Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia

Prove di Drammaturgia


Ottanta, Novanta e oltre: prospettive per due generazioni

di Massimo Marino

 

Il progetto "Per un teatro popolare di ricerca" ha avuto il merito di riaprire la riflessione su alcuni nodi del teatro contemporaneo. Ma per non trasformare in definizione o in etichetta una provocatoria ipotesi di osservazione di una realtà in movimento bisogna costringere l'elaborazione a fare alcuni salti: è opportuno accostare e mettere a confronto il modo di lavorare, di intendere il teatro, il rapporto con il pubblico e con la società delle due ultime generazioni della "ricerca". Fra forti differenze e tensioni comuni si andranno a delineare scenari per l’immediato futuro.

Negli incontri realizzati si è finito per incentrare l'attenzione soprattutto su un teatro, emerso negli anni '80, capace di contemperare la ricerca con una forte attenzione alla comunicazione. Un teatro come quello di Martinelli, Delbono, Baliani, Paolini, Vacis e altri, spesso con una decisa vocazione civile, ma più complesso e sfaccettato del vecchio "teatro politico". Piuttosto "teatro politttttttico", con sette "t" e molti sensi, come proponeva Martinelli. Queste esperienze hanno cercato di trovare radici in tradizioni feconde, rifiutando il tradizionalismo. La riscoperta o reinvenzione del dialetto, il confronto con i classici assunti come padri o fratelli carnali e non come pagine imbalsamate, l'esplorazione della diversità psichica o sociale, il confronto con tutti quei generi "popolari" guardati con sospetto dalla scena ufficiale, il recupero della centralità del corpo, della forza della narrazione hanno segnato una differenza sia con il teatro normale che con le avanguardie o postavanguardie.

Questa scena diversa ha trovato anche la forza e la necessità di confrontarsi con il sistema teatrale da una parte e con le generazioni più giovani dall'altra. Alcuni degli artisti nominati hanno lavorato a lungo alla costruzione di una loro "casa teatrale", di un luogo dove poter sperimentare nuovi rapporti artistici e nuove relazioni con la società. Il caso del Teatro delle Albe a Ravenna è esemplare e va a costituire il modello possibile di un nuovo tipo di "teatro stabile", che coniuga fedeltà a una ricerca, teatro per la "polis", formazione di un nuovo pubblico. Ma senza nulla di pedante o di scolastico, come di solito avviene quando qualcuno si propone "di formare il pubblico": si è trattato di apertura di spazi e situazioni in cui potesse esplodere l'amore per il teatro, inteso come mezzo di indagine contemporanea e di comunicazione profonda. Gli esiti della "non scuola di teatro" di Ravenna stanno sotto gli occhi di tutti: spettacoli freschi, in cui i classici vengono agiti da urgenze di ragazzi d'oggi; una moltiplicazione di interesse per il teatro; una disseminazione di gruppi e gruppetti teatrali. In questo caso l'organizzazione si è trasformata da tecnica di accumulazione di numeri in vista del finanziamento ministeriale in reale impatto del teatro su una città.

Negli anni '90 sono emerse formazioni diverse e altri modelli. Il bisogno di comunicazione è andato in crisi nei lavori di una generazione che rivolge le proprie urgenze espressive piuttosto alla crisi e alla sovrapposizione dei linguaggi, con un gusto per la provocazione e la contaminazione fra le arti che richiama certi aspetti delle neoavanguardie degli anni '70. I più significativi fra quei gruppi rifiutano decisamente le strutture narrative; per motivi non sempre volontari eludono il sistema basato sulla stanzialità delle "case teatrali". Alla reale mancanza di luoghi, finanziamenti e aperture della maggior parte delle istituzioni teatrali corrispondono a volte atteggiamenti di orgoglioso isolamento dei gruppi stessi, che richiamano la mitologia dell'artista romantico.

Lo spazio diventa l'origine e il centro di molti lavori: gli spettacoli nascono spesso in connessione con luoghi determinati, basandosi su di un'idea scenografica che va a creare una situazione percettiva particolare. Tali esperienze rifiutano la drammaturgia incentrata sull'idea di sviluppo del personaggio e della situazione nel tempo, tramite il conflitto. Accumulano elementi diversi, quasi come "objects trouvés" estratti da contesti diversi e cementati con assunti concettuali. Con il pubblico si crea una relazione spesso provocatoria, sempre molto fisica: esso viene colpito a livello nervoso, corticale, da stimoli visivi, sonori, gestuali. Le opere trasformano gli ambienti, creando ansiogeni luna park o "macchine da guerra" da percorrere o con cui scontrarsi. Testimoniano così un disagio che si rifrange in invenzioni visionarie, che vanno a costituire qualcosa di simile a tavole di un ideale atlante della sensibilità delle crisi di questi anni.

