Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia

Prove di Drammaturgia


I PUNTI CRITICI: DOMANDE

di Marco Baliani

La prima cosa che mi colpisce è il tema del convegno e qui vorrei fare una piccola provocazione nei confronti di coloro che l'hanno pensato: mi sembra che, più di un convegno, si stia delineando un percorso che attraverso diverse tappe approfondisce un tema. Ora questi due strani termini "popolare e ricerca" che per tanto tempo, soprattutto negli anni '70, abbiamo difficilmente coniugato nel nostro lavoro, adesso, improvvisamente li troviamo uniti e c'è il rischio, nel metterli insieme, di cadere in una certa enfasi. Mi domando: non sarà che viene fuori adesso la necessità di coniugare questi due termini perché di fatto è già in atto un mutamento reale e profondo nel panorama del nostro teatro italiano? Spettacoli che pensavamo fossero relegati in una nicchia, improvvisamente diventano popolari, nel senso che vengono accolti in circuiti dai quali erano esclusi; lasciamo perdere il problema della televisione che non vorrei proprio toccare. Parliamo del problema del popolare a teatro, sul quale vorrei dire la mia.

Da una parte, si è verificato un cambio generazionale nel pubblico del teatro; io lo vedo andando in giro a fare spettacoli, lo vedo nelle micro organizzazioni dei piccoli festival come in quelle dei grandi teatri comunali, dove ti includono perché ormai il loro pubblico sta morendo e ne serve un altro. C'è senz'altro un cambio biologico all'interno del pubblico, così come c'è un cambio biologico anche all'interno delle istituzioni: Martone va all'Argentina, Barberio Corsetti diventa direttore della Biennale. E io mi auguro che Vacis in poco tempo diventi direttore dello Stabile di Torino.

Il mutamento che negli altri paesi europei è avvenuto vent'anni fa, da noi accade adesso; i registi che ho nominato hanno quaranta o cinquant'anni, ma continuano ad essere i "giovani registi", ma questo forse riguarda un problema culturale del nostro paese, un paese confessionale dove il patriarcato, il paternalismo, il familismo pesano ancora tanto; nel resto d'Europa, invece, uno a trent'anni dirige un teatro. Però, intanto, un cambiamento c'è stato e sta continuando a svolgersi sotto gli occhi di tutti. L'altro cambiamento da registrare è quello degli spazi; noi siamo appena andati a visitare i cantieri della nuova sede della Corte Ospitale. È un posto meraviglioso, diventerà quello che negli anni Settanta era il sogno di tutti i teatranti. Noi abbiamo sognato per anni che ci fossero dei posti così e adesso sono quasi troppi. In Emilia Romagna è tutto un fiorire: c'è Casalmaggiore restaurato, Bagnacavallo, il convento di San Francesco. In molte parti d'Italia sono stato in teatri appena restaurati, dove il direttore mi diceva: " se ne hai bisogno, in qualsiasi momento, ci si può fare una tua produzione".

Il primo segnale di Martone al Teatro Argentina è stato quello di fare acquisire dal Comune come nuovo spazio teatrale un fabbrica dismessa, un anti-teatro all'italiana. Anche all'interno delle istituzioni stanno accadendo notevoli cambiamenti. Il cartellone del Teatro Valle, dell’ETI, è un cartellone all'avanguardia, rischioso, fuori misura rispetto al pubblico romano che non è abituato a spettacoli del genere, ma sicuramente più avanti di quelli di tanti teatri "Stabili", "Privati". Più avanti, ad esempio, il cartellone del Teatro Valle e di quello del Teatro Due di Parma. Per cui – torno alla domanda - non è per caso che avete coniugato il "teatro popolare" e la "ricerca" perché di fatto è già accaduto qualcosa. E cioè è già accaduto che un teatro che fino all'altro ieri era un teatro di margine, di ghetto, di recinto, di riserva indiana adesso è diventato qualcos'altro e allora bisogna in qualche modo cercare una teorizzazione che lo giustifichi - è una provocazione, però è anche un dubbio che mi viene.

