Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia

Prove di Drammaturgia


Un linguaggio complesso, un teatro semplice

di Pippo Delbono

Una volta ho letto o sentito qualcuno che diceva: "I più grandi eroi sono quelli di cui, pur avendo fatto molte cose per gli altri, per la società, nessuno ha mai saputo niente". Noi che facciamo teatro dobbiamo ammettere che siamo persone con una discreta ambizione, e accettare di esserlo. Il fatto di aver deciso di mettersi di fronte a un pubblico, di essere in vista, di ricevere gli applausi…è un punto che, secondo me, dobbiamo tener presente quando parliamo del nostro lavoro, anche se non abbiamo scelto un teatro di tradizione ma di ricerca.

Sono appena tornato con la mia compagnia dall’Argentina, dove abbiamo presentato tutti i nostri spettacoli; nel pubblico una sera c’erano le madri di Plaza de Mayo, le madri dei "desparecidos"; hanno visto Guerra e, alla fine, ci hanno ringraziato per questa esperienza che avevano vissuto. Questo per me è importante, perché vuol dire che succede qualcosa che è più grande di me, di una mia "bravura", qualcosa che va oltre la mia persona, che coinvolge altre storie. E’ un’esperienza mia, della mia compagnia, ma che diventa un’esperienza anche per altri, quindi popolare.

E, sempre in Argentina, lì, nessuno ha mai parlato di ‘teatro handicap’; non ho mai visto la parola ‘handicap’, e questo mi ha colpito. In Italia, nel programma di Santarcangelo, si leggeva, più o meno: "Pippo Delbono che lavora con attori professionisti e no, e handicappati". Da noi c’è sempre bisogno di catalogare, di dare ordine… sennò, aiuto! Questo, secondo me, è uno strano modo di pensare. Ci sono delle persone, come Bobò, che riescono a tenere mille persone in un silenzio assoluto mettendosi in testa una coroncina, un piccolo oggetto. Io sfido un qualsiasi attore di quelli definiti professionisti a star fermo, a non far niente e a tenere mille persone in un silenzio totale. Inizierei a dire: "handicappato sarà lui". Per il mio mestiere – io non sono uno psichiatra, sono stato dallo psichiatra – Bobò è qualcuno che riesce a comunicare qualcosa di estremamente popolare a tutti i livelli, quindi è un grande professionista.

Noi ci siamo formati alla scuola d’un mondo in cui fare teatro, scegliere di fare teatro era un po’ come una missione, era frutto di una lotta, perché avevi dovuto lasciare un mucchio di cose, sicurezze, soldi… io, per esempio, non avevo la mamma cantante d’opera o attrice, i miei erano genitori normali che mi dicevano: "Tu sei fuori, cosa fai teatro, prenditi un mestiere normale". Ho dovuto rompere, rivoluzionare quello che mi sarebbe toccato fare nella vita, tipo il commercialista… quelle cose lì. Quindi la mia è stata una ricerca di arte come ricerca di libertà. Non riuscirei mai a fare delle cose per convenienza, per esempio pensando che devo soddisfare una certa fascia di pubblico che vuole questo e non quello. Anche se facessi "Sandokan" alla fine dovrebbe essere qualcosa che mi trapassa dentro. Cioè, non sono capace di fare una creazione artistica pensandola come un’operazione furba, intelligentemente studiata. Però, sì, per me è importante arrivare a tanta gente.

Certamente, ci sono registi che considerano importante un’esperienza anche se piace a pochissime persone. Io se facessi uno spettacolo in cui alla fine rimangono in tre spettatori, non lo so… credo che non lo farei più quello spettacolo. Penserei che, forse, è qualcosa che interessa solo a una ristretta cerchia di persone che hanno la mia stessa cultura e la pensano come me. Ma quando dico che "per me è importante arrivare a tanta gente" non mi riferisco a quello che il pubblico dice e discute dopo lo spettacolo, mi riferisco a quello che sente durante la rappresentazione, quando la gente ha forse smesso di tossire: il silenzio, l’attenzione, qualcosa che arriva prima di un pensiero della mente.

L’anno scorso ho fatto un evento molto grosso a Pietra Ligure, un paese di provincia nella riviera ligure. C’erano barche che si muovevano, sembrava Spielberg… la gente era entusiasta, ma allora non mi era detto: "bisogna che faccia qualcosa che piaccia ai pietresi": probabilmente il fatto di stare da un po’ di anni in una paese come Pietra, vivendo con le persone del posto, ha cambiato qualcosa in me.

