Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Attività 1999 TERZO INCONTRO

Conferenze e convegni

TERZO INCONTRO
DEI DOTTORATI DI RICERCA
IN DISCIPLINE MUSICALI

Bologna, Palazzo Marescotti, 29 maggio 1999

Angela Ida De Benedictis (Cremona)
 
Cecilia Luzzi (Bologna)
Lucia Marchi (Cremona)
Marco Marica (Roma I)
Luisa Nardini (Roma I)
Paolo Russo (Bologna)

Angela Ida De Benedictis, La musica per radio in Italia. Ipotesi per una teoria sul radiodramma

La ricerca illustrata nella relazione prenderà in considerazione esclusivamente le forme d’espressione musicale nate con e per la radio dalla fine degli anni ’20 ai ’70. Saranno privilegiate l’analisi delle opere radiofoniche di Alfano, Pizzetti, G. F. Malipiero, Bucchi, Rota, Berio, Maderna e Sciarrino, e di quel particolare settore della produzione – noto sotto le generiche definizioni di ‘radiodramma’ o ‘radiocommedia’ – che deve alla dimensione puramente acustica del nuovo medium le inedite relazioni tra suono (musica e rumori) e azione drammatica. Lo sviluppo della drammaturgia radiofonica è in continua osmosi con le possibilità via via offerte dalla struttura radiofonica e dai suoi strumenti tecnici: si è quindi reso indispensabile un metodo d’indagine mirato alla ricognizione di quattro differenti livelli, che procedono dal generale al particolare: (1) analisi dei contesti storici e culturali, per comprendere come questa nuova forma di committenza abbia condizionato le scelte poetiche e linguistiche dei compositori; (2) analisi delle strutture tecnico-compositive, per comprendere come e quanto le potenzialità linguistiche dello "strumento" radio abbiano effettivamente inciso sulla progettualità d’autore e sul risultato drammatico e sonoro delle opere selezionate; (3) classificazione delle diverse funzioni assunte dalla musica all’interno dei radiodrammi e delle radiocommedie, per tentare una definizione di ‘genere’ che tenga conto degli svariati fattori in gioco (periodo di produzione; sede di produzione; contenuti drammatici; tipo di relazione intercorrente tra soggetto drammatico e linguaggi musicali prescelti; tipo di funzione assunta dalla musica, ossia dalle sue più o meno accentuate caratteristiche di "musica di scena", se accessoria all’azione, o di "rappresentazione", se veicolo per l’azione; grado di autonomia musicale, quando alcuni caratteri agenti sono veicolati direttamente dai suoni: in assenza di copioni o partiture, per alcuni casi considerati paradigmatici, si procederà a ricostruire testi verbali e musicali documentati solo in forma acustica); (4) analisi dei rapporti di contaminazione tra la musica funzionale prodotta per la radio da compositori quali Berio e Maderna e la loro coeva produzione acustica ed elettronica. Particolare attenzione sarà dedicata all’attività compositiva condotta presso lo Studio di Fonologia della RAI di Milano, centro di elaborazione elettroacustica sorto ad opera di Berio e Maderna nel 1955.


