Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia

Prove di Drammaturgia


DALL’AUTOBIOGRAFIA ALLA STORIA

di Gerardo Guccini

 

Il progetto di organizzare un dibattito articolato per appuntamenti a tema e dedicato, nel complesso, all’interlocutoria nozione di "teatro popolare di ricerca" aveva incominciato a mettere radici all’incontro sul "Patrimonio Sud" organizzato dal Cada Die di Cagliari. In seguito, dopo l’appuntamento di Rubiera, di cui vengono pubblicati gli atti in questo stesso numero di rivista, la discussione è tornata a spostarsi a Cagliari. Ora, tracciando un breve bilancio dei contributi e dei risultati raggiunti, vorrei ripartire dall’intervento letto in quell’occasione da Giancarlo Biffi, regista del Cada Die.

Anche a lui, come a molti altri, le nozioni di “popolare” e “ricerca” sembrano entrare in contraddizione, e ciò a causa delle implicazioni logiche che queste comportano. La loro non è però un’incompatibilità di tipo pratico, ché, anzi, il Cada Die stesso è – come appunto dovrebbe essere un “teatro popolare di ricerca” – “un teatro che ricerca aperto a tutti, non un circolo esoterico per iniziati ma il luogo dell'incontro”. D’altra parte, come dice Biffi, se il popolare è, per definizione, noto e riconoscibile “come può essere di ricerca una cosa che tutti conoscono?”. E poi: “Nel popolare c'è conformismo e il teatro dovrebbe essere proprio il contrario di questo. Non è così?”

A questo punto nella relazione scritta c’è uno spazio; quando il discorso riprende l’argomento sembra un altro. Si parla di sensazioni personali e di rapporti fra padri e figli. Poi, mano a mano la lettura procede, ci accorgiamo che questo salto è, in realtà, una risposta. Le contraddizioni fra ‘popolare’ e ‘ricerca’, così come non esistono nella pratica, si sciolgono infatti in un flusso di riflessioni e pensiero allorché vengono messe direttamente a contatto con la sfera delle esperienze vissute - e cioè con l’identità personale di chi, riflettendo e pensando, finisce per trovare in sé le logiche dei rapporti fra gli estremi, e, quindi, spiegando, si narra.

Dice Biffi: “Camminare negli spazi è questo che mi attrae, nelle zone vuote o nelle zone piene, dove c'è o dove pare non ci sia ma invece... è questo l'affascinante. Nel mezzo del cammino della vita mi trovo a condividere questo muovermi sia con mio figlio che con mio padre. Sono queste due forze per niente in contraddizione fra loro che mi spingono avanti lateralmente. Ho bisogno di entrambi. Ho bisogno che quando parlo, non dico mi capiscano ma quanto meno che entrambi mi "sentano". E perciò che io senta ciò che faccio.

Questo è il teatro che pratico e che amo.

Un teatro non conformista e lontano dalla ricerca del consenso a tutti costi. Un teatro che corrisponda ai nostri padri e pure ai nostri figli.

Occorrono padri per fare figli e necessitano figli per essere padri.”

Le tensioni fra ‘popolare’ e ‘ricerca’ possono essere per molti fra gli artisti del nuovo teatro una sorta di veicolo autobiografico, che fornisce criteri e indicazioni grazie ai quali aggregare e riscoprire ricordi, riferimenti, motivazioni.

Non è un caso. La nozione “teatro popolare di ricerca” è stata infatti ricavata dai percorsi teatrali che hanno più fortemente caratterizzato gli anni ’80, e, ancor più che come teoria, si offre agli artisti in quanto contenitore e mezzo di rispecchiamento (come dice Valeria Ottolenghi nel suo contributo). L’esito su cui riflettere è piuttosto il delinearsi, all’interno dei ‘rispecchiamenti’ così raccolti, di snodi biografici, esperienze e svolte, straordinariamente organici e fra loro simili; tali, insomma, da accreditare l’impressione che gli anni ’80 e ’90 del nostro teatro presentino quelle qualità al contempo necessarie e diffuse, intrinseche ai percorsi di ricerca ma anche extra-personali, trasversali e presenti ‘nell’aria’, che costituiscono il carattere storico d’un determinato periodo.

Riprendiamo il testo di Biffi. La ricerca di un’esperienza che ricomponga la tensione fra ‘popolare’ e ‘ricerca’, e dimostri la sensatezza della loro unione, sfocia nel ricordo nel festival di Sant’Anna Arresi, che il Cada Die aveva organizzato fra il 1984 e il 1990 portando in questo piccolo paese senza alcuna abitudine al teatro le esperienze di punta di quel periodo.

“Penso non si possa partire con l’idea di fare uno spettacolo popolare, ma al contrario da un’urgenza che si fa teatro. Viene da sé che l’opera una volta realizzata abbia una fruizione popolare, certamente le motivazioni, i saperi, le pratiche, le tecniche usate in uno spettacolo possano spingere più o meno in quella direzione.

Penso che ci sono delle compagnie che hanno una vera e propria matrice antropologica che porta a quello: il Santa Sofia della Raffaello o i Brandelli della Cina che abbiamo in testa delle Albe, presentati un po’ di anni fa a Sant’Anna Arresi (o anche il nostro L'ultimo sprint), mi fa dire che quei lavori si sono “popolarizzati” cioè il pubblico che vi assisteva e il luogo in cui erano immersi erano popolari (gente e luoghi di quella comunità). La gente di quella comunità ha scelto di assistere, accettare e condividere quelle rappresentazioni. In poche parole è diventata attiva motivando e modificando ulteriormente il lavoro degli attori. Quel “popolo” è stato preso dalla scena e questo proprio perché in quei lavori c’era qualcosa che li riguardava.

