzati, nel senso letterale del termine, ma non sembra che la Chiesa toledana abbia collaborato gran che. Pare essersi trattato semmai di un impegno individuale che, sebbene giunto fino ai giorni nostri, ha patito l’incomprensione delle più alte gerarchie.
Durante il secolo XVIII si sono succedute diverse riedizioni di testi e interventi dei maestri di cappella sullo stato del rito: in alcuni casi tali testi dimostrano l’ignoranza degli incaricati musicali della sede toledana sull’argomento.
Nel secolo XX assistiamo ad un nuovo, benché timido, recupero: sotto gli auspici del Concilio Vaticano II si è intrapresa una riforma, si sono organizzati congressi di studi mozarabici espressamente richiesti dalla Chiesa, e la conferenza episcopale spagnola ha pubblicato perfino il Missale hispano-mozarabicum. Ma dove rimane in vita il rito? Rimane forse ancora rinchiuso all’interno della cappella del Corpus Christi a Toledo? Non sembra che, almeno fino ad oggi, il suo futuro sia certo. La Chiesa spagnola dovrebbe guardarsi intorno e diffondere questa venerabile pratica, ereditata dai nostri Santi Padri.

Cristina Cano, Le funzioni pragmatiche della musica nella liturgia – Nella liturgia postconciliare la Chiesa s’è ampiamente avvalsa delle musiche giovanili, ed ha affidato loro una funzione che possiamo definire di socializzazione, simile a quella che svolge la musica in discoteca. Tuttavia, ciò sembra assai riduttivo in rapporto alle funzioni che la musica ha svolto in passato e dovrebbe ancora svolgere nella liturgia. Le più importanti, e imprescindibili, sono tre:

(1) la funzione di commento: nell’interazione con la parola, la musica è destinata a potenziare il senso del testo verbale;
(2) la funzione d’induzione alla meditazione: la musica, in ragione di determinate qualità strutturali, è capace d’agevolare le condizioni psicofisiche di quiete, calma, attenzione e interesse, che permettono e favoriscono l’atto dell’ascolto della Parola di Dio cantata e la comprensione del momento dell’azione liturgica ch’essa accompagna;
(3) la funzione di comunione: la musica è destinata a creare comunione fraterna.
Queste tre funzioni sono assolutamente interdipendenti: la funzione d’induzione alla meditazione presuppone la funzione di commento, e la funzione di comunione risulta dall’adempimento delle altre due funzioni. Se si passa dunque a considerare la maggior parte delle musiche giovanili entrate nella liturgia postconciliare, non è difficile constatare che la funzione di commento è disattesa, data la povertà strutturale e semantica di questi brani musicali. La funzione d’induzione alla meditazione è assente, dal momento che l’assoluta predominanza del ritmo meccanico e ripetitivo, che contrassegna gran parte di queste musiche, è in grado d’attivare soltanto stati psicofisici d’eccitazione e di piacere, che sono ben lontani dalle condizioni di quiete e di calma, necessarie per qualsiasi atto d’ascolto (e tanto più di meditazione). Infine, di conseguenza, la funzione di comunione è degradata a mera funzione di socializzazione.

Eugenio Costa SJ, Musica rituale – Lo statuto d’una musica che faccia parte d’un rito, in qualsiasi area religiosa ma a maggior ragione in quella cristiana, a noi più familiare e vicina, ha caratteristiche peculiari. La sua collocazione è precisa: il canto (nelle sue diverse forme; nella varietà dei partecipanti: singoli, gruppo, assemblea) fa parte della trama del rito, quasi uno dei fili del tessuto, al pari con altri elementi espressivi: parola, silenzio, gesto, movimento, arredo, edificio. Le esigenze a cui sia il repertorio da cantare sia l’atto del canto devono saper rispondere sono quelle che, complessivamente, consentono al segmento musicale del rito d’essere sé stesso, e non un corpo estraneo. In particolare, l’atto del cantare – inteso come gesto della persona e di tutta un’assemblea – dovrebbe realizzare quelle funzioni che il progetto rituale assegna a ciascuno dei propri elementi: inneggiare, acclamare, salmodiare, invocare eccetera. Non si dà una grammatica compositiva univoca e predeterminata. È l’insieme del rito celebrato a valutare la pertinenza del gesto, il suo essere "giusto" o "sbagliato" dal punto di vista della sequenza rituale e degl’intenti che l’animano. Necessariamente, il materiale musicale proponibile deve poter esibire una provata aptitudo a diventare elemento effettivo del rito, e nello stesso tempo a poter essere assunto dai membri di ciascuna assemblea come gesto familiare, conforme alla propria cultura. Da queste premesse nascono orientamenti per ogni progetto futuro, valutazioni delle prassi odierne, ripensamenti della storia della musica. Una celebrazione rituale s’attua sempre all’interno d’un contesto ecclesiale e civile, con le sue molteplici trasversalità, di cui occorre tenere il massimo conto nel tentativo di comprenderla a fondo e d’elaborarne un giudizio attento e consapevole.


