Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Attività 1998

Conferenze e convegni

ABSTRACTS
DELLE RELAZIONE TENUTE AL SECONDO COLLOQUIO DI MUSICOLOGIA.

Paola Barzan - Marinella Ramazzotti - Nicola Scaldaferri, "Folk Songs" di Luciano Berio: testo, fonti, esecuzioni
L’intervento rende conto dello stato dei lavori del seminario di etnomusicologia tenuto dal prof. Roberto Leydi per l’undicesimo ciclo del Dottorato di ricerca in Musicologia. Oggetto della ricerca è l’opera più famosa e meno studiata del compositore ligure, per la prima volta sottoposta ad un approfondito studio critico.
Avvalendosi delle fonti originali (documenti scritti e incisioni) utilizzate da Berio e messe a disposizione dal Prof. Leydi, la ricerca si sta muovendo su tre distinte direzioni curate rispettivamente da Paola Barzan, Nicola Scaldaferri e Marinella Ramazzotti: a) individuazione di tutte le fonti utilizzate da Berio (materiale a stampa, documenti sonori, interviste); b) studio comparato delle fonti e della partitura definitiva, con particolare attenzione al rapporto tra le caratteristiche strutturali originali dei brani e la nuova veste acquisita nella versione di Berio; c) studio delle varie esecuzioni (soprattutto di quella, esemplare, di Cathy Berberian) in relazione ai modelli stilistici originali. La relazione ha sottolineato inoltre con l’ascolto di documenti sonori particolarmente significativi, la padronanza di aspetti stilistici della tradizione orale di cui disponevano Luciano Berio e Cathy Berberian e come questo abbia influito in modo determinante sui loro rispettivi ruoli di compositore e di interprete ideale dell’opera.
Claudio Toscani, Il sogno romantico. Un percorso ermeneutico
A quali veicoli semantici si affida, in epoca romantica, la restituzione musicale del sogno? L’analisi dell’introduzione al primo movimento della Symphonie fantastique di Berlioz (miss. 1-63, ‘Rêveries’) mette in luce la disarticolazione sintattica del discorso, l’eterogeneità e l’incoerenza stilistica dei frammenti che lo compongono, il pronunciato colorismo timbrico e armonico. Ma per cogliere appieno il significato della pagina orchestrale non è sufficiente rilevarne le caratteristiche ‘formali’: occorre ricostruire una rete più ampia di significati, rivelata dall’esercizio ermeneutico, e porli in relazione ai tratti musicali osservati. Nel caso concreto preso in esame, il percorso ermeneutico prende le mosse dal programma premesso da Berlioz alla Sinfonia, e passa per questioni filologiche (le successive redazioni del programma stesso), per la ricostruzione della dimensione storica dell’ascolto (l’effetto di ‘distorsione’ onirica è prodotto dalle infrazioni a un codice, avvertito sullo sfondo e in grado di determinare precise aspettative: ne fanno fede, tra le altre, le recensioni di Fétis e di Schumann), per la metafisica del sogno sviluppata dalla filosofia romantica (gli scritti di Novalis, i racconti di Hoffmann, la teoria del sogno presentata da Schopenhauer in Parerga e Paralipomena). L’esegesi del passo, in altri termini, presuppone la corretta ricostruzione di un ‘senso’ storicamente concretato.
Carlo Lo Presti, "Dopo Babele": recezione delle culture musicali extraeuropee nell’Ottocento francese
La ricerca, nata dalla mia tesi di dottorato su Ethnographie musicale e orientalismo in Francia, intende mostrare come i due fenomeni che documentano l’apertura di un dialogo con le culture musicali extraeuropee nella Francia dell’Ottocento, l’orientalismo musicale di Félicien David (con l’‘ode symphonie’ Le Désert del 1844) e l’‘ethnographie musicale’ di Joseph d’Ortigue, siano strettamente intrecciati a particolari scelte ideologiche e religiose. La fede sansimoniana spinge infatti nel 1833 Félicien David a partire per la Turchia, alla ricerca della ‘Mère’. Convinti che la rigenerazione dell’uomo sarebbe giunta dall’Oriente, i sansimoniani consideravano la pratica della musica araba uno strumento di propaganda delle loro idee presso i popoli arabi. Ed è questa disponibilità a un dialogo fra culture musicali differenti la premessa necessaria alla ‘traduzione’ di melodie arabe, sperimentata da David. L’orientalismo musicale francese si manterrà a lungo fedele a questa pratica della ‘traduzione’ in moduli tonali occidentali di melodie o ritmi orientali, ascoltati dal vivo.
La prima definizione dell’ambito di ricerca dell’‘ethnographie musicale’, formulata da Joseph d’Ortigue nel suo Dictionnaire liturgique, historique et théologique de plain-chant et de musique religieuse au moyen âge et dans les temps modernes, del 1853, si inserisce invece in una vera e propria disputa, ingaggiata dall’autore con François-Joseph Fétis. I due musicografi appartenevano entrambi all’area conservatrice, ma d’Ortigue era un cattolico seguace di Lammenais, mentre Fétis esibiva un certo scetticismo in materia di religione. La chiave di volta della visione di d’Ortigue è la creazione divina di una musica perfetta, donata da Dio agli uomini insieme al linguaggio: dopo il peccato originale le diverse ‘tonalità’ si sarebbero diversificate, conformandosi al temperamento dei vari popoli. Ortigue, partito da una visione teologica dell’origine della musica, elabora una visione egualitaria che contrasta fortemente con quella messa a punto da Fétis, basata sulla teoria delle razze di Arthur de Gobineau.
Riccardo Martinelli, Musica e teoria della Gestalt: una discussione storico-critica
Maturata in un contesto ricco di riferimenti musicali, la teoria della Gestalt reca tracce palesi di questo retroterra. Con E. M. Hornbostel essa fissa parametri musicologici ed estetici che superano le alternative ottocentesche soprattutto grazie al concetto di senso. Oltre al senso percettivo elementare (qualità, raggruppamenti in figure/sfondi), la musica veicola un senso storico-culturale (stile di popoli, epoche, artisti) dove la componente fisico-matematica è complessivamente ininfluente. L’accento si sposta qui sui molteplici rimandi del senso musicale, frutto di una vasta compartecipazione antropologica. La prospettiva kantiana sulla musica viene così finalmente capovolta, e la musica appare "mehr Kultur als Genuß", più cultura che godimento.
Riccardo Pecci, "L’esplorazione avida del campo armonico" secondo Alberto Gentili
Il musicologo Alberto Gentili (1873–1954) è generalmente noto in quanto artefice, nei tardi anni venti, della romanzesca scoperta e dell’acquisizione da parte della Biblioteca Nazionale di Torino di quella collezione di manoscritti vivaldiani che tanto ha contribuito alla conoscenza del compositore veneziano. Egli fu appunto tra i militanti che, innalzata l’ambigua "bandiera del nazionalismo musicale", si impegnarono in quegli anni in una crociata volta al recupero della musica italiana preottocentesca. Se questa professione di fede fa già di Gentili un intellettuale riconducibile a quella vasta "nebulosa" che è stata la "generazione dell’80" (Piero Santi), a legare il suo nome alle vicende del rinnovamento della cultura musicale italiana è anche il suo impegno sul fronte dell’armonia: tra il 1916 e il 1924 egli attese infatti alla stesura di una Nuova teorica dell’armonia. Il linguaggio della Teorica è di grande interesse proprio per le ripercussioni della prassi sulla teoria dell’armonia: esso può essere letto infatti come tentativo di "raccogliere sotto le ali di un sistema possibilmente esauriente" l’eclettismo armonico delle partiture di molti compositori italiani di quegli anni, dalla "lega" dei Cinque (Pizzetti, Malipiero, Respighi, Bastianelli, Renzo Bossi) ad Alfano, senza dimenticare le aperture moderniste di Puccini, Mascagni ecc. Attraverso l’analisi di un breve esempio musicale tratto da questo repertorio, la relazione prende in esame uno dei concetti-cardine della Teorica: la "polivocità armonica".