Frequento un gruppo buddista quando sono lì – poco, perché sono sempre in giro… - e quando vado alle riunioni mi trovo a parlare con persone che fanno dei lavori normali, che fanno gli infermieri, i parrucchieri… e così mi trovo ad ascoltarle, quelle persone. Credo che questa sia stata un’esperienza di crescita enorme. Un po’ senza volerlo mi sono abituato a poco a poco ad aprirmi, ad aprire la mia vita. Mi sono fatto contagiare da più esperienze.

Nell’arte ci sono sempre stati artisti che si sono rivolti al mondo della gente comune come, se pensiamo al cinema, Fellini, Pasolini… E, per incontrare la gente comune, ci vuole un linguaggio più semplice, che non vuol dire ovvio o, come propone la televisione, semplicistico perché, comunque, l’arte parla della vita e la vita, come la nascita e la morte, è complessa.

Noi, ultimamente, stiamo andando sempre più nei teatri di abbonamento, i teatri con i palchetti. Sicuramente nella mia compagnia ci sono persone come Bobò che è stato per anni in manicomio, come Nelson che ha dormito per anni in stazione, come altri, a cui piacciono molto i teatri belli, coi palchetti, con le poltrone rosse, gli specchi, i camerini caldi, le docce calde… la nostra esperienza è già di per sé un’esperienza limite, non cambia alla base se viene fatta in un teatro di tradizione o in un capannone della ricerca, anzi, molto spesso ci sono esperienze che pur essendo fatte in spazi "alternativi" hanno tutte le caratteristiche, le regole, i clichè del teatro di tradizione.

E, per di più, in questi teatri, oltre agli abbonati – che dimostrano una grande voglia di vivere un’esperienza di teatro diverso – vengono a salutarci alla fine dello spettacolo, commossi, i pompieri, le maschere, le cassiere… che normalmente gli spettacoli li vivono come una routine, con noia… a me dà grande soddisfazione questo. Forse stando in mezzo alla gente mi è venuta la necessità di fare un teatro che arrivi a persone ignare del teatro, o escluse dal teatro, o costrette a viverci dentro senza amarlo. Eppure, dentro il mio lavoro non è cambiato niente. Siamo sempre lì con i nostri costumi presi con le solite tre lire… Forse il fatto che nella mia compagnia oltre a degli attori ci siano le persone che ho incontrate per la strada o nel manicomio, permette di avvicinarsi di più alla gente. Uno, quando vede un grande attore sulla scena, lo applaude, lo esalta, però in fondo può pensare "lui è bravo, io no", si fa piccolo di fronte a chi sta sul palco; invece, vedendo sulla scena delle persone anche ferite, indifese, le può forse sentire più vicine a lui; il teatro può così diventare una dimensione più egualitaria, in cui pubblico e attori sono tutti su uno stesso piano, un rito.

Il tema del convegno era "teatro popolare di ricerca". Ma il teatro non dovrebbe essere sempre una ricerca? L’arte non dovrebbe essere sempre una ricerca? La nostra ricerca di un altro linguaggio non è stata un ricercare fine a se stesso, ma è nata dall’insoddisfazione che provavo vedendo un teatro di tradizione noioso. E come me molte altre persone della mia generazione si sono stufate di vedere in teatro un mondo di élite. Shakespeare era un autore popolare, ora chi vede le sue opere appartiene a una certa categoria di pubblico. Un ragazzo di una generazione che la musica, i concerti, sentirsi un po’ fuori, difficilmente va a vedere un testo di Shakespeare a teatro, perché lo sente imposto dall’alto, lo sente provenire da una cultura che non è la sua. Così succedeva a me quando al liceo ci facevano studiare Rimbaud, Shakespeare o Dante – che noia. Poi dopo, con gli anni, ti ritrovi a rileggere Rimbaud o qualche verso della Divina Commedia e ci ritrovi dentro un tuo mondo, una tua follia, una tua rabbia, una tua rivoluzione, qualcosa che ti appartiene, che però i professori non erano riusciti a farti amare. Così spesso succede per il teatro. Per me la ricerca è nata da questo, per arrivare anche a queste persone. Allora il teatro diviene un’esperienza trasversale, a cui tante diverse persone, tante culture diverse possono partecipare. Ognuno con la propria esperienza di vita. Come di fronte a uno spettacolo della natura. Come se ci trovassimo a guardare, per esempio, la cascate di Iguazù, in Sudamerica, che ho visto da poco, un fenomeno naturale incredibile, e fossimo seduti lì vicino io con una persona importante, un barbone, un paralitico, un ingegnere, un tossico… tutti diversi, di fronte a quello spettacolo della natura in fondo staremmo condividendo con sguardi diversi la stessa esperienza. Sarebbe bello che il teatro fosse un po’ così.


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