Gian Domenico Cova, Parola e musica – Ogni trattazione di questo tema fondamentale per la ricerca sul rapporto fra Chiesa e musica, come sui rapporti della Chiesa con ogni espressione artistica, si colloca oggi in una fortunata fase della ricerca biblica, nella quale l’analisi storico-critica delle fonti si accompagna sempre più alla considerazione degli effetti, ovvero delle presenze della parola biblica nelle comunità credenti e nelle società stesse in cui è stata ed è storicamente vissuta. Le forme espressive che ne sono nate, anche quelle musicali, possono essere considerate a tutti gli effetti esegesi delle Scritture. Se la ricostruzione di percorsi esegetici di questo genere è abbastanza agevole per i secoli passati, sia presso le comunità ebraiche sia presso le chiese e le confessioni cristiane, nell’800 e nel ’900 assistiamo ad un’evidente crisi delle forme e delle capacità espressive di tutte le arti adibite a celebrare o a diffondere la parola biblica. La concomitanza di questa crisi con la nascita e lo sviluppo dell’esegesi storico-critica è tanto evidente quanto ardua da decifrare. Attiene comunque ai molti volti della crisi della presenza delle comunità credenti nella società contemporanea: nel moderno.

Oggi la situazione appare invece favorevole e pronta per un nuovo inizio della ricerca e del confronto, come da molte parti si chiede: dalla Lettera agli artisti del Papa, alle molte voci d’artisti che s’esprimono comunemente attraverso memorie e citazioni della parola biblica. A questo proposito, occorre notare che la secolarizzazione della cultura occidentale consiste non tanto nel mettere ai margini la presenza della parola biblica e delle comunità credenti, quanto nel ridurli a patrimonio comune, rispetto alla quale la destinazione originaria della parola stessa si trova nello stesso tempo come compiuta e irriconoscibile. Ogni comunità credente che si rifaccia alla parola biblica dovrà allora ripercorrere i linguaggi e renderne intelligibile l’origine e il significato proprio. Questa operazione, tipica delle chiese europee e americane, oggi s’accompagna peraltro ad una situazione affatto nuova: la presenza della parola biblica presso tutte le culture e la presenza di tutte le culture, che si esprimono anche con suoni e strumenti, in tutte le chiese. L’ampiezza della sfida è pari solo alla vastità delle opportunità.

Fabio Pasqualetti SDB, Rabdomanti dello Spirito, accompagnando i giovani. La musica dei giovani come simbolo, rito e mito – L’intervento (che fa parte del contributo che ho pubblicato assieme a T. Presern, in Accompagnare i giovani nello Spirito, a cura di M. J. García, Roma, LAS, 1998) ha preso le mosse dalla metafora del "rabdomante dello Spirito". Il rabdomante parte dalla convinzione che ciò che cerca c’è, ma non è sempre evidente e sicuro; e tuttavia, se la ricerca è condotta in modo adeguato, s’arriva alla sorgente. Il rabdomante sa vedere udire sentire oltre l’apparente. Cerca l’acqua nel deserto, nonostante le insidie – i miraggi – che il deserto può celare.

