Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia

Prove di Drammaturgia


Un sì luttuoso show (o slow?)
"Compleanno" e il passaggio in scena della "todes-trieb"

di Enzo Moscato

 

"Ridi, mosca, che domani è Pasqua!"
(detto popolare-spia dell’umorismo dell’inerme,
o comunque della disposizione al comico di un cuor depresso)

 

In "Compleanno" ( 1986), un’esile creatura, senza nome, metà maschio, metà femmina, metà vecchia, metà saggia, metà folle, una strana individualità insomma, caratterizzata dall’intersezione, sovrapposizione, connubio, innesto, di tutto con tutto, s’appresta a celebrare, in scena, un bizzarro cerimoniale, non meglio e volutamente non specificato: un compleanno, forse, a giudicare dal vassoio che reca in mano incedendo, con su la torta con le candeline accese, ma, forse, anche, un rito funebre, o magari l’uno e l’altro assieme, un luttuoso show, una solitaria, distruttiva esibizione, che si avvolge su se stessa, come seta, e usando i soli fili della voce per farlo.

L’importante è che questa ibrida, inverosimile creatura (un mutante, un replicante, un attore, uno scrittore, un cantante, un mitomane, un playbackista) non ci dica mai il suo nome, ma che nomini invece gli altri, le cose, le anime, i corpi, che evoca attorno a lei.

Altri, cose, anime, corpi, che sono, per lo più, immaginari.

Collocati in un ‘altrove’ che si può incarnare o rappresentare solo con gli astratti suoni delle parole, con le loro astratte immaginalità. Tutta la sua affabulazione, vorticosa, rapidissima, ruota attorno ad una sedia vuota, e purtuttavia occupata, nel suo acceso immaginario, nel suo delirio toti-verbale, da ‘Ines’, alternamente oggetto e parziale soggetto, dell’insolito cerimoniale.

La sedia vuota, poco a poco riempita, quasi travolta, da vortice delle sue velocissime parole, è il segno, il simbolo, l’immagine, il simulacro dell’Assenza: Ines, infatti, appellativo ripetuto della sua invisibile compagna, o muto interlocutore scenico, altro non è che l’anagramma di ‘sine’, latino, che vuol dire senza o mancanza, ma volendo, e tanto per giocare anche con le associazioni inconsce, potrebbe essere pure l’anagramma di ‘seni’, come a voler rimarcare il rapporto, il legame, nutritivo, anaclitico, vorace, oralmente infantile-succhiante del soggetto, del soggetto-macchina, straparlante, con quell’’Altrove’, o Mancanza, o Assenza, o ‘Altro’, occupato in scena dalla sedia vuota.

Entrambe le connotazioni, senza o seni, vuoto o pieno, frustrazione o gratificazione, strettamente sempre legate, intersecate, sovrapposte, in connubio, così come si presentano il corpo e la mente dell’esile creatura cerimoniante, indicano comunque la sostanziale ambiguità/ambivalenza, o ibridità, o innesto significante, dell’agente, della lingua e della situazione drammatica, divisi a metà, o fatti solo di metà, di parzialità di qualcosa, così come, del resto, si presenta la vita, la vita ordinaria, quotidiana, di ciascuno di noi, così come compositamente, caoticamente, meticciamente, si dà, ai nostri occhi e sensi, il tragico-ridicolo vissuto d’ogni giorno.

Nessuna certezza di soggetto, insomma, è sostenuta in scena, e, complementariamente, nessuna certezza d’oggetto, almeno se per soggetto-oggetto s’intende qualcosa di unitario, di puro, di compatto, di perennemente, e solo, identico a sé stesso. Al contrario, ciò che vive in scena, ciò che si fa sentire da protagonista, ciò che è sicuro, certo, sotto i nostri occhi, è solo il disperato, umanissimo, impossibile tentativo d’evocarli entrambi, soggetto e oggetto, dal Nulla, dal Niente, con la parola, anzi, con le schegge, i frammenti, le parzialità acuminate, della parola, che è poi parola ridotta per lo più a mero suono, parola fatta scoppiare, dilaniare, annullare, nella sua essenza e carne di logicità, significazione.