Cecilia Luzzi, Poesia e musica nei madrigali a cinque voci di Filippo di Monte (1580-1595)
Nella produzione di madrigali a cinque voci di Filippo di Monte del periodo qui considerato, lo stile poetico è l’aspetto che più incide sulle scelte musicali del compositore. L’argomento qui affrontato è parte di un più ampio studio sulla poesia dei 22 libri di madrigali che Monte pubblica tra 1580 e 1603, reso possibile dall’indagine sulle fonti poetiche del madrigale cinque-seicentesco svolta da Lorenzo Bianconi, Angelo Pompilio e Antonio Vassalli (Repertorio della Poesia italiana musicata dal 1500 al 1700, in corso di pubblicazione).
Il concetto di ‘stile’ è qui riferito all’accezione retorico-normativa propria della cultura cinquecentesca. (La moderna concezione dello stile come maniera individuale d’espressione è assai più tarda e si sviluppa a partire dal ’700, decadendo il prestigio della retorica.) I mutamenti di stile che si registrano in questi libri di madrigali rinviano a due categorie retorico-stilistiche coniate da Pietro Bembo, ‘gravità’ e ‘piacevolezza’. La gravità nella lirica del Petrarca e dei suoi imitatori, che caratterizza la produzione del musicista dagli esordi del 1554 fino a questi libri a cinque voci del 1580-81 (tutte opere dove predomina la forma poetica del sonetto), è resa attraverso i raffinati artifici contrappuntistici dello stile madrigalistico aulico. Diversamente, la poesia dai contenuti e dal tenore più lievi che il musicista intona a partire dal 1586 – i madrigali di Battista Guarini, Torquato Tasso, Livio Celiano (alias Angelo Grillo) e altri poeti coevi – si mostra più consona allo stile leggiadro del madrigale-canzonetta.
Tale polarità stilistica è stata esemplificata attraverso l’analisi di due campioni – l’intonazione in due parti del sonetto di Bernardo Tasso "Ora che gli animali il sonno affrena" (VIII libro, 1580) e del madrigale epigrammatico di Alberto Parma "Baci, sospiri e voci" (XII libro, 1587) – e l’esame dei diversi aspetti del testo (logico-sintattico, elocutivo, semantico, stilistico) e dei parametri della musica (impianto modale, distribuzione delle cadenze, scelta dell’organico, articolazione formale, trattamento polifonico dei soggetti, condotta delle parti, carattere dei profili ritmici, illustrazione musicale del contenuto semantico).

Lucia Marchi, "Am Anfang war die Notation": interpretazioni antiche e moderne della scrittura dell’Ars subtilior
Negli anni compresi tra la morte di Machaut e i primi anni del ’400, la sperimentazione di nuove forme di notazione è talmente ricca e vistosa che taluni studiosi, tra cui Willi Apel, hanno ipotizzato una sorta di sviluppo autonomo della scrittura, a cui verrebbe addirittura subordinata la volontà artistica ed espressiva del compositore. Benché opinioni così estreme non siano accettabili, è innegabile che la notazione della cosiddetta ars subtilior sia quantomai complessa e ricca di forme diverse. Per questo motivo è stata spesso accusata di essere più artificiosa del necessario: questo giudizio andrebbe invece mutato nella constatazione che un’arte elevatasi a tali livelli di subtilitas non può che venir espressa con una notazione di estrema precisione e raffinatezza.
Alcuni criteri di lettura dei fenomeni notazionali contribuiscono a chiarire il perché delle scelte di compositori e copisti: (1) la dipendenza dalla mensura e dal tipo di raggruppamento in cui le figure compaiono: raggruppamenti diversi possono spiegare l’uso di figure diverse anche per esprimere lo stesso valore ritmico, e lo stesso segno può avere significati differenti in contesti diversi; (2) la volontà di creare strutture simmetriche e ordinate: ciò giustifica in molti casi l’uso di estesi passaggi scritti con valori aumentati oppure in color; (3) la funzione iconica della notazione, ovvero la rappresentazione visiva da parte della scrittura del significato espresso dal testo della composizione.
Uno studio più approfondito fornisce dunque nuovi strumenti di comprensione, alla luce dei quali si può rivedere il giudizio sulla notazione di questo periodo: la sua complessità non è fine a sé stessa, ma è il mezzo per esprimere con la massima precisione e raffinatezza un’arte estremamente sottile.