È possibile che nei linguaggi giovanili (fra questi, la musica), nonostante la loro ambiguità contraddittorietà complessità, ci sia, in qualche modo e in qualche profondità occulta, il soffio dello Spirito? Se c’è, è possibile percepirlo? Quali atteggiamenti potrebbero aiutare l’educatore nel diventare un rabdomante dello Spirito che si vuole inoltrare nell’apparentemente arida terra dei linguaggi giovanili contemporanei?
Per i giovani la musica è simbolo d’identità (tra loro) e distinzione (da quelli che "non sono come loro"). L’identità è qui appartenenza simbolica, socialmente e culturalmente costruita: "questo linguaggio è nostro", "così ci esprimiamo noi", "così ci capiamo noi", "noi siamo così", "tu (non) ci capisci perché (non) sei dei nostri".
La musica è un linguaggio, una metafora, una parabola, una mediazione per e nella quale il giovane si conosce, si accetta, si ama: esplora chi è, intuisce cosa crede, si dice cosa vuole (mediazione d’identità). Allo stesso tempo, in questa mediazione, riconosce quelli che sono come lui, che hanno gli stessi sentimenti, che vogliono le stesse cose (mediazione di solidarietà).
Il rabdomante dello Spirito è costruttore di relazioni. Sa che nel suo cammino nei mondi giovanili, contrariamente alla star musicale, lui non è atteso. Ma, come per la star musicale, il suo modo di fare di essere di porsi in relazione con gli altri sarà determinante nel costruire la relazione. È nella relazione, infatti, che lo Spirito si manifesta. Ma la relazione si costruisce attraverso la ritualità dell’incontro, che è arte del saper risuonare insieme, del porsi con attenzione gli uni di fronte agli altri. La prima fase, solitamente, è d’assaggio: i giovani vogliono garantirsi la qualità del prodotto, la sua genuinità. Il nostro agire è epifania del nostro essere, e anche quando l’agire tenta d’essere maschera, col passare del tempo la stessa performance smaschera l’inganno. E, come per le musiche e i musicisti da quattro soldi, si svanisce nel periodo d’una stagione.
In relazione al tema proposto, per la Chiesa la sfida si pone oggi nella scelta di ciò che vuole essere: non si può comunicare ciò che non si è. La Chiesa può avere e dare molte informazioni, ma nella relazione di comunicazione passa solo ciò che si è e si fa. In questo senso, non c’è difesa per le mediocrità, che, generalmente, sono le prime a risaltare.
L’ascolto è la qualità fondamentale richiesta dall’educatore o rabdomante dello Spirito e dalla Chiesa. Ascolto come atteggiamento d’accoglienza, d’osservazione, di lettura fra le righe, di simpatia, riflessione, analisi delle caratteristiche, conoscenza. Lo scopo prioritario è capire i giovani e farsi capire dai giovani. Vedere e udire con gli occhi e le orecchie dei giovani. Capirli dal loro punto di vista. Parecchie volte abbiamo dato tante risposte là dove non avevamo mai ricevuto una domanda.
Liturgisti musicisti teologi catecheti, e più in generale tutta la Chiesa, dovrebbero decidere se è più importante seguire l’ortodossia delle regole interne alle loro discipline e istituzioni o se, nell’ambito dell’esperienza dell’incontro, non sia da privilegiare un’intenzionalità comunicativa dell’accoglienza, che riconosce nell’altro un termine imprescindibile per le loro scelte e la sua partecipazione come condizione indispensabile per realizzare il cammino della stessa comunità. In altri termini, si tratta sempre di scegliere tra il "sabato" e "l’uomo".