Mi sembra che già in questi primi interventi siano emerse parecchie differenze intorno al concetto di "popolare", mentre forse su "ricerca" siamo tutti d’accordo, perché veniamo da lì, dagli anni '70, sia chi, come me, proviene dal teatro ragazzi, sia chi ha fatto altre esperienze. Crediamo di essere uguali rispetto al problema della ricerca. Non è vero. Siamo tutti molto diversi. Io non condivido molte delle cose che hanno detto Vacis e Martinelli. Li stimo tanto, ma non stiamo sulla stessa barca.

Nel teatro di ricerca – comunque – ci sentiamo all'interno di una grande famiglia, nel popolare invece non ci sentiamo affatto all'interno di una grande famiglia, anzi ci sembra che la famiglia sia da un'altra parte, ci sembra di stare entrando nei salotti di altre famiglie, più che di frequentare quelli che già conosciamo. Mi piace che sia venuta fuori la parola "tradizione", perché ci porta direttamente la nodo della questione, che posso sintetizzare in una domanda. "Queste due concetti uniti assieme 'teatro popolare di ricerca' non vogliono forse dire che stiamo fondando o formando una nuova tradizione?"

E cioè quello che sta facendo questo nuovo teatro, che è adesso più riconosciuto e riconoscibile, è fondare una tradizione? Ricordiamoci che dentro la parola tradizione c'è il tradimento e c'è il trasporto. Portare, tradere, tradire. Noi, negli anni Settanta, credevamo di aver compiuto delle grandi opere di tradimento rispetto alla tradizione e dopo molto tempo ci siamo accorti di quanta ricchezza c'era dentro quella tradizione contro cui un po’ ingenuamente, un po’ sessantottinamente avevamo eretto dei muri. Mi ero appuntato una bella frase di Benjamin che mi aveva colpito diversi anni fa, quando litigavo con Bartolucci, buon anima, perché lui pensava appunto che i teatri di ricerca fossero dei luoghi dove non c'era poi tanto bisogno di spettatori. Era molto bello litigare con lui. La frase di Benjamin diceva: "in ogni epoca bisogna combattere per impedire che la tradizione venga sopraffatta dal conformismo che cerca di soffocarla". Il che equivale a dire che il compito dell'artista non è quello di erigere barriere contro la tradizione, ma quello di fare in modo che la tradizione non diventi conformista.

Domanda: questo teatro è riuscito, in questo, nelle sue migliori espressioni? Negli artisti che avete nominato, nelle opere che avete nominato, è riuscito a fare questo? È riuscito a farsi contaminare in modo positivo dalla tradizione, svolgendo un percorso che si possa leggere anche teoricamente e non solo come un salto nella Storia, come invece, negli anni Settanta, si credeva dovessero essere i percorsi del nuovo teatro. Ma negli anni Settanta si credeva di dover saltare la storia anche politicamente e quindi il problema era più esteso e complesso.

Queste sono le prime domande che rivolgo ai relatori, che sono domande critiche. Mi piacerebbe un pensiero di risposta.

Adesso cercherò di affrontare il problema della regia. Stamattina mi è sembrato che ci fosse una gran voglia di far fuori la regia. È chiaro che stiamo parlando di un teatro che da tempo non si riconosce nel teatro di regia degli anni Sessanta e che non ha nulla a che fare con Strelher, e neppure con Castri o con Ronconi. È significativo che le due figure che fanno da cardine fra questi due teatri – quello di regia e l’attuale –, siano figure di capocomico e regista: Leo De Berardinis e Carlo Cecchi, i quali, lo dico con tutto l'amore possibile, partecipano a diverse idee della regia e, per così dire, vi si trovano in una posizione di mezzo.

Tutti noi ci riconosciamo in un altro modo di pensare la regia, però le differenze restano alte anche perché l’idea in cui ci riconosciamo è difficile da definire in astratto e, per ognuno di noi, coincide con quanto abbiamo fatto e pensato. Però, trovare un comune denominatore semplicemente dicendo che la regia è morta mi sembra cosa un po’ povera e, ancora una volta, un po’ estremista, perché sappiamo che quando hai venti attori da dirigere sono problemi se non li dirigi.