La narrazione, che ne consegue, è, dunque, una non narrazione.

Un auto-inganno sospeso sul vuoto, sul non-senso.

Un fingere di dire o di prendere storie, da dove capita: da sé stessi, dal proprio reale o immaginario, prima di tutto; e da Ines, da ciò che è o si attribuisce, fantasticamente, alla vita e all’opera di Ines, poi.

Ma ciò che si prende o ciò che si ruba è sempre, in qualche modo, irreale, improbabile, ibrido, mostruoso (e tipi da bestiario metropolitano sono gli "ibridi innesti" esistenziali evocanti nel racconto/non racconto: dalla piccola Spinoza, alla gatta Rusinella, da Cartesiana, a Cha-cha-cha, al maniaco ‘particolare’ Pagnuttella), vale a dire, ontologicamente sempre indefiniti, in transito, sul limite, come attinti o ritratti solo sul bordo della ragione o la realtà, catturati al delirio, al sogno, alla devianza, all’anomalia, non certo a ciò che si dice norma, o veglia, logica o coscienza.

Perché chi racconta, o tenta di farlo, chi nomina le cose (o ciò che sotto tale nome intendiamo) racconta e nomina, forse, per sfuggire a un’angoscia terribile, cupa, che distorce, sfigura, depista ogni più piccolo e innocuo e insignificante appiglio di realtà, in quanto che questa realtà altro non è che quella sgradevole del lutto e della sua faticosa elaborazione, cicatrizzazione, chiusura.

"Compleanno" è stato da me scritto e pensato, nonché messo in scena, infatti, esattamente 13 anni fa, per la prima volta. Nel tempo, come del resto succede a tutte le cose che, dalla semplice incubazione emotiva e mentale, arrivano poi ad avere vita sulla ribalta, sono andato sempre più arricchendolo, precisandolo, e, nel contempo, come sfumandolo, levigandolo, un po’ per metterne maggiormente a fuoco gli intenti e le motivazioni profonde, certo, e un po’ per spostarlo, sottrarlo a questo fuoco, fuoco di memoria, di ferita ancora aperta, memoria-ferita che è stata e, in parte ancora è, la morte di Annibale, Annibale Ruccello, cui lo spettacolo è tutto dedicato. Il lavoro fatto sul testo e sulla rappresentazione originaria dunque, in tutti questi anni, è sostanzialmente un lavoro di distanziazione, un frapporre diaframma e filtri tra me e l’evento traumatico della sua scomparsa, e, contemporaneamente, un processo di avvicinamento, per il tramite forzato della sua morte, alle tematiche e alla possibili forme espressive legate alla Mancanza, all’Assenza, tema teatrale per eccellenza, come si sa, anzi, tutta l’assenza del teatro tout-court, è secondo me, in questo tema: la Mancanza, l’Assenza e nei loro elusivi, impalpabili, ma, presentissimi, referenti scenici: il fantasma, il fantasmatico, l’immaginario, gli spettri, il non-reale.