Anna Rita Addessi, Psicologia della percezione e analisi musicale
La relazione presenta risultati di una ricerca sperimentale condotta nell’ambito del Gruppo di Analisi e Teoria Musicale, relativa all’analisi percettiva di tre brani di musica del Novecento e investe alcune domande fondamentali sull’argomento: la psicologia della percezione ha principalmente la funzione di verificare le ipotesi analitiche elaborate su basi teoriche o percettive? Può formulare ipotesi autonome? Può contribuire alla definizione di regole analitiche, in particolare nell’analisi di musiche non tonali e quindi non regolabili da grammatiche ampiamente condivise?
L’indagine muove da alcune considerazione preliminari. Nell’ambito delle cosiddette scienze cognitive già da molti anni il rapporto tra. analisi percettiva e analisi musicale è un argomento ampiamente discusso. Benché appartenenti a due domini differenti (psicologia della percezione e teoria musicale), le due forme di analisi condividono un insieme di attività, visto che si rapportano a uno stesso oggetto musicale (scritto o uditivo): la segmentazione in parti piccole, medie o grandi; il raggruppamento di sezioni simili; l’individuazione di tensioni e distensioni, di collegamenti micro e macrostrutturali; l’organizzazione di gerarchie, e così via. Il dibattito ha dato luogo da una parte alla elaborazione di modelli analitici basati su ipotesi percettive (il modello di L. B. Meyer e E. Narmour, il modello di F. Lerdhal e R. Jackendoff ), dall’altra alla formulazione di ipotesi psicologico-percettive relative ai processi di memorizzazione messi in atto durante l’ascolto di brani musicali (M. Imberty, I. Deliège, C. Krumhansl). La fase sperimentale e di verifica ha caratterizzato quasi sempre queste ipotesi, in alcuni casi proponendosi come nucleo stesso della ricerca.
La maggior parte di questi studi sono stati effettuati sulla musica tonale, sembrerebbe non per vocazioni etnocentriche quanto perché l’ascoltatore sul quale e con il quale vengono elaborate ipotesi e teorie è di fatto un ascoltatore culturalmente tonale. I problemi teorici e percettivi posti dalle musiche non tonali, sono stati affrontati da alcuni di questi autori, in particolare da Imberty e Deliège, le cui teorie tentano di spiegare anche la percezione di musiche con gerarchie interne deboli, prive di simmetrie e di ripetizioni.
In un recente articolo, Ian Cross ha messo in evidenza un altro aspetto del rapporto fra analisi percettiva e analisi musicale: la differenza tra la psicologia della percezione, che studia i fenomeni percettivi da un punto di vista delle scienze cognitive, e l’analisi dove la considerazione della percezione è orientata fondamentalmente alla conferma di teorie musicali (definita da Cross folk psychology). In quest’ultimo caso gli aspetti percettivi, oltre che essere considerati ‘giusti’ solo quando coincidono con le teorie analitiche sottese all’analisi, sono spesso presenti solo in forma implicita: una funzione della psicologia della percezione potrebbe essere quella di esplicitare i presupposti percettivi presenti in una analisi musicale e renderli quindi discutibili e verificabili.
Luca Aversano, Per un’analisi linguistica dell’analisi musicale in Italia
La relazione incrocia due campi di ricerca di grande attualità: lo studio delle parole della musica, scoperto di recente, ed l’analisi, già da tempo al centro del dibattito musicologico.
Al vaglio metodologico del primo viene sottoposta la produzione scientifica dell’altro. Si applica cioè la critica lessicologica, fin qui esercitata esclusivamente ‘a distanza’ (cfr. il progetto del Lesmu, che nel suo assunto di partenza non contempla testi posteriori agli anni ’60 del nostro secolo), ad una lingua cui non è possibile guardare con rilevante e cosciente distacco storicistico, quale è quella dei contemporanei studiosi di analisi musicale.
Attraverso brevi esemplificazioni, tratte da riviste e saggi specialistici italiani dell’ultimo decennio, si descrivono le caratteristiche principali della ‘lingua dell’analisi’. Accanto agli elementi tipici che connotano i linguaggi tecnici sono evidenziate alcune peculiarità del lessico e delle formule sintattiche in uso presso gli analisti, tra cui, ad esempio: l’introduzione di neologismi diretti a sostituire sintagmi o termini tecnici di stampo tradizionale; la riconnotazione semantica di termini già in uso nella lingua musicale, fenomeno che potrebbe definirsi di ‘riconvenzionalizzazione’; l’adattamento, spesso in versioni discordanti, di un gran numero di forestierismi; il riferimento alla terminologia delle scienze fisiche e matematiche, spesso sostitutiva di metafore più tradizionali desunte dalle arti figurative.
Più in generale emerge una tendenza all’esoterismo lessicale, visto l’impiego di significanti di ostica comprensibilità per gli stessi musicisti - se non anche per i musicologi -, quando non abbiano una certa confidenza con la letteratura in oggetto. Ciò induce a introdurre la nozione di lingua ‘ipertecnica’: un codice speciale sviluppatosi nell’ambito di un linguaggio, quello musicale-musicologico, di per sé già molto tecnificato.
Tale fenomeno va messo in relazione con il clima ideologico in cui si sono mossi gli analisti degli ultimi anni, contrassegnato dalla forte volontà di prendere le distanze dal vecchio modo di esercitare in Italia l’analisi musicale.
Si pongono infine questioni attinenti ad uno dei due temi del colloquio (L’analisi, tendenze e limiti), quali le linee di tendenza e l’adeguatezza, tanto dal punto di vista scientifico che da quello didattico, del modello linguistico seguito dai moderni analisti.
Xoán M. Carreira, La committenza nella ricerca della ‘zarzuela’
En 1992 el Instituto Complutense de Ciencias Musicales creó la colección "Musica Hispana" dedicada a la publicación de musica española. Según la declaración de intenciones, "Musica Hispana surge con la intención de recuperar el patrimonio musical español y ponerlo al servicio de cuantos intérpretes, orquestas y teatros públicos y privados estén interesados en nuestra música. Su prioridad es por ello servir a los intérpretes y recuperar un patrimonio musical hoy injustamente desconocido y olvidado". "Musica Lírica", la serie más ambiciosa de "Musica Hispana", ha publicado hasta ahora las partituras de 24 zarzuelas en ediciones críticas de diversos compositores, directores de orquesta y musicólogos y este año iniciará las ediciones críticas de los libretos a cargo de diversos compositores.
Los conflictos de intereses subyacentes al mecenazgo de la Sociedad General de Autores, interesada en mantener vivos los derechos del repertorio zarzuelístico son una de las varias causas de las deficiencias de estas ediciones críticas derivadas de los evidentes descuidos en la discusión de fuentes, ausencia de criterios editoriales comunes a la serie e incluso en la admisión de reorquestaciones de obras completas y cambio de idioma de los libretos.
Marco Beghelli, Che cos’è la Gran Scena
Nell’analisi formale del melodramma italiano primo-ottocentesco, il ricercatore s’imbatte di quando in quando in numeri "a solo" dalla macrostruttura ben più ampia e complessa di quella comunemente riconosciuta oggigiorno come standard dell’epoca, accomunati da una medesima funzione drammatica e posizione musicale: quelle tipiche del rondò del musico (più tardi della prima donna). Il rondò propriamente detto non lascia invero il posto alla nuova struttura, ma viene in essa inglobato, come momento conclusivo cui tende l’intero congegno drammatio-musicale concepito come un numero operistico unitario, tonalmente compatto, privo di recitativi secchi al suo interno, e stereotipabile in quattro momenti: 1) cambio di scena che segnala fàticamente l’avvio di una nuova pagina; 2) coro d’ambiente ; 3) recitativo strumentale e cavatina del protagonista; 4) recitativo strumentato e rondò dello stesso, con rilevanti apporti corali.