La parola più vicina a quello che io immagino sia la regia l'ha detta Giancarlo Biffi del Cada Die, parlando di levatrice; perché la levatrice è una figura fondamentale. Senza di lei il bambino non nasce; anche con gli attori serve qualcuno che faccia nascere il bambino. Io sono anche attore e so che quando sto in scena non riesco a farlo nascere se non ho qualcuno che mi aiuti: una levatrice. Questo tipo di aiuto è molto lontano dall'idea di regia per cui il regista decide anche il sesso del nascituro prima ancora che nasca; sono due cose diverse. Ma anche la levatrice ha una tecnica, ha un sapere, sa come aiutare psicologicamente la partoriente.

Il regista come levatrice, secondo me, è un'idea bella, anche perché è un'idea femminile, mentre, tornando agli interventi di questa mattina, l'artista di Marco Martinelli è un artista fortemente maschile. Io non mi riconosco nell'idea di fecondare. Non mi convince molto, ho sentito nell’intervento di Marco un istinto missionario, una forte demonizzazione nei confronti di tutto ciò che non sono io, la rivendicazione di un tipo di artista ancora vicino, come logica, ai modelli delle avanguardie. Dipende dai linguaggi che si usano: io penso che il corpo a corpo, di cui si è parlato stamattina, in teatro, si fa con i linguaggi; il corpo a corpo con l'attore è secondario rispetto ai linguaggi che metti in scena. Io, che uso molto la narrazione, d'istinto sono portato più al femminile che al maschile: la narrazione ha bisogno di ascolto, quindi ha bisogno di essere fecondata più che di fecondare, ha bisogno di ascoltare il modo con cui la gente si relaziona, il modo con cui parla; in treno, io non mi stanco d’imparare sentendo come chiacchierano le persone dentro un vagone ferroviario.

Marco parte dall'idea della fecondazione ed è chiaro che ha bisogno di carne fresca e che deve andarla a cercare lì dove crede che i sessi siano più pronti a ricevere. Allora si rivolge ai giovani e, possibilmente, che siano barbari. Neppure sulla barbarie dei giovani sono così convinto. Penso che i racconti si continuino sempre a fare al gabinetto, adesso come quando andavo al liceo; non è così strano che si facciano al gabinetto; i racconti si sono sempre fatti in posti diversi rispetto a quelli istituzionali. Il segno di un cambiamento epocale sarebbe poterli fare nei luoghi dell’istituzione; il fatto che si continuino a fare al gabinetto significa che la scuola superiore è rimasta come quando ci andavo io, e infatti è la cosa più vecchia che abbiamo in Italia.

Lo sfascio in cui ci troviamo è un problema di ordine politico, non è di ordine estetico; ma forse anche a questo proposito siamo diversi. Io continuo a pensare che gli Indios dell'Amazzonia muoiono per colpa di un sistema economico, mentre un altro pensa che hanno preso dei virus e muoiono per la gastrointerite. Io resto laico. Mi sento legato a questa modernità che mi ha generato; penso e vedo il mondo in un certo modo e, automaticamente, agisco in rapporto ad esso. Quindi, per quello che mi riguarda, preferisco l’immagine di ‘essere fecondato’ che non quella di ‘fecondare’. Il che non implica passività perché nel farti fecondare tu selezioni, scegli. Più che un seminatore, io mi sento un raccoglitore; ma per essere un raccoglitore servono delle tecniche. Le telline al mare si possono raccogliere solo con certi strumenti, non con le mani., uno si deve attrezzare con alcune tecniche: le tecniche producono sapere e le tecniche insieme al sapere, se hai una strada poetica davanti, producono la poesia, cioè producono il tuo stile, il tuo modo di lavorare, la tua ricerca. Ci troviamo tutti dentro un'idea di regia che un po’ si rifà all'idea dei registi pedagoghi del Novecento, ma anche lì poi… citiamo spesso Coupeau, ma Coupeau era un cattolico che metteva dentro al suo percorso le idee della comunità e della redenzione, un po’ come ce le mette Barba: c'è sempre il miraggio della Terra Promessa. Io invece appartengo a un mondo che pensa che la Terra Promessa non c'è ed è meglio lavorare sull'utopia ovvero sulla 'Terra che non c'è'.

