Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Attività 1999 3coll abstract

Conferenze e convegni

ABSTRACTS
DELLE RELAZIONI TENUTE AL TERZO COLLOQUIO DI MUSICOLOGIA.


Donatella Restani, Tracce di sapere musicale nell’educazione e nella cultura dell’età tardoantica tra Oriente e Occidente

Tra il II e il VI secolo d. C. la musica come scienza del canto (melos) era presente nel corso degli studi di base. Lo attestato due tipi di testimonianze. Da un lato stanno i manuali compilati in quell’arco di tempo (Cleonide, Nicomaco, Gaudenzio, Bacchio, Alipio) sui sette principali argomenti della disciplina melodica con trattazioni elementari o per addetti ai lavori, a seconda dell’uso a cui erano destinati nelle scuole di lingua greca delle sponde Est e Sud del Mediterraneo. I due territori culturali erano idealmente uniti dal manuale per eccellenza, l’ampio trattato di armonica di Tolomeo di Alessandria, la cui adozione scolastica sembra non poter essere messa in discussione grazie al commento che gli dedicò il maestro ‘neoplatonico’ Porfirio, forse a Roma (o in Sicilia?), a distanza di almeno due generazioni. D’altro lato stanno le citazioni di Aristosseno, se non del suo testo, che diffondevano il concetto di musicus, maestro di riferimento per le questioni attinenti la musica, come Ippocrate era il medicus e Aristarco il grammaticus. Sin qui è tutto largamente condiviso.

Ciò che invece inizia solo ora ad essere oggetto di studio è la presenza della musica anche a livello degli studi avanzati, di retorica e di filosofia nelle scuole di Atene e Alessandria, capitali della cultura dal V al VII secolo. Se ne scoprono le tracce negli appunti delle lezioni annotate dai maestri o dagli allievi: esegesi scoli commentari sia ai manuali propedeutici per la grammatica (Techne grammatike attribuita a Dionisio cosiddetto il Trace) e per la filosofia (Isagoge di Porfirio), sia ai testi di Aristotele, letti e spiegati a lezione secondo il canone in uso nel V-VI secolo. In particolare nelle lezioni proemiali – i prolegomena – ai corsi di filosofia, la musica era definita nelle sue parti, scopi ed effetti, in relazione alle altre discipline e integrata nel sistema del sapere.

L’indagine preliminare su questa vasta documentazione, che potrà contribuire a una storia della musica nell’età tardoantica, è stata avviata per sondaggi sulle principali raccolte del materiale edito (Commentaria in Aristotelem graeca, a cura dell’Accademia Prussiana, Berlin 1882-1909; Grammatici Graeci, Leipzig 1867-1910; Prolegomenon Sylloge, Leipzig 1931). Essa ha invece per ora lasciato da parte sia il repertorio manoscritto che prolunga la tradizione delle scuole di lingua greca sino al XIV secolo, sia altri settori, come quello dei libri di medicina, il cui interesse è tanto maggiore quanto minore è stata la continuità in quell’area degli studi, affini anche per questo a quelli di musica.


Giorgio Biancorosso, Musica da film, memoria e il mito della percezione inconscia

Perché a proposito della musica da film si parla così spesso di percezione subliminale, inconscia o perfino di non-ascolto? Come spiegare l’adozione da parte di critici, storici del cinema, compositori e musicologi di concetti così palesemente insufficienti alla comprensione di una forma di ascolto tanto diffusa? Da un lato, tali superficiali caratterizzazioni dell’ascolto della musica al cinema riflettono la scarsa attenzione data al fenomeno. Dall’altro esse sono spia della difficoltà del descrivere la musica in termini dei suoi effetti ovvero in termini del sapere che essa comunica e dei sentimenti che essa provoca.

Prendendo spunto da quest’ultima osservazione, suggerisco che la confusione che caratterizza il dibattito sulla percezione della musica da film può essere ricondotta al fatto che la musica al cinema ha una funzione squisitamente rappresentativa. Presentato un estratto da Lo squalo di Steven Spielberg, confronto la nostra percezione della colonna sonora a quella della banda immagini. Il confronto evidenzia che la percezione della musica richiede processi percettivo-cognitivi comuni alla comprensione di tutte le forme di rappresentazione. Questi processi sono complessi e sfuggono a facili classificazioni; ciò non mi impedisce comunque di mostrare che i concetti di percezione inconscia o subliminale sono del tutto inutili nel sondarne sia le dinamiche interne che gli effetti.


Gianmaria Paolo Francesco Malacrida, Il canto liturgico delle Chiese Cristiane Orientali: problemi di metodologia della ricerca

Abbiamo da poco oltrepassato un secolo da quando Padre Villoteau raccolse e pubblicò le prime melodie cristiane orientali. I suoi studi, quantunque affatto sistematici, non passarono inosservati e scatenarono l’interesse dei mondo scientifico proprio nel periodo in cui, un fatto certamente non casuale, si andava sviluppando lo straordinario florilegio gregorianistico. Ambo i versanti dunque ripresero a rispecchiarsi l’uno nell’altro in un grande progetto di ricerca sulle dimensioni storiche e filogenetiche dell’epopea cristiana.

La spinta iniziale allo studio delle tradizioni orientali rappresentava uno sbocco naturale dei dibattiti sulle necessità cultuali delle Chiese Uniati, d’altro canto non ci sentiamo di escludere a priori anche retaggi idealistici di stampo romanticista.

In ogni caso, mentre la storiografia cattolica ha conosciuto un adeguato sviluppo in tutti i suoi aspetti, quella orientale ha invece solo sfiorato il dominio musicale. Dimenticato persino dagli studiosi specializzati, oggi langue in uno stato di oblio quasi totale: anche solo la proposta di un gruppo di studio sulle tradizioni orientali non ha trovato sufficienti adesioni all’interno della Società Internazionale di Studi Liturgici. L’applicazione dei canoni del Concilio Vaticano II, infine, ha avuto un effetto devastante sulle culture autoctone. Basti pensare, per esempio, alla traduzione in arabo di Dio che, nelle liturgie locali, è tradotto come Allah.

I motivi di tali incongruenze sono da imputare ad una serie di molteplici fattori. Essi però si concretizzano in due ordini di problematiche, indissolubilmente legate alla matrice generativa di queste culture: le difficoltà, anche socio-politiche, insite in questi argomenti, e la persistenza dell’oralità, sono i due filoni entro cui elaborare criteri di analisi. In una situazione in cui non sussistono documenti cartacei, i materiali sonori sono stati infatti affrontati dalla musicologia e dalla etnomusicologia con risultati non compatibili: i rilievi dell’una sono stati sostanzialmente ignorati dall’altra e viceversa.

Siccome tali problematiche si determinano come crocevia di interessi multidisciplinari, questo breve intervento tenta di affrontare dal punto di vista della filosofia dell’arte e della metodologia della ricerca le ragioni di ambo le parti; cerca altresì una sintesi che riconduca i criteri filologici sottesi alla musicologia, ed i dettami della ricerca sul campo, ad una concretezza analitica, fondata sulle reali necessità di questo specifico campo di studi.


Marina Toffetti, Il testo nel tempo: considerazioni su un palinsesto di musica liturgica

L’abitudine di mantenere in uso, presso il Capitolo di una chiesa collegiata o di una Cattedrale, l’antico patrimonio librario, eventualmente aggiornato e adattato alle mutate consuetudini liturgiche ed esecutive, è attestata in modo diffuso anche dopo la comparsa di esemplari a stampa dei principali libri liturgico-musicali. Ciò è accaduto anche presso la Cattedrale di Cremona, dove una Nota de composizioni di musica, redatta nel 1755, attesta la sopravvivenza di numerosi "libri grandi antichi parte manuscripti et parte in stampa" di pertinenza della cappella musicale.

Fra i libri corali sopravvissuti (l’intero Antifonario e il Salterio con Innario), tutt’oggi conservati presso il Museo Storico Diocesano di Cremona, merita un’attenzione particolare uno Psalterium et Hymnariurn redatto nel 1484 e compilato – sia in riferimento ai testi liturgici, sia per quanto attiene alla sistemazione dell’Officiatura – "secundum morem Romanae Curiae". Il volume, che aveva già suscitato un certo interesse presso gli storici della miniatura, è stato fatto oggetto di una ricerca tutt’ora in corso, svolta con il sostegno della Fondazione Ezio Franceschini di Firenze.

L’aspetto di maggiore interesse è rappresentato dalla presenza chiaramente individuabile, all’interno di alcune sezioni dei volume, di due livelli di redazione distinti e successivi, di cui il secondo rappresenta un intervento innovativo sia sul piano melodico sia su quello della grafia musicale. La seconda redazione dell’innario, databile presumibilmente attorno agli ultimi decenni dei ’500, potrebbe rappresentare un segnale di adeguamento nei confronti delle indicazioni ritmiche contenute nelle principali pubblicazioni liturgico-musicali dell’epoca.

In quel periodo fu attivo come maestro di cappella della Cattedrale Marc’Antonio Ingegneri, autore, fra l’altro, di un libro d’inni pubblicato postumo nel 1606. Il confronto fra le melodie attestate dal libro corale e quelle impiegate nella raccolta ingegneriana ha rivelato una spiccata analogia fra alcuni cantus prius facti impiegati in contesto polifonico e altrettante melodie attestate dalla seconda redazione dell’innario, evidenziando inoltre le implicazioni ritmiche di queste ultime.

L’edizione diacronica dell’innario, restituendo a ciascuna redazione la propria fisionomia, ha consentito lo studio sistematico delle diverse fenomenologie di adeguamento, le quali a loro volta investono aspetti paleografici, ritmici, melodici e liturgici di varia natura. L’analisi delle peculiarità scrittorie delle due redazioni, viste in relazione all’andamento metrico dei testi musicati, ha inoltre consentito di formulare alcune ipotesi sul significato delle figurae introdotte nella seconda stesura, e getta nuova luce non soltanto sui problemi posti dalla trasmissione di un repertorio soggetto a continue trasformazioni, ma anche sulle sue modalità esecutive in epoca tardo-rinascimentale.

Il presente progetto di ricerca, dal titolo Edizione diacronica dello "Psalterium et Hymnarium" del Tesoro della Cattedrale di Cremona. Con uno studio delle sue diverse fasi di redazione e delle rispettive peculiarità scrittorie, liturgiche ed esecutive sullo sfondo della trattatistica coeva, è sostenuto dalla Borsa Matilde Fiorini Aragone per studi di teoria musicale rnedievale e rinascimentale della Fondazione Ezio Franceschini di Firenze.


Massimo Di Sandro, Il tema psicologico della "doppia interpretazione" negli studi di Rosen e Meyer sullo stile classico

Nell’ascolto musicale una doppia interpretazione si verifica soprattutto in due casi: quando l’ascoltatore si auto-corregge, ovvero cambia il significato di una parte del testo che ha già ascoltato in precedenza, oppure quando l’ascoltatore corregge il testo, ovvero lo immagina in una forma diversa da quella che ha effettivamente. Uno degli obiettivi della tesi di dottorato che ho svolto all’Università di Roma "La Sapienza" è stato quello di definire con chiarezza queste due modalità interpretative. Le ho indicato come "revisione" e "allusione" – anche per distinguerle dai fenomeni di "incertezza" e "intertestualità" – e ho inoltre analizzato casi di "contraddizione" e "anagramma".

L’ipotesi che ha guidato la mia ricerca è che uno stile musicale si caratterizza anche per il particolare modo in cui produce effetti di revisione e allusione. Ne sono una prova convincente gli studi sullo stile classico di Charles Rosen e Leonard Meyer (quest’ultimo ha costituito uno dei miei principali riferimenti). Rosen ha evidenziato l’umorismo "arguto" di alcune revisioni che costringono l’ascoltatore a rivalutare ed esaltare particolari non notati o addirittura deliberatamente esclusi in un primo momento – ciò che alcuni psicologi chiamano "inversione figura-sfondo". Meyer ha invece concentrato la sua attenzione sulla capacità dell’ascoltatore di riconoscere, soprattutto in alcuni passaggi delle opere di Mozart, gli elementi che realizzano uno schema formale tipico e gli elementi che invece gli sono estranei. L’ascoltatore può in alcuni casi sostituire le parti estranee al fine di ottenere la realizzazione completa e corretta dello schema: viene costruita così, con l’immaginazione, una versione del testo alternativa a quella letterale. Descrivendo questo tipo di allusione Meyer indica una possibile definizione di "metafora musicale" svincolata da riferimenti extra-musicali.