Per quante varianti possa avere tale schema, specie riguardo al cambio di scena ed al mutuo rapporto fra solista e coro, caratteristica fondamentale rimangono un paio di trasgressioni a quelli che riteniamo oggi essere i connotati fondamentali di un numero operistico "a solo": (1) la presenza di ben due Adagi cantabili distinti, anziché uno soltanto (il primo bastevole a se steso, come cavatina monopartita in cui il personaggio viene sprofondato in un abisso di pene, l’altro quale parte integrante del rondò propriamente detto, risolutore dell’impasse); 2) il recupero di recitativo in versi sciolti dopo il primo Adagio, là dove la consuetudine vorrebbe al contrario che, terminato il recitativo d’avvio, il numero musicale si snodasse su versi lirici fino alla conclusione del numero.
Il risultato è una pagina di grande teatro, di lunghezza inusitata (dai venti ai trenta minuti focalizzati su un solo personaggio), che richiede all’interprete di mettere a buon partito tutte le sue doti di cantante e di attore. Modello preclaro per una intera generazione di compositori potrebbe essere stata la grande pagine di Curiazio nell’ultimo atto degli Orazi e Curiazi cimarosiani; esempi successivi, sempre per musico, si segnalano in Mayr (Ginevra di Scozia), Pavesi (Fingallo e Comàla), Rossini (Tancredi, Ciro in Babilionia, Aureliano in Palmira, Bianca e Faliero), mentre Donizetti trasferirà il modello alla primadonna, in posizione di finale d’opera (Anna Bolena, Sancia di Castiglia).
Per Rossini - per lui almeno - tutto ciò ha anche un nome, vergato con bella evidenza su almeno un paio di autografi operistici: è "Gran Scena", tecnificazione di un lessico discorsivo, ove l’aggettivazione enfatica rimanderebbe sia, in generale, alla particolare estensione musicale e pregnanza drammatica del pezzo che designa (una ‘scena madre’), sia, in senso più tecnico, al particolare allargamento del tradizionale recitativo strumentato (in gergo : ‘Scena’) che precede il Rondò. L’eventuale cavatina che l’interseca andrebbe dunque letta in chiave di ‘escrescenza lirica’ del recitativo stesso, non come suo punto di arrivo (una cavatina in odore di ‘aria cavata’); il ritorno momentaneo ai versi sciolti; prima del rondò propriamente detto non parà allora più un’eccezione alla regola, ma il naturale riposizionamento sul registro linguistico di base, dopo il fugace oasi lirica.del protagonista.
Giorgio Pagannone, Aspetti della melodia verdiana: ‘periodo’ e ‘barform’ a confronto
In un saggio apparso nel 1978 (Satz und Periode. Zur Theorie der musíkalischen Syntax, "Zeitschrift für Musiktheorie", IX/2, 1978, pp. 16-26; traduzione francese: Phrase et période: contribution à une théorie de la syntaxe musicale, "Analyse musicale", n. 13, ottobre 1988, pp. 37-44) Carl Dahlhaus ha proposto una definizione teorica convincente dei due modelli fondamentali della sintassi musicale classica: ‘periodo’ (Periode) e ‘barform’ (Satz). Il periodo si articola di norma in due frasi (‘antecedente’ e ‘conseguente') bilanciate ed omogenee (4+4 battute); la barform invece presenta una struttura di tipo ‘anapestico’: due semifrasi identiche o simili seguite da una continuazione libera ovvero da uno sviluppo (2+2+4). Si tratta di due modelli affatto diversi: l’uno - il ‘periodo’ - si fonda sulla relazione tra ‘presentazione’ (Aufstellung) e ‘risposta’ (Beantwortung); l’altro sulla relazione tra ‘presentazione’ e ‘conseguenza’ (Konsequenz).
Ho tentato di applicare questa ‘teoria dualistica’ della sintassi musicale al melodramma italiano - negli studi analitici quasi sempre trascurato - e dall’indagine, effettuata prevalentemente su Verdi, sono emersi alcuni risultati interessanti. I due moduli sintattici sono spesso convocati a svolgere funzioni antitetiche. All’interno della forma melodica standard (la lyric form) il periodo serve soprattutto da sezione d’apertura, mentre la barform figura per lo più come sezione cadenzale, in quanto la sua struttura sviluppa un senso di conclusione più marcato. A seconda delle esigenze i due moduli vengono o posti in immediata successione, determinando un effetto di "contrapposto", ovvero separati da una o più frasi di "preparazione", le quali hanno per scopo di far desiderare l’arrivo della barform conclusiva (l’antitesi tra "contrapposto" e "preparazione" è ben illustrata da Abramo Basevi, Studio sulle opere di G. Verdi, Firenze, Tofani, 1859, p. 13.). Quest’ultimo procedimento è tipico delle melodie a mo’ di romanza, dove spesso l’arrivo della barform coincide con un cambio di modo - dal minore all’omologo, ovvero al relativo maggiore - che ne magnifica l’effetto.
La barform, per quella sua particolare capacità - arcimelodrammatica - di fissare in poche battute un’idea melodica perfettamente compiuta, con tanto di acuto, si presta bene ad essere usata nei contesti formalmente liberi (scena, tempo d’attacco, tempo di mezzo, ma anche scene finali), nonché nei punti salienti del dramma, dove l’esigenza della "miniaturizzazione" (cfr. G. de Van, Verdi. Un teatro in musica, Firenze, La Nuova Italia, 1994, p. 327) di un canto breve ma perspicuo, vibrante - non ammette lunghe soste cantabili: ‘Amami, Alfredo’ ne è l’esempio più fulgido.
Emilio Sala, L’effetto-ghironda nel melodramma italiano dell’Ottocento
Lo studio compendiato in queste righe riguarda l’analisi di un particolare caso di scrittura musicale idiomatica: quello dell’imitazione orchestrale della ghironda. Si tratta di un procedimento di "denotazione per delega", per dirla con Marco Beghelli, attraverso il quale uno strumento estraneo all’universo sonoro dell’orchestra, e portatore di una forte "ritualità timbrica", viene surrogato da uno o più strumenti facenti parte dell’organico orchestrale. Tali modalità di sostituzione-imitazione appaiono oltremodo diversificate: si va da calchi meramente idiomatici, realizzati su strumenti comunque in grado di rinviare ad alcuni tratti distintivi della ghironda (vedi per esempio la "phis-armonica" ovvero, verosimilmente, l’armonium della Linda donizettiana e dei Due savoiardi di A. Cagnoni), a riscritture di tipo anche onomatopeico ma più elaborate come quella, speciosissima, della Cecchina di P. Generali che prevede: 1) una sorta di ‘preparazione’ di alcuni archi (tra le cui corde bisogna inserire "una carta da gioco di Francia acciò possino fare il friggìo ad imitazione della ghironda o lira"), 2) un utilizzo "muto", senza fiato, di alcuni legni che devono battere le note "colle sole chiavette", forse per imitare il rumore prodotto dai tasti della ghironda. D’altra parte, tutti questi procedimenti rinviano a un codice assai rigido che rende l’effetto-ghironda immediatamente riconoscibile. Esso può ridursi a forme di stilizzazione davvero minime come le quinte/ottave vuote al basso per denotare le corde di bordone della ghironda oppure lo slittamento di semitono all’insù per rendere l’attacco della ruota azionata dalla manovella (una formula incipitaria, quest’ultima, presente tra l’altro sia nella romanza di Pierotto, ‘Per sua madre andò una figlia’, che nel Leiermann schubertiano). Né vanno dimenticati gli spostamenti di accento e i sussulti ritmici che condiscono quasi tutti gli airs de vielle e che si riferiscono ai famosi coups de poignet tramite i quali i suonatori di ghironda realizzavano una sorta di effetto percussivo da sovrapporre al suono continuo del bordone. In conclusione, va detto che l’effetto-ghironda viene affrontato qui in una chiave drammaturgico-musicale: non solo dunque sul versante tecnico-formale, ma coinvolgendo anche il piano simbolico-situazionale. Non si tratterà perciò tanto dell’effetto-ghironda come elemento ‘sciolto’, quanto piuttosto del ruolo da esso giocato all’interno di un vero e proprio ipersistema, quello del genere savoiardo, la cui precisazione-ricostruzione è già stata tentata da chi scrive in altra sede.