Amo Camus, e Camus diceva che forse l'unica cosa che un intellettuale deve fare è spingere il sasso fino alla cima della collina sapendo che comunque non ce la farà mai a costruire una cosa nuova; il sasso rotolerà indietro, però il suo compito è quello di continuare a spingerlo nonostante tutto, sapendo che rotolerà indietro. È un atteggiamento assai diverso dal pensare che quello che ha messo il sasso lassù, sulla cima, apre o fonda un mondo nuovo dove tutti sono redenti. Sono visioni diverse che producono scenari teatrali altrettanto diversi. Sono molto diffidente rispetto alla New Age teatrale, non mi piace, non ci credo. Io penso che il teatro sia una battaglia e che il confronto, il conflitto e la lotta abbiano a che fare con il linguaggio, perché noi stiamo al suo interno. Noi stiamo all'interno di un linguaggio come quello teatrale, che, pur nella sua gamma infinita di varietà, è molto preciso. Noi produciamo forme per comunicare. E qui mi riallaccio alle osservazioni di Cristina Valenti, che ha parlato di efficacia della comunicazione e di mettere al primo posto l'istanza comunicativa. Questo primato della comunicazione e, insieme ad esso, il concetto di 'tradizione', rimettono in circolo i problemi del ‘popolare’ e della ‘ricerca’.

Negli anni '70 l’istanza della comunicazione non era al primo posto; anzi, io mi ricordo che, tanti anni fa, quando feci Corvi di luna al Festival di Santarcangelo - uno spettacolo che i critici, non sapendo come definirlo, chiamarono nazional popolare -, Antonio Attisani, che era allora il direttore del Festival ed aveva voluto questa esperienza per la quale lo ringrazio ancora, appena vide il successo del lavoro, cominciò ad attaccarci dicendo che era troppo popolare, che avevamo fatto una cosa troppo comunicativa. E non sono passati che dieci anni!

Quando mi chiedo se la famiglia 'popolare' ci appartiene davvero, se ci stiamo bene dentro oppure…. Io penso che tanti non si ritrovano nell'idea di popolare perché l’avvertono come un abbassamento di tiro - "quando diventi popolare e hai avuto successo allora aumenti il cachet" -; ma è questo il senso del 'popolare'? Che intendiamo per ‘popolare’? Io penso che quando uno si misura con il popolare si misura col problema della mediazione; questo lo percepisco nettamente, perché vengo dal teatro ragazzi, vengo da un teatro fatto con pubblici non educati, da un mondo teatrale dove si pensa che se uno vuole davvero essere popolare deve sporcarsi le mani ed è più un artigiano che un artista, che può andare avanti per tutta la vita con il suo linguaggio indipendentemente da come il pubblico reagisce. Se uno decide di stare "dentro" il popolare, sa che deve compiere un grosso lavoro di mediazione.

Sono convinto che il teatro sia e continui ad essere soltanto un rito culturale. È una frase di Pasolini, che nel suo ultimo manifesto teatrale ha scritto: "Il teatro è soltanto rito culturale". Il teatro degli abbonati di cui parlava Martinelli è un rito sociale ormai dimesso. Il teatro, oggi, può essere soltanto culturale. Qualcuno decide di convocare tre persone o diecimila, però nella sua decisione è già presente l’idea del linguaggio che userà, perché, se non lo sa, è un pazzo. Se io decido di andare in televisione oppure di fare uno spettacolo dove voglio raggiungere la casalinga di Potenza e l'intellettuale che scrive sulla rivista 'tal dei tali', devo decidere con quale linguaggio partire per fare questa operazione, sapendo che, comunque, si tratta un rito culturale. Io li convoco, decido che vengano al mio appuntamento, non c'è nessuna comunità, né prima né dopo l’incontro. "Si parte, si va, si sta insieme e si muore lì". Non credo che si possano ricreare delle radici, credo che ormai la modernità questa possibilità l’abbia rotta completamente, non c'è più nessun Dio all'orizzonte, non c'è più nessuna divinità da inseguire, Dioniso è morto tanti secoli fa.