Raffale Pozzi – Nella storia della liturgia cattolica la musica ha svolto un ruolo fondamentale. L’avvento storico, tra Sette e Ottocento, della borghesia portatrice di una visione del mondo secolarizzata e di una concezione estetica dell’opera d’arte autonoma sancisce il progressivo allontanamento tra la Chiesa e i compositori. L’ideale conservatore di un cattolicesimo riverso sulla tradizione musicale gregoriana e polifonica e la ricerca creativa dei compositori eurocolti divergono fino a toccare nel Novecento punte di conflitto aperto. Le disposizioni del motuproprio di Pio X (1903) che recepivano l’ideologia nostalgica del movimento ceciliano non fornivano una possibile base di dialogo con i compositori progressisti contemporanei, e tale incomunicabilità si è andata accentuando nel corso del secolo. Il conservatorismo ecclesiastico ha così impedito che opere liturgiche di alcuni tra i massimi creatori del Novecento quali Messiaen, Petrassi o Stravinskij rimanessero "fuori del tempio". Né la Chiesa ha tentato di riattivare una committenza nei confronti della musica d’arte col rinnovamento del Concilio Vaticano II. Al contrario il movimento postconciliare si è sempre più rivolto per la nuova liturgia musicale a modelli di musica commerciale, di per sé incapaci di stabilire quel rapporto tradizionalmente stretto tra il sacro e l’estetico. Le esigenze assembleari del canto liturgico non possono infatti giustificare una musica priva di identità e dignità. Per tale motivo è auspicabile che proprio l’apertura contenuta nella Sacrosanctum concilium possa riaccendere un rapporto tra liturgia e musica d’arte nel solco della grande tradizione della Chiesa cattolica.


Paolo Rimoldi – Il lamento sulla decadenza della musica in Chiesa è già stato più volte espresso (anche a sproposito) da voci autorevoli del mondo musicale. Vorrei osservare l’altra faccia della medaglia. La riforma liturgica del Concilio Vaticano II poneva ai musicisti una grande sfida: costruire un nuovo repertorio popolare che, pur nel rispetto delle necessarie esigenze tecnico-qualitative, sapesse muoversi fra i due poli irrinunciabili della partecipazione attiva dell’assemblea (che definirei "azionista di maggioranza" della liturgia) e della pertinenza rituale (cfr. la Costituzione sulla Sacra Liturgia "Sacrosanctum Concilium" nn. 112, 113, 114).

L’ideologico attaccamento alla tradizione del genere (i cinque pezzi dell’ordinarium missae) e l’altrettanto ideologico rifiuto d’ogni concezione funzionale della musica – responsabile, tra l’altro, del mancato impegno dei compositori nel campo della produzione per la didattica – hanno portato ad un totale disimpegno dei compositori colti: un vero e proprio "tradimento dei chierici", che rende pretestuosa ogni rivendicazione di spazi poi necessariamente occupati da altri. Molti rimpiangono l’età aurea della committenza ecclesiastica, senza considerare che questa è limitata storicamente a poche opere e a pochi luoghi rispetto alla realtà complessiva della Chiesa; altri lamentano l’indifferenza mostrata verso opere di grandi autori. Ma non considerano che queste sono apparse quasi fuori tempo massimo, come retaggi d’una tradizione ormai passata (ad esempio, la Messa di Stravinskij precede solo d’una quindicina d’anni la riforma liturgica) o sono nobilissime manifestazioni di religiosità alta ma pur sempre individuale (Petrassi, Messiaen), senza rapporto con la nuova realtà rituale.
Se, da parte della Chiesa, a tutti i suoi livelli, è auspicabile e necessaria un’apertura fattiva ai linguaggi musicali contemporanei, dall’altra parte l’impasse potrà essere superata solo con una severa autocritica, con un’ampia e approfondita riflessione su concetti e pratiche desueti e rifiutati, almeno dal compositore contemporaneo comune: facilità di memorizzazione e riproducibilità, cantabilità di strutture musicali elementari, rapporto con la o le musiche popolari. Sembra inoltre necessaria una generosa disponibilità alla condivisione dell’esperienza rituale della comunità cristiana: l’azione rituale, infatti, "rischia di venir distorta e falsata, se vi partecipano musicisti disposti a una pura prestazione tecnica, ma non a lasciarsi coinvolgere nella celebrazione" (documento Universa Laus ’80 – Musica, Liturgia, Cultura).