Andrea Chegai, La recezione del ‘fantastico’ in Italia alla metà del secolo XIX
Al di là della sua illusoria evidenza, il termine ‘fantastico’ si prestò, nella prima metà dell’Ottocento soprattutto, ad un impiego diversificato da parte della critica italiana. Furono giudicate musica fantastica non solo le opere dotate di sviluppi soprannaturali, come Il franco cacciatore (Weber), Roberto il diavolo (Meyerbeer) o il verdiano Macbeth, ma anche le composizioni strumentali di Beethoven, in particolar modo quelle che più esaltavano il lato metafisico della sua musica (al seguito di Tieck e Hoffmann). Basevi estese ed importò nei domìni dell’analisi detta ‘metafisica della musica’, mediante la teoria della ‘percezione’ da lui sviluppata nei due trattati di armonia (1862 e 1865), che indugia sul realizzarsi di certi concetti musicali essenzialmente nell’immaginazione dell’ascoltatore; teoria consona anche al diffondersi della filosofia hegeliana. Con l’ausilio di Hegel si tentarono persino di giustificare i lati troppo fantastici del Roberto (Marselli): la complessa dialettica di attrazione-repulsione verso demoni incantesimi e fantasmagorie (elementi, questi, viziati da un romanticismo medievaleggiante giudicato retrogrado) fu superata solo dalla successiva estetica formalista e dall’affermazione di nuove tendenze drammatiche, legate alla perdurante attualità delle passioni.
Emanuele Senici, "I promessi sposi" incontrano "La forza del destino" all’osteria
I personaggi della Forza del destino presentano singolari somiglianze con quelli dei Promessi sposi, per Verdi "uno de’ più grandi libri che sieno usciti da cervello umano". L’opera è stata spesso censurata per la sua sconnessa successione di scene apparentemente irrelate e per il cozzo violento di comico e tragico. Sin dalle prime recensioni i sacri nomi di Shakespeare e Hugo sono stati invocati come numi tutelari di tali peculiarità. Ma la Forza del destino è molto lontana da altre opere verdiane derivate direttamente da tali autori, dal Macbeth al Rigoletto e dall’Otello al Falstaff.
Vorrei avanzare l’ipotesi che la singolare struttura drammatica della Forza del destino sia il risultato dello sforzo da parte di Verdi di riprodurre sulla scena l’alternanza di "storia" ed "invenzione" propria del romanzo manzoniano - un tema che fu al centro di un infuocato dibattito nei circoli letterari italiani di metà Ottocento di cui Verdi era certo al corrente. Come esempio del modo in cui Verdi traduce il romanzo in opera presento una lettura parallela della prima scena del secondo atto della Forza del destino, ambientata nell’osteria di Hornachuelos, e del capitolo 14 dei Promessi sposi, l’episodio di Renzo all’Osteria della Luna Piena a Milano. L’osteria manzoniana è un luogo di sovversione linguistica, un luogo dove registri lessicali e narrativi normalmente opposti sono sottoposti ad un processo pervasivo e perverso di dialogizzazione. L’originalissima mistura linguistica di Piave e la giustapposizione di stili e generi musicali messa in campo da Verdi potrebbero essere considerate l’equivalente della sovversione manzoniana da un punto di vista sia storico che estetico. La questione dei temi ricorrenti è al centro della mia attenzione analitica, non solo perché essi svelano un vero dilemma musicale e drammatico, ma anche perché costituiscono uno dei Leitmotiven dell’incerta e sospettosa reazione critica dell’opera.
Cristiano Vavalà, Boito, Verdi e la prosa musicale: un chiarimento
Nel saggio Versificazione italiana e ritmo musicale Friedrich Lippmann scrive che la "prosa boitiana" ha agevolato il cammino di Verdi verso un’emancipazione ritmico-musicale sovrana, uno stile compositivo per sua parte prossimo alla polimetria e alla "prosa". L’espressione "prosa boitiana" non è però così ovvia se si pensa che in Otello e Falstaff, i due libretti che Boito approntò per Verdi, non si trova un solo verso sciolto. E d’altra parte l’applicazione del concetto di prosa musicale alle partiture verdiane è resa alquanto problematica dall’intricata dialettica tra i significati tecnici ed estetici che si sono stratificati nel termine.
Al di là di tutto però, Lippmann coglie un fenomeno reale, e alle sue osservazioni manca forse solo qualche piccola precisazione. Quel che di veramente caratteristico si trova nei libretti di Boito (e che giustifica in fondo l’espressione usata da Lippmann) è che il rapporto tra segmentazione metrica e articolazione sintattica non soggiace più ad alcuna norma, sicché il compositore è costretto a dissolvere il verso, a metterlo da parte, se intende conservarne il contenuto di senso attraverso un’accentuazione retoricamente pertinente. Peraltro è difficile stabilire se davvero questo fatto abbia avuto un ruolo decisivo nello spostare l’attenzione del musicista dal principio del verso a quello della prosa (si direbbe anzi che Boito non fosse affatto cosciente del problema) o se, più verosimilmente, esso abbia soltanto spinto allo scoperto tendenze già in atto. Il caso di Verdi, infatti, s’inquadra in un fenomeno ben più ampio, un vero e proprio mutamento di paradigma estetico che interessa l’intera cultura musicale europea tra Otto e Novecento.
Massimo Privitera, Carmen, José, le castagnetta e la fanfara
La relazione prende spunto dalla lettura psicoanalitica della Carmen di Bizet, avanzata da Franco Fornari (Carmen adorata, Milano, Longanesi, 1985) dove la storia di Carmen e José si presenta come incarnazione del conflitto fra codice femminile (l’amore come passione violenta e irriducibile alle leggi della società) e codice paterno (la legge del dovere, la cui espressione più compiuta è nella disciplina militare).
In questa suggestiva interpretazione, però, viene dato poco risalto ad un momento chiave dell’opera, la cosiddetta scena delle castagnette, considerata solo in quanto scontro dei due codici. A mio parere invece (e proprio applicando le categorie di Fornari) questa scena è centrale nella dinamica drammaturgica: posta alla esatta metà del dramma, è l’unico momento in cui appare possibile la fusione dei due codici, seppure solo per qualche fugace istante.
Carmen ha iniziato a cantare per José senza accompagnamento, con il solo sostegno ritmico delle sue castagnette. Poco dopo, però, si sente sullo sfondo la fanfara della caserma, che annuncia la ritirata e impone quindi a José di lasciare Carmen. Ciò fa collidere i due codici, e condurrà la vicenda alla sua catastrofe. Ma al suo primo apparire, Carmen accoglie la fanfara come "musique qui nous tombe du ciel", e ci danza sopra. L’ascoltatore scopre così che la canzone e la fanfara (l’erotismo e la legge), apparentemente antitetiche, hanno in realtà la medesima struttura rotonda: se sovrapposte possono dunque coincidere. L’incanto verrà rotto presto dall’interruzione di José e dalla furia di Carmen; ma chi ascolta rimane in uno stato di nostalgia della fusione dei contrari, la cui ebbrezza ha potuto gustare per pochi attimi. È grazie a tutto ciò che il seguito della vicenda si colora di ulteriore intensità, e rinforza il suo carattere di discesa agli inferi.