Andrea Chegai, Hegelismo e armonia: Abramo Basevi teorico

Fra i più originali contributi allo studio dell’armonia e della composizione nell’Ottocento italiano spiccano gli scritti teorici di Abramo Basevi: l’Introduzione ad un nuovo sistema d’armonia (1862), gli Studi sull’armonia (1865) e il manualetto Beethoven op. 18 con analisi dei sei quartetti (1874), editi a Firenze. Intellettuale di formazione medico-filosofica, Basevi avanza un’interpretazione polemica e innovativa dei fatti musicali, prendendo apertamente le distanze dagli schemi della tradizione sette-ottocentesca; alla base del ‘nuovo sistema’ è posto il concetto di percezione (intesa come una "facoltà media tra il senso e l’intelletto", sviluppatasi gradatamente nel corso dei secoli) che sopravanzando la pura e semplice sensazione, specifica delle culture elementari, rende accettabili o addirittura auspicabili combinazioni di suoni illegittime secondo l’armonia classica. La loro recuperata legittimità è fatta derivare dalla crescente attitudine analitica dell’intelletto, vieppiù capace di percepire in anticipo sviluppi e risoluzioni armoniche e di ‘sciogliere’ conseguentemente sovrapposizioni accordali audaci; si instaura così un rapporto dialettico, artisticamente proficuo, a base di conferme e di smentite, fra l’’immaginazione sonora’ – ciò che si percepisce e ciò che effettivamente si sente (numerosi nell’Introduzione e negli Studi gli esempi tratti dal repertorio, atti a dimostrare l’efficacia della percezione a dispetto delle regole).

Su tal fondamento Basevi prospetta un sistema armonico non convenzionale in cui le note di passaggio, le alterazioni e le modulazioni figurano quali componenti implicite della tonalità di riferimento, – che viene così ad estendersi a regioni circonvicine, e in cui il rivolto è considerato secondo le sue specifiche proprietà e non come un semplice derivato dell’accordo allo stato fondamentale. Con simili presupposti si effettuano anche le analisi beethoveniane, che pur fra molte semplificazioni rivelano una comprensione dell’autore di gran lunga maggiore rispetto alla media italiana (e non solo) di quegli anni.

Un impianto evoluzionistico, quello di Basevi, imparentato sia col ‘percezionismo’ della cosiddetta Scuola filosofica scozzese (William Hamilton in particolare) sia con l’idealismo di marca hegeliana, còlto attraverso l’eclettismo di Victor Cousin, mentr’è da contrapporsi all’incipiente positivismo, da cui Basevi prende le distanze a vantaggio di una metafisica della musica che perviene a condizionarne anche gli esiti psicologici. L’interesse di tale ‘nuovo sistema’ sta nello spiegarsi, o nel tentare di farlo, i fenomeni musicali coevi con l’ausilio di strumenti esegetici parimenti coevi, correlando inscindibilmente la composizione musicale alla storia del pensiero.


Chiara Sintoni, Il caso Fanny Mendelssohn Hensel: un quesito per i "Gender Studies".

Nel panorama della prima metà del XIX secolo, Fanny Mendelssohn Hensel (1805-1847) è una delle personalità più interessanti. La posizione da lei assunta nella cultura berlinese dell’epoca, divisa tra raffinata sensibilità culturale e rigidi pregiudizi sessisti, e la sostanziale interdizione dalla sfera professionale ne hanno fatto una delle figure più sfruttate ai fini di un’indagine nel campo dei Gender Studies; ma una lettura analitica dei suoi lavori mostra che il suo linguaggio compositivo, pur presentando tratti personali, non si differenzia da quello corrente

Dalla disamina della sua produzione liederistica e del contesto sociale in cui visse ed operò, si deduce infatti una adesione sostanziale ai canoni estetici del Biedermeier, soprattutto per quanto concerne l’interpretazione dei rapporto fra testo ed intonazione musicale. Dalle medesime risultanze analitiche – come più in generale dall’idea romantica della musica come linguaggio assoluto, trascendente e universale – sembrerebbe che, a differenza di alcune posizioni espresse da Susan McClary nel polemico Feminime Endings (cfr. anche l’intervento di A. Dell’Antonio nel "Saggiatore musicale", I, 1994, pp. 209-298), non sia ipotizzabile una scrittura musicale al femminile, ma soltanto un modo di scrivere e pensare in musica e di intergire con canoni culturali dominanti che determina lo stile di un compositore, uomo o donna che sia. Inoltre, le lettere di questa e di altre compositrici fanno emergere che in questa fase ad una donna poteva interessare non tanto imporre la propria identità sessuale, quanto rivendicare il diritto alla liberta di espressione, all’autonomia artistica o al riconoscimento ufficiale del proprio operato (illuminanti le lamentele espresse più riprese circa la frustrante condizione di artiste misconosciute). Le artiste, cioè, non sembrano voler necessariamente distanziarsi dalla cultura musicale maschile che, di fatto e per circostanze storiche, rimane anche per loro la cultura dominante e rappresenta l’unico punto di riferimento.

Il caso di Fanny Mendelssohn Hensel sembra dunque dimostrare che il problema qui affrontato, prima che musicale o musicologico, è sociologico: le donne hanno tentato di emanciparsi non come l’altra metà dei cielo ma come artisti: impedimenti sociali dovuti a condizionamenti culturali ne hanno precluso l’ingresso alla sfera professionale e sovente impedito la piena maturazione artistica; altri condizionamenti e preconcetti possono talvolta aver contribuito a determinare giudizi del fenomeno, comprensibili ma pericolosamente unilaterali.


Marina Mayrhofer, Dimensione fantastica e componente esotica in un oratorio profano, "Das Paradies und die Peri" di Roberto Schumann

Il "Poema per voci soliste e coro", composto nel 1843, propone due tematiche ricorrenti nella produzione romantica tedesca di quegli anni. Il fantastico e l’esotico trovano collocazione in un genere "nuovo per la sala da concerto", che si situa a metà tra l’oratorio e la cantata. La scelta di una formula che per tradizione escludeva la rappresentazione scenica consentiva un’ipotesi di drammaturgia più congeniale ad una materia favolistica, di per sé estranea a limitazioni di tempo luogo ed azione, destinata all’immaginazione ed improntata ad un misticismo di natura esotica. In tale prospettiva il tema dell’angelo caduto, aspirante alla redenzione, viene svolto entro una forma articolata in diversi numeri, secondo criteri che ribadiscono l’inclinazione, diffusamente manifestata da Schumann, per il disegno ciclico e per la "forme brève" (F. Escal nel "Saggiatore musicale", IV, 1997). Tecniche peculiari, quali l’iterazione e la citazione motivica, garantiscono consequenzialità drammatica ed unità ideale tra i vari Stücke. Finalità specifiche, in siffatta architettura formale, acquistano clausole stilistiche tipiche della scrittura schumanniana, quali la funzione delle medianti, l’incidenza degli accordi di settima, la qualità liederistica del canto ed i procedimenti imitativi nei contrappunti corali, secondo quanto è evidenziato anche in recenti studi di M. Wendt ("Schumann Studien"), G. Nauhaus, C. H Mahling, A. Edler, C. Rosen. S’intende verificare la funzionalità di una struttura, indagata nei suoi connotati linguistici più rappresentativi, attestanti una sperimentazione in atto, che accomunò, sotto certi aspetti due personalità artistiche non ancora in aperto conflitto tra loro, quali appunto Schumann e Wagner.


Anna Ficarella, Il tardo stile pianistico di Ferruccio Busoni nella "Klavierübung"

La figura e l’opera di Ferruccio Busoni (1866-1924) suscitano ancor oggi, a 75 anni dalla sua morte, giudizi contrastanti. Se la magnificenza e la modernità del pianista non vengono mai messi in discussione, più tormentata è la sorte del compositore. La sua posizione nella storia della musica risulta meno contrastata, tuttavia, proprio nelle composizioni per pianoforte, particolarmente in quelle più tarde, in cui sembrano ricomporsi le tensioni tra il pianista, il compositore e il trascrittore. Solo negli anni dopo la prima guerra mondiale, infatti, si assiste ad un consapevole mutamento di stile da parte di Busoni, con composizioni che rappresentano le più pure espressioni di una "Junge Klassizität", ovvero del suo ultimo pensiero estetico.

La raccolta intitolata Klavierübung (1917-1924) comprende in maniera esemplare le caratteristiche principali del tardo stile busoniano. Si tratta di un lavoro ingiustamente dimenticato dalla ricerca musicologica, anche se conosciuto in alcuni ambienti pianistici. Busoni si dedicò a quest’opera "pedagogica" durante l’esilio zurighese e negli ultimi anni a Berlino: la concepì come progetto inteso a trasmettere il suo ideale di musica e di tecnica pianistica. Esistono due edizioni della Klavierübung: la prima, in cinque parti, fu pubblicata mentre Busoni era ancora in vita e rivela una certa irrazionalità nella disposizione del materiale, la seconda riordina ed amplia il materiale e lo suddivide in dieci "libri", ognuno dedicato ad un particolare problema strumentale e, insieme, musicale. La "große Ausgabe" della Klavierübung fu pubblicata postuma nel 1925, in un esiguo numero di copie, come VIII volume della Bach-Busoni Ausgabe, ed è oggi una vera rarità. Nei suoi dieci libri essa presenta un vario assortimento di piccoli pezzi – studi ed esercizi –, comprende trascrizioni e rielaborazioni di ogni genere, oltre che un certo numero di composizioni originali, tra cui i suoi ultimi brani per pianoforte, due dei quali (lo studio sui trilli e quello sul pedale tonale) non si trovano altrove. Questi due soli brani basterebbero di per sé a rendere la raccolta particolarmente significativa, in quanto entrambi furono pensati come "Kompositionsstudien" per la scena finale, mai scritta, del Doktor Faust. La raccolta può essere considerata come una sorta di scuola di composizione, di trascrizione e, non ultimo, di estetica musicale, in cui il tardo linguaggio musicale di Busoni trova pieno compimento: dalla sintesi creativa di tutti i mezzi musicali fruibili sia della tradizione tonale sia delle sperimentazioni più audaci, all’ideale di concisione, semplicità e chiarezza della forma, di trasparenza e smaterializzazione del suono, di cura della polifonia e di espressione dell’idea musicale in una realizzazione pianistica adeguata che valorizzi lo strumento, anche in un modus espressivo poco spettacolare e introverso.


Anna Tedesco, "All’usanza spagnola". La reale diffusione dell’"Arte nuevo" di Lope de Vega in Italia.

La ricerca esplora un particolare aspetto dell’influenza del teatro spagnolo del "siglo de oro" sul melodramma del Seicento, ossia la reale diffusione in Italia dell’Arte nuevo de hacer comedias en este tiempo di Lope de Vega. Questo testo viene spesso citato per l’influenza esercitata sui librettisti che si appellerebbero all’autorità di Lope per sfuggire alle regole aristoteliche. Ma quanto era diffuso tra i letterati italiani? A quando risalgono le prime traduzioni e quanto circolarono? La locuzione "usanza spagnola" (G. F. Busenello, Didone, 1641,1 in Delle hore ociose, Venezia 1656) indica un influsso generico dei modelli drammaturgici spagnoli o quella del testo di Lope?

L’Arte nuevo non è un trattato vero e proprio, come comunemente si afferma, ma un discorso accademico, non privo di una certa ironia, scritto tra il 1604 e il 1608 per l’Academia de Madrid, su ordine del conte de Saldañia. Fu pubblicato nelle Rimas di Lope a Madrid, presso A. Martín nel 1609 e nel 1611, dopo appena due anni, ebbe una edizione in Italia a Milano, presso J. Bordon.