Rimettersi in bocca la parola 'dionisiaco' per sentirsi vitali, rischia di innescare un vitalismo, non la vitalità, che è ben altra cosa. Io preferisco pensare che Dio è morto e non penso di scoprire chissà qual potenza sacral divinatoria dentro al teatro. E quando, al massimo, riesco a ridare al teatro una dimensiona quasi sacral rituale, tutti si rendono conto, quando arrivo lì, che quella possibilità l'abbiamo persa. È il massimo a cui io posso arrivare: ad una sorta di nostalgia del sacro, che è la nostalgia di tutta la modernità. Cosa vogliamo giudicare? Se si stava meglio prima? Mi sento sempre dentro delle nostalgie, sul prima, sulla comunità, quando c'era. Prima la comunità c'era e si moriva di fame in campagna, perché non c'era un pezzo di polenta da mangiare. È lì che vogliamo tornare? No, è successo qualcos'altro. È successo che noi, oggi, guardiamo lo spettacolo teatrale attraverso gli occhi con i quali ci siamo visti trecento film e tutta la televisione, che, pur demonizzandola, continuiamo a vedere; è con questi occhi che andiamo a teatro. E se tu non lo sai o fai finta di non saperlo o sei in malafede oppure credi di costruirti una nicchia pura rispetto a questi occhi, ma non è vero perché questi occhi li vuoi, e se li vuoi non sei più puro e già devi tenere conto, nel lavoro che fai di messinscena, che i tuoi linguaggi devono mediare il piano, il contro piano, il piano lungo, il piano sequenza, il dettaglio, la musica, questo è il nostro mondo.

Certo, se vado a fare uno spettacolo del genere in Papuasia probabilmente non si capirebbe nulla di quello che sto facendo, non si vedrebbe nemmeno nulla del mio lavoro. Noi vediamo in base ai sistemi percettivi che ci siamo costruiti. Il nostro teatro è un teatro popolare nella misura in cui siamo all'interno d’una percettività popolare? E se è così, quali sono gli scarti con cui un intellettuale può portare avanti una sua poetica sapendo che è dentro ad un mondo così onnicomprensivo dal punto di vista della percezione. Il prossimo lavoro teatrale che farò sarà su Francesco d’Assisi. So già che se la porto in televisione, la mia narrazione si dovrà misurare con Raffaella Carrà che fa i suoi racconti a "Carramba". Se accetti quel contenitore, è una bella battaglia, che però puoi combattere lavorando in modo che quei linguaggi, che tutti credono sia possibile utilizzare solo in un modo, si possano fare in un altro modo. Ma vedete che torna ad essere solo uno il problema: relativizzare, dove siamo e a chi ci rivolgiamo, quali sono i linguaggi vigenti che rendono popolare quanto facciamo, come puoi, usando questi linguaggi, tentare di dire cose che non si appiattiscano su linguaggi che le veicolano. Queste sono le sfide, di oggi e di sempre. Sono le sfide di qualsiasi intellettuale e artista, compreso Aristofane ai tempi suoi. Non credo che, oggi, questo problema venga reso più grave e urgente dalla presenza della televisione. No, una volta c'era il cinema, prima ancora c'era il libro stampato, prima ancora c'erano i chierici vaganti ecc. C'è sempre stato il tentativo di portare poesia alla gente usando la ‘popolarità’ dei sistemi di comunicazione vigenti.

Spesso mi sembra che noi teatranti facciamo finta che questi sistemi non ci siano; ci comportiamo come se fossimo liberi di fare qualsiasi cosa. I componenti di una tribù della Nuova Guinea, dopo aver ascoltato dal registratore dell'etnomusicologo la Nona di Beethoven, avevano detto di non aver sentito nulla. Non l'avevano sentita! Non rientrava nelle loro modalità di percezione. Quando le golette dei nostri massacratori arrivarono nel Sud America in nome di Dio, gli indigeni, che guardavano dalla spiaggia, non vedevano la nave; cominciavano a vedere qualcosa solo quando dalla nave si staccavano le barche a remi, perché quelle rientravano nel loro campo di percezione, la nave no, la nave era una nuvola. Non la vedevano.