Paolo Gozza, Lo strumento musicale come modello culturale
Nel Saggiatore (1623) Galileo racconta d’un uomo che s’avventura nel mondo alla ricerca di eventi sonori ignoti. Quando ormai crede di sapere tutto, l’uomo si trova "più che mai rinvolto nell’ignoranza" perché non sa dar conto del canto d’una cicala. Da allora egli diffida a tal punto del proprio sapere, che "domandato come si generavano i suoni, generosamente rispondeva di sapere alcuni modi, ma che teneva per fermo potervene essere cento altri incogniti e inopinabili". La favola del figlio di Vincenzo Galilei è speculare alla favola del ritrovamento pitagorico delle consonanze; annuncia l’età nuova della ‘scienza musicale’ collocandola sull’incerto terreno dell’esperienza: non i numeri sonori ma i corpi sonori sono ora l’impresa del moderno uomo di scienza. Non è senza significato che il Saggiatore di Galileo ‘Linceo’ sia preceduto dalla Sambuca Lincea (1618) di Fabio Colonna, invenzione dell’"instromento musico perfetto" dedicato a Papa Paolo Farnese e corredato dalla descrizione dell’"organo Hydraulico" di Erone d’Alessandria, "ingegnere" noto a Galileo e alla cultura scientifica moderna. Dal "mondo dei pressappoco" dei "secreta" artigianali lo strumento musicale si apre al "mondo della precisione" degli ingegneri-scienziati: da Vincenzo Galilei a Mersenne, da Galileo a Bartoli, dagli sperimentatori delle Accademie scientifiche europee all’Encyclopèdie, lo strumento musicale è incorporato nella cultura scientifica e filosofica, la tecnologia musicale impronta la scienza e la: filosofia moderna.
La rappresentazione che avvicina l’artigiano all’ingegnere moderno non è un’organologia sistematica e classificatoria (anche se il barocco è ricco di Wunderkammer musicali), e neppure un prematuro approccio etnomusicolgico. L’intersezione si attua attraverso l’identificazione dello strumento musicale come modello tecnologico e culturale: la risonanza acustica (ricerca sul timbro; modi di vibrazione delle corde; vibrazioni complesse delle superfici sonore e delle campane; modalità di vibrazione dell’aria nei tubi, ecc.), diventa risonanza fisiologica (i trattati di anatomia della voce utilizzano metafore tecnologiche ricavate dal mondo artigianale; la fisiologia trasforma l’orecchio in un risonatore interno, ecc.), risonanza etica e filosofica (Cartesio si serve dell’organo come metafora cognitiva della relazione mente-corpo; la tradizione dell’uomo come ‘strumento musicale’ ispira alcune delle più brillanti pagine ‘musicali’ di Diderot), e risonanza metafisica (i modelli di musurgia universale dell’età barocca assumono non il monocordo ma lo strumento artigianale come metafora dell’armonia del mondo…).
Questi argomenti riguardano un libro non ancora discusso nella cultura musicologica in Italia. Ne è autrice Jamie C. Kassler, il titolo è Inner Music. Hobbes, Hooke and North on Internal Character (London, Athlone, 1995): la ricerca sui modi di vibrazione degli strumenti musicali trova eco nella filosofia naturale della mente di questi filosofi e teorici musicali inglesi dei Sei-Settecento.
Lucia Marchi, La ballade "Pictagoras, Jabol et Orpheus" nelle versioni di Torino e Chantilly
La Ballade Pictagoras, Jabol et Orpheus di Johannes Suzoy è attestata da uno dei più importanti testimoni dell’Ars subtilior, il codice Chantilly, Musée Condé 564, e dai frammenti conservati presso la Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino (T. III. 2.), solo recentemente portati all’attenzione degli studiosi.
Le due versioni della Ballade divergono in molti punti. In particolare, la subtilitas ritmica della composizione - un continuo scambio e sovrapposizione di diverse mensure tra Cantus e Tenor - è espressa con notazione diversa nei due manoscritti. L’analisi delle differenti soluzioni notazionali portate dai due testimoni permette uno sguardo sulle molteplici possibilità della scrittura del tardo Trecento, e soprattutto una più generale riflessione sui problemi posti da questo tipo di varianti - peraltro molto frequenti - nell’ambito del lavoro di ricostruzione testuale del repertorio dell’Ars subtilior.
Ivano Cavallini, Il ruolo della musica nella favola pastorale di Ragusa
Il dramma boschereccio degli scrittori ragusei, come quello italiano cui si ispira, è condizionato dall’intervento robusto di suoni e canti, i quali, non preservati tramite qualche edizione o manoscritto, servivano ad accrescere il potere fantastico e l’enfasi sentimentale dello spettacolo.
Nella pastorale ragusea la musica svolge una funzione didascalica (in forma di commento), o decorativa (in forma di entr’acte), ma assume altresì un ruolo di guida nello sviluppo dell’azione. Sono esemplari in tal senso le favole di Nikola Naljeskovic e Marin Drzic che nei momenti salienti della trama esibiscono passi corali, solistici o mimici, e assegnano alla musica una posizione complementare rispetto alla parola (così la moreška e i canti della terza komedija di Naljeskovic, o il combattimento tra satiri e pastori in Titona di Drzic, 15491). Raramente gli strumenti sono citati in forma aulica (lira, cetra etc.): più frequente è invece l’uso di termini tratti dal folklore, allo scopo di creare un clima pastorale più autentico; all’atto pratico i vari diple, guste e surle potevano ugualmente essere sostituiti da viole, flauti e liuti.
Il termine intermedijo appare a Dubrovnik solo sul finire del secolo (cfr. Flora e Fílide di Sasin), anche se vi sono cori madrigalistici e scene a sé stanti che hanno in Drzic la medesima funzione, prima della formalizzazione del genere favolistico avvenuta con Dominko Zlataric, traduttore dell’Aminta (= Ljubmir, 1580), e con Frano Lukarevic che ha voltato in lingua croata il Pastor fido di Battista Guarini (= Vijerni pastijer, 1592).
Vi sono poi spettacoli di carattere celebrativo e a sfondo mitologico, i quali, similmente agli intermedi, sono quasi completamente farciti di musica (cfr. Venere í Adon di Drzic). La loro importanza normativa è accresciuta dal fatto che sino al 1640 anche i melodrammi derivati da libretti italiani (Evridice, Arijadna, Armida, Alcina) utilizzano la musica accanto alla recitazione, regredendo così al livello della precedente pastorale.
Concetta Assenza, Tradizione e novità nell’aria dei primi anni del Seicento
Tra il 1600 e il 1635 la produzione di arie per voce sola si consolida in un repertorio contrassegnato da novità, rispetto alla tradizione poetico-musicale precedente, e da sorprendente varietà nella scrittura musicale e nell’intonazione di modelli poetici diversificati. Sulla base di un campione di 500 testi poetici intonati e di un centinaio di scritture musicali, ho trattato per via generale gli aspetti che, sul piano poetico e musicale, determinano la fisionomia così mutevole dell’aria di inizio secolo: caratteri strutturali dei modelli poetici e loro configurazione, aspetti della versificazione, definizione di metri inconsueti e della loro struttura accentuativa, caratteri della scrittura musicale sul piano dell’aspetto formale generale, della struttura fraseologica, della fisionomia ritmica della declamazione. Questi stessi dati generali ed esempi specifici di testi poetici musicati da D. Obizzi, M. Pesenti, A. Grandi , G. Ghizzolo e C. Milanuzzi sono in particolare discussi per evidenziare come il repertorio sia alimentato da criteri di sperimentazione di tecniche antiche e modi innovativi: l’aria di inizio Seicento è un repertorio sfaccettato che trae la propria forza innovativa e guadagna tratti di notevole modernità dal laborioso processo di revisione del patrimonio poetico musicale della canzonetta del tardo XVI secolo.
Dinko Fabris, Prima dello "Stabat": la formazione di uno stile musicale nella Napoli vicereale
Prima del 1727 - quando il Breve di Benedetto XIII istituì la seconda festa annuale della Vergine dei Sette Dolori nel venerdì precedente alla Domenica delle Palme con l’obbligo di cantare lo Stabat Mater - sembra assai scarsa la diffusione di questa sequenza, soprattutto nel repertorio polifonico italiano. La celebre composizione di Giovanni Battista Pergolesi, destinata ad alimentare il mito romantico fiorito intorno all’autore e a rappresentare l’emblema massimo della ‘scuola napoletana’ del Settecento, fu composta solo pochi anni dopo, entro il 1736. Questo capolavoro è in realtà soltanto un punto intermedio di una tradizione musicale che nell’Italia meridionale ebbe probabilmente origine nel secolo XVII, e che conobbe una fortuna parallela nella musica d’arte e nella musica popolare, per il tramite delle confraternita laicali.