Tra i primi a citare esplicitamente Lope come esponente di un nuovo teatro che infrange le regole aristoteliche è il messinese Scipione Errico (1592-1670) nella sua commedia Le rivolte di Parnaso (1626). Ancora a Lope si appella il pistoiese Nicola Villani (1590-1636), difensore del cavalier Marino nella polemica intorno l’Adone, nel suo Ragionamento sopra la poesia giocosa de’ Greci de’ Latini de’ Toscani apparso nel 1634 nelle Rime piacevoli.

La testimonianza più eclatante, anche se di dubbia autenticità, è però quella di Jacopo Cicognini (1577-1633) il quale nel Trionfo di David (1633) afferma di essere stato consigliato da una lettera di Lope in persona, di "avvezzarsi a passare il giro delle 24 ore, e far prova del diletto che porta seco il rappresentar azioni che passino lo spazio non solo di un giorno, ma anco di molti mesi ed anni, acciò si goda degli accidenti dell’istoria, non solo con la narrativa dell’antefatto, ma con il dimostrare l’istesse azioni in vari tempi seguite".


Davide Daolmi, Antonio Draghi apprendista stregone ovvero un le musiche spagnole di un italiano alla corte austriaca
 
Nel gennaio del 1673, in occasione del quarto compleanno del figlia Margherita d’Asburgo, consorte spagnola di Leopoldo d’Austria, va in scena una commedia ‘al modo di Spagna’ – Primero es la honra – interpretata dalle dame della corte di Margherita; le musiche sono di Antonio Draghi, primo musicista di corte. La scrittura adottata da Draghi è insolita, tutt’affatto diversa da quella generalmente in uso per opere e musiche su libretto italiano. Due gli aspetti più significativi.
Da un alto il tentativo di Draghi di mettere in atto una tecnica compositiva che pretende di imitare la musica spagnola, sulla scorta delle poche partiture fatte arrivare a Vienna da Leopoldo. Il risultato è solo nelle intenZioni ‘spagnolo’, perché Draghi non poteva ovviamente essere in grado di cogliere le prerogative di una musica sostanzialmente improvvisata e resa caratteristica dalla prassi esecutiva, non dalla tecnica compositiva dei pochi cori fermati sulla carta. (La questione solita della distanza fara scrittura e prassi: ma in questo caso il fraintendimento è all’interno di epoche coeve, distanti solo geograficamente.)
Sull’altro versante si apre un ambito d’indagine del tutto inaspettato, tanto più per un compositore italiano. Si scopre infatti che queste musiche sono rigidamente organizzate su strutture tematiche e formali di tipo simbolico e matematico. Dalla cellula motivica fino alla grande forma (perfettamente ricostruita in partitura, malgrado la frammentarietà. imposta dalle scene della commedia) Draghi mette in atto alchimie compositive che se brano l’applicazione fedele dei principi retorici raccontati nella Musurgia di Kircher. Non dovrebbe stupire che il musicista di Leopoldo, sponsor ufficiale dell'attività speculativa dello stesso Kircher, si muova in questa direzione; eppure la radicalità e la raffinatezza matematica con cui tali principi vengono disorienta. Draghi , da cui non ci saremmo aspettati nulla più di una buona musica di mestiere, rivela slanci mistici che ben si inseriscono negli esoterismi magici tanto cari alla corte leopoldina (da cui probabilmente non fu esente lo stesso Minato, che organizzava strutture drammaturgiche sugli stessi principi).

Stefanie S. Tcharos, Le due "Giuditta" di Scarlatti e alcuni suggerimenti per la "messinscena" dell’oratorio

La decapitazione di Oloferne da parte di Giuditta, un’atto di violenza straordinario, frequentemente raffigurato nei dipinti contemporanei, fu anche un’immagine drammatica familiare per il pubblico musicale del XVII secolo. Come molti testi dell’Antico Testamento, la storia di Giuditta divenne un popolare tema per l’oratorio. La vicenda esercitava una particolare attrazione sugli spettatori del Seicento: oltre a promuovere la morale religiosa contemporanea, esprimeva un’alto grado di erotismo e teatralità. Nell’ultimo decennio del XVII secolo, Alessandro Scarlatti ricevette commissioni per ben due oratori su Giuditta: il primo su libretto del cardinale Pietro Ottoboni, il secondo su un differente testo di Antonio Ottoboni.

Questo intervento esamina entrambe le Giuditta di Scarlatti: l’approccio comparativo qui adottato rivela il metodo con cui un compositore come Scarlatti elaborò la relazione, ovvia e allo stesso tempo problematica, tra oratorio e opera. La mia analisi comprende una lettura ravvicinata delle due composizioni e il confronto dell’intonazione di ciascuno dei due libretti; indaga inoltre i diversi modi di accostarsi alla caratterizzazione dei personaggi e l’impiego di stile e convenzioni propri dell’opera. Più specificamente, il mio studio si concentra sugli eventi che precedono l’uccisione di Oloferne, con particolare attenzione al trattamento dell’azione drammatica e alla presenza nella musica di segnali sonori per una messinscena immaginaria, forse al di là di quanto sia espresso esplicitamente dal testo stesso.

Diversi studiosi hanno riconosciuto le mutazioni di stile e contesto dell’oratorio negli ultimi decenni del XVII secolo; questo contributo suggerisce che la proibizione delle esecuzioni teatrali a Roma influenzò i modi in cui l’oratorio era concepito come spettacolo ‘drammatico’ sostitutivo. Una discussione approfondita di questi stessi brani, inoltre, consente di collocare nuovi confini drammatici del genere, e suggerisce fino a che punto l’oratorio del tardo XVII secolo potesse essere immaginato come vicino all’esperienza teatrale.


Michele Calella, "Beautés irrégulières": Gluck, Shakespeare e il giardino inglese

La querelle dei gluckisti e dei piccinnisti ha suscitato tra i musicologi pareri discordi. Da una parte la si è considerata un’artificiosa lite tra letterati in cui la musica non avrebbe rivestito alcuna importanza, dall’altra si è cercato il riscontro tecnico compositivo delle categorie estetiche ivi discusse nella produzione musicale dei due compositori in questione. Le due posizioni presentano tuttavia numerosi problemi: l’idea della musica come pretesto di beghe personali o intellettuali è in questo caso altrettanto inverosimile e storicamente inaccettabile quanto l’assunzione della musica di Piccinni e di quella di Gluck a vero e proprio punto di partenza della disputa (per non parlare della rigida distinzione tra "opera piccinnista" e "opera gluckista" di Julian Rushton). L’ipotesi di partenza è che la querelle dei gluckisti e dei piccinnisti sia in effetti nata dallo scontro di due opposte concezioni poetiche dell’opera, quella, tradizionalmente francese, del merveilleux, e quella del tragique. Nel suo articolo "Opéra" Marmontel, capogruppo dei piccinnisti e motore della querelle, collega in maniera naturale il tragique con il canto irregolare e il merveilleux con lo chant périodique teorizzato da Chastellux negli anni sessanta. Così facendo è comprensibile la sua netta distinzione (che pesa ancor oggi non poco sulla ricezione critica dei due autori) tra la musica "irregolare" di Gluck (che esordisce a Parigi con Iphigénie en Aulide, un soggetto "tragico"), e quella "periodica" e "simmetrica" di Piccinni (che, invece, esordisce con un testo merveilleux, il Roland di Quinault).

La querelle è un interessante capitolo di storia della ricezione musicale, le cui contraddizioni si spiegano con il suo orientamento eminentemente poetico. Essa è il riflesso dello scontro, assai attuale nella seconda metà del secolo, tra la concezione classica dell’imitazione della "belle nature" e quella del "beau irrégulière". Non a caso negli anni settanta del Settecento si assiste ad una discussione analoga nel campo del teatro (la tragedia regolare contro il teatro di Shakespeare) e dell’arte del giardino (estetica del giardino geometrico alla francese contro il giardino all’inglese). La terminologia usata dai critici del giardino all’inglese somiglia molto a quella usata da Marmontel nelle sue descrizioni della musica di Gluck, e lo stesso vale per i concetti di "régularité" e "simmetrie", usati sia per il giardino alla francese che per la musica di Piccinni.

Il fatto che Marmontel paragoni Gluck a Shakespeare e parli di "Racines italiani" è sintomatico di questa tendenza. Gluck, Shakespeare e il giardino all’inglese, "beautés irrégulières" incarnano nell’immaginario estetico di fine secolo i paradigmi estetici di una nuova era, che non a caso lascerà dietro di sè le "beautés régulières" di Piccinni, Racine e del giardino alla francese.


Alessandro Di Profio, Le anomalie dell’opera italiana a Parigi nel Settecento

È noto che la storia dell’opera italiana in Francia seguì nel Settecento un corso diverso da quello del resto d’Europa. Nessuna città francese disponeva di un teatro stabile di produzione italiana. A tale situazione non sfuggì neppure Parigi, il cui sistema teatrale restò fino alla fine dell’Ancien Régime sotto il controllo dell’Académie Royale de Musique. Solo nel gennaio 1789 si inaugurò, con il principale scopo di allestire opere italiane, il primo teatro dotato di una troupe di cantanti italiani, il Théâtre de Monsieur, che nel 1791 cambiò nome in Théâtre Feydeau.

In realtà, l’apertura del Théâtre de Monsieur / Théâtre Feydeau non azzerò le specificità della realtà francese, caratterizzata anche da più di un secolo d’assenza di una regolare produzione italiana. Analizzando sia il sistema organizzativo sia quello produttivo della nuova istituzione, emergono profonde differenze tra il Théâtre de Monsicur / Théâtre Feydeau e gli omologhi teatri italiani sparsi in Europa. Almeno due sono le anomalie più sorprendenti:

1) la produzione del Théâtre de Monsieur / Théâtre Feydeau è basata sul sistema delle riprese. Dal gennaio 1789 all’agosto 1792 furono prodotte 34 opere. Solo due (Il cavaliere errante di Angelo Tarchi e Il signor di Poursognac di Louis Jadin) furono nuove composizione, commissionate appositamente per Parigi: entrambe, comunque, fecero fiasco;

2) tutte le opere prodotte al Théâtre de Monsieur/ Théâtre Feydeau – così come quelle prodotte occasionalmente, per tutto il Settecento, all’Académie Royale de Musique (1752-1754, 1778-1780) o a corte (1787) – furono opere di genere buffo. Per la prima opera seria si dovrà attendere il 1804, con l’esecuzione in forma di concerto degli Orazi e i Curiazi di Cimarosa.

La presente relazione indaga tali particolarità e cerca di offrire alcune piste di riflessione. Si propone, in particolare, una riconsiderazione delle due anomalie citate, mettendole in relazione da una parte con l’attesa maturata a Parigi nei confronti dell’opera italiana e dall’altra con il sistema estetico francese fissato su categorie e norme assai distanti da quelle che regolavano il sistema italiano. Il Théâtre de Monsieur / Théâtre Feydeau si presenta come soluzione di sintesi tra una cultura recepita e un paese ricevente.


Giangiorgio Satragni, Aspetti del "Wozzeck" di Manfred Gurlitt

Il Wozzeck di Manfred Gurlitt (Berlino, 1890 - Tokyo, 1972) è stato relegato alla periferia musicale e geografica dal corso della storia e della musica. Tratta dal Woyzeck di Büchner, l’opera andò in scena a Brema il 22 aprile 1926, pochi mesi dopo la rappresentazione a Berlino, il 14 dicembre 1925, del Wozzeck di Alban Berg. Così il lavoro di Gurlitt, benché non privo di tratti dell’avanguardia e calato in un’atmosfera espressionista, visse da subito all’ombra dell’altro. L’indiscutibile primato del lavoro berghiano e l’oblio di Gurlitt furono però fortemente accentuati dall’emigrazione di quest’ultimo, nel 1939, alla volta del Giappone, paese dal quale più non sarebbe tornato. Il ritorno d’interesse odierno per la musica di Gurlitt va inserito nel più ampio contesto in cui si è sviluppato negli ultimi quindici anni il recupero dei compositori ritenuti dal nazismo "degenerati". Il Wozzeck merita attenzione perché è l’opera più importante di Gurlitt, ma anche perché nasce spontaneo il confronto con l’opera di Berg, composta poco prima, e della quale Gurlitt, fino alla rappresentazione, non potè conoscere l’esistenza.