Allora mi domando, quanta musica non stiamo ascoltando? Anche noi siamo all'interno di un sistema, e dobbiamo imparare a ragionarci intorno, perché, se non siamo capaci di farlo, ho l'impressione che torni a riprodursi il mito dell'artista maledetto, dell'artista ineffabile, dell'artista che ha lo spirito divino dentro. Sono tutte cose molto romantiche con cui si tenta di giustificare la diversità dell’artista, ma questa diversità è data dal fatto che l'artista è perfettamente consapevole di come si comunica ed è perfettamente consapevole di quali sono le tecniche, i saperi, le strategie che deve impiegare per imprimere ai tipi di comunicazione che usa altre finalità e direzioni rispetto a quelle loro abituali. Questo è, secondo me, il lavoro dell'artista, dell'artista-regista, dell'artista-attore, dell'artista nel teatro.

Un'altra cosa in cui non mi riconosco è il tipo di attore di cui parlava Vacis. Io non credo che Vacis si sia suicidato come regista, non mi pare. Non credo che, facendo La Rosa Tatuata con la Moriconi, si sia potuto suicidare davanti, è molto difficile. Quella, o la dirigi o sei spacciato. Lo stesso vale per Lella Costa. Non credo che un regista si possa suicidare tanto facilmente. Forse è in crisi, come siamo in crisi tutti noi, e sente la necessità di ridare uno spazio alla levatrice che è in lui; di essere una levatrice rispetto ai suoi attori. Ma rispetto all'immagine di attore proposta dall’intervento di Vacis, io ho molti dubbi e non sono convinto che corrisponda a una realtà effettiva; non mi sento un "attore di terra" e neanche una "statua di sale"; io dico la mia e chiaramente uno al suo punto di vista. Il mio lavoro sul raccontare non va nella direzione di ricostruire una comunità e neanche in quella di ricostituire delle radici che non possiedo. Io sono nato su un lago, ho vissuto a Roma, vivo a Parma, non mi sento da nessuna parte, mi sento straniero rispetto a dialetti, idiomi. Forse chi viene da un diverso radicamento territoriale diverso può trovare in esso delle costruzioni linguistiche che lo radichino ancor più nella sua situazione d’origine.

Se devo immaginare l'attore, io lo vedo come un organismo vivente, più come un essere di carne che non di terra. Certo, anch'io cerco una dimora, chi non la cerca, chi non cerca un centro di gravità permanente, come diceva Battiato qualche anno fa; però, un conto è cercarlo sapendo che prima o poi lo troverai scoprendo finalmente chi sei – e, in questo caso, tornano a proporsi i problemi della redenzione e della Terra Promessa -, e un altro conto è lavorare e combattere per cercare una dimora, pur sapendo che non la troverai mai. È l’ideale de L'uomo assurdo di Camus, che io penso sia la cosa più grande che il Novecento abbia prodotto, una forma di esistenzialismo estremo dove non ci sono Dei all'orizzonte. Il che non vuol dire che, non essendoci Dei all'orizzonte, l'individuo-artista non abbia un compito: il suo compito è quello di Sisifo. Un compito arduo, difficile; lottare in un mondo assurdo sapendo che continuerà a rimanere assurdo. Mi sembra una grande lotta etica.

Io sento l'attore come uno straniero che si muove nel mondo, come un chierico vagante del medioevo, come un miscuglio tra chierico, giullare e pellegrino, sicuramente come un nomade. Io non lo sento legato a centri, a teatri, o ad altri luoghi stabili e fissi. Poi, però, sono contento che ci sia chi crea e fa vivere luoghi di questo tipo; sono molto contento che la Corte Ospitale diventi davvero 'ospitale' per qualcuno, forse anche per me. Se non ci fossero stati luoghi fissi o stabili nemmeno i chierici vaganti avrebbero potuto sviluppare i loro racconti, e poi mi auguro che anche nei luoghi del giorno d’oggi ci sia qualcuno, come nei monasteri d’un tempo, che trascriva, che documenti, che racconti che un giorno Marco Baliani è passato di lì, lo può fare con una fotografia, con un video, con un'intervista, con molti di materiali che poi restano, che lasciano una traccia. Per un attore è meraviglioso questo; non accadeva cinquant'anni fa, allora morivi e basta.