"Compleanno" lo si potrebbe definire una specie d’esercizio di controllo dell’angoscia; di controllo/superamento del trauma; o anche, se si vuole, di ludica veglia funebre, scandita da una ritmica litania, composta di parole mie fuse insieme ad altre, che, da vivo, appartennero a Ruccelo. Un "totenkinder-lied", un canto messo su per la morte di un bambino, di un adolescente, di un puer: comunque, per qualcuno che ci ha dovuto abbandonare molto presto, in modo inatteso, violento, insopportabile. È un rituale che, già dal titolo, enuncia ciò che intende celebrare, rinnovandone il dolore e il cammino necessario, il cammino fatto e quello ancora da fare, per superarlo, o, quantomeno attutirlo, sublimarlo. È una sorta di nascosta, intima, clandestina messa privata, in cui si officia per la vita e per la morte, e in cui lo sguardo altrui, lo sguardo dello spettatore, dell’anonimo invitato è, al contempo, ricercato ed esorcizzato, invitato con ammiccamenti rapidi, lascivi, a credere di poterne fare parte, e, nello stesso istante, scacciatone con rabbia, con fastidio, con feroce risentimento. In "Compleanno" si rimemora, come per una festa fissa, una stabile ricorrenza di calendario del dolore umano, il ritorno ciclico di un avvenimento che aspettiamo, che conosciamo, che ri-conosciamo, ogni volta, nei suoi tratti, nei suoi contenuti, nelle sue spettrali forme: l’Assenza, e, insieme all’Assenza, la speranza, il sogno, l’utopia che l’immenso, insondabile vuoto che essa trascina, possa essere illusoriamente, magicamente colmato, sia pure per un momento, dalla pratica del ricordo, dal rosario, sempre più inesatto e sempre più lacunoso, delle cose fatte e dette un tempo. In altri termini, si tratta di mettere in opera, in pubblica finzione, la più formidabile e intima messa in scena, o illusione, che il cuore umano conosca: quella di poter convertire in Presenza, in carne, sangue, vita, voce, parola, attraverso dei rituali, delle reiterazioni linguistico-gestuali, dal sapore sciamanico, l’universo fantomatico e fantasmatico, spettrale, invisibile, assolutamente silente, dell’Assenza, della Mancanza, di Ciò che non è e non può ritornare mai più.

Ed è su questi rituali, su queste reiterazioni, su queste ripetizioni, o danze continue, di parole-gesti, a carattere magico-sciamanico, più che sul tentativo, impossibile in partenza, di superare/vincere l’Assenza, che dobbiamo concentrare la nostra attenzione. È sulla loro forza, sulla messa in atto della loro formidabile energia in scena, che dobbiamo concentrarci, riflettere. Già Freud, com’è noto, nel saggio famoso "Lutto e Malinconia", aveva individuato nell’elaborazione creativa del lutto, della perdita, generati dall’eclisse o dall’introiezione dell’oggetto d’amore, una delle vie maestre per il loro superamento, per il ritorno dell’anima ferita alla vita, sia pure rassegnata e un po’ più mesta, di tutti i giorni, e io credo di poter dire con molta obbiettività, che in nessuno dei miei fulminei assoli teatrali, da "Scanna-sùrice", chessò?, a "Occhi Gettati", da "Ritornati" a "Fuga per comiche lingue, tragiche a caso", tanto per citarne solo qualcuno, in nessuno di essi, dicevo, il legame tra lutto, perdita, morte, ed elaborazione creativa o scenica, di essi, è tanto intenso, evidente, forte, disperato quasi, come in "Compleanno".

Il discorso della Morte, il discorso sulla Morte, e di ciò che dobbiamo fare di essa, attorno ad essa, per contrastarla, mi pare che sia d’un’urgenza straordinaria per tutti. In modo particolare lo è per chi pensa, teorizza, progetta teatro, che, almeno per convenzione si pensa si ponga agli antipodi di essa, cioè che si attesti, o abbia propensione ad attestarsi, su luoghi eminentemente antitetici al lutto, e alla perdita, vale a dire faccia parte di, ossia addirittura, la vita stessa.

Della pulsione di morte, della freudiana "todes-trieb", e dei suoi rapporti con l’estetica e con l’arte in generale, mi sono occupato già almeno due volte, prima di questa, a livello di studio, nella mia esistenza, e, di questa mia attitudine filosofica-semiologica a speculare su queste relazioni, restano, quali testimonianze, un piccolo saggio su "Memoire" di Jean Arthur Rimbaud, scritto nel 1976, e alcuni interventi critici su vari quotidiani, tra cui uno, particolarmente significativo, dedicato a Jean Genet e al suo intenso pamphlet sulla diade teatro/morte, dal titolo sibillino, "L’etrange mot de ...", uscito sulla rivista "Tel Quel" nell’estate del 1967 e che invito tutti a conoscere.

Ma in "Compleanno", ovviamente, non si tratta soltanto di speculare o di riflettere filosoficamente sulla pulsione di morte, su quanto cioè la Morte fa o dispone di noi, attorno a noi. "Compleanno" è un atto, una presa di posizione, precisa e concreta, in termini creativi, rispetto ad essa, non solo un’astratta espressione di pensiero.