Gurlitt scelse la forma dell’atto unico, disponendovi 18 delle 26 scene di Büchner, che conservano la loro fulminante brevità, conferendo all’opera il carattere di Stationendrama. È comunque attento a stabilire una logica narrativa scegliendo da Büchner quelle scene che mostrano la maturazione del delitto nella mente e nelle azioni del protagonista. La volontà di procedere per frammenti e contemporaneamente di legare insieme questi si riflette sulle scelte di forma musicale, linguaggio e orchestrazione. Molte scene (meno che in Berg) possiedono una forma identificabile: ognuna, salvo rarissime eccezioni, è chiusa da formule cadenzali ritmicamente e tonalmente determinate. All’interno delle singole parti Gurlitt fonda la composizione sull’impiego di una tonalità allargata che molto spesso conduce a esiti atonali; apre inoltre all’uso abbozzato della serie dodecafonica con il tema della fuga nella scena XIII. L’unità tra forme e stili diversi è data dalla prevalenza del testo e dall’intonazione di questo secondo un lirismo astratto. L’orchestra è composta da un organico tradizionale ma limitato ed impiegato in maniera cameristica: si colloca quindi nel filone dell’opera da camera del Novecento. La combinazione di strumenti ogni volta diversi nasce anche dal desiderio di separare le scene: l’unità è garantita a livello superiore, poiché Gurlitt recupera, in maniera personale, il principio romantico dell’orchestra parte e commento dell’azione.


Roberto Agostini, Musica popolare e studi musicali: alcune note sullo stato della ricerca

Scopo dell’intervento è descrivere l’assetto del campo di studi sulla musica popolare contemporanea (popular music) d’approccio musicologico-analitico e i percorsi attraverso i quali si è giunti ad esso.

Lo studio della musica popolare contemporanea in quanto "testo" nasce in epoca recente. Anche negli anni ’70, quando i popular music studies emergono come ambito di ricerca, gli studiosi di musica continuano a non mostrare interesse per questo tipo di repertorio, considerato materia d’interesse sociologico. È dunque all’interno dei popular music studies che emerge una corrente di pensiero centrata sull’analisi del testo che, in polemica con la tradizione formalista, propone uno "studio culturale della musica" di tipo interpretativo, interdisciplinare, e critico nei confronti degli studi musicali consolidati.

Negli anni ’90 varie proposte stanno arricchendo il campo di studi sulla musica popolare. È possibile individuare due tendenze principali: da un lato la Music Theory americana, che propone lo studio formalista della popular music, dall’altro un campo di studi eterogeneo che raccoglie ed arricchisce la tradizione dello studio culturale della musica e che tende a confondersi con la new musicology. Esso presenta vari centri d’interesse: oltre ai popular music studies dobbiamo menzionare gli studi sulla Gender music e sulla sessualità in musica, quelli di stampo etnomusicologico sulle culture popolari urbane, e quelli, ispirata alla teoria letteraria di Gates del Signfyin’ Monkey, sulla musica africana-americana.

Quest’insieme eterogeneo d’approcci, unito alla propensione generale a coinvolgere lo studio della popular music in riflessioni di carattere generale, indica che oggi lo studio della musica popolare è importante non solo per l’avanzamento della conoscenza nell’ambito specifico, ma anche per le potenzialità che offre agli studi musicali di riflettere su loro stessi.


Sergio Durante, Lessico italiano del canto

Progetto "Canto": Lessico italiano del canto. Ideazione e coordinamento generale di S. Durante. Realizzazione a cura di L. Grasso Caprioli, T. Morsanuto, R. Ziosi e del seminario di didattica del canto (E. Bertoni, M. Levorato, F. Martignago, S.-S. Ortolan, V. Perini). Software di Detlev Schumacher

Il progetto si propone la realizzazione di una banca dati contenente record bibliografici e testi che documentano in lingua italiana la pratica del canto fra il XVII ed il XIX secolo. Lo strumento è concepito per l’uso di musicologi, musicisti e lessicologi e si fonda su una progettazione particolarmente articolata degli strumenti d’accesso e di ricerca.

La banca dati consta di tre aree principali, in relazione fra loro: il tesauro dei termini, la bibliografia e i testi veri e propri, offerti integralmente ovvero in forma selettiva.

"Canto" si propone di mettere a contatto l’utente con le fonti ma soprattutto di evidenziare i caratteri problematici delle medesime attraverso vari tipi di relazione/confronto. Idealmente, il metodo adottato si propone come sistema estensibile a qualsiasi altra area di competenza.

Durante la preparazione dei materiali, i testi vengono sottoposti ad un accurato spoglio lessicografico inteso ad individuare non solo la presenza di lemmi rilevanti per competenza, ma tutta la rete delle relazioni lessicali con gli altri lemmi presenti nel tesauro.

Il lavoro dei collaboratori consiste sia in una attività di carattere collettivo coordinato (nel senso che ad ognuno vengono assegnati gruppi di fonti relativamente omogenee), sia nel senso più tradizionale di un’attività di carattere storiografico-saggistico. È infatti affidata ai collaboratori la redazione di ‘note critiche’ riferite sia a ciascun lemma che a ciascuna fonte e destinate ad introdurre l’utente alla miglior comprensione dei testi.

L’inizio del progetto risale al 1986. Dopo un triennio iniziale in collegamento con la Fondazione Cini di Venezia, il progetto è passato all’Università di Padova. Attualmente è finanziato dal MURST. Uno specimen del CD-ROM è stato presentato al XVI Congresso della Società internazionale di musicologia di Londra (1997); si prevede la pubblicazione della prima edizione in forma cartacea ed elettronica entro il 2002, con aggiornamenti successivi.


Anna Laura Bellina, Strumenti per il Metastasio

Il progetto ideale, troppo ambizioso e forse realizzabile in tempi biblici, consiste nell’edizione elettronica di tutte le versioni delle opere metastasiane in testo critico, emendato e trascritto secondo criteri di moderata innovazione per maiuscole, punteggiatura, accento e apostrofo. Quello reale, nient’altro che una minima parte, per ora si limita ai ventisette drammi per musica, tralasciando le prose, le cantate, la cui tradizione non è chiarissima, e le azioni sacre uscite recentemente a cura di Sabrina Stroppa. Tutto si articola in tre fasi che hanno in comune la stampa per la prima messinscena (=P).

1. Raccolte approvate o curate dall’autore

a. Di ogni dramma si danno le versioni contenute nelle raccolte autorizzate a partire da P, seguita dalle ristampe letterarie: Benttinelli fino al 1733 (=B), Quillau (=Q), Reale (=R) ed Hérissant in quarto (=H). Il testo è semplicemente leggibile, oppure interrogabile per mezzo del lessico, e attraverso un sistema di ricerca, selezionando le opere o meno.

b. Le versioni sono collazionate da un programma che le affianca evidenziando le varianti perché, a differenza di una pagina cartacea con testo e apparato, un CD consente di porre sullo stesso piano sinottico stesure diverse, senza privilegiare né sminuire la cosiddetta ultima volontà, comunque tradita da H.

2. Edizioni performative

a. Di ogni dramma si daranno, leggibili e interrogabili come al punto 1.a, le versioni approntate per ogni ripresa e raramente licenziate dall’autore: oltre a P, è il caso delle revisioni per Farinelli e di poche altre. È stato discusso ma non risolto il problema del campione da prendere in esame nello specimen: per esempio, fermarsi momentaneamente al 1782, anno della morte del Metastasio e dell’uscita di H, sarebbe comodo e ragionevole ma escluderebbe fra l’altro La clemenza di Mozart.

b. Le varianti, spesso dovute alle bizze dei cantanti o al gusto moderno, troppo numerose per una sinossi, tipologicamente disparate e tradite sia da libretti a stampa che da partiture manoscritte, potenzialmente in aumento col perfezionarsi della recensio e col proseguire delle riprese, saranno consultabili mediante collegamenti ipertestuali.

3. Raccolte pirata

a. Di ogni dramma si daranno le versioni delle edizioni sconfessate, leggibili e interrogabili come al punto 1.a.

b. Le varianti, compresi gli errori che in questo caso costituiscono una spia necessaria per costruire lo stemma, saranno consultabili mediante collegamenti ipertestuali.

Quanto alla fattibilità, per la scadenza del finanziamento, il punto 1 sarà completato e corredato almeno da uno specimen del punto 2 con la recensio del punto 3, in collaborazione con Francesco Giuntini. Il risultato uscirà in CD fra i "Diamanti" di Salerno editrice insieme a due volumi contenenti il testo critico di H, commentato secondo le regole della collana. Partecipano all’impresa: Enrica Bojan (Q e B), Luciana Grappeggia (H), Sandra Marin (P), Luigi Tessarolo (progetto e realizzazione informatica) e Anna Vencato (R).


Daniela Castaldo, Iconografia musicale nell’arte delle situle

La nostra ricerca prenderà in esame i temi musicali rappresentati in una piccola serie di recipienti in lamina di metallo decorato a sbalzo, le situle, diffuse tra il VII e il IV sec. a. C. tra la pianura padana e la regione del Danubio attraverso le Alpi orientali. L’arte delle situle è la prima manifestazione figurativa che possa considerarsi ‘europea continentale’, nel senso che risente solo indirettamente delle influenze mediterranee.

I soggetti illustrati, il banchetto, il corteo dei guerrieri, i giochi, le scene di offerta, sono piuttosto ripetitivi e, pur facendo riferimento al comune patrimonio rituale e mitico del vicino oriente, della Grecia e dell’Etruria, vengono rielaborati in una dimensione locale. Il carattere autoctono dell’iconografia delle situle riguarda anche l’elemento musicale che è presente in alcuni dei temi rappresentati: gli strumenti musicali più illustrati sono la syrinx, e un tipo particolare di lyra dalla traversa obliqua che sembra essere una peculiarità dell’arte delle situle. Anche l’uso della syrinx durante il banchetto e le scene di offerta non trova riscontro nelle tradizioni figurative che più o meno direttamente hanno influenzato questo linguaggio figurativo. L’interpretazione di queste scene è resa ancora più problematica da un dubbio di fondo, ossia se si tratti di rappresentazioni realistiche o rituali. Nonostante il vivido realismo dei dettagli, infatti, la destinazione funeraria delle situle fa ritenere piuttosto che il referente iconografico sia appunto il rituale della sepoltura.

L’iconografia si rivela ancora una volta l’unico mezzo per ricostruire l’universo musicale di queste antiche civiltà per le quali non esistono testimonianze scritte.


Massimo Raffa, Suono e ‘forma’ negli "Harmonica" di Claudio Tolemeo.

La comunicazione si colloca nell’àmbito del lavoro di traduzione e commento del trattato di teoria musicale di Claudio Tolemeo (II d.C.), che costituisce l’argomento della tesi di dottorato del proponente. Si esamina un luogo (Harm. 1.3) in cui si discutono le relazioni tra le qualità dei corpi che producono il suono e il suono medesimo. In particolare si analizza il significato che Tolemeo attribuisce ai termini scÁma (schema, "forma") e schmatismÒj (schematismus, "conformazione"). Tale analisi, articolata in diversi momenti (accezioni degli stessi termini in contesti apparentemente analoghi, valore attribuito ad essi dal commentatore Porfirio, rapporto con un passo affine del trattato pseudoaristotelico de audibilibus e con la struttura argomentativa di un luogo delle Categorie), porta alle seguenti considerazioni:

1. nello pseudo-Aristotele lo schema è l’atteggiamento dell’organo fonatorio nell’atto della produzione del suono. L’imitazione di esso consente all’uomo di riprodurre il verso animale;

2. Tolemeo risente in parte dell’auctoritas aristotelica, ma se ne distacca in un punto fondamentale: l’imitazione dello schematismus del suono non produce suoni inarticolati, ma veri e propri nomi declinabili, e permette all’uomo di riprodurre anche suoni di provenienza non animale (cui corrispondono in greco i nomi p£tagoj, doàpoj). Quindi questo schematismus non può più essere, come per lo pseudo-Aristotele, una postura della bocca e della lingua, ma deve essere una "forma" di livello superiore (mentale?) che viene afferrata ed imitata dall’uomo grazie alla sua anima razionale (tÕ ¹gemonikÒn). Senza voler con questo sostenere che Tolemeo disponesse degli strumenti concettuali per approfondire i meccanismi secondo i quali il linguaggio esprime le articolazioni timbriche del fatto sonoro, l’indagine tuttavia dimostra come in questo punto il trattato tolemaico, pur collocandosi pienamente nella tradizione classica, si apra a tematiche eccentriche rispetto alla koiné pitagorica e matematizzante dell’Antichità. Infatti si può constatare come in questo caso il pensiero musicale antico, al quale si è soliti rimproverare la disattenzione verso la concretezza del momento esecutivo da un lato, del fatto timbrico-sonoriale dall’altro, abbia toccato, sia pure cursoriamente e probabilmente con scarsa autoconsapevolezza, un tema sorprendentemente vicino ai moderni studi di psicologia della percezione; infatti ogni lessicalizzazione del suono è anche, necessariamente, una descrizione di esso.


Alessandra Fiori, "Quid est vox?" La voce nei trattati musicali medievali.

Un aspetto evidente delle fonti teorico-musicali medievali è il distacco dalla musica pratica, secondo una rigida divisione di competenze, fondata sull’antitesi fra musicus e cantor, ratio e sensus.

All’interno di questa produzione, la voce umana rappresenta tuttavia una questione a parte; è difatti innegabile che, per teorici appartenenti all’ambiente ecclesiastico, il repertorio musicale sacro fosse il punto di partenza di qualsiasi discorso e che questo repertorio si legasse in modo esclusivo al canto.

La voce diviene così un oggetto controverso, nel quale la riluttanza a parlare di prassi musicale si deve accordare con esigenze dettate dal rito; l’esito di questo conflitto sarà una sorta di espiazione, da parte della voce, della sua fisicità, attraverso il percorso della conoscenza e della disciplina.

Questa ricerca si propone di tracciare una panoramica sui temi e le questioni inerenti la voce umana all’interno delle fonti sopraccitate, poste in relazione con un più vasto quadro di riferimento teorico (testi di logica, retorica, medicina ...). Ad una metafisica e ad un’antropologia della voce, si cercherà infatti di ricollegare anche una fisiologia di quest’ultima, basata sulle conoscenze anatomiche del periodo, ancora fortemente influenzate dal pensiero classico (con importanti implicazioni semantico-lessicali legate, per esempio, a concetti quali pneuÖma, spiritus, anima, ecc.)

Questo lavoro si svolge attorno ad una decina di argomenti legati alla voce, secondo i quali ciascuna fonte può essere esaminata; i punti considerati hanno principalmente a che vedere con tre grandi tematiche. In primo luogo quella estetico-morale, in cui verranno valutate le categorie del bello musicale (vocale) alla luce della dottrina cristiana – nelle sue connessioni da un lato con l’antichità classica, dall’altro col giudaismo – e delle regole impartite ai cantori. In secondo luogo i tòpoi legati alla musica ed in particolare alla voce, anche qui con un doppio riferimento alle fonti classiche e a quelle bibliche. Infine la parte relativa alla suddivisione e definizione della voce e dei vari atti fonatori: ai teorici era già infatti chiara la distinzione tra vocalità e oralità, tra fonhv e lovgo", e molti di essi ricercano una classificazione soddisfacente attraverso la quale porre ordine nell’universo dei suoni ‘naturali’, dal grido della belva al vocalizzo del cantore, attraverso una vasta gamma di possibilità intermedie.


Gioia Filocamo, Numeri "servi" o "padroni"? Un’ipotesi sulla funzione del Codice Panciatichi 27

All’interno del codice musicale Panciatichi 27 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, sessanta composizioni riportano una particolarità interessante: un’indicazione numerica, priva di qualsiasi spiegazione che ne chiarifichi la funzione, posta alla fine di una o più voci di ogni pezzo. Mediante questo espediente lo scriba ha riportato la somma dei valori di semibreves contenuti in ogni parte considerata, escludendo dal conteggio la longa finale. Ma qual era lo scopo reale di tali indicazioni? La particolarità del fenomeno è già stata brevemente discussa da Jeppesen negli anni ‘60: tali cifre rappresenterebbero "segni di controllo attraverso i quali lo scriba si assicurava del riconteggio per la copia della sua versione da altre fonti che non sono state rintracciate". Tale spiegazione lascia però perplessi: che senso può aver avuto limitare le segnalazioni numeriche solo ad un terzo dell’intero repertorio del manoscritto, dato che il redattore musicale è rimasto lo stesso per la maggior parte dei brani senza numeri?

Forse è possibile produrre almeno altre due spiegazioni sulla presenza delle cifre arabe nel codice: a) i numeri – provenienti dalla tabula compositoria o da un antigrafo – potevano servire direttamente agli esecutori o ad eventuali magistri, per confermare le loro ipotesi sull’esattezza dei raggruppamenti ritmici; b) le cifre potrebbero essere state apposte dall’amanuense al solo fine di predisporre una futura ‘esportazione’ del brano o di sezioni di esso sotto forma di contrafactum. I numeri avrebbero allestito vere e proprie ‘piattaforme’ ritmico/melodiche recanti una lunghezza stabilita pronta a migrare agilmente altrove, e la loro presenza avvalorerebbe la possibilità che il Panciatichi 27 sia stato un codice ‘d’uso’. Altri elementi relativi alla confezione editoriale del manoscritto possono dare manforte ad un’ipotesi di questo tipo: il suo formato oblungo, ridotto e cartaceo, lo scarso peso, l’assenza di miniature preziose o di lettere capitali finemente decorate, la leggibilità complessivamente agevole del dettato poetico e musicale, la frequente presenza di correzioni e di lezioni musicali alternative. è possibile che l’attività dello scriba panciatichiano non si sia limitata alla semplice copiatura allargandosi verso una più vasta "progettualità musicale" in direzione di fruitori forse "sonanti o cantanti" o forse "esportatori di musica".


Giovanni Zanovello, Leon Battista Alberti e la musica

Umanesimo e polifonia sono considerati termini quasi antitetici dalla grande maggioranza dei musicologi che studiano il Quattrocento. Dall’uscita, nel 1966 dell’importante Music and Cultural Tendencies di Nino Pirrotta i consensi si sono moltiplicati attorno all’ipotesi di una frattura che porrebbe i più importanti intellettuali italiani e l’"unwritten tradition" da un lato, e i cantori del nord dall’altro.

L’analisi di un dialogo di Leon Battista Alberti offre un prezioso spunto per riaprire e aggiornare la discussione. La lode incondizionata della polifonia sacra da parte di una delle figure-simbolo dell’umanesimo impone un ripensamento dei termini in cui la discussione è stata spesso presentata. Come sembra emergere con sempre maggior chiarezza dagli studi artistici e letterari, temi e tendenze della cultura italiana quattrocentesca vanno affrontate rispettando i caratteri di varietà e complessità che non sempre gli studi moderni hanno sottolineato con sufficiente decisione.

La mia relazione inserisce il dialogo di Alberti nel contesto dell’umanesimo fiorentino, analizza i passi riguardanti la musica e propone alcune idee per una ridefinizione del rapporto tra gli umanisti e la musica polifonica.


Guido Mambella, L’evoluzione delle concezioni zarliniane circa il fondamento matematico della musica

Nella mia relazione intendo dimostrare come nell’opera di Zarlino si passi da una tradizionale dipendenza della musica dal numero ad una decisa affermazione della natura continua delle grandezze musicali: dal primato della quantità discreta a quello della quantità continua, dal fondamento riconosciuto nel numero sonoro a quello nel corpo sonoro, dalla subordinazione all’aritmetica a quella alla geometria.

Quest’evoluzione non mi sembra sia stata finora riconosciuta dalla recente storiografia della teoria musicale: in Quantifying Music (1984), ad esempio, H. F. Cohen vede in Zarlino solo lo strenuo difensore del ‘senario’ vale a dire delle basi numeriche della musica, ignora completamente (allo scopo di opporre Zarlino ai protagonisti della nuova scienza del ’600) i Sopplimenti del 1588 in cui il primato della geometria è esplicitamente dichiarato: considerando le sole Istitutioni non coglie gli elementi di novità (proprio riguardo alle basi scientifiche della musica di cui il suo libro si occupa) che il confronto fra le diverse edizioni permette di riscontrare. In particolare il significativo riconoscimento del corpo sonoro, in opposizione al numero sonoro, appare il vero oggetto della musica. Palisca, in Humanism in Italian Renaissance Musical Though (1985), è ben altrimenti sensibile all’evoluzione delle idee di Zarlino, soprattutto in relazione alla polemica con V. Galilei, e rileva anche l’approfondimento teorico e critico rappresentato dai Sopplimenti; rinuncia tuttavia a renderne conto compiutamente e non vi ritornerà in altri suoi contributi successivi; eppure la questione del fondamento aritmetico o geometrico della musica si poneva al cuore della polemica fra il maestro di cappella di S. Marco e il teorico della Camerata fiorentina.

In questa situazione non sorprende che la storiografia corrente assegni comunemente e acriticamente all’Harmonices mundi di Keplero (1619) il primo deciso attacco alla tradizionale associazione tra musica e aritmetica, e ignori così che già in L. Fogliano, Musica theorica (1529), il numero in musica fosse destituito di fondamento reale e concepito solo operativamente. La critica dello statuto quadriviale della musica (che ancora Fogliano per primo avanza anche a proposito della divisione geometrica del comma) è accolta da Zarlino (dapprima senza coglierne le implicazioni e dunque non senza incongruenze), e quindi da lui originalmente sviluppata.

La considerazione della totalità dell’opera di Zarlino (le opere astronomiche forniranno chiarimenti circa l’insistito accostamento nei Sopplimenti fra musica e astronomia e circa gli scostamenti dalla tradizionale teoria della subalternazio fra le scienze quadriviali) dalle Istituzioni del 1553 a quelle del 1589, con una particolare attenzione ai Sopplimenti del 1588, nonché lo studio, finora mai condotto, delle note manoscritte di Zarlino al De Musica di F. Salínas (delle quali preparo l’edizione) mi permetteranno di illustrare questo spostamento teorico verso la geometria (e in certa misura di chiarirne le ragioni), considerato in relazione a tre ordini di questioni attinenti al fondamento matematico della musica: il problema dell’oggetto, o sublectum, di questa disciplina, l’articolazione dell’opposizione fra continuo e discreto, infine le implicazioni connesse alla giustificazione teorica dei temperamenti.


Salvatore Radaelli, L’impresa di Zarlino

La tendenza di certa storiografia alla svalutazione della cultura accademica del secolo XVI ha fatto sì che la cosiddetta ‘arte delle imprese’ – una delle manifestazioni più caratteristiche di quella cultura – sia stata spesso considerata come un vuoto passatempo di letterati. Tale tendenza non ha risparmiato l’ambito musicologico che ha talvolta trascurato il contenuto musicale della codifica emblematica.

Intento della relazione è mostrare che le premesse teoriche dell’impresistica accademica di contenuto musicale toccano aspetti centrali della musica theorica, la cui indagine può aprire nuove prospettive per la determinazione dello stesso statuto dell’opera musicale tardorinascimentale.

A questo scopo si considerino brevemente due imprese, una ‘reale’ e una ‘virtuale’. La prima è l’impresa personale di Gioseffo Zarlino, illustrata in un breve trattato di Giovanni Maria Artusi. La seconda è quella suggerita da Fabio Paolini nelle Hebdomades, sive Septem de Septenario libri (Venezia, 1589). Quest’opera singolare si configura infatti come una vera e propria impresa in forma di trattato: si articola intorno ai due elementi costitutivi di ogni configurazione emblematica, l’immagine e il motto. Proposito dell’autore è illustrare i significati nascosti in una immagine (Orfeo che canta accompagnandosi con la lira setticorde) mediante una esegesi esoterico-sapienzale di un motto (un verso dell’Eneide). Quanto poi al contenuto e alla struttura interna, le Hebdomades si configurano come una enciclopedia delle discipline contemplative, dove ampio spazio è dedicato alla musica.

