Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia – Anno V – numero 2 – Dicembre 1999

Prove di Drammaturgia


TEATRO POPOLARE DI RICERCA

UNA NOZIONE IN PROGRESS

di Gerardo Guccini, Massimo Marino, Valeria Ottolenghi, Cristina Valenti

 

La definizione di "teatro popolare di ricerca" non si propone di fondare una categoria teorica né di classificare un genere teatrale, ma procede bensì dal riconoscere e quindi nominare un insieme di esperienze che emergono dalla pratica artistica imponendosi perciò all’evidenza.

Se pensiamo al teatro di Leo, delle Albe, di Pippo Delbono, del Kismet, di Baliani, di Paolini, di Settimo…vediamo infatti come certi elementi della tradizione si siano diversamente riprodotti nel bagaglio tecnico degli artisti e degli ensemble attivando inedite modalità di racconto, comunicazione e presenza. La prospettiva concentrata della ricerca (che per anni ha avuto nel laboratorio il suo emblema) e la visione dilatata del popolare hanno insomma dimostrato con l’evidenza delle opere e dei percorsi individuali di poter convergere nel comune rifiuto di astratte convenzioni sceniche in nome della centralità dell’esperienza.

Ciò acquisito, restano ora da suscitare testimonianze, riflessioni e conoscenze che assimilino al livello della riflessione culturale quanto gli uomini di teatro hanno già realizzato in pratica facendo sfociare i procedimenti e le memorie della ricerca teatrale in esiti suscettibili d’una fruizione popolare.

Per avviare questo processo delicato e necessario, che, nell’immediato, si traduce in un’esigenza di confronti e prese di posizione personali, mentre, in prospettiva, è latore di rinnovate visioni storiografiche cui riferire i valori dei bistrattati anni ’80 e le tenaci anomalìe del caso italiano, abbiamo composto una locuzione intenzionalmente provocatoria. Se l’espressione "teatro popolare" si definisce in base ai contenuti del sostantivo ‘teatro’ – che, per l’appunto, presuppone spettacoli, tradizioni e tecniche da offrire o riferire al popolo - l’espressione "teatro popolare di ricerca" suscita, ancor più che un significato univoco, una reazione dialettica, che, combinando due nozioni contrapposte, lascia intuire un senso ulteriore, estraneo sia al concetto di ‘ricerca’ che a quello di ‘popolare’ e proprio alla locuzione che li unisce.

Crediamo che il rapportarsi a questo ‘senso ulteriore’ sia oggi un atto necessario perché la dimensione della ‘ricerca’ e quella del ‘popolare’ si pongono fra le principali energie motrici del nuovo teatro dell’ultimo ventennio, che, viste le imminenti scadenze di calendario, potremmo incominciare a definire post-novecentesco, considerando per l’appunto il Novecento un ‘secolo breve’ incorniciato dal primo conflitto mondiale e dalla crisi – dapprima ideologica e poi globale - del sistema sovietico. Parlando di ‘popolare’ e di ‘ricerca’ non intendiamo insomma riferirci alle determinazioni storiche di queste nozioni – per cui, ad esempio, la ‘ricerca’ è una fase che segue le ‘seconde avanguardie’ oppure il ‘popolare’ designa forme d’espressione indissolubilmente connesse al fondo etnico – ma riconoscere e denominare le spinte che hanno animato i percorsi teatrali di cui siamo stati testimoni e, spesso, compagni d’attuazione. In questi ultimi vent’anni, alla luce delle idee elaborate dalla riflessione teorica non sembrerebbe essere successo niente di sostanzialmente ‘nuovo’, niente di originale e potente, ma non appena usciamo dalle coordinate di questo sistema di evidenziazione ci troviamo immersi in un panorama teatrale radicalmente mutato, rispetto al quale siamo un po’ tutti assuefatti – perché ci viviamo dentro – e alienati – perché non ne ricordiamo la formazione o, peggio, pensiamo che questa sia irrilevante. Discutere di "teatro popolare di ricerca" è dunque anche un modo per ricomporre le consapevolezze quotidiane e le memorie personali in narrazioni dell’accaduto, che perforino il tempo e lo spazio fra i teatranti evidenziando le fasi e le zone di omogeneità e le modulazioni inventive, che si sono via via prodotte nell’intreccio fra le pratiche, i valori, il sentire. Il processo al quale stiamo lavorando è senz’altro anomalo: al suo interno, l’apporto intellettuale si risolve infatti in una mediazione nel teatrale che, da un lato, consegna agli artisti delle nozioni ricavate dalla loro stessa storia e, dall’altro, attende da loro risposte di critica o di conferma, da cui ripartire per nuove esplorazioni e avventure conoscitive. Per questo è necessario chiarire il più possibile e fin dalla fase preliminare la natura del testimone che ci stiamo passando l’un l’altro. La zona di maggior ambiguità nella locuzione ‘teatro popolare di ricerca’ risiede indubbiamente nell’attributo ‘popolare’. La ‘ricerca’ è infatti una condizione di vita alla quale gli artisti di teatro aderiscono naturalmente avvertendo d’istinto quando questa s’addensa o scioglie nelle contraddizioni e nei ritmi del mestiere. Con ‘popolare’ ci si espone invece a rischi di fraintendimento che è bene evitare.