Paradossalmente, i luoghi, i ‘monasteri’ che si stanno costruendo sono più numerosi di coloro che li dovrebbero abitare. È una strana sensazione. Soprattutto in Emilia Romagna è un fiorire di ‘monasteri’ che speriamo qualcuno abiterà, mentre l'ETI, col progetto delle residenze, vuole fare abitare nuovi ‘monasteri’ al sud, e cioè vuole creare ‘monasteri’ che non ci sono. Mi sembra una bella battaglia, una lotta da fare comunque. Penso che lo straniero che attraversa questi posti abbia la possibilità di lasciarvi qualcosa e questo dipende molto da chi li abita abitualmente; una volta, erano i monaci amanuensi che fissavano le storie originando un patrimonio di memorie che, in questo caso, era possibile tramandare, perché il racconto orale muore dove nasce.

Convegni come questo non se ne facevano da tanto tempo; sempre più si tengono convegni organizzativi, dove si parla di circolari ministeriali, di problemi di potere, del rapporto col territorio ecc.. era tanto tempo che non ci si incontrava potando parlare così, molto apertamente, sulle nostre storie e sul nostro presente. E sul problema del presente, risalgo alla terza domanda agli organizzatori di questo convegno, perché penso che sia tutt'uno col problema del teatro di ricerca: questo teatro sta parlando il presente? Sta parlando alla contemporaneità, ci sta riuscendo, o no?

Se così non è non capisco in che cosa possa essere popolare e di ricerca. Poiché si presuppone che il ‘popolare’ sia comunque una mediazione con una moltitudine di occhi e che la ‘ricerca’ sia un modo per pervenire a un risultato di distillazione estrema del nostro percorso poetico, mi auguro che, nel momento in cui metti assieme questi due termini, parli del tuo presente. Se così non è, torna a riproporsi un'altra figura, che sta sempre lì a spiarci lungo il nostro procedere. Si tratta, ancora una volta, dell’artista avanguardista, che non sta nel presente, ma sempre un po’ più avanti, che guarda il mondo che deve venire e vuole indicare al popolo dove guardare – anche questo deve decidere. È così che vogliamo essere o non dobbiamo invece raccogliere e registrare quello che il popolo sta già guardando? Sono due cose molto diverse. Io non credo che gli artisti venuti dall’esperienza degli anni Settanta si trovino d’accordo su una o sull'altra di queste ipotesi che io non riesco a formulare. L'artista maledetto ancora serpeggia nella visione artistica del nostro teatro, che è sostanzialmente romantica: più sei maledetto, più sei avanti, non ti capiscono quando parli? Vuol dire che ti capiranno dopo, quando sei morto, è quindi bene essere marginali, diventerai ricco spiritualmente dopo. È così? O il problema è un altro? E se è un altro, come si misura con la nostra paura di essere inghiottiti dalla popolarità?

Perché, in quasi tutti gli interventi, avverto anche questo: il timore di venire inghiottito dalla popolarità televisiva. Io non sono d’accordo perché la televisione continuerà a chiedere al teatro sempre qualcosa: gli sceneggiati televisivi stanno migliorando di qualità, le soap opera si stanno facendo operazioni televisive dove il sapere teatrale incomincia a contare sempre di più, e ciò anche in termini attorali, non possiamo fare finta che non sta accadendo.

La stessa cosa si verifica al cinema: i film italiani stanno migliorando, la presenza degli attori, è sempre più accettabile e in qualche film si comincia a vedere che anche il cameriere che porta il bicchiere è credibile, cosa che nei film italiani non accadeva; di solito andavano bene i due protagonisti e tutto il resto era un disastro. Si sta lentamente accettando l’idea che se si vuole che un film sia verosimile, deve essere verosimile anche il modo in cui gli attori lavorano. E questa esigenza renderà il teatro sempre più necessario. Ad esempio, il pezzo di Pippo Delbono nell'Albero delle pere di Francesca Archibugi è assolutamente vero e credibile, tutto il film è fatto con attori credibili, compresi i due bambini. Adesso si sta ponendo un altro ordine di problemi: la storia e l'intreccio debbono avere un senso, gli attori devono essere in grado di reggerlo, e questi attori vengono perlopiù dal teatro; dobbiamo continuare a demonizzare quel mondo dello spettacolo? O non dobbiamo invece preoccuparci di verificare quali nuove sinergie si possono creare con esso?