Attraverso lo studio comparato delle testimonianze superstiti (orali e scritte) reperite nei poco esplorati archivi di confraternite meridionali (vi è tuttora diffuso un preciso stile di intonazione in polifonia semplice dello Stabat e della correlata Salve Regina) con le poche ma importanti intonazioni polifoniche della sequenza da parte di compositori napoletani a partire dalla metà del Seicento, si ricostruisce l’origine ed il possibile significato di una identità stilistica peculiare all’ambiente napoletano, utile per contestualizzare un capolavoro finora considerato unico, quale lo Stabat pergolesiano.
Pilar Alén, El conde Luigi Silva, ‘procuratore’ de músicos italianos para la catedral de Santiago de Compostela
Hacia 1760 Ilegan a Santiago de Compostela (España) dos músicos italianos procedentes de la ciudad de Lodi: se trata de los hermanos Baldassare y Giusseppe Servida. Ambos tocarán la trompa en la capilla de música de la catedral compostelana a lo largo de toda la segunda mitad del siglo XVIII. Poco después, en 1767, se instalarán también en Santiago otros dos músicos lodigianos: el "tiple" Giusseppe Ferrari, y el contralto Giovanni Brunelli. Y, ya en 1770, el número de italianos se incrementa con la llegada del maestro Buono Chiodi (Salò, 1728 - Santiago de Compostela, 1783) y sus dos discípulos: Felice Pergamo ("tiple"), Carlo Mauro (contralto). De este modo, a lo largo de una década, la capilla de música de la catedral compostelana vio notabiemente reforzada su plantilla, tanto en la que se refiere a la cantidad como a la calidad de sus músicos.
Chiodi llevó a cabo una intensa labor de renovación de la capilla de música de la catedral compostelana, a la vez que aportó a la misma un interesante legado de partituras de músicos italianos coetáneos (Quirino Gasparini, Giusseppe Colla, Baldassare Galuppi, Ferdinando Bertoni, Felice Giardini, ... ); este legado - que todavía se conserva en el archivo de este tempio catedralicio - es una prueba evidente de la relación que, sin duda, mantuvo Chiodi con todos estos compositores antes de llegar a Santiago, y quizás también a lo largo de su permanencia en Compostela.
Al investigar la vida y la obra del maestro Buono Chiodi hallamos varios datos que nos permiten afirmar que tanto è1 como sus predecesores - arriba citados - pasaron a formar parte de la capilla de música compostelana mediante la mediación de un ínteresante personaje: el conde Luigi Silva. Tal noble lodigiano se autodenomina en les documentos consultados como Procuratore dell’Illustrissimo e reverendissimo Insigne Capitolo della Chiesa Metropolitana di San Giacomo di Compostella nella Galizia Monarquia di Spagna. Su misión, según se desprende de los datos hallados, consistía fondamentalmente en: a) buscar músicos idóneos para cubrir las necesidades del Cabildo compostelano; b) establecer con ellos un contrato ante notario, por el que dichos músicos se comprometían a ponerse a disposición del Cabildo de la catedral de Santiago; e) costear parte de los gastos que llevaba consigo este tipo de contratos. Estamos, pues, ante un caso de verdadero mecenazgo, de indudable interés.
Carmen Rodríguez Suso, El mecenazgo musical del nacionalismo político en el pais vasco
Las diferentes corrientes ideológicas del nacionalismo vasco han coincidido todas en considerar la música como uno de los elementos diferenciales de la identidad vasca. La historiografía musical ha señalado claramente la existencia de una corriente "nacionalista" vasca caracterizada por la composición de obras musicales en las que se incorporan elementos de la música popular local, o la utilización de temas literarios relacionados con los relatos miticos o históricos de los orígenes de la nación o con su folklore.
Sin embargo, si consideramos que, como movimiento musical, el objetivo del nacionalismo era producir el equivalente sonoro de su imaginario politico, debemos incluír también en él la actitud de los promotores y organizadores que actuaron en torno de este tipo de creación musical. Esto nos Ilevará a considerar cómo el nacionalismo musical vasco no consistió solamente en una serie de obras musicales compuestas bajo esos presupuestos, sino también en una canalización de recursos económícos destinados a sostener la idea del pueblo vasco como pueblo musical por excelencia.
Al apoyar económica y administrativamente a la música tanto desde instancias privadaz como públicas (en los períodos intermitentes en los que alcanzó alguna cuota - de poder institucional), el mundo político nacionalista ejerció un moderno mecenazgo de la vida musical vasca. A cambio, la vida musical vasca quedó intensamente marcada por las ideas musicales de los ideó1ogos y políticos del nacionalismo.
Paolo Cecchi, L’editoria musicale a Roma dal 1590 al 1630
La comunicazione costituisce il primo parziale rendiconto di una ricerca in corso e illustra, con un approccio prevalentemente storico-quantitativo, il panorama dell’editoria musicale romana nei quarant’anni tra il 1590 e il 1630, un periodo nel quale tale industria divenne progressivamente la più importante d’Italia, dopo quella veneziana. A partire dai primissimi anni del ’600, contribuì a determinare quel mutamento epocale della produzione musicale a stampa che vide il prevalere della produzione liturgica e devozionale su quella profana, il genere più rappresentato nelle raccolte a stampa del XVI secolo.
Il contributo si articola in tre brevi sezioni correlate:
1) Una breve analisi quantitativa della produzione musicale a stampa presenta e contestualizza il numero delle raccolte, l’incidenza delle ristampe, il numero degli autori e la loro provenienza geografica, la proporzione quantitativa e la diversa tipologia commerciale delle raccolte individuali e delle raccolte collettive, il numero degli stampatori e dei librai, la loro produttività e il loro peso commerciale nel mercato. I dati sono poi messi a confronto in modo sinottico con la coeva produzione tipografica veneziana.
2) Una concisa analisi dei generi e dei sottogeneri musicali delle raccolte a stampa pubblicate, con una panoramica delle diverse strategie commerciale dei cataloghi dei vari stampatori, e della composizione per generi della produzione dei singoli autori, anche alla luce dell’imporsi di nuovi sottogeneri/repertori, alcuni dei quali tipicamente romani (canzonette profane e spirituali con intavolatura di liuto e cembalo, mottetto concertato con basso continuo, musiche a una e due voci e continuo, musiche liturgiche policorali).
3) Un breve ragguaglio preliminare a carattere quantitativo, volto a saggiare per campioni la diffusione e il consumo della produzione editoriale romana, ricavato dall’analisi di cinque cataloghi di librai e venticinque inventari coevi, inventari concernenti prevalentemente, ma non esclusivamente, istituzioni ecclesiastiche o para-ecclesiastiche. Dallo spoglio di tali cataloghi ed inventari (dei quali all’incirca il 40% riguardano istituzioni e soggetti romani, il 35% circa dell’Italia settentrionale e il 25% di altre zone dell’Europa settentrionale), si evidenzia il genere e la tipologia delle edizioni romane che vi compaiono, e, per dati opportunamente disaggregati, alcune delle modalità e dei livelli di penetrazione nel mercato italiano ed europeo della produzione della città pontificia, comparandole per sommi capi con quelle dell’editoria veneziana coeva.