Si individuano così alcuni aspetti della codifica emblematica in relazione alle principali tematiche filosofiche e musicali, tra le quali il ruolo della musica nella cosiddetta tradizione occulta, la posizione dell’arte musicale tra discipline matematiche e filosofia naturale, il rapporto non accessorio o casuale tra rappresentazione emblematica e composizione musicale. Particolare risalto assume comunque la dimensione matematica sia nelle sue implicazioni mistiche ed esoteriche, sia nei suoi sviluppi ‘progressivi’ rivolti all’evoluzione del rapporto tra approccio aritmetico e approccio geometrico alla consonanza, un tema che tanta importanza avrebbe poi avuto in ambio teorico-musicale.


Antonio De Lisa, La "funzione Ives" nella musica del Novecento

Il titolo dell’intervento fa riferimento ad un famoso saggio di Gianfranco Contini sulla "funzione Gadda" nella letteratura italiana di questo secolo. Il grande filologo argomentava come lo scrittore lombardo avesse potuto avere una "funzione" tra gli scrittori italiani più sperimentali del Novecento, anche fra coloro che magari non ne fossero affatto consapevoli. In quella prospettiva la scrittura gaddiana era vista come l’epifenomeno di un bisogno incoercibile ad uscire dal recinto delle "buone maniere". La tensione linguistica gaddiana, che un filologo poteva percepire in tutta la sua portata, era inarcata da una tensione metafisica inespressa.

Fatte le debite proporzioni, mi propongo in un certo senso di individuare una delle origini comuni – la musica di Ives – di un secolo che potrebbe essere utilmente indagato, e con qualche profitto, dal punto di vista della rottura delle tradizioni musicali passate. Ives – e con lui i compositori americani o americanizzati (Varése) – portano alle estreme conseguenze una rivoluzione nel concetto di suono già ampiamente presente nelle opere di Wagner e Debussy, ma con una disinvoltura tutta americana a scaricarne le tensioni in un visionario affresco sonoro. In Europa invece questa rottura assumeva i tratti di una tendenza travagliatissima con venature tragiche.

Per nutrire qualche speranza di unificare il punto di vista su questi fenomeni, si può forse parlare di dimensione "metafisico-sperimentale" della musica di questo secolo (uso di proposito una endiadi per chiarire che non si tratta solo di metafisica o di sperimentalismo: è metafisica intrisa di costruttivismo sperimentale; sperimentalismo saturo di sensi di colpa "culturali" e affannosamente alla ricerca di una giustificazione "metafisica"). Questo tipo di musica è un Giano bifronte, intrinsecamente problematico perché volontariamente, e consapevolmente fuori dalla tradizione. Coloro che si pongono fuori dalla casa avita sono quindi "irregolari", "isolati", "caminantes", ma proprio per questo in posizione privilegiata a cogliere il terremoto quando si presenta.

Occorre, comunque, precisare che se da questa visuale Ives appare un pioniere, in sede analitica è necessario scindere nell’arcata tematica della musica del compositore americano i due tratti che ci fanno parlare di metafisica e di sperimentalismo per poterne cogliere i tratti pertinenti. La dimensione ideale di Ives fa riferimento – come è noto – al trascendentalismo americano. Quella specificatamente musicale apre un nuovo territorio nella bipolarità carica di tensioni tra "microtonalismo" e "poliritmie". Il risultato è un panorama a fresco del secolo, con tratti di epocali aperture evocative, colto nella sua parabola nascente e tuttavia definitivo. Il ritratto sonoro del "secolo americano".


Luca Conti, Il dibattito sulla dodecafonia in Italia (1924-1942): note per un’indagine lessicografica

Questo intervento rende conto di una ricerca cronologicamente più ampia (1911-1962), sorta dall’invito di Raffaele Pozzi e originata dal Convegno di studi su Gino Contilli (S. Felice Circeo, 22 giugno 1997). La comparsa del termine ‘dodecafonia’ in Italia, come hanno notato Luigi Pestalozza e Fiamma Nicolodi, risale a un saggio di Domenico Alaleona del 1911. Il termine viene presto associato ad Arnold Schönberg, molto prima della formulazione del suo "metodo di comporre con dodici note che stanno in relazione solamente tra di loro", che in Italia sarebbe diventato sinonimo di ‘dodecafonia’ sul finire degli anni ’30: la prima comparsa del termine in un dizionario musicale, come traduzione italiana di zwölftonmusik, risale al 1940. A partire dai primi anni ’20 il termine ‘dodecafonia’ è adoperato nel senso di ‘tonalità sospesa’, ‘atonalità’, ‘pancromatismo’, ma significativa è anche la sua assenza là dove il metodo schönberghiano venne esaminato da un punto di vista tecnico, in traduzioni e resoconti di articoli in lingua tedesca. Guido M. Gatti tenta di differenziare una dodecafonia "buona" (nella tonalità), come nel caso di Alfredo Casella, da una "cattiva", quella di Schönberg. Nel 1925, per la prima volta, si nominano le "serie di 12 note". La fase di incertezza semantica dura fino alla metà degli anni ’30, quando ci si riferisce alle ‘composizioni dodecafoniche’ e al ‘sistema dodecafonico’ in senso chiaramente schönberghiano. Luigi Dallapiccola nel 1936 descrive in dettaglio quello che definisce il ‘sistema dodecafonico’ di Schönberg e nel ’39 menziona le ‘serie dodecafoniche’. Nel ’38 anche Herbert Fleischer parla di ‘composizione dodecafonica’ e di ‘sistema dodecafonico’. All’inizio degli anni ’40 il processo di chiarificazione semantica della dodecafonia può dirsi giunto a una prima significativa svolta.


Marco Uvietta, Dopo Debussy, prima di Messiaen: coordinate di una ‘koinè’ ritinico-metrica francese.

È nota l’avversione di Messiaen per una concezione ritmica governata dalla pulsazione isocrona regolare: in questo atteggiamento è leggibile un sintomo di stanchezza per il ritmo ‘tetico-meccanico’, categoria compositiva tra le più rilevanti della koinè musicale francese nel periodo fra le due guerre. Per reazione all’epoca precedente, il bisogno di concretezza dell’avanguardia parigina degli anni venti (di cui il gruppo dei Sei costituì il fenomeno più appariscente, ma non esclusivo) cercava schiettamente il tempo forte, laddove l’anelito sospensivo della sensibilità tardo-romantica ed impressionistica tendeva costantemente ad eluderlo. L’attitudine a scoprire l’impalcatura metrica, conferendole il carattere del meccanismo tangibile, è espressione del dépouillement perseguito dai giovani compositori francesi di quell’epoca: riduzione dei mezzi e semplificazione, parole d’ordine che riassumono il rigetto per la complessità del misterioso mondo debussiano, si concretizzano in primo luogo in una tendenziale coincidenza fra ritmo e metro, laddove la metrica regolare (con le sue implicazioni formali) esprime per lo più la rassicurante prevedibilità del ritorno. Com’è noto, questa pulsazione isocrona favorisce in quegli anni l’incontro con la ritmica percussiva del ragtime e del jazz da una parte, con la quadratura ritmica tardo-barocca dall’altra. Sulla base di questa premessa alcune osservazioni di Messiaen assumono un valore storico non trascurabile: egli esprime esplicitamente la sua avversione sia per la pulsazione regolare della marcia e del jazz, che egli considera "antiritmica", sia per il moto isocrono continuo delle fughe di Johann Sebastian Bach; avversione, quest’ultima, nella quale dobbiamo senz’altro leggere un sintomo di stanchezza non tanto nei confronti di Bach, quanto della natura tetico-meccanica della fuga neobarocca. Con questa critica diretta ai paradigmi stessi dell’atteggiamento ritmico dell’avanguardia parigina del primo dopoguerra viene palesata una realtà evidente almeno dalla fine degli anni venti: la cessazione del carattere di ‘modernità’ del ritmo tetico-meccanico e la sua assimilazione alla retorica di un costruttivismo di maniera.

L’attitudine ritmica di molti compositori attivi in Francia fra le due guerre è definibile dunque per contrasto rispetto a ciò che la precede (Debussy) e a ciò che la segue (il primo Messiaen, il cui debito nei confronti di Debussy è consistente anche sul piano ritmico): scopo di questa ricerca è tuttavia l’individuazione dei nessi fra concezioni ritmiche apparentemente contrastanti, con particolare riferimento al ruolo di Stravinskij, che pur avendo contribuito in modo determinante all’affermazione di una koinè tetico-meccanica, influì profondamente anche sull’invenzione ritmica del giovane Messiaen.


Mauro Mastropasqua, L’essenza dell’atonalità

Spiegare come funzioni l’atonalità è possibile con il decisivo apporto di una visione fenomenologica. L’esperienza di un effetto atonale è un’intuizione essenziale di alcune proprietà logiche, in un certo senso "razionali e necessarie" dell’ascolto e del pensiero musicale, valevoli intersoggettivamente. L’atonalità, se considerata come oggetto intenzionale (su cui, cioè, ci si concentra per percepire una qualità in opposizione a ciò che è tonale) ha una essenza o forma tipica che è comune ad autore e fruitore. Questa essenza anti-tonale è rappresentata dal principio dei "suoni oppositivi". Data una nota che risulterebbe decisiva per il potenziale effetto tonale di un contesto sonoro, esistono solo tre note in grado di opporsi a tale effetto: quelle in relazione di seconda-minore e/o di tritono rispetto alla nota in questione.

Il principio dei "suoni oppositivi" non è una riproposizione della vecchia idea della "tonalità nascosta" nella atonalità. Gli elementi anti-tonali si oppongono a ciò che l’orecchio sarebbe portato a captare come effetto tonale se tali elementi non fossero lì ad impedirlo. Non si tratta quindi in alcun modo di una "spiegazione" del processo compositivo. Questo principio può tuttavia descrivere non solo la forma ideale, l’essenza eidetica, della atonalità, ma anche lo specifico carattere individuale di uno stile atonale. Un campione costituito da una ventina di esordi da opere atonali di Schönberg del periodo 1908-1914 mostra come i percorsi funzionali virtuali che vi sono impliciti siano contrastati soprattutto da "opposizioni" di settima maggiore.

Il contributo epistemologico del principio dei "suoni oppositivi" ad una teoria dell’analisi risiede nel fatto che tale principio mostra come l’esercizio, da parte dell’ascoltatore e dell’analista, della propria intenzionalità possa aderire a quella che traspare dal testo (e non esserne lontano, in nome di una concezione astratta dell’oggettività). Allo stesso tempo, come principio che può essere facilmente appreso e insegnato, esso mostra come un approccio fenomenologico alla musica non sia un’astrazione, ma possa invece fare di un’ermenutica analitica, una pragmatica.


Angelo Pinto, Il probabilismo della forma nel "Kammerkonzert" di Gyorgy Ligeti e in "Quadrivium" di Bruno Maderna

Lo scopo della ricerca condotta nella tesi di laurea discussa presso il Dams di Bologna nell’anno accademico 1997-98, relatore il prof. Mario Baroni, dimostra come in due composizioni, Kammerkonzert di Gyorgy Ligeti (1970) e Quadrivium di Bruno Maderna (1969), si ripristinino alcuni aspetti formali della tradizione tonale in deroga ai dogmi seriali degli anni ’50.

La prima parte della comunicazione definisce gli aspetti formali tonali presi in esame e per far ciò si avvale di nozioni proprie della Musie Theory. Si individuano così proprietà della forma quali la "segmentabilità", i "fattori di coesione e distinzione", la "gerarchia", la "vicenda formale", e si pone in luce poi come questi aspetti afferiscano sul piano semantico ad una rappresentazione del tempo in divenire, organico e direzionato.

Nella seconda parte si dimostra come questi aspetti vengano sistematicamente limitati nel post-webernismo di Darmstadt, e come si abbia di conseguenza una rappresentazione del tempo disorganica, non direzionata, antitetica a quella tonale.