Il "popolo" può apparire, a fronte del frastagliato fronte della teatralità di ricerca, un oggetto oscuro: si è inteso via via per popolo il terzo stato o le classi subalterne, il depositario del folklore o il consumatore della società urbana di massa. Oggi i teatranti che lavorano su urgenze forti sono spesso in grado di costituirsi un proprio popolo, che può andare molto oltre la cerchia di coloro che immediatamente condividono gli esiti della loro ricerca, e diventare un insieme variegato e complesso di tensioni ed esigenze. D’altra parte, il concetto di "popolo", se analizzato storicamente, si rivela una tensione più che un’area certa, qualcosa di inventare, da costruire; il sogno dell’intellettuale, dell’artista che insegue una necessità e vive dolorosamente la condizione della separatezza ricercando la relazione, la comunità. Anche nel caso del "teatro popolare di ricerca" il popolo non è una realtà sociale o l’artefice collettivo della produzione artistica, ma l’effetto d’un incontro faticosamente conquistato, d’un raggiungimento, insomma, che parte dalle necessità intrinseche al lavoro teatrale per diventare esperienza condivisa.

Non per questo pensiamo di trascurare le effettive trasformazioni storiche della massa popolare, che possono fornire alla nostra ricerca un indispensabile inquadramento temporale. Lo stato di crisi della realtà popolare, che gli utopisti e gli ideologhi del XIX secolo volevano governare traendone un popolo di popoli, una nuova umanità, si è poi realizzata producendo una identità non solo diversa dalla prima, ma caratterizzata da qualità opposte.

Si tratta della massa. La cultura di massa ha preso il posto di quella popolare, della quale costituisce l’antitesi. E infatti: è visuale quanto la prima è orale; non pratica logiche; è per sua natura messaggio; vive il tempo come modulazione del presente (e non, viceversa, il presente come modulazione del tempo). L’artista, dunque, in qualunque modo definisca e adatti al proprio operare la nozione di ‘popolare’, difficilmente potrà confondere il ‘popolo’ e la ‘massa’, all’interno della quale continuano però a rispondere ai requisiti del ‘popolare’ diversi e mutevoli sostrati, che non si escludono l’un l’altro – come avviene coi popoli a base etnica – e che non scaturiscono da motivi culturali o sociali, ma dal persistere o dal prodursi nei loro singoli esponenti d’un senso di individualità inscindibilmente connesso al sentimento dell’appartenenza.

Vi sono dunque numerosi ‘popoli’ che fermentano, con dinamiche imprevedibili e spesso pericolose all’interno della massa, la quale, di fatto, li include senza rappresentarli.

In parte è senz’altro vero che fra i sostantivi e gli attributi corrispondenti – in questo caso: popolo e popolare – non esistono delle correlazioni vincolanti; tuttavia, le esperienze dirette e personali che possiamo avere delle cose in sé finiscono per tingere l’alone semantico dei termini ad esse corrispondenti. Così non sembra inutile proiettare sull’aspirazione della ricerca ad acquisire una dimensione popolare ciò che nel linguaggio comune – e con crescente determinazione – definisce un popolo. E cioè la presenza d’un comune sentire che incrina la finitezza dei singoli fondando orizzonti di compartecipazione emotiva.

È un’indicazione umile ma feconda e forse anche utile, poiché inserisce il teatro fra le principali forme di opposizione all’uniformità della cultura di massa, confermandone per altro l’unicità e i valori. Da un lato, uno dei rovesci dell’uniformità di massa, nelle nostre società, è la moltiplicazione delle nicchie, dove possono incontrarsi esperienze di grande spessore qualitativo e si possono incrociare importanti pratiche delle differenze.

Dall’altro si va diffondendo il mito delle regioni-patria, degli stati a base etnica, del popolo inteso come enclave chiusa e latrice di un principio di identità rigido, incontrovertibile, esclusivo.