Lì in quel luogo con quella comunità i giovani romagnoli delle Albe sono stati a casa loro hanno incontrato la loro gente.

La radice sta nel ‘rumore’ di fondo della rappresentazione e ciò che vale per un luogo non è detto che valga per un altro (il teatro non è potabilizzabile).

Per il nostro Senzaterra un lavoro sull’epopea mineraria in Sardegna, la gente che vi assisteva si commuoveva, lo sentiva come una propria espressione, se ne appropriava”.

Il ‘luogo’, nel senso di ‘luogo civile’ e quindi di comunità, ricorre in quasi tutti gli interventi che abbiamo raccolto: Martinelli centra la sua riflessione sull’integrazione fra il teatro e Ravenna; Vacis parla di attori che diventano popolo e luogo, facendo riferimento al reciproco valore simbolico che ormai lega i paesi del Vajont ed Ivrea ai loro narratori – Marco Paolini e Laura Curino -; Delbono spiega che per svolgere progetti spettacolari in un determinato luogo occorre essere un po’ di quel luogo, respirarne l’aria. Per Franco Brambilla, il nostro ospite, l’antico Ospitale di Rubiera è, non solo una sede, ma una poetica di pietra e mattoni, un architettura che parla e induce pensieri. Marco Baliani, è vero, si stacca dal coro dicendo che nella sua convocazione al rito teatrale “non c’è nessuna comunità, né prima né dopo l’incontro”. Ma ciò è sensato e, in questo caso, vero, a condizione che si tenga presente il fatto che Baliani è maestro nel creare comunità durante l’incontro; comunità che, come dice, non esistono né prima né dopo, ma che vengono temporaneamente fondate dalla partecipazione ai fatti narrati, e lasciano poi significativi echi nella memoria individuale.

In genere, il teatro cresciuto negli anni ’80, non è soltanto frutto del radicamento di gruppi e di artisti teatrali in centri talvolta minori – Settimo Torinese, Bagnacavallo (il primo paese delle Albe), Pontedera, Cesena ecc. -, ma, di questo radicamento, è, spesso, anche l’espressione poetica e il segno culturale.

La relazione coi luoghi è uno dei caratteri storici del ventennio che ci lasciamo alle spalle, altri ve ne sono che varrebbe la pena approfondire, risarcendo il desolante vuoto di memorie culturali lasciato dalla rimozione storiografica degli anni ’80. Anni di volta in volta tacciati di essere “micidiali”, “di omologazione”, “di restaurazione”, “di stagnazione” , e che, però, rivisitati attraverso il ‘pensiero di matrice biografica’ dei loro protagonisti dimostrano caratteri peculiari e sottese forme di coesione. In attesa di ulteriori e più dettagliate indagini, vorrei segnalarne alcuni, che trovano significativi riscontri negli interventi qui raccolti.

1. Il nuovo teatro degli anni ’80 ha assimilato dalle esperienze del periodo precedente l’attenzione per il ‘processo’ creativo, risolvendolo però in una molteplicità di modi di composizione che hanno confermato, di fatto, la centralità del prodotto’ artistico.

2. Non c’è dubbio che il teatro degli anni ’80 abbia sanato la “rottura dell’involucro teatrale” (E. Barba); nel far ciò ha però continuato a condividere la più vasta e radicale negazione di cui tale “rottura” era la naturale conseguenza. Mi riferisco alla disgregazione del sistema-teatro inteso in quanto alveo genetico preesistente agli spettacoli, matrice indifferente e rigida, processo ripetitivo e implicante i caratteri generali dell’opera realizzata. Reagendo a questo permanente stato di crisi ed emergenza, i teatranti hanno individuato, e con sempre maggiore decisione e consapevolezza, l’esigenza di frapporre fra sé e l’opera una pellicola intermedia, una specie di placenta che, talora, si sostanzia assieme all’organismo che ospita e, talaltra, ne previene le esigenze offrendogli una solida struttura di riferimento. Si tratta del progetto, che nella cultura teatrale degli anni ’80 risarcisce la dissoluzione del sistema-teatro stabilendo di volta in volta le condizioni di crescita dei singoli eventi teatrali.

3. Infine, la “crescente dilatazione materiale del fatto teatrale”, che Marco De Marinis aveva osservato nel teatro degli anni ’70, si è risolta in un mondo-teatro che coinvolge e mescola diversi ordini di realtà: ora, le intuizioni e le idee che annunciano l’opera crescono su corpi, voci, persone, luoghi e anche materiali e tecniche estranei al teatro e proprio perciò capaci di rinnovarlo. Penso, per ricongiungermi agli interventi da cui siamo partiti, all’integrazione degli attori delle Albe con i griots senegalesi e poi con gli adolescenti delle scuole medie-superiori di Ravenna; alla metabolizzazione degli eventi storici in personali forme di memoria, che caratterizza il teatro-narrazione; agli spettacoli di Pippo Delbono con i suoi attori portatori di handicap e d’una straordinaria arte della presenza.


Ritorno alla pagina precedente

Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna