Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Attività 1997 Primo Incontro dei Dottorati di Ricerca in Discipline musicali

Conferenze e convegni 1997

 

Primo Incontro dei Dottorati di Ricerca in Discipline musicali
Bologna, Palazzo Marescotti, via Barberia, 4, Sabato 31 maggio 1997

 

Marco Brusa (Cremona)
Sulle due versioni della Battaglia di Werrecoren: problemi relativi all'edizione di un rifacimento non d'aurore
La Battaglia di Werrecoren è tramandata in due versioni. Definiamo versione (a) il progetto compositivo dell'autore inteso a celebrare la vittoria di Francesco II Sforza e delle truppe imperiali contro i francesi, nel 1522 alla Bicocca; versione (b) il risultato di un progetto di parziale rimaneggiamento, negli anni 1525-29, finalizzato in primo luogo ad eliminare dal testo letterario i numerosi passi che celebrano l'impero, e a sostituirli con analoghi riferimenti a Francesco II Sforza e all'Italia. L'esistenza di un archetipo - provata sulla base di un errore comune a tutta la tradizione (sette testimoni) - e la cattiva qualità di alcuni interventi riducono notevolmente la probabilità che Werrecoren sia responsabile del rimaneggiamento.

Nel preparare l'edizione della versione (a), l'obiettivo è il testo che esprime la volontà dell'autore. Se vogliamo approntare un'edizione della versione (b) dobbiamo considerare che chi pose in opera il rifacimento si comportò probabilmente da semplice copista - e non espresse quindi la sua volontà di revisore - nei confronti di quei segmenti testuali che non rientravano nel suo progetto (copiò infatti almeno un errore nel testo musicale). Da un lato quindi il revisore manifesta implicitamente la volontà che il testo sia completo, dall'altro non definisce la propria volontà circa la forma che devono assumere alcuni segmenti dello stesso testo. Una situazione analoga - con l'opportuna sostituzione della figura dell'autore a quella del revisore - si verifica con le opere incompiute, per esempio il Requiem di Mozart.

Il quesito fondamentale - se e come debbano essere ricostruiti i segmenti testuali della versione (b) per i quali non è espressa la volontà del revisore - pone in primo piano il problema del rapporto tra scientificità e fruibilità di un'edizione. Se infatti, con procedimento rigoroso, ci proponessimo di ricostruire il lavoro del revisore-copista anche per tali segmenti, dovremmo accogliere a testo l'errore che egli ha copiato, insieme ad altre probabili innovazioni: il tutto a scapito della fruibilità del testo ricostruito. Nella nostra edizione abbiamo preferito privilegiare la fruibilità: nella ricostruzione di tali segmenti abbiamo scelto di rifarci all'originale, di non accogliere cioè a testo tutte le eventuali innovazioni (tra cui gli errori) già presenti al momento della revisione, né le eventuali innovazioni prodotte dal revisore in quanto copista, tranne quei casi in cui esse abbiano instaurato con il rifacimento un nuovo indissolubile rapporto. All'atto pratico, una volta poste le necessarie premesse teoriche - definizione di versione (a) e di versione (b) e dell'oggetto di edizione nell'uno e nell'altro caso -, rimane aperto il dilemma delle varianti equivalenti, per la scelta delle quali sembra opportuno appoggiarsi ad un solo testimone per ciascuna delle due edizioni, allo scopo di evitare mescolanza di redazioni distinte.

Maria Teresa Arfini (Bologna)
Il contrappunto nell'opera pianistica di Robert Schumann
Schumann fu pressoché autodidatta negli studi di teoria musicale e di contrappunto: prese lezioni regolari per meno di un anno, dal luglio del 1831 alla pasqua del '32; proseguì autonomamente e con assiduità tali studi sia su trattati di contrappunto e fuga, sia soprattutto mediante l'analisi delle opere di Bach.