L’una forma di opposizione ha i caratteri della resistenza interna; è dialettica, fluida, mobile; si nutre di differenze; pratica meticciati, innesti, contaminazioni; all’idea che vede nell’individuo un esemplare conforme del proprio gruppo sociale (classe, popolo, categoria) sostituisce la ricerca di identità ulteriori che maturano nell’esperienza del contatto. L’altra può essere invece aggressiva e, di fatto, sostituisce all’omologazione strisciante e indotta della cultura di massa un’omologazione motivata, esplicita e, proprio per questo, impermeabile ed esclusiva, con reali rischi d’intolleranza. Il teatro che, nella società di massa, è facilmente esso stesso una nicchia, si contrappone svolgendo, nelle forme che gli sono proprie, attraverso esperienze artistiche, azioni di resistenza interna, che, però, in molti e significativi casi – che vogliamo qui evidenziare con l’espressione "teatro popolare di ricerca" – non si chiudono in ambiti circoscritti, rifiutano di adeguarsi a valori precostituiti né parlano il linguaggio cifrato delle enclaves culturali, cercando in sé un’urgenza, una necessità, una primarietà d’intenti e soggetti espressivi che richiamano, nell’espandersi, la testimonianza di cerchie larghe, larghissime e virtualmente infinite di spettatori. La dimensione ‘popolare’ del teatro di ricerca smaschera la presunta compattezza della massa suscitando nelle singole persone l’individuo particolare, e cioè il compagno con cui condividere l’esperienza dello spettacolo e, forse, indica che in questo nostro mondo in continuo mutamento il ‘popolo’ è anche un’anima che si manifesta all’improvviso, suscitata dal prodursi – per quanto riguarda il teatro, fra gli spettatori - d’un comune sentire, coinvolgente ed etico, di sensibilità e pensiero.

Ripartire dall’emozione, dallo stupore e dal piacere del teatro – che comporta il senso dell’esserci – come atteggiamenti primari (senza i quali non esiste scoperta razionale), coniugando la densità dell’esperienza sociale, civile, umana con la ricerca di nuove forme artistiche e comunicative: in questo consiste la nuova popolarità della relazione teatrale. Mentre la cultura di massa sembra offrirti di tutto poi ti lascia solo con i tuoi pregiudizi e incapace di guardare fino in fondo, il teatro fa esattamente l’inverso: insegna a confrontarsi con ciò che è lontano da noi, apre finestre, unisce, ci porta – come ricorda Baliani citando Gregory Bateson – a "pensare il pensiero dell’altro".

Sullo sfondo del nostro progetto c’è anche la speranza di rafforzare, grazie al dibattito sul "teatro popolare di ricerca", la voce, la capacità di testimonianza e, quindi, la memoria, di quegli artisti di teatro che hanno salvato i valori della ricerca rigenerandoli. Già alla fine degli anni ’70 si parlava di "postavanguardia"; Tondelli e Pazienza avvicinavano i modi della ribellione esistenziale e formale alla cultura della moda, dei modelli di massa, perfino dei rotocalchi… La caduta del muro di Berlino ha messo in discussione l’antica idea di avanguardia formatasi fra i trattati militari e i manifesti del comunismo, fra Clausewitz e Lenin, idea che la equiparava a un manipolo che deve insufflare anima alle masse. Per cui oggi parliamo di ricerca, un termine che dà più l’idea della tensione senza implicare quella dello scontro e del superamento.

Finora i lavori sul "teatro popolare di ricerca" hanno visto la svolgimento d’una serie di incontri e tavole rotonde che si sono tenuti a Rubiera, Rovigo, Parma, Cagliari, Bergamo, coinvolgendo studiosi, artisti, critici, intellettuali e, soprattutto, le formazioni e gli organismi teatrali che hanno ospitato le singole manifestazioni: la Corte Ospitale, il Lemming, Lenz Rifrazioni, Cada Die, Erbamill… Ricordiamo molto volentieri qui il loro impegno, anche perché il modo entusiasta e generoso con cui hanno aderito, con spontanea immediatezza, alla nostra proposta di discussione è già di per sé un segno, un documento, una realtà che entra nella ricerca occupandovi un posto di primo piano.

In questo dossier figurano quasi per intero gli atti del Convegno di Rubiera, che, dal nostro punto di vista, costituiscono l’effettivo momento di fondazione della ricerca poiché contengono le risposte degli artisti ai quali ci siamo rivolti riconoscendo in loro degli esempi efficaci di "teatro popolare di ricerca": Marco Baliani, Pippo Delbono, Marco Martinelli, Gabriele Vacis. Seguono, nel settore intitolato "Prospettive", alcuni nostri interventi dedicati alle possibilità e agli esiti dalla ricerca, ad alcuni suoi aspetti interni e alle tappe finora percorse. Speriamo che a questi seguano altri contributi, confermando, se non le nostre ipotesi, quell’esigenza di confrontarsi e dibattere sulle cose del teatro, che, finora, abbiamo riscontrato ovunque non senza emozione.


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