Pierangelo Sequeri, Musica sacra e religione romantica dell’arte – Molti dei luoghi comuni che occupano la scena del dibattito odierno sulla musica sembrano troppo ingenuamente ispirati dal misticismo religioso che caratterizza la nostra cultura musicale d’ascendenza romantica (da Wackenroder a Wagner). L’ambivalenza di questa origine chiede d’essere più esplicitamente riconosciuta e pensata. Da un lato, infatti, la cultura musicale romantica ha indubbiamente rappresentato un momento d i a l e t t i c o nei confronti della riduzione razionalistica della soggettività moderna, e conserva nella sostanza un potenziale critico d’attualità non esaurita. Il profilo alto che quella cultura ha finito per assegnare all’elaborazione estetica del senso può essere riacquisito, con le opportune storicizzazioni di contesto, alla ricerca d’una migliore qualità delle mediazioni simboliche della cultura etica e religiosa del nostro tempo. Dall’altro, il suo modo d’ospitare e di valorizzare l’ispirazione religiosa e gli effetti spirituali dell’arte contiene storicamente anche un orientamento s o s t i t u t i v o dell’esperienza propriamente religiosa con la forma della vita estetica. Il moderno artista romantico, in quanto è il mediatore d’un’esperienza singolare dell’Assoluto, è anche sottratto ad ogni altro canone di senso che non sia quello formalmente estetico. Da una simile estraneità viene un reale impoverimento della vitalità culturale dell’arte.

I riflessi dell’ambivalenza romantica si possono riconoscere, anche dal punto di vista strettamente teologico, nei modi in cui s’è prodotta la sollecitazione intraecclesiastica alla ripresa delle grandi tradizioni cristiane della musica sacra. L’equivoco non pare dipanato nell’odierna ricerca di nuove aperture, anche quando i termini dell’argomentazione appaiono molto diversi. Il dibattito religioso e culturale in tema di rapporti fra musica d’arte e musica liturgica, in particolare, ne rimane largamente condizionato. Sembra dunque opportuno impegnarsi nell’esercizio d’una meditata chiarificazione storica e teorica, che assesti le potenzialità e i limiti di quella tradizione in ordine all’auspicabile incremento di più decorosi confronti.

Alessandro Solbiati – L’intervento del 3 marzo 1999 s’è incentrato sulla narrazione d’un fatto personale, ma con implicazioni che riguardano il tema della giornata di studio. All’inizio del 1998, la diocesi di Milano ha deciso di rientrare in contatto con la cultura e l’arte contemporanea e di richiederne la collaborazione al di là di ogni confessionalità e ideologia. È fin troppo nota la straordinaria funzione di stimolo intellettuale e di pratica committenza svolta dalla Chiesa cattolica nei confronti dell’arte e della musica in particolare; è anche noto, purtroppo, quanto questa funzione si sia interrotta da tempo. Il distacco è dovuto ad una reciproca incomprensione, fatta di secolarizzazione anche polemica da una parte, e d’un forte timore del nuovo dall’altra.

Sulla spinta d’un giovane sacerdote e musicista, don Luigi Garbini, ed anche, se è consentito, dello scrivente, la diocesi milanese ha accettato di tornare ad essere committente, e non di musica genericamente sacra, ma proprio di musica liturgica. Così, nelle domeniche 18 e 25 di aprile e 2 di maggio 1999, nella Basilica di S. Ambrogio di Milano, durante la celebrazione eucaristica delle ore 19, s’è montato, come un work in progress, il primo atto del Laboratorio per la musica rituale: cinque compositori – ed altri cinque hanno lavorato ad un secondo, analogo evento programmato per l’autunno –, scelti fra i più presenti sulla scena nazionale ed internazionale, si sono occupati del rito centrale della liturgia cattolica, la Messa, confrontandosi con temi e problemi quali la funzione della musica, le durate richieste per i singoli brani, lo spinoso problema del coinvolgimento dell’assemblea. Essi hanno avuto a disposizione un coro piccolo, uno più grande – simbolicamente in rappresentanza dell’assemblea –, ed un gruppo strumentale.
Correndo il rischio d’apparire poco obiettivo, se non addirittura vanaglorioso, lo scrivente, impegnato a tutti i livelli nel progetto, afferma che l’iniziativa è stata premiata dalla straordinaria risposta dei fedeli presenti.

Gino Stefani, Musica e Liturgia – La relazione di base di Giulio Cattin organizza il campo in base al seguente schema. Da un lato la Chiesa, pensata come un tutt’uno omogeneo; dall’altro la Musica, articolata in quattro generi o tipi caratterizzati dalla identità dei produttori: musica della ‘grande’ Tradizione, dell’Arte (moderna e contemporanea), dei Fedeli, dei Giovani.