Paola Ciarlantini, Le composizioni d’ispirazioni leopardiana dall’Ottocento ad oggi
Nell’ambito dei progetto "Leopardi nel mondo", elaborato dal Centro nazionale di studi leopardiani di Recanati, è stata avviata nel 1994 la ricerca "Leopardi e la Musica" tesa al reperimento e all’acquisizione dei brani musicali su testo leopardiano o ispirati all’opera di Giacomo Leopardi, e alla loro divulgazione attraverso pubblici concerti. Nell’ultimo anno, la ricerca ha permesso di costituire presso la biblioteca del Centro nazionale di studi leopardiani uno specifico fondo musicale che consta di tre sezioni: la prima, più corposa, comprende le musiche, in originale o in riproduzione, le due restanti sono relative a libretti e guide di poemi sinfonici e a materiale audio (CD, cassette). Le partiture sono circa centocinquanta, molte di autori celebri come Pietro Mascagni, Gian Francesco Malipiero, Ildebrando Pizzetti, Mario Castelnuovo-Tedesco, Ferruccio Busoni, Amilcare Zanella. Sono presenti anche autori contemporanei come Gino Contilli, Goffredo Petrassi, Vittorio Fellegara, Riccardo Malipiero, Luigi Donorà, Giovanna Marini, Peter Maxwell Davies, etc. Partiture su testi leopardiani sono arrivate, tra l’altro, dalla Danimarca, dalla Svezia, dall’Ungheria, dalla Francia, da autori quali Knudåge Riisager, Arne Mellnäs, Ferenc Farkas, Griffith Rose. Non mancano autori marchigiani come Silvestro Baglioni, illustre fisiologo e musicista, l’etnomusicologo Lepanto De Angelis, dei celebri musicologi Emido Cellini e Francesco Vatielli, o marchigiani d’adozione, come Giovanni Tebaldini, il citato Amilcare Zanella, Adriano Ariani. L’acquisizione più importante del fondo è senz’altro la riproduzione dell’autografo (faticosamente rintracciato in Germania) della partitura della cantata per soli, coro e orchestra Il Sabato del Villaggio (Werk 192) di Ferruccio Busoni, un’opera giovanile data al Comunale di Bologna nel 1883, di cui non esistono copie in Italia.
Le composizioni reperite appartengono ai più svariati generi musicali (prevalentemente romanze per voce e pianoforte nei secolo scorso e lavori corali o per organico da camera in epoca più recente, ma anche opere liriche, poemi sinfonici e sinfonico-corali, brani strumentali solistici, etc. ). Il testo maggiormente musicato è l’idillio L’infinito, insieme a Imitazione. Non mancano comunque versioni musicali di brani dello Zibaldone e delle Operette morali. L’importanza culturale della raccolta consiste anche nel suo fornire, attraverso la privilegiata angolazione leopardiana, uno spaccato della storia musicale italiana tra il 1850 e la seconda metà del nostro secolo. Pur essendo la ricerca un work in progress (sono stati attivati solo in tempi recenti i contatti con le biblioteche estere, le segnalazioni sono continue, e le acquisizioni spesso non immediate a causa di difficoltà di vario genere) è comunque di imminente pubblicazione un primo catalogo con schede informative sia sulle composizioni (con riferimento alle biblioteche di provenienza) sia sugli autori.
Molto è stato fatto anche riguardo le esecuzioni dei brani più significativi: l’esecuzione moderna dell’Infinito di A. Zanella, e le due serate, Poesia in concerto e Musiche per Giacomo, svoltesi l’estate scorsa al Colle dell’Infinito nell’ambito dei Notturni Leopardianì 1997. Altre iniziative simili sono previste nel corrente anno del Bicentenario a Recanati ed in altre città italiane.
Francesco Cesari, "1 Puritani" e il periodo francese di Bellini
Lo studio verte principalmente sui Puritani, testo per molti versi unico nel panorama del tempo. Pochi cenni sui nodi stilistico-poetici individuati:
1) Dinamiche estreme, spesso contrastanti, con uso massiccio di sforzati, inquadrabili entro un’originale interpretazione del sublime in termini strettamente sonori (densità massime e minime che rispecchiano il duplice volto del sublime kantiano: "dinamico" e "matematico", potenza ed estensione), tale da eludere il rischio che esso si trasformi in ‘drammatico’ reintroducendo così, entro un’estetica per definizione soggettiva, l’elemento rappresentativo-oggettivo. Tutto è visto dalla prospettiva interna: pazzia come solipsismo, non come schizofrenia (Lucia). Di qui l’insistenza di Bellini sull’"effetto" che l’opera dovrà avere sul pubblico (analogamente egli dice di aver rappresentato non l’uragano in sé, bensì la "mestizia ove la natura è impressa sotto i fulmini del cielo").
2) Alternanza tra episodi saldamente diatonici e altri modulanti-cromatici, questi ultimi abbinati a momenti di metamorfosi psichica come nella Scena del Finale I (162 battute senza risoluzione) e durante il duetto Arturo-Elivira (Atto III: ‘Quanto tempo! lo rammenti? [...]’: movimento regressivo sul circolo delle quinte), dove la riflessione sul tempo trascorso (mesi? secoli?) suggerisce un’interessante relazione tra distorsione delle coordinate temporali e instabilità tonale. Idea che può estendersi ad altri passaggi dell’opera (cfr. ultima sezione del terzetto Arturo-Enrichetta-Riccardo: ‘Ah, che festi?[…]’) fino a diventare principio poetico fondante, extradrammaturgico.
3) Forme convenzionali rese più elastiche e funzionali: impiego del motivo del tempo di mezzo tra le strofe della cabaletta; riduzione ai minimi storici dei recitativi; cura dei raccordi tra le varie sezioni dei numeri e tra numeri diversi.
4) Melodia sempre più libera dalle strutture fraseologiche. Vorrei studiare gli abbozzi, posteriori ai Puritani, conservati a Catania.
5) Presenza di passaggi armonicamente bizzarri. Problema dei rapporti tra Bellini e il mondo musicale parigino (in primis Chopin).
Stefania Filippi, Il "Martyre de saint Sébastien": una nuova estetica musicale e teatrale negli anni ’10
Composto come musica di scena per un testo in ottonari francesi di D’Annunzio, fu rappresentato nel maggio 1911 al Théâtre du Châtelet di Parigi. Tra tutte le opere dannunziane pensate per il teatro musicale - una lunga vicenda di collaborazioni coi compositori - forse il Martyre è quella che per gli studiosi di oggi rappresenta il momento più felice, più di altre nata dalla stretta compenetrazione dei metodi di lavoro dei due artisti e quindi dell’elaborazione comune del testo poetico e della partitura musicale.
Esaminando il Martyre de saint Sébastien come opera di due tra i più significativi artisti del Novecento, la mia ricerca si propone di studiare parallelamente l’elaborazione testuale e musicale, e di ripercorrerne la storia compositiva oltra a quella delle sue rappresentazioni; il testo dannunziano in langue d’oil e alla partitura orchestrale di Debussy vengono considerati assieme a tutti i documenti editi e inediti che si possono ritrovare. Tra i materiali già noti sono documenti primari l’epistolario in francese tra i due artisti, ripubblicato in Italia solo nel 1993, decenni dopo la prima edizione del 1948. Insieme a questi dati di partenza, vanno esaminati poi, tra gli inediti, le numerose cronache dell’epoca e gli scritti giornalistici di vario tipo non ancora pubblicati, consultabili all’Arsenal di Parigi; si tratta di articoli, interviste, programmi di stagioni concertistiche e teatrali e interventi anche polemici che appartengono al lungo periodo delle rappresentazioni del Martyre, dalla prima del 1911 alle ultime recite parigine del 1934. Con lo studio della vicenda compositiva dell’opera, con l’esame dalla partitura di Debussy e del testo poetico di D’Annunzio, si ripercorre anche l’orizzonte dell’estetica musicale e teatrale degli anni dieci. Si analizza poi l’elaborazione musicale dell’opera e il trattamento del materiale armonico e melodico entro la linea di sviluppo della sperimentazione debussiana, sempre più rivolta al recupero delle modalità medievali e al diatonismo; si considera quindi la convergenza della ricerca musicale con le sperimentazioni teatrali percorse da D’Annunzio nel periodo parigino.
Stefania Franceschini, Roberto Cecconi: vita, carriera musicale e collaborazione con Luigi Nono.