È una costruzione comportamentale lucidissima, e una reazione emotiva forte, di fronte all’irrazionalità, o fatalità, della pulsione di morte che ci circonda. E, in quanto reazione, è una specie di risposta, e mi sembra di poter dire, di risposta non rassegnata, né passiva, di fronte alla minaccia, o realtà, di distruzione, privata o pubblica, che ci aleggia attorno. Questo tipo di risposta creativa, quest’elaborazione estetica-conoscitiva-educativa del lutto, della pulsione di morte, nel mondo e nella società contemporanea, è, secondo me, il conpito precipuo o principale di chi fa, o aspiri a fare, teatro. E, in generale, direi anche di chiunque si occupi di umana creatività o di espressioni simboliche: dal cinema alla poesia, alla pittura, alla letteratura, alla musica. Dovrebbe, ovviamente, essere compito anche dei mass-media, o almeno di quella sezione di essi che si propone in chiave non solo e non tanto informativa, ma è sotto gli occhi di tutti che l’involuzione servo-meccanica, autistica, solipsistica, della televisione, quel suo crudo e feroce rappresentarci la realtà così com’è, senza alcuna elaborazione critico-estetica al suo interno, senz’alcuna possibilità di stravolgere, in senso differente, il senso univoco dei suoi messaggi, da parte di chi la subisce, rende al momento la cosa alquanto infattibile, forse una vera e propria utopia.

A teatro, invece, le cose mi sembrano possano mettersi meglio.

Il teatro mi sembra offrire, se bene inteso nei suoi aspetti e compiti conoscitivi-educativi, più d’una possibilità d’intervento e contrastazione della pulsione di morte, più d’una via d’uscita all’opera ineluttabile, priva di senso, della Morte attorno a noi, dentro di noi. Il teatro, in questo senso, e mi si passi la banalità apparente dell’osservazione, può fare opera d’assistenziato-volontariato civile rispetto alla Morte, né più né meno di quanto proficuamente, generosamente, già fanno altri ed ampi settori dell’umano consorzio: dalla medicina all’economia, dalla Chiesa alla sociologia, eccetera, eccetera. Per inciso, aggiungo che questo concreto, utile accostarsi del teatro ad altri settori della vita, per contrastare il dilagante desiderio di rovina attorno a noi, sarebbe anche un’ottima occasione di riscatto, in quanto che la Scena ha da farsi perdonare, in questo senso, parecchi decenni di stupidità, di qualunquistica fuga nell’evasione, nel colpevole silenzio, nella connivenza, nell’acritico condividere, insieme con i più, consumo ed aridità spirituale; parecchi decenni, insomma, di lavoro fatto a fianco dell’Implacabile ‘Madama Vermina’, come la chiama Shakespeare nell’"Amleto", o de ‘La comare secca’, che è l’altra metafora che usa Pasolini nei "Ragazzi di vita", per indicare la Morte.

Ma un teatro che fa questo, un teatro che rinunci al proprio solitario, egoistico, masturbatorio intellettualismo-narcisismo, un teatro che si schieri per l’altro, per la vita, in contrasto con il collettivo "cupio dissolvi" e con l’ideologia del Nessuno, del nessuno Scopo, del nessun Futuro, è teatro politico, nel senso autentico, nel senso non-demagogico e non-comiziale del termine. È teatro politico nel senso aristotelico d’irrinunciabile bisogno/desiderio d’aggregazione con gli altri, d’empatia e di condivisione del dolore con e dell’altro, e, dunque, in definitiva con sé stessi, con la propria intima essenza d’uomo. È teatro radicale, nel senso che va alla radice del malessere dell’uomo e, se va alla radice, è terapeutico, cioè volto al cambiamento, alla mutazione, alla trasformazione in positivo dello "status quo", cioè ancora, è valore inteso, proteso, a iniettarci gli anticorpi, le difese necessarie, a non farci più infettare, contaminare, dalla Morte, dalle sue dinamiche nullificanti, dai sui derivati apatici, deprimenti. Ma una difesa, una strategia contro questo, si può approntare solo conoscendo a fondo il nostro nemico, le sue subdole modalità d’attacco.