Uno dei più interessanti riflessi di una siffatta attività può essere considerato l'impiego della scrittura imitativa assai abbondante nelle composizioni schumanniane, anche in contesti ad essa normalmente estranei, come i pezzi brevi per pianoforte. Quasi mai si tratta di vera polifonia: le voci sorgono e scompaiono liberamente, l'idea imitativa si fonde nella scrittura omofonico-accordale, la ricerca timbrica prevale sulla condotta delle parti.

Si è spesso ritenuto che tali 'libertà' fossero dovute alla scarsa preparazione del compositore. L'esame di quanto ci resta degli esercizi contrappuntistici di Schumann - Skizzenbücher, Fugengeschichten - dimostrerebbe però il contrario: la complessità della scrittura imitativa è relativamente elevata e le regole della condotta delle parti sono rigorosamente osservate. Piuttosto che di incompetenza si tratta dunque di disinteresse, se non addirittura di rifiuto della scrittura contrappuntistica rigorosa.

Lo studio del processo compositivo di alcune opere, coeve alle lezioni di composizione, mostra casi di vero e proprio "recupero" di esercizi di contrappunto, nel tentativo - più o meno riuscito - di vivificare tali lavori snaturandone il rigore polifonico. Il terzo brano dei Papillons op. 2, per esempio, presenta nella seconda parte un canone all'ottava inferiore inserito in un contesto da valzer schubertiano: era un esercizio compilato per le lezioni di composizione. Anche la fuga conclusiva dell'op. 5 - un ciclo di variazioni libere su basso ostinato - ha avuto una genesi analoga: è la trasfigurazione - nella direzione della libera polifonia, dell'ordito cangiante e fluttuante - di una scolastica fuga a cinque voci, ricca di artifici come stretti e diminuzioni ritmiche del soggetto. Più della reale condotta polifonica, importa dunque a Schumann l'intreccio delle linee, la creazione di orditi dai contorni quanto mai sfocati, un'indeterminatezza tutta romantica. Un esempio significativo è l'episodio centrale della prima delle Novelletten op. 21. Sei entrate in imitazione in stretto danno l'impressione di una sontuosa impalcatura polifonica: in realtà molte voci si perdono poco dopo essere entrate, ma creano una notevole intensificazione espressiva.

In Schumann dunque, raramente il significato del contrappunto imitativo è da intendersi in senso tecnico (ad eccezione di taluni lavori del periodo della maturità): è piuttosto quello che E. T. A. Hoffmann definiva, per bocca di Kreisler, "misteriose combinazioni" confrontabili con "muschi, erbe e fiori meravigliosamente intrecciati".

Daniele Sestili (Roma I)
Musica nell'esperienza religiosa popolare in Giappone
Anna Rita Addessi (Bologna)
Le influenze stilistiche come "circolazione di significanti": Claude Debussy e Manuel De Falla
La relazione ha esaminato la questione delle "influenze stilistiche": la loro definizione, il loro funzionamento, il loro ruolo in un processo interpretativo, come studiarle ed interpretarle.

Nella letteratura critica, l'influenza stilistica è stata spesso intesa in senso negativo, come segno di immaturità, o, al contrario, come presenza creativa di un maestro. Tali concetti sono stati però messi in crisi dalle teorie intertestuali. Roland Barthes dichiarò p. es. di preferire al termine 'influenza' il concetto di 'circolazione di significanti', non forze, ma segni aventi valore di monete: "ciò che si trasmette non sono delle "idee" ma dei "linguaggi", vale a dire delle forme che si possono riempire in maniera diversa".

Muovendo dalle teorie intertestuali di Barthes e dagli scritti sullo stile di Kofi Agawu, Mario Baroni e Michel Imberty (tutti, in diversa maniera, afferenti a prospettive semiologiche, sociologiche e psicologiche), sono state formulate alcune ipotesi sul concetto di stile e di influenza stilistica. Queste nuove prospettive sono poi state applicate allo studio di un caso significativo ma ancora poco studiato: le influenze stilistiche di Debussy su Manuel de Falla. Ciò ha permesso di evidenziare, dal punto di vista sia storiografico sia analitico, alcuni aspetti fondamentali della funzione svolta nella produzione falliana da Debussy e dalla sua musica, in particolare nella ricerca incessante che Falla condusse per la costruzione della propria identità musicale e quindi del proprio stile.