Modello 1 :
Chiesa
Musica
Tradizione

Arte

Fedeli
Giovani

Si potrebbe proporre anche un’altra organizzazione del campo. Un ideale e globale "progetto Musica liturgica", pensato come un’interazione organica e funzionale di quattro componenti: il Rito, ossia il progetto rituale del culto cristiano; il Sacerdozio, categoria sotto cui includo la gerarchia ecclesiastica con i suoi poteri specifici, il sacro come valore a sé stante, la tradizione (anche musicale) ecclesiastica e sacrale; il Popolo, come soggetto della participatio actuosa voluta dal Vaticano II ; la Musica, di qualunque genere e stile.

Modello 2:
Progetto Musica liturgica
Rito

Sacerdozio

Popolo
Musica
È evidente che quest’ottica imprime all’osservazione e al dibattito andamenti diversi e più articolati rispetto alla precedente.
Un’ulteriore articolazione, che le comprende entrambe, sarà la seguente:
 
Modello 3:
Rito

Sacerdozio

Popolo
Progetto Musica liturgica
Tradizione

Musica Arte

Fedeli
Giovani
È su questa base che inizierei a discutere.

Maria Teresa Torti, I giovani, la musica, la Chiesa – Per i giovani la musica non rappresenta soltanto un medium privilegiato di comunicazione ma, per molti aspetti, costituisce un vero e proprio agente di socializzazione. Essa produce e diffonde specifiche c o r n i c i di rappresentazione sociale della realtà, di modelli culturali, di valori, d’interazione tra individuo e società e fra individuo e individuo. Ed è proprio sul piano della socializzazione che si debbono collocare l’interesse e l’apertura della Chiesa nei confronti della popular music, mediaticamente enfatizzati (seppur con notevole ritardo) in occasione del concerto cui ha partecipato Bob Dylan a conclusione del 23° Congresso Eucaristico Nazionale del settembre 1997.

Le strategie di evangelizzazione e di spinta alla partecipazione, elaborate nello spirito del Concilio Vaticano II, risalgono agli anni ’60: tra queste, di rilievo sono l’introduzione di sonorità rock e pop nei riti liturgici e nella vita delle comunità ecclesiali, con esperienze quali la messa beat, sulle musiche composte da Marcello Giombini, o i concerti del Gen Rosso e del Gen Verde del Movimento dei Focolarini. Attraverso questi varchi culturali e musicali, la Chiesa ha cercato non solo di aprire nuovi spazi d’incontro e di dialogo con i giovani, ma di affermare la sua presenza e la centralità dei valori religiosi, anche nello stesso àmbito delle culture musicali che si sono sviluppate nel secondo dopoguerra, in pieno clima di secolarizzazione, di conflitto inter-generazionale e di rivolta anti-istituzionale. Non si tratta quindi di interventi di mera "riverniciatura" in chiave modernizzante e strumentale, bensì di un d i s e g n o  d i  p r e s e n z a, basato sulla conoscenza e sulla consapevolezza di quanto sia rilevante la popular music nel processo di costruzione dell’identità e dei valori dei giovani. Tale progetto, tuttavia, appare non del tutto compiuto o, quanto meno, segnato da significative fratture e distanze.
A titolo esemplificativo, la medesima scelta di Bob Dylan, icona del rock ribelle e impegnato degli anni ’60, ben lontano però dai vissuti e dalle aspettative delle generazioni techno, può essere eloquente: la sua partecipazione si lega al celebre brano "Blowing in the wind", che indirettamente sembra confermare come prevalga un’attenzione nei confronti dei testi rispetto alle musiche, come se il processo di elaborazione dei significati da parte dei giovani privilegiasse il primato della parola nei confronti della musica, mentre evidenze empiriche recenti fanno optare per l’ipotesi diametralmente opposta. Soprattutto per gli adolescenti, il rapporto con la musica investe immediatamente la dimensione emotivo-sensoriale della corporeità, nell’inscindibilità dell’unione tra soma e psiche. È forse questa la nuova frontiera di confronto/resistenza nel dialogo tra Chiesa e popular music dei prossimi anni.

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