La Morte, le sue pulsioni, bisogna imparare a leggerne, controllarne, conoscerne le tattiche e le finalità. Avvicinarci, osservarle, talvolta respirarle, bisogna, purtroppo, per poi prendere a giocarci, to play, jouer, recitare. Il gioco con la pulsione di morte è finzione, drammatizzazione per eccellenza, ed è l’unica maniera che si conosca per resistere alla tentazione di farla passare ‘realmente’ nel sociale, nella vita d’ogni giorno. L’unica maniera di contrastarla nei suoi atti concreti, brutali, nient’affatto immaginari o metaforici. Giocare con la Morte, recitarla, metterla in scena (non dunque rappresentarla/subirla a-creativamente, così come succede al livello dei mass-media) è sublimarla cioè disinnescarne le mine distruttive e reali, depotenziarle, ridurle a fantasma, a schema immaginario, e dunque, legittimamente, annoverarla tra i cimeli inoffensivi del falsamente truce repertorio scenico, tra gli stiletti retrattili di Macbeth e il foriero apportator di morte del fazzoletto di Desdemona in "Otello".

Il gioco teatrale politico-conoscitivo-terapeutico (ormai possiamo chiamarlo così), sorta di apprendimento/comportamento di fronte alle dinamiche nullificanti della pulsione di morte, solitamente si muove all’interno delle dialettiche oppositive, sul filo delle tensioni generate dalla polarità di coppie antitetiche tra di loro: memoria/oblio, Io/Non Io, spirito/natura, costruzione/destrutturazione, disperazione/giubilo, eccetera. Questa polarità di contrasti richiama quella già accennata prima di trauma/controllo, o superamento di esso, messo sulle labbra del freudiano bambino, quale formula ludica, in "Al di là del principio del piacere", scritto dal Maestro viennese nel 1920.

Con la formula "fort/da" (in tedesco, "vai, vieni"), sussurrata, nel gioco col rocchetto di filo, dal bambino, per controllare l’angoscia/terrore della perdita dell’oggetto d’amore primario (la madre), abbiamo un’esemplificazione delle possibilità auto-terapeutiche che ha l’anima umana, usando il gioco, la creatività, di vincere i fantasmi, gli spettri legati all’Assenza, vera, oggettiva, o semplicemente supposta, immaginaria. Lanciando il rocchetto di filo lontano da sé, sussurrando nel farlo, "va!", il bambino prova a cimentarsi con la possibilità che l’Assenza temuta si presentifichi; getta, per così dire sul tappeto, i dadi del rischio, che l’oggetto d’amore s’allontani per sempre da sé, generando in tal modo, l'angoscia di separazione, il solco in cui fare abitare la ferita primaria dell’abbandono; nel tirarlo indietro, invece, nel sussurrare il "vieni", il bambino ripara all’angoscia di separazione così scatenata, tenta di ricucire, con un altro elemento della costruzione giocosa, lo strappo, la "spaltung", dell’Assenza, prima resa possibilità. È, appunto, un esercizio col lutto e con le sue malinconie, un saggio, un "essay" di controllo, dei terrori e delle rassicurazioni che nascono quando si mettono in campo, nella nostra mente, nella nostra vita, le coppie oppositive dell’Assenza/Presenza. Ed è anche, in Freud, un forte richiamo, una forte sottolineatura dell’importanza che gioca la Lingua, il ludus, la pratica creativa della parola, nell’esercizio di controllo/superamento del dolore, dinanzi alla Perdita, alla Scomparsa, alla Morte. L’oggetto d’amore primario, infatti, la Madre, l’altro (con la "a" anche in grande, secondo l’accezione lacaniana) sono profondamente, inestricabilmente connessi, quasi fusi, con la Lingua; sono profondamente la stessa cosa. Giocare col corpo della madre, è giocare con la Lingua, col primo latte materno delle parole, coi suoi bianchi umori, gratificanti o disperanti; giocare con le parzialità dei seni, con le imago, buone o cattive, delle fonti primarie, d’amore e di cibo, simboleggiate dai seni, (Ines, sine, seni) è giocarsi sull’altalena dell’Assenza/Presenza, Vita/Morte, Esseci/Sparire.