Si stanno verificando fatti e possibilità, anche economici, molto diversi da quelli degli anni Settanta, dove dominava la paura che il cinema, che la televisione, che quel modo di fare spettacolo volesse solo inghiottirti. Allora bisogna fare i conti con quei linguaggi, perché, se non li fai, sei ancora snob. Totò principe di Danimarca è un prodotto televisivo snob, un brutto prodotto televisivo, Leo l'ha fatto male. Quello che a teatro era eccezionale, sul piccolo schermo muore dopo dieci minuti che lo guardi. Ha sbagliato tutto quello che si poteva sbagliare. Diciamole queste cose; il problema non è che lo spettacolo è stato messo in terza serata, è che è stato girato male. Non possiamo pensare di usare la televisione a teatro facendo finta che, se mettiamo una telecamera in platea, quelli siano gli occhi dello spettatore; non è vero. Gli occhi dello spettatore guardano cose diverse. Se vogliamo farlo un teatro in televisione dobbiamo mettere le mani in pasta, conoscere i linguaggi del mezzo che adoperiamo, altrimenti continueremo ad avere un atteggiamento snob, come se fossimo ancora dominati dalla paura di venire inghiottiti. Ma se si ha paura che questo mezzo ci inghiotta perché è popolare perchè stiamo parlando di "teatro popolare di ricerca"?

Valeria Ottolenghi: Sono anni che conosco Marco e ogni volta che lo sento parlare mi incanta. Nel senso che spiega il proprio pensiero utilizzando categorie e riflessioni che, poi, ti restano dentro. Certamente, noi abbiamo cominciato questo percorso pienamente consapevoli di doverci confrontare con molti problemi e domande, alcune di queste ce le eravamo già poste e Marco le rese più esplicite, più forti. In modo particolare, credo che sia determinate l’ultima: se esiste una categoria di "teatro popolare di ricerca", gli esempi che possiamo trovare al suo interno sanno parlare effettivamente alla contemporaneità? In che misura? Come? Con quale linguaggio? In quali condizioni?

Io credo che Marco abbia ragione, ma ora non dobbiamo rispondere a tutte le domande, meglio tenercele dentro; ci accompagneranno spingendoci a cercare delle forme di comprensione. Volevo soltanto chiarire che la definizione "teatro popolare di ricerca" è soprattutto uno strumento di lettura; questa è stata la nostra intenzione. Come critico, mi dispiace molto che oggi l'intellettuale, avendo paura non tanto del nuovo e del futuro, ma di assumersi delle responsabilità più vaste e d’ampio respiro, finisca per rincorrere i singoli eventi. Per reagire a questo atteggiamento diffuso, abbiamo cercato una categoria o una definizione che servisse a comprendere meglio quanto è accaduto e che, come una cartine di tornasole, fornisse a contatto con gli artisti di teatro dati e indicazioni. E già l'intervento di Marco ha prodotto riflessioni alla cui luce bisognerà ripensare tante cose.

Prima, Marco si è chiesto "se il nostro teatro è un teatro popolare nella misura in cui siamo all'interno d’una percettività popolare?" Dalle risposte che abbiamo ottenuto con la nostra iniziativa, possiamo forse già rispondere: "Sì, siamo dentro questo campo percettivo". Però, una volta appurata questa comune zona d’appartenenza, bisogna anche saper individuare e riconoscere le differenze interne. Per questo, domande che Marco ci ha rivolto ci dovranno ancora accompagnare per molto tempo.

Gerardo Guccini: Come diceva Valeria, con l’espressione "teatro popolare di ricerca" non si intende fornire una definizione rigida, ma uno strumento ricavato dall'osservazione dei fatti. Fatti fra i quali rientrano anche quelli che hai esposti or ora. E infatti: se dal tuo intervento si togliessero le riflessioni generali e tutti i riferimenti all’argomento di questo incontro, lasciando solo le informazioni di carattere biografico, quelle che riguardano il tuo percorso personale, io, debbo dire, che sentendo la storia di questo uomo di teatro che viene dalla ricerca e dal teatro ragazzi, che litiga con Bartolucci difendendo le ragioni del pubblico, che si scontra con Attisani sulle stesse questioni, che si paragona ai chierici vaganti – il cui luogo d’esistenza era la cerchia degli ascoltatori – penserei, se già non l’avessi pensato, a qualcosa di simile a "teatro popolare di ricerca".


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