Sono stati poi messi in evidenza i procedimenti metodologici utilizzati, i risultati ottenuti, e gli interrogativi posti dal diverso approccio teorico e metodologico, rispetto allo studio e alla definizione di 'stile' e di 'influenza stilistica'.

Stefano Campagnolo (Cremona)
Gli esordi del madrigale a Roma e il "Libro primo della serena (1530)
Le più recenti ricerche sul madrigale del primo Cinquecento (H. Colin Slim, J. Haar e I. Fenlon) hanno delineato un quadro in cui pare sempre più determinante il ruolo di aree culturali e di certe individualità nell'affermazione del nuovo genere poetico-musicale. Più di tutte sono Firenze e Roma (in seconda battuta) a profilarsi come aree elettive di produzione e diffusione del proto-madrigale, e l'opera di Verdelot quella che meglio definisce i connotati del genere già negli anni '20.

Un punto di volta è rappresentato dalla raccolta dei Madrigali de diversi excellentissimi Musici: libro primo de la Serena - edizione ancora attorniata da molti misteri bibliografici, ma presumibilmente stampata a Roma da Dorico o Pasotti nel 1530 - in cui il termine 'madrigale' fa la sua prima comparsa in una stampa musicale. Quest'edizione, pure con ben otto madrigali di Verdelot e un'altissima percentuale di inediti, conserva ancora l'aspetto "mescidato" delle edizioni romane del precedente decennio e come tale, malgrado il primato assegnatole dalla singolarità dell'intitolazione che le ha dato notorietà storiografica, è stata finora considerata dagli studiosi: antologia assemblata in modo piuttosto casuale, come rischiosa impresa editoriale in cui hanno trovato la via della stampa opere che l'editore ha ritenuto avrebbero maggiormente incontrato il gusto del pubblico.

I testi di alcuni madrigali della Serena circostanziano tuttavia l'ambito culturale in cui vide la luce l'edizione, e forniscono indicazioni che ci permettono di ricondurla alla potente famiglia romana dei Colonna, specialmente al cardinal Pompeo, in quegli anni il membro più in vista della casata. Inserita in tale contesto, anche la silografia che abbellisce il frontespizio, l'immagine della sirena bicaudata, cessa di essere una scelta casuale e va identificata, qual è, come l'antico stemma di famiglia dei Colonna. Questo collegamento iconografico, lungamente sfuggito, doveva essere particolarmente evidente a un romano del tempo, visto che l'edizione si colloca cronologicamente immediatamente a ridosso del Sacco e dato il ruolo che i Colonna avevano svolto nella vicenda.

Attribuire alla Serena un carattere meno distrattamente casuale significa accentuare l'impressione che alla base dello sviluppo della nuova forma poetico-musicale possa esserci stata una consapevolezza finora insospettata.

Susanna Pasticci (Roma I)
I materiali della memoria: la musica italiana del secondo dopoguerra tra creazione e reinvenzione
La definizione 'materiali della memoria' sta ad indicare certe reminiscenze del passato - melodie popolari, figurazioni ritmiche o temi mutuati dal repertorio della tradizione colta - che a partire dagli anni '50 affiorano nelle opere di alcuni compositori italiani impegnati in prima linea sul fronte della ricerca di nuove possibilità espressive: tra loro Bruno Maderna, Luigi Nono e Luciano Berio. La presenza di questi elementi può essere interpretata come sintomo di un'attitudine a considerare la storia come fonte di progettazione dei propri codici linguistici, mediante il ricorso a certe "valenze inesplorate" che moltiplicano i livelli di rilettura della tradizione. L'aspirazione a conciliare l'imperativo del progresso tecnico con le ragioni della memoria non implica necessariamente una perdita di tensione sperimentale: piuttosto che cedere alle lusinghe del calco stilistico, essa si manifesta essenzialmente nella tendenza ad inglobare organicamente i materiali della memoria entro composizioni stilisticamente originali.