Il progetto di ricostruzione della biografia di Roberto Cecconi nasce da un’idea di Nuria Schönberg Nono, moglie di Luigi Nono: l’intento è quello di non dimenticare, anzi, sottolineare il prezioso contributo personale e professionale che egli, violinista e direttore d’orchestra, zaratino di nascita e veneziano d’adozione, ha apportato nella realizzazione e messa in scena delle opere del marito.
Il lavoro, avviato nello scorso febbraio, si articolerà in quattro sezioni di ricerca in corrispondenza delle fasi che hanno segnato l’esistenza e la carriera musicale del direttore. La prima sezione si apre con gli anni degli studi musicali, condotti in forma privata a Zara e quindi presso il Conservatorio "G. Rossini" di Pesaro, quindi continua con il racconto delle vicissitudini legate allo scoppio della seconda guerra mondiale e al definitivo trasferimento del maestro a Venezia, dove entrerà a far parte dell’orchestra del Teatro La Fenice. La seconda sezione sarà invece dedicata all’attività concertistica del musicista, sia come orchestrale, sia come direttore di varie orchestre, con le quali si è esibito nelle più prestigiose organizzazioni musicali italiane, quali il Maggio Musicale Fiorentino, l’Accademia veronese di cultura musicale, l’AIDEM ecc. La terza sezione sarà invece completamente dedicata alla collaborazione artistica fra Cecconi e Luigi Nono, una collaborazione iniziata per l’espressa volontà del compositore veneziano, nel 1980 e conclusasi nel 1987 per malattia del direttore. Questo capitolo rappresenterà il nucleo della ricostruzione biografica: l’intenzione è infatti di citare tutte le rappresentazioni ed esecuzioni di musiche di Nono, in Italia e all’estero, cui Cecconi ha partecipato in qualità di direttore o secondo direttore a fianco di Claudio Abbado. L’ultima sezione, infine, raccoglierà le testimonianze di noti direttori quali Abbado e André Richard, tecnici del suono, cantanti e musicisti che con Cecconi hanno lavorato e collaborato, nonché alcuni ricordi da parte dei familiari e di tutti coloro che hanno potuto conoscerlo. Il testo definitivo, in forma di studio critico, sarà corredato da fotografie dei momenti più significativi e da copie di lettere autografe indirizzategli dai colleghi, tra cui molte di Luigi Nono.
Giorgio Biancorosso, "Da dove viene la musica?": fonti sonore e modi di percezione nella musica da film
La relazione prende spunto da una distinzione classica della teoria cinematografica, quella tra musica diegetica (proveniente da una fonte interna all’universo fittizio abitato dai personaggi) e la musica extradiegetica (la musica che, come la voce narrante, viene percepita solo dagli spettatori). Con riferimento a film di Welles, Renoir, Kubrick, Fellini e Lynch, vengono illustrati esempi in cui la provenienza della musica è incerta, vale a dire in cui non è chiaro se la musica sia extradiegetica o se la sua fonte sonora sia semplicemente fuori campo. Questi momenti preziosi, per quanto brevi, sono interpretati come rappresentativi dell’uso della musica al cinema e dei modi in cui essa viene percepita. All’incertezza percettiva corrisponde infatti da parte dello spettatore la difficoltà di assegnare alla musica una funzione ben precisa.
Oltre a rispondere al bisogno di ancorare la musica ad una fonte sonora, la domanda "Da dove viene la musica?" è anche indice della presa di coscienza dei modi di enunciazione e di percezione. In quell’attimo di presa di coscienza, si noterà in conclusione, fa breccia nella mente dello spettatore una terza dimensione spazio~temporale che non è né quella della storia, né quella della rappresentazione, bensì quella della riflessione.
Luca Conti, La genesi del "Sonido 13" di Julián Carrillo
Il Sonido 13 di Julián Carrillo (1875-1965) è un sistema basato sull’uso dei microtoni, vòlto a riformare la teoria esistente. Venne elaborato a partire dal 1924, anche in risposta ad una polemica accesasi nell’ambiente musicale messicano. Nel giro di breve tempo (1924-25) Carrillo realizzò alcuni strumenti musicali, una semiografia numerica e alcune opere. L’accoglienza in patria non fu tuttavia soddisfacente: dopo una tournée nazionale, Carrillo si trasferí a New York dove ebbe maggiori successi grazie alle esecuzioni di Leopold Stokowski. Il Preludio a Colón mostra l’utilizzo dei microtoni nella prima fase del Sonido 13.
Angela de Benedictis, Le due "Intolleranze": l’idea e l’opera
Intolleranza 1960 di Luigi Nono è tra le prime testimonianze concrete della riflessione compiuta dai giovani musicisti dell’avanguardia nei confronti del teatro. Rappresentata al XXIV Festival Internazionale di Musica Contemporanea di Venezia nel 1961, fu il principale evento della rassegna e i violenti dibattiti seguiti alla sua messa in scena - che nella maggioranza dei casi riflettevano posizioni preconcette, talora di esclusiva matrice politica - costituiscono a tutt’oggi le premesse interpretativi della varia pubblicistica ad essa dedicata.
In seguito a una ricerca sulla genesi e sulla drammaturgia dell’opera, condotta presso l’archivio Nono di Venezia, ho potuto accertare una netta divergenza tra l’assetto strutturale ideato dal compositore e quello effettivamente realizzato. Questo iato, intervenuto in seguito al difficile rapporto con il curatore del testo e a una frenetica fase di lavoro, si è conseguentemente riflesso nei rapporti con l’editore e, per estensione, nella sfera più propriamente inerente alla ricezione dell’opera.
L’analisi del disegno originario di Nono consente di constatare in quale misura esso si rispecchi nel libretto creato da Angelo Maria Ripellino. A una breve considerazione sulla qualità stilistica e sulla struttura di questo testo, segue la riflessione sulle possibili motivazioni che spinsero il compositore a soluzioni di riscrittura (parziale o totale) del libretto. L’illustrazione della particolare procedura di rielaborazione del testo verbale - operazione condotta da Nono in parallelo, quando non simultaneamente, alla vera e propria scrittura musicale - è propedeutica all’esemplificazione di alcune tra le maggiori modifiche, strutturali e drammaturgiche, intervenute nell’opera. L’intento è quello di dimostrare come la conformazione finale di Intolleranza 1960 (nonché la sua attuale veste editoriale) sia stata condizionata, nelle linee essenziali, dalla necessità di ridefinire il testo verbale, e come questa abbia inciso sull’abituale prassi compositiva di Luigi Nono.
Alessandro Roccatagliati, Storiografia musicale del Novecento e "popular music"
La riflessione muove da un’idea di fondo: che sia inopportuno continuare a fare la storia musicale del Novecento senza tenere conto dei fatti e dei fenomeni che in virtù della producibilità tecnica di massa si sono ingenerati nel processo creativo, nell’intrinseca conformazione e nel consumo della musica d’Occidente. Fatti e fenomeni che, oltre ad ogn’altro, hanno interessato in particolare l’ambito della cosiddetta popular music.
Pare inopportuno per almeno quattro motivi, attinenti, rispettivamente: 1) alla storicizzazione delle premesse estetiche che debbono guidare ogni interpretazione storico-musicale; 2) a quella dei fatti storico-musicali che per ciascuna epoca possono essere considerati centrali; 3) ai rischi d’una odierna situazione culturale che stenta a discernere i livelli dell’espressione artistica; 4) alla stessa natura della nostra odierna coscienza storiografica.
S’abbozzano infine tre considerazioni, propedeutiche alla costituzione d’un tipo ideale, capace di lasciar leggere il Novecento musicale in una prospettiva che abbracci l’intero ‘campo musicale’ plurigenere (Middleton). Una prima relativa al decadimento odierno dell’approccio struttural-cognitivo al fatto musicale. Una seconda concernente l’ormai frequentissimo ricorso all’evento musicale registrato quale fonte-documentazione storica. Una terza attinente alla similarità delle dinamiche di permanenza/innovazione che riguardano - al di là dei generi - le forme compositive di prodotti musicali fortemente commercializzati di questo come d’altri secoli.

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