Nella terza parte si espongono gli esiti di un’analisi effettuata sulle due opere tramite un paradigma analitico ad hoc di impronta statistica, finalizzato alla ricerca sistematica degli aspetti formali teorizzati nella prima parte.

In conclusione si argomenta come il recupero di questi aspetti nelle due opere realizzi una rappresentazione del tempo della probabilità, una dimensione terza rispetto a quella tonale e a quella seriale.


Susanna Pasticci, Lo studio della musica seriale: intenzione compositiva e ralizzazione sonora

L’importanza dello studio degli schizzi ai fini di una più profonda comprensione delle opere musicali è questione controversa e ampiamente dibattuta: nel caso della musica seriale, in particolare, l’ampia disponibilità di fonti che documentano il processo genetico delle composizioni pone lo studioso di fronte a una serie di importanti problemi di carattere metodologico e interpretativo. Se infatti, come afferma Joseph Kerman, "lo studio degli schizzi influenza la nostra comprensione di un’opera mettendoci all’erta su alcuni punti specifici dell’opera stessa, i quali turbarono il compositore", nel campo della musica seriale l’esame degli schizzi consente non solo di individuare chiaramente i nodi problematici del processo creativo, ma spesso anche di ricostruire le varie fasi del percorso genetico dell’opera, dalla formulazione degli assunti iniziali alla valutazione delle ipotesi alternative, dall’invenzione dei processi di elaborazione dei materiali alla realizzazione della partitura nella sua veste compiuta. La possibilità di percorrere una via d’accesso privilegiata alle intenzioni del compositore, favorita oltre che dalla disponibilità delle fonti anche dalla tendenza del pensiero seriale a configurare il lavoro creativo come un procedimento di "costruzione" logica di materiali e processi, rappresenta tuttavia solo una delle molteplici prospettive utili alla definizione di un coerente percorso interpretativo di questo repertorio, dal momento che il significato di un’opera musicale non risulta in alcun caso confinabile entro i limiti angusti della sua genesi. I risultati di uno studio sistematico condotto sulla musica italiana degli anni cinquanta evidenziano infatti una profonda divaricazione tra l’organizzazione strutturale dell’opera che emerge dalla ricostruzione della sua genesi e l’immagine sonora del pezzo delineata dall’esperienza percettiva e dall’analisi induttiva della partitura. La discussione di un caso emblematico, rappresentato dalla Composizione in tre tempi (1954) di Bruno Maderna, consente di chiarire i termini della questione attraverso un confronto diretto tra i risultati dello studio del processo creativo, condotto attraverso l’esame degli schizzi conservati presso la Paul Sacher Stiftung di Basilea, e un’analisi della partitura basata sull’esperienza d’ascolto: si rivela così che soprattutto attraverso l’indagine delle varie possibilità di interazione tra intenzione compositiva e immagine sonora dell’opera può misurarsi il potenziale espressivo e comunicativo dell’esperienza della musica seriale.


Michela Garda, Teorie strutturaliste e modelli musicali: ipotesi a confronto

Tra la fine degli anni cinquanta e la fine degli anni sessanta la cultura francese è stata dominata dallo strutturalismo, un termine che indica tanto teorie linguistiche e antropologiche quanto un atteggiamento nei confronti dei dati culturali che prescinde dai singoli contenuti per individuare invece la legge che ne coglie l’organizzazione in un sistema coerente e interrelato. Molti strutturalisti, dal Lévi-Strauss di Il crudo e il cotto all’Eco al contempo critico e interprete di questa corrente di pensiero in Opera aperta e La struttura assente, scelsero il linguaggio musicale come esempio emblematico per misurare la tenuta della propria concezione di struttura. A partire dagli anni settanta, inoltre, si sono sviluppate tecniche di analisi musicale riconducibili alla concezione strutturalista che vanno sotto il termine collettivo di semiologia della musica, disciplina che si è conquistata una posizione riconosciuta all’interno della musicologia. Nell’ambito di un ripensamento storico delle estetiche e poetiche musicali del secondo Novecento lo scambio interdisciplinare tra musica e pensiero strutturalista risulta un episodio non sufficientemente approfondito e ridotto al dibattito sulla legittimità estetica della musica seriale i cui principali attori furono Boulez, Lévi-Strauss, Rouwet, Pousseur ed Eco. Quale fu il peso effettivo del modello musicale per lo strutturalismo inteso come tendenza di pensiero e non soltanto come metodologia delle scienze umane? Viceversa, l’impatto del pensiero strutturalista sulle poetiche musicali tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta fu tale da poter ipotizzare l’esistenza di poetiche strutturaliste? Si tratta di due questioni distinte ma interconnesse la cui indagine può offrire una chiave per approfondire la storia della musica e della cultura di quegl’anni da una prospettiva svincolata dalle polemiche contemporanee.

Una direzione fondamentale di questa indagine sarà individuare come funziona la nozione di struttura all’interno del concreto procedimento compositivo di alcune composizioni seriali (scelte in base ai materiali individuati nell’archivio della Fondazione Sacher a Basilea, fondi Boulez e Maderna). Da una prima indagine del significato del termine struttura negli scritti di Boulez emerge la contrapposizione di questa nozione con la concezione architettonica della forma improntata da una gerarchia distributiva, e l’idea della struttura come organizzazione del materiale musicale in vista del suo dispiegamento nello spazio sonoro, ma non coincidente con la realizzazione dell’opera stessa.

Fra le fonti teoriche già individuate per questa indagine vanno ricordate le riviste "Incontri musicali" e "Die Reihe", l’"Ouverture" a Il crudo e il cotto di Claude Lévi-Strauss, Note di apprendistato di Pierre Boulez.


Donatella Bucca e Nicola Scaldaferri, Musica liturgica bizantina nell’Italia meridionale: testimonianze scritte e tradizioni orali

L’intervento intende fare il punto della situazione di una ricerca avviata nella primavera del 1997 sulla musica liturgica bizantina nell’Italia meridionale, nel quadro di un’indagine più ampia dei rapporti tra oralità e scrittura nei repertori musicali liturgici, condotta sotto la supervisione di F. Alberto Gallo e Roberto Leydi.

Introdotta in epoca medievale dai monaci basiliani, la tradizione bizantina nell’Italia meridionale viene fortemente rinvigorita nel XV secolo con l’arrivo delle popolazioni arbereshe; grazie alla tolleranza della Chiesa di Roma, ricambiata con il riconoscimento dell’autorità papale, esse continuano a praticare il rito orientale in tutti i suoi aspetti.

Il canto liturgico bizantino tradizionale praticato nelle comunità arbereshe presenta dei tratti singolari. Numerosi studiosi hanno sottolineato come questa tradizione possa costituire un valido aiuto nella lettura dei più antichi codici melurgici di cui è andata persa la chiave interpretativa a causa delle numerose riforme del canto bizantino (in particolare la riforma di Crisanto del secolo scorso che ha dato vita al canto bizantino moderno).

È stato preso in esame un gruppo omogeneo di quattro codici musicali greci pregevoli per la ricchezza, la varietà e la peculiarità del contenuto melodico e per la presenza della notazione musicale medio-bizantina, cioè la prima forma di neumi bizantini che si possa decifrare.

L’esame comparato dei dati codicologici e paleografici dei quattro testimoni, di cui solo uno presenta una sottoscrizione con la data e il nome del copista oltre ad una sicura indicazione di origine dal monastero del SS. Salvatore di Messina, ha permesso di formulare un’ipotesi circa la datazione (prima metà del XIII secolo) e la localizzazione dei manoscritti considerati (territorio soggetto all’influenza del SS. Salvatore, se non addirittura lo stesso monastero). D’altro canto l’uniformità della tradizione melodica e le affinità testuali riscontrate sembrano confermare non solo un’origine comune, ma anche l’esistenza di una tradizione musicale locale, sviluppatasi attorno all’archimandritato del SS. Salvatore. In effetti i quattro codici sono i soli esempi conosciuti di un tipo particolare di libro liturgico-musicale italo-greco che riunisce in un unico volume i contenuti di due libri originariamente separati: lo Psaltikon e l’Asmatikon. Dunque tale fenomeno, in quanto non imita modelli preesistenti, si potrebbe ricollegare a una tradizione musicale specifica dell’Italia meridionale ellenofona su cui, fin da principio, giocò un ruolo dominante il SS. Salvatore in Lingua Phari, il più antico e potente dei monasteri greci della Sicilia normanna.

Purtroppo negli ultimi decenni anche presso le comunità arbereshe è iniziata la diffusione del canto bizantino moderno, mentre quello tradizionale, tramandato oralmente, è in totale disuso e rischia di sparire.

Nel corso della ricerca è stata eseguita la registrazione completa della liturgia di Giovanni Crisostomo, nel tono festivo e funebre, grazie alla collaborazione di papas Emanuele Giordano, l’anziano parroco di Ejanina (CS).


Massimiliano Locanto, La tradizione di una speciale tipologia tropistica dell’area sangallese in Italia Settentrionale

La tipologia presa in esame nel presente lavoro è ben nota agli studiosi dei tropi liturgici: oltre ad aver attirato l’attenzione in tempi recenti (soprattutto G. Björkvall e A. Haug), essa ha rappresentato a lungo la principale roccaforte per i sostenitori della teoria – oggi perlopiù accantonata – che vedeva nella tecnica della testuazione dei melismi l’origine ultima di tutte le categorie tropistiche. Sullo sfondo è, quindi, un problema di estremo interesse storico-musicale. I brani in questione presentano, infatti, in alcuni dei più antichi manoscritti di area sangallese (SG 484, SG 381 e Wi 1609), caratteristiche paleografiche e stilistiche eccezionali. Alcuni di essi appaiono come prolungamenti puramente neumatici privi di testo, posti al termine delle semifrasi del canto base – per la qual cosa sono stati definiti "meloformi". Altri invece mostrano, in modo analogo alla situazione delle sequenze, una duplice scrittura: a) solamente melismatica (neumi adiastematici); b) con testo, in stile rigorosamente sillabico. Tale situazione pone innanzitutto un problema di tipo interpretativo che ha creato non pochi imbarazzi anche a molti editori non sufficientemente attenti all’aspetto musicale. A differenza dei "meloformi", molti dei brani appartenenti alla seconda categoria hanno continuato ad essere ricopiati nei manoscritti successivi, raggiungendo presto l’Italia settentrionale.

Nella tradizione manoscritta, tuttavia, la particolarità della duplice notazione scompare a favore della sola forma testuata; di pari passo, significativamente, lo stile perde l’originario carattere rigorosamente sillabico, e suoni ornamentali di vario tipo fanno la loro comparsa. Il presente lavoro si propone di suggerire un’interpretazione di questo fenomeno che tenga conto delle particolari modalità di trasmissione dei repertori tropistici – essenzialmente legate alla scrittura –, delle mutazioni stilistiche generali del repertorio tra i secoli IX e XI, ma anche e soprattutto degli specifici orientamenti stilistici delle località ricettrici con i quali i recenti studi sui repertori locali italiani ci hanno oramai familiarizzato.


Marco Gozzi Antonio Lovato Anna Vildera, Progetto Archangelus. Archivio fotografico e indice informatico dei manoscritti medievali e rinascimentali di monodia liturgica di teoria musicale e del relativo materiale iconografico

Nel 1997 le Università di Padova, Bologna e Urbino hanno attivato un programma di ricerca integrato, denominato "Archivio fotografico e indice informatico dei manoscritti medievali e rinascimentali di monodia liturgica, di teoria musicale e del relativo materiale iconografico" (Archangelus). Il progetto, approvato dal MURST, che ne ha riconosciuto l’interesse nazionale, è coordinato da Giulio Cattin ed è suddiviso in più unità di ricerca, guidate da F. Alberto Gallo e Francesco Luisi.