Nella musica degli anni '50 tali riferimenti vengono sapientemente occultati tra le maglie della strutturazione seriale: pur se utilizzati come pilastro costruttivo della composizione, i materiali della memoria vengono elaborati in modo tale che la loro riconoscibilità all'ascolto risulti totalmente annullata dalla complessità dei processi di strutturazione della trama sonora. Negli anni '70, invece, in concomitanza con la crisi del pensiero seriale, la presenza di tali materiali diviene gradualmente più manifesta ed esplicita. In nessun caso, tuttavia, l'eterogeneità dei processi compositivi messi in atto per elaborare materiali preesistenti può essere ricondotta alla categoria della mera 'citazione'. L'analisi delle partiture, la lettura delle fonti documentarie e lo studio del processo creativo attraverso l'esame di schizzi, appunti di lavoro e abbozzi compositivi, consentono di delineare un quadro quanto mai complesso ed articolato delle potenzialità espressive implicite nell'uso dei materiali della memoria. Se infatti la tendenza a "produrre il nuovo con il vecchio" riaffiora ripetutamente in diversi ambiti e contesti della musica italiana del secondo dopoguerra, le modalità attraverso cui i singoli compositori prestano ascolto alle ragioni della memoria sono il risultato di scelte poetiche autonome e individuali: una straordinaria pluralità di risposte estetiche, dunque, che l'adozione di un comun denominatore di indagine, in grado di restituire alle singole opere musicali la loro centralità specifica, consente di mettere adeguatamente in luce.

Daniele Sestili (Roma, La Sapienza), Musica nell'esperienza religiosa popolare in Giappone - Alcune correnti di pensiero filosofico-religioso giunte in Giappone dall'Asia continentale hanno potuto intrecciarsi con il sostrato autoctono. La vita spirituale giapponese si è così venuta a basare su un'armoniosa miscela di elementi, quali pratiche sciamaniche, scintoismo (fede indigena), buddhismo. Tale sincretismo ha determinato un uso frequente e significativo di musica, danza e teatro nella prassi rituale. La concezione sciamanica di musica/danza come mezzo di comunicazione con il trascendente fu infatti rafforzata dall'approccio magico del tantrismo - importato insieme al buddhismo - con il suo impiego di mantra (formule magiche) e mudra (gesti simbolici delle mani). Dal canto loro, nel corso della storia scintoismo e buddhismo (nella forma del Mahayana) hanno sempre promosso l'impiego delle arti performative nel contesto religioso.

Gli spettacoli folklorici attuali mostrano un'interessante continuità con le pratiche magico-religiose dell'antichità proiettate nella mitologia. Un episodio narra che la dea solare venne riportata fuori dalla Caverna celeste, dove si era rinchiusa facendo piombare il mondo nell'oscurità, grazie alla danza e alla musica eseguite da un'altra divinità su un recipiente capovolto percosso con i piedi. Ritroviamo qui la fusione tra più media e una ragion d'essere sostanzialmente religiosa, tratti fondamentali anche nella tradizione folklorica moderna.

Gli aspetti musicali di tali spettacoli religiosi rivelano un forte regionalismo, ma si riscontrano significative concordanze nell'àmbito organologico. Di norma gli strumenti impiegati sono percussioni e flauti traversi. Esaminiamo il caso dello spettacolo detto kagura, in cui gruppo musicale è costituito da uno o più tamburi, dai cimbali e da un flauto. Il tamburo (a barile, cilindrico, o più raramente a clessidra) costituisce il cuore del gruppo, rivelando un'analogia tra ritualità giapponese e sciamanesimo nord- e centro-asiatico. I cimbali, a volte sostituiti da un tamburo cilindrico, sono attestati come strumento dei kagura eseguiti in passato da sciamane. Secondo un'antica credenza il flauto possedeva la capacità di evocare la divinità; ancora oggi nella parte nord-orientale dell'isola maggiore gli esecutori di kagura affermano che il flauto è la voce del dio evocato.

 

Dibattito su organizzazione, funzionamento, sbocchi dei tra Dottorati di ricerca


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