Marco Marica, L'opéra-comique in Italia (1770-1830): rappresentazioni, traduzioni e derivazioni.
Tra la fine del Sette e gli inizi dell’Ottocento un numero crescente di opéras-comiques francesi venne rappresentato in Italia. Si trattava sia di lavori alla "vecchia maniera", vale a dire basati, per quanto riguarda la musica, in tutto o in gran parte su timbres conosciuti (comédies en vaudevilles), sia di composizioni basate su musiche nuove (comédies mélées d’ariettes, drames lyriques, opéras-bouffons ecc.); i due generi erano accomunati dalla caratteristica di alternare numeri musicali e dialoghi recitati. Le modalità di diffusione di questi opéras-comiques sul territorio italiano furono assai diverse: si ebbero rappresentazioni da parte di troupes itineranti francesi (che fecero conoscere in lingua originale al pubblico italiano anche tragedie, drammi, commedie e persino qualche tragédie lyrique; durante gli anni della dominazione francese molte di queste troupes godevano dell’appoggio più o meno diretto dell’Imperatore), rappresentazioni in italiano (più rare o più difficili da documentare, e quasi sempre legate a circostanze eccezionali), e infine rappresentazioni in forma di pièce teatrale, vale a dire con l’omissione della musica e la trasformazione delle parti cantate in dialoghi recitati. Se da un lato le rappresentazioni in lingua originale costituiscono forse la testimonianza più antica del tentativo d’introdurre nella "roccaforte operistica" italiana un genere teatrale straniero, le traduzioni dei libretti francesi (sia nella forma che mantiene la musica originale, sia nella forma in prosa) mostrano chiaramente le difficoltà degli italiani ad adattarsi a un genere d’opera che non prevedeva i recitativi, riservava uno spazio relativamente ridotto ai finali e ai pezzi concertati, presentava un numero elevato di musiche di scena e di "canto recitato" (ossia di arie o cori nei quali i personaggi annunciano che stanno per iniziare a cantare), e puntava piuttosto sulle capacità istrioniche degli interpreti che sulle loro qualità vocali.
Il gran numero di opéras-comiques che, nelle diverse forme sopra descritte, vennero rappresentati in Italia tra la fine del Sette e l’inizio dell’Ottocento (oltre un centinaio di rappresentazioni o traduzioni documentate) non fu senza conseguenze sulla produzione melodrammatica italiana: oltre a sperimentare forme di opere "alla francese", con i dialoghi al posto dei recitativi, i compositori italiani guardarono con crescente interesse all’opéra-comique sia come fonte di soggetti drammatici, sia come modello drammatico-musicale: diverse centinaia di opere buffe, semiserie e farse italiane composte tra il 1770 e il 1830 derivano in maniera più o meno diretta da opéras-comiques francesi. Nella maggioranza dei casi i compositori italiani si limitarono a riprendere le linee generali del plot originale, adattandolo alle convenzioni operistiche italiane; tuttavia in alcuni casi (p. es. la Nina pazza per amore composta da Paisiello sulla versione italiana di Carpani) si intese sperimentare un vero e proprio innesto di forme musicali italiane sui libretti francesi: le conseguenze che ne derivarono per l’evoluzione dell’opera buffa italiana sono ancora tutte da studiare.

Luisa Nardini, Il repertorio neo-gregoriano del "Proprium Missae" in area beneventana
L’esigenza d’impostare in chiave regionalistica lo studio sul repertorio "gregoriano" nasce dalla constatazione che il materiale liturgico-musicale formatosi e diffusosi in Europa tra l’ottavo e il nono secolo presenta, al di là di una sostanziale uniformità, numerose varianti di carattere locale.
I manoscritti di area beneventana sono fonti d’importanza primaria per ricostruire il canto piano della Chiesa medievale, giacché mostrano la presenza di numerose e differenti tradizioni di canto. Accanto all’antico repertorio locale (il canto beneventano antico), al gregoriano standard (di formazione franco-romana) e ai tropi e alle sequenze, esiste una serie di melodie composte in loco dopo la metà del secolo IX secondo lo stile e la forma gregoriani. Questi brani servivano a colmare le lacune nel calendario della liturgia gregoriana. Sono quindi essenzialmente brani composti per celebrare il culto di santi locali o festività di tardiva istituzione. Non mancano, comunque, esempi di nuove melodie anche per alcune giornate liturgiche della più antica tradizione della Chiesa occidentale.
L’analisi di questo repertorio intende approfondire l’evoluzione del gusto musicale in una fase cruciale della storia della musica occidentale: nel periodo in cui, cioè, il canto liturgico di formazione franco-romana subisce integrazioni e ampliamenti, anche attraverso la composizione di generi nuovi quali tropi e sequenze.
Lo studio del proprium missae permette di evidenziare interessanti fenomeni di contaminazione e rielaborazione di stilemi e linguaggi musicali. Se infatti alcune melodie si caratterizzano per la commistione di procedimenti melodici arcaizzanti in una cornice formale di più squisito sapore gregoriano, altri casi mostrano una più marcata libertà compositiva.
Nel corso della ricerca è emerso che, nell’ambito dei testimoni della più ampia regione beneventana, quelli provenienti da Benevento presentano il maggior numero di unica. Evidentemente l’antica capitale del dominio longobardo meridionale si rivela, rispetto alla Puglia e alla Dalmazia, meno soggetta all’influenza cassinense.