Praticare creativamente la Lingua è avvicinarsi a questo "grado zero-mille" delle virtualità umane, a questo Assoluto delle differenze e delle identità fuse insieme, e che ci determina, ci parla, ci esprime, attraverso tutte le grammatiche, le sintassi, le stilistiche della significazione, verbale e non. Il teatro, come pratica, come invenzione, come teoria segnica, non è che la relativa spazializzazione/temporalizzazione, simbolica, reale, immaginaria, dell’eterna coazione a essere espressi/esprimere quest’Assoluto, quest’Altro che ci costituisce; coazione che, per inciso, è l’eterno ritorno dell’identico, del già noto, del gratuito, e nulla è più gratuito della Morte, nella sua ciclica, spiraliforme ripetizione tra di noi. Ma bisogna spostarsi sulla scena, ricreare e osservare il circolo da un altro luogo, con altri occhi, per avere ragione, forse, dei suoi effetti meramente distruttivi; per poterne disinnescare ironicamente il potenziale suo tendere alla stasi, all’inorganicità.

Quando l’oggetto primario o gli oggetti a noi cari (o anche, a noi necessari per vivere o continuare a farlo) sono caduti sotto il dominio della Morte, o della pulsione che la rappresenta, ciò che resta – il resto, direbbe Lacan – non son altro che parole e immagini.

Gli oggetti, i nostri oggetti, da questo momento in poi, sono solo suoni, grafemi, tracce, apparenze, apparizioni, larve, aloni, contorni.

L’opera della Morte, la Morte all’Opera, la Morte al lavoro , nella sua "destrudo" la disparizione del reale da essa messa in atto dal suo incedere attorno a noi, omologa la nostra esistenza, il nostro comportamento, a quella degli insensati, dei pazzi, dei deliranti, dei sognatori.

Sparite o gravemente destrutturate le relazioni oggettuali nel lutto, nella malattia, in qualunque situazione in cui si verifichi un abbassamento del "niveau mental", non resta all’alienato, allo psicotico, o a chiunque sperimenti una situazione di perdita libidica, che l’ombra, la pura evanescenza di essi, che sono echi, flatus vocis, se li si nomina; immagini, pallidi simulacri, se si cerca di dare loro un profilo, qualche spiritata parvenza di corpo. Ma questo "resto", da grave handicap, o da evidente svantaggio di fronte all’avidità spoliatrice della Morte, può però trasformarsi in potenzialità di successo per noi, in una progressiva mutazione del Nulla nel pieno, con la creazione-riparazione delle parole a teatro. Fatta passare così, con l’ideazione degli azzeramenti, delle derive, dei nomadismi, dei punti-fuga linguistici, all’interno degli ordini, dei cardini dati, di significazione; messa alla gogna del ridicolo-tragico scenico; trasportata, d’autorità, nell’insieme dei trucchi, degli escamotages ludico-drammatici, la pulsione di morte perde, smarrisce, gran parte del suo potenziale distruttivo e cieco. Nella parata dei "trompe-l’oeil", anche la Morte, appare fantoccio-pagliaccio-maschera-simulacro inoffensivo. Scendere o calarsi dentro il suo stesso piano d’origine e d’azione (l’Inconscio, l’Altro) è in effetti conoscerla, studiarla, contrastarla, e in questa contrastazione, in questo studio, in questa pericolosa conoscenza-contiguità con la Morte, io vedo l’unica, non futile strada per il compimento pieno del senso/non senso dell’essere-teatro, che è poi sostanzialmente un essere-lingua, un essere-glossa, un essere- ignificazione, se però per significazione s’intende una totalità espressiva, dalla voce, al corpo, al movimento, al gesto, al silenzio, all’immobilità, non una qualche sua sparuta e desolante parzialità.


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