È questo un teatro acuminato, che trasforma l'autoreferenzialità in virtù, nel senso che si fonda nella ricerca spasmodica dei propri mezzi espressivi, di una "proprietà" sentita come necessaria pratica della differenza. È un teatro allo stesso tempo estetizzante fino alla levigatezza e violento. La bella forma ricercata diventa feticcio da contemplare e ferita, squarcio; il gioco si tramuta in smorfia e sberleffo, in smascheramento o in occultamento. È piuttosto diverso da quell'altro teatro che abbiamo precedentemente descritto, ma analogamente necessario e contagioso. Come se ci fosse bisogno, di nuovo, di "avanguardia", ossia di atti assoluti, che non vogliono essere condivisi da altri, che non cercano di comunicare con nessuno. E perciò diventano una boccata d'ossigeno, un salto necessario in tempi di bombardamento di messaggi buoni per tutti, che trasformano tutti in consumatori di una cultura interscambiabile e banalizzata.

Il "bisogno d'avanguardia" degli "anni '90" (ma il decennio si chiude, quindi anche l'etichetta: cosa ci riserva il futuro?) vive tutto nell'aporia fra autonomia dell'opera, che arriva fino alla costruzione di macchine assolutamente celibi, e capacità di contagio che sono tanto più elevate quanto più estrema è la ricerca. Intorno alle esperienze più radicali si creano strani canali di scambio, flussi, invasi. Luoghi marginali acquistano forza esemplare, diventano nodi di transiti di energie, di contaminazioni fra minoranze che attraggono proprio perché praticano differenze orgogliose.

Forse perché il teatro, con le sue crisi di consistenza lunghe perlomeno un secolo, lentamente, in modo invisibile, si è davvero trasformato in una terra fluttuante, spaccata, erosa, accresciuta da ogni tipo di detriti, depositi. Terra promessa contro l'omogenizzazione della società di massa, unica arte dove lo spettatore può diventare attore, protagonista, trasformandosi in soggetto di "azione", di "presenza", di "esperienza". La disseminazione di laboratori e seminari, il continuo moltiplicarsi dei gruppi, la richiesta sociale di teatro ne è un segno. Questa arte è oggi molto di più del rito della visione di uno spettacolo. Appare come un mezzo di ricerca su di sé, di formazione, come un'arma di scontro o una tecnica calda per la comunicazione con gli altri e per la formazione di una nuova socialità (su questi temi si veda il bell'articolo di Piergiorgio Giacchè, "Il teatro come 'attore' del terzo sistema", nel volume In compagnia, pubblicato da Emilia Romagna Teatro, Modena, 1999).

I nuovi luoghi del teatro sono centri dove molte arti si incrociano, dove lo spazio viene ridefinito volta per volta, dove si incontrano pubblici con differenti interessi. Questa esigenza è stata compresa da Mario Martone, quando ha voluto per il Teatro di Roma un nuovo complesso come l'India. È ben interpretata, da anni, da alcuni festival di teatro che inventano soluzioni spaziali inedite per la produzione di eventi fuori dai canoni, che fondono le arti sceniche, forzano o arricchiscono lo spazio quotidiano rivelandone altre valenze. Questi festival non si accontentano di trasformarsi in vetrine delle produzioni delle stagioni precedenti o future, ma aprono problemi e suggeriscono temi di riflessione e lavoro favorendo i progetti più arditi, consentendo alle molte differenze che le arti della scena generano di trovare un ambito aperto per incontrare il pubblico.

I passi da fare, oggi, sono ancora molti. Il teatro sta diventando arma più affilata di altre (della letteratura, del cinema, perlomeno in Italia), bandiera di resistenza e di trasformazione. E l'opera teatrale, se collocata nel giusto luogo e nella giusta condizione, diventa processo, sfida, contagio. In molti casi, paradossalmente, quanto più è rigorosa, chiusa in se stessa, tanto più ha la possibilità di incontrare il pubblico. Il seguito che hanno la Societas Raffaello Sanzio, il Teatro Valdoca, Motus e altri lo testimoniano.

Il problema della comunicazione fra le ultime generazioni è forse meno drammatico di quanto possa apparire, perché lo scambio in realtà c'è, c'è lo stesso amore e fiducia (ingenua?) nella forza dell'arte come salvezza da una società massificata.

La sfida più ardua è proprio a quella massa che passa da una manifestazione all'altra, che macina cultura o spettacolo, che cerca in continuazione valori da consumare, forse per trovare dove essere. Massa indifferenziata, "pubblico", che questo teatro può trasformare in "spettatori", membri consapevoli di una polis ideale e provvisoria, tutta da costruire. Questo nuovo teatro, che si pone il problema dell'interlocutore spesso ignorandolo, si definisce allora in certi casi come torre d'avorio, impenetrabile, ma perciò stesso affascinante e capace di rovesciarsi in casa di cristallo. In un nuovo edificio e in nuove pratiche, che non hanno tanto bisogno di programmazione burocratica quanto di capacità di invenzione. In un territorio di sopravvivenza, che diventa centro di lotta, dove l'attore, il regista, il critico, l'organizzatore, il tecnico sono alla pari artisti. Perché tutti adempiono in modi diversi a un unico compito di difesa e accrescimento di una "proprietà", di una pratica non omologata di creazione, incontro, conoscenza, scontro.

Il lavoro è uno solo. Quello di coltivare l'aspra differenza irriducibile della poesia. E fare della bellezza una necessità.


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