Paolo Russo, L’"enimmatico mostro": Medea all’opera e a teatro in Italia tra Sette e Ottocento

Come qualsiasi soggetto mitologico, anche la vicenda di Medea non è fissata una volta per tutte in un testo teatrale o letterario. In ciascun dramma incentrato su questa fabula l’interesse, più che sulle peripezie e la sorte di Medea, è concentrato sulle modalità e gli strumenti con cui esse vengono intrecciate e narrate.
La vicenda dell’infanticidio di Medea è stata a lungo trascurata nel teatro italiano, ma dal 1780 circa è stata spesso ripresa, almeno fino alla metà del secolo successivo. Attraverso lo studio delle Medee italiane si possono dunque indagare le tendenze generali del teatro italiano alla svolta del secolo.
Il soggetto penetra sulle scene italiane all’insegna dell’estetica del terribile e del sublime. Inizialmente non sono né la tragedia né l’opera ad impossessarsene ma il ballo, il melologo e la pantomima che prendono a modello il canovaccio di Noverre e il testo di Friedrich Gotter (rappresentato con musica di Benda). La traduzione di questo testo viene ristampata a più riprese, ma versi e indicazioni sceniche sparse si trovano anche disciolti in una Vendetta di Medea, tragedia adespota in cinque atti con pantomima, musica di Giuseppe Moneta (Firenze 1787). Il teatro operistico se ne occupa poco dopo, sempre con i medesimi intendimenti estetici. L’anonima Vendetta di Medea musicata da Gaetano Marinelli (Venezia 1792), e quella da essa derivata da Onorato Balsamo per la musica di Francesco Piticchio (Napoli 1798), presentano i caratteri del sublime indagati da Michela Garda: rappresentare soggetti terribili ed i n s i e m e il loro effetto. Il teatro letterario comincia ad interessarsi al soggetto poco più tardi ma secondo altri criteri e poetiche: hanno veste neoclassica una Medea in Corinto di Domenico Morosini (Venezia 1806), una Medea di Francesco Gambara (Brescia 1812 ca.), ed altre due, di Federico Della Valle duca di Ventignano e di G. B. Niccolini, ormai ben dentro l’Ottocento.
Quando venne chiamato a Bergamo da Mayr per lavorare alla Medea in Corinto (Napoli 1813), Romani non si rivolse alla tradizione del sublime terrifico alla Marinelli (propria del balletto e dell’opera), ma a quella letteraria neoclassica. Il riferimento più diretto è la tragedia veneziana di Morosini, da cui tra l’altro Romani prende il titolo e l’exergo oraziano ("Sit Medea ferox").
Il libretto di Romani si presenta dunque come campione ideale per indagare varie questioni: (1) la poetica neoclassica inveratasi in talune opere del primo ’800 italiano; (2) le complesse procedure di adattamento dal teatro tragico al teatro d’opera: si dimostra infatti come perfino nel caso di un soggetto celebre, più volte trattato, il libretto si presenti come testo derivato, collazione di fonti diverse, in cui il librettista non reimpianta la vicenda ex novo, ma rielabora versi e scene preesistenti, in un fitto dialogo con la produzione drammatica e poetica coeva; (3) i rapporti tra teatro letterario e teatro musicale come capitolo della letteratura comparata: il successo e la diffusione di Medee teatrali successive al 1813 spiegano molte delle alterazioni apportate al libretto di Romani in occasione delle repliche dell’opera di Mayr e delle nuove intonazioni di Prospero Selli (1839) e Saverio Mercadante (1851).

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