Lo scopo principale del progetto è la costituzione e l’indicizzazione informatica di un archivio formato da microfilms e fotografie di documenti attinenti alle discipline storico-musicali dei secoli XII-XVI conservati nelle biblioteche italiane e straniere, in vista del graduale censimento dei beni culturali. La raccolta si limita a fonti di origine italiana e comprende: manoscritti liturgico-musicali relativi ai repertori della messa e dell’ufficio; manoscritti delle fonti teoriche e dei testi poetici in volgare destinati alla musica; fonti del repertorio frottolistico; documenti di iconografia musicale.

Alla realizzazione della prima fase del programma contribuiscono numerosi collaboratori specializzati che, distribuiti in vari gruppi operativi, stanno procedendo alla catalogazione di libri di canto liturgico significativi dal punto di vista dei repertorio, dell’area geografica e della cronologia. Lo strumento fondamentale di lavoro è il programma informatico Archivium, costituito da una scheda-tipo funzionale alle caratteristiche dei libri liturgico-musicali, che permette di indicizzare tutte le sezioni delle composizioni e le immagini ad esse collegate. Ogni fonte è introdotta da un’accurata descrizione codicologica (o delle stampe) ed è accompagnata da alcune riproduzioni fotografiche.

L’esito della ricerca sarà un CD-ROM articolato in varie sezioni, nel quale verranno raccolte tutte le schede e le immagini di carattere musicale. Tappa intermedia del progetto è la pubblicazione dell’Iter Liturgicum Italicum, un inventario delle fonti liturgico-musicali italiane nella forma di una banca-dati a cura di Giacomo Baroffio.

I promotori dei progetto si augurano che l’elaborazione comparativa dei dati indicizzati possa realizzarsi in una successiva fase del programma.


Gruppo di lavoro "Cacciando per gustar": S. Campagnolo, e studenti DAMS, Repertorio-incipitario della musica profana italiana 1300-1415

Cacciando per gustar è un progetto che vuole aggregare giovani medievisti attorno a temi e iniziative di ricerca. In particolare i promotori, che provengono da esperienze diverse e hanno competenze complementari, si incontrano al fine di coltivare – e soprattutto contribuire a diffondere – lo studio della tradizione musicale tardomedievale, specialmente italiana. L’incipit della caccia polifonica di Antonio ‘Zacara’ da Teramo, a cui il gruppo si richiama, sintetizza il comune interesse per repertori non sufficientemente noti e apprezzati, e la cui relativa marginalità nei circoli accademici non agevola le condizioni per la ricerca. Alla giornaliera attività di ognuno, nell’adeguamento delle ricostruzioni storiche, di studi ed edizioni di testi poetici e musicali alle più recenti scoperte e metodologie, si tenta di affiancare un’iniziativa che da una parte si preoccupi di stimolare il confronto, dall’altra di avvicinare e coinvolgere i più giovani e i non specialisti alla produzione di contributi originali, promuovendo attività didattiche e in genere lo studio della letteratura medievistica.

Nasce così il proposito di porre al centro di un seminario di livello universitario – inserito fra le attività collaterali del corso di Storia della musica DAMS di Bologna, ma aperto alla partecipazione di chiunque – la realizzazione di una riedizione ed ampliamento degli Studien zur italienischen Musik des Trecento und frühen Quattrocento, opera con la quale nel 1956 Kurt von Fischer censì e considerò nel suo complesso le testimonianze manoscritte delle composizioni polifoniche del Trecento italiano. Da allora la loro consistenza si è notevolmente accresciuta, per le successive scoperte di codici e frammenti, e sono pure mutati i possibili approcci alle fonti e al repertorio; il che rende necessaria l’acquisizione di una maggiore quantità d’informazioni sulle singole composizioni, correlate a dati codicologici, paleografici, paleografico-musicali delle singole versioni. Nella prima fase del progetto, le testimonianze sono state vagliate per la definizione degli elementi da rilevare: ne è risultata la necessità di realizzare un più ampio Database della musica profana italiana 1300-1415 da cui estrarre le informazioni da pubblicare a stampa in uno strumento bibliografico di uso generale, ma che possa fornire allo studioso interessato la possibilità d’interrogazioni complesse sull’intero corpus dei dati. Reale innovazione rispetto agli Studien di von Fischer sarà l’inclusione di un incipitario musicale in notazione originale, anche codificato in versione elettronica – il cui formato numerico è in corso di definizione – che consentirà interrogazioni, primi confronti e analisi.

Le due versioni dell’opera di cui si progetta la pubblicazione (un Repertorio-incipitario a stampa e una editio maior su CD-Rom) saranno inoltre corredate d’informazioni di carattere storico e repertoriale, di schede descrittive sui singoli manoscritti, sulle forme e sui compositori, di rilievi statistici sul complesso delle testimonianze, nonché di brevi saggi su argomenti specifici. Un sito internet, infine, potrà sia provvedere a successive integrazione e aggiornarnenti bibliografici, sia ospitare altri materiali ed interventi, nonché consentire il collegamento con altri strumenti on-line, una sorta di forum per la ricerca sul repertorio tardomedievale italiano, per il quale si auspica la collaborazione con altri singoli studiosi ed enti, non esclusivamente musicologici, anche nel quadro di altre iniziative editoriali, didattiche e di ricerca.

I partecipanti al seminario – di durata triennale e strutturato su due livelli, realizzato con il fattivo concorso dell’Associazione culturale "Il Saggiatore musicale" – collaborano non solo all’acquisizione dei dati ma anche alle scelte metodologiche, nonché all’odierna presentazione dello stato di avanzamento del progetto.


Nicoletta Guidobaldi, La rappresentazione dei miti musicali e della musica "antica" nell’immaginario del primo Rinascimento

A partire almeno dalla metà del Quattrocento, in Italia si verifica un imponente fenomeno di recupero e reinterpretazione dei principali miti musicali dell’Antichità, ad opera di artisti e letterati umanisti. Le figure di Orfeo, di Amfione, di Apollo e delle Muse sono rappresentate, con frequenza crescente, in dipinti, incisioni e rilievi, sono inserite nei più elaborati programmi iconografici celebrativi, e sono messe in scena nel corso delle feste di corte. Nonostante l’esistenza di contributi importanti su alcune raffigurazioni o rappresentazioni particolari, manca ancora uno studio che consideri il fenomeno nella sua globalità, e che ne metta a fuoco le peculiarità rispetto ad altre forme di "recupero" dell’antico. Questa ricerca si propone dunque di studiare la rappresentazioni dei miti musicali nell’immaginario del primo Rinascimento, sia in relazione ai possibili "modelli" letterari ed iconografici, sia rispetto alle riflessioni umanistiche sulla musica antica.

La prima fase del lavoro consisterà nel censimento di raffigurazioni, di programmi iconografici e di descrizioni letterarie di feste a soggetto mitologico, e nella compilazione di schede descrittive. Lo studio di questi materiali – fra quelli individuati finora, almeno una ventina di cicli decorativi mai studiati da questo punto di vista – tenderà essenzialmente alla ricostruzione della "genealogia iconografica’ delle immagini, attraverso l’identificazione delle loro diverse componenti: modelli letterari e figurativi, allusioni ad esperienze musicali coeve, a personaggi o ad eventi riconoscibili. Un’attenzione particolare verrà dedicata all’identificazione della fonti figurative antiche utilizzate nella rappresentazione dei miti musicali (alcuni degli strumenti inseriti da Raffaello nel suo Parnaso, per esempio. sono ispirati ai rilievi dei cosiddetto "sarcofago Mattei"). Questa parte della ricerca integrerà, in direzione musicale, gli studi sull’impatto dei modelli figurativi dell’Antichità sulle rappresentazioni rinascimentali condotti dal Warburg lnstitute, e parzialmente confluiti nel volume curato da Phyllis Bober e Ruth Rubinstein. La ricerca darà luogo alla pubblicazione di un repertorio iconografico che costituirà, a sua volta, il punto di partenza per indagini incrociate sulla circolazione dei temi iconografico-musicali (Apollo e le Muse, Orfeo, il Parnaso), oltre che per approfondimenti sui significati specifici che questi temi rivestirono nei diversi ambienti (le corti nordiche, la corte papale, la cerchia dei neoplatonici fiorentini dell’età laurenziana, ecc.).


Giorgio Bussolin - Stefano Zanus Fortes, Il manoscritto DCCLIX della Biblioteca Capitolare di Verona

La Biblioteca Capitolare di Verona – straordinaria istituzione culturale di secolare tradizione – ospita, accanto ad altri eccezionali documenti, una collezione di otto manoscritti musicali rinascimentali di notevole importanza. Detti manoscritti sono riconducibili con buone probabilità all’area veronese e presentano in prevalenza composizioni sacre polifoniche destinate alle principali sezioni della Liturgia e dell’Ufficio. L’evidente preponderanza del repertorio sacro copiato in essi consente di ipotizzare un legame tra questi codici e la Scuola degli Accoliti, istituzione collegata alla Cattedrale di Verona che probabilmente se ne serviva durante l’esercizio delle proprie attività.

Secondo Alan H. Preston, in un quadro di analogie di repertorio è possibile ritenere che il manoscritto VEcap 759 fosse destinato all’esecuzione da parte degli studenti non ancora giunti ad una completa maturazione esecutiva, a differenza di altri codici della collezione, come il ms. VEcap 758, affidati invece alla competenza dei maestri o quantomeno dei più abili tra gli studenti stessi.

La scelta di trascrivere integralmente il ms. 759 parte dalla considerazione che, all’interno della suddetta collezione, esso contiene un numero elevato di unica, inediti, composizioni spesso appartenenti alla produzione locale e soprattutto legate alla firma di importanti musicisti fiamminghi come Ockeghem, Dufay, Tinctoris.

Nell’aspetto fisico il manoscritto è un codice cartaceo scritto in notazione mensurale bianca, formato da 96 carte e recante due fogli di guardia pergamenacei risalenti all’inizio del XIV secolo. La fascicolazione è regolare, rilegata all’italiana e comprende dieci quinterni. Il repertorio comprende 89 composizioni, in gran parte anonime, che possono essere suddivise, in base alla loro forma e destinazione, in tre sezioni principali. La prima (fasc. 1-5) è fondamentalmente una collezione di musiche per la messa: ben 15 dei 20 pezzi che la compongono sono destinati alla liturgia. Tra questi si evidenziano in particolare cinque messe, rispettivamente di Ockeghem, Berbingant, J. Martini, Tinctoris e P. Congeri. Gli altri brani della sezione sono un Regina Celi, un’antifona per il vespro della Domenica di Pasqua, due inni aggiunti da copisti secondari e un Salve regina di Giovanni Brocco. La seconda sezione (fasc. 6-7) include 42 composizioni esclusivamente dedicate ai vespri: si tratta di un gruppo di 10 Magnificat, di 22 inni per festività particolari (uno dei quali, Iste confessor, attribuito a J. de Quadris), 5 antifone per i vespri della festa di S. Lucia, un Salve regina di Marco Cara, nonché 3 frammenti di salmi diversi e un’antifona per i vespri della Domenica del tempo ordinario. La terza sezione (fasc. 8-10), infine, si può considerare come un supplemento alle prime due: vi sono altri 4 Magnificat, fra cui uno di Martini, una raccolta di 13 salmi, 3 introiti, un Kyrie, 3 inni senza testo (il primo dei quali attribuito a Dufay), e infine il solo cantus di un Salve regina di J. Des Près.

Accanto alla trascrizione delle musiche e alla redazione dei relativi apparati critici è stata condotta un’analisi delle grafie degli scribi intervenuti sul manoscritto. Detta indagine è stata alquanto laboriosa, date le notevoli somiglianze nella grafia, spesso contrastate da altrettante differenze, e per il fatto che i precedenti studi dedicati a questo codice presentano al riguardo notevoli discordanze fra di loro.

L’ipotesi formulata è il frutto di un paziente lavoro di analisi e confronto delle vari grafie, che ha condotto all’individuazione di tre copisti principali e sette secondari. In conclusione, il progetto rende disponibile in edizione moderna l’intero contenuto dei codice 759 e costituisce un primo passo nell’ottica di un confronto tra gli elementi stessi della produzione polifonica veronese, nonché fra tale produzione e il repertorio coevo di altre aree ritenute tradizionalmente importanti come quelle milanese e vaticana.


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