Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia

Prove di Drammaturgia


CANTO DELLE CITTÀ

di Gabriele Vacis

Alla fine del suo discorso Martinelli ha detto: "non esiste più il pubblico, non esiste più il popolare¼ Però è vero anche il contrario". Ha affermato un’idea ma poi ha detto che è vero anche il contrario. È interessante che oggi riusciamo a pensare in questi termini: riusciamo a comprendere verità opposte¼ O almeno ci proviamo¼ Una verità non è una per sempre e in ogni luogo. Ci sono circostanze, spazi, situazioni in cui una certa verità subisce modificazioni, fino a capovolgersi, fino a diventare menzogna, però è vero anche il contrario¼ Fantastico. È fantastico che oggi riusciamo a comprendere questa molteplicità di verità, mentre solo fino a poco tempo fa la verità era una e assoluta, sempre e dovunque¼ La nostra generazione è cresciuta con una serie di imperativi categorici di ordine politico, culturale, artistico: se una cosa era bianca doveva esserlo per sempre, se stavi da una parte dovevi essere nemico di chi stava dall’altra¼ È un pilastro della cultura del Novecento quest’ansia di contrapporre, questo modo di affermare una verità per contrapposizione, per contrasto¼ È come se il Novecento si fosse nutrito di contrari, di contrasti, di opposizioni.

Poi nell’89 è caduto il muro di Berlino¼

"Quando è caduto il muro di Berlino- diceva prima Gerardo Guccini -è caduta l'avanguardia".

Che cosa significa: è caduta l'avanguardia?

Le avanguardie del Novecento nascevano spesso contro qualcosa, il manifesto dei movimenti d’avanguardia erano interminabili sfilze di "contro"¼ Allora la caduta dell’avanguardia potrebbe essere, per esempio, la caduta di questa ostinazione ad opporre, questa ostinazione a pensare che gli opposti sono sempre inconciliabili, la convinzione che non possa esistere una cosa se non in conflitto con un proprio contrario.

Uno dei conflitti su cui l’avanguardia si è consumata, è la contrapposizione tra la qualità e la quantità: negli ultimi decenni, poi, quantità è diventato sinonimo di poca o cattiva qualità. Con la massiccia popolarità della televisione, il popolare ha finito sempre più per coincidere con le grandi quantità di telespettatori inerti¼ Così popolare è diventato quello spettacolo che ha una grande quantità di pubblico. Ma se grande quantità è automaticamente scarsa qualità, e se quantità e qualità sono inconciliabilmente contrapposti, lo dovevano per forza essere anche gli spettacoli popolare e quelli di qualità. Tanto pubblico voleva dire roba scadente e, per contro, poco pubblico voleva dire roba buona¼

Invece si può trovare roba buona tra quella che consumano grandi masse di pubblico e si può trovare roba scadente nei circoli più esclusivi. Così come può essere vero anche il contrario.

Allora vorrei parlarvi di un percorso che ho intitolato Canto delle città.

Credo che il "Canto delle città" contenga un’idea di "popolare" che non ha molto a che fare con la quantità. Anzi l’inizio del processo esclude progettualmente la quantità. All’inizio è una cosa che riguarda noi che lo abbiamo fatto, questo processo¼ Poi può interessare quantità di pubblico impressionanti¼ Però non è obbligatorio, qualche volta accade, qualche volta non accade: sono variabili indipendenti. Probabilmente la quantità è una componente della qualità e la qualità è una componente della quantità. O perlomeno non è necessario che questi due termini siano opposti. Allora esistono molte possibilità di fare un teatro "popolare". In alcuni casi la popolarità è legata alle quantità di spettatori, in altri, per esempio, è legata alla terra¼

Canto delle città è il titolo di uno spettacolo che ho fatto qualche anno fa. Era il terzo di tre spettacoli. Il primo del ciclo si chiamava Canto per Torino, il secondo si chiamava Milano e il terzo, appunto, Canto delle città. Attenzione alle preposizioni: nel primo spettacolo il canto è per Torino, nel titolo del secondo spettacolo scompare la parola canto e rimane solo la città: "Milano", nel terzo spettacolo torna il canto: ma questa volta è il canto delle città. Sono importanti le preposizioni, semplici o articolate che siano.

Per capire cos’è successo nella trasformazione dalla preposizione per alla preposizione delle bisogna che vi racconti di un suicidio. Il suicidio del regista¼ Io ho cominciato a far fuori il mio ruolo di regista un po’ di tempo fa. Diciamo intorno al 1989¼ Più o meno insieme alla caduta del muro di Berlino¼ Se devo dire la verità era un po’ che ci pensavo, ma in quell’anno è successo che al Laboratorio Teatro Settimo stavamo facendo due spettacoli contemporaneamente: Stabat mater e Libera nos¼ Chissà se vuol dire qualcosa il fatto che tutti e due i titoli sono in latino…

Io sono cresciuto con un gruppo di attori che ha più o meno la mia et༠Non ero regista prima di lavorare con questi attori¼ Lo sono diventato durante...

Fino al 1989 o giù di lì vivevo di rendita¼ Un po’ quello che avevo imparato guardandomi intorno, un po’ qualche invenzione e andava bene così¼ Per cominciare a lavorare su Libera nos, per esempio, avevamo inventato una bella macchina da appendere al soffitto del teatro¼ Con un certo tipo di luce quella macchina lì ti faceva vedere la nebbia, sì, proprio la nebbia che si vede la mattina dalle parti di Luigi Meneghello, l’autore di Libera nos a Malo, il romanzo a cui si ispirava il nostro Libera nos¼ Però quella nebbia era anche la nebbia in cui annega la memoria: quella in cui si perde il nonno di Fellini in Amarcord… Ecco: fino ad allora io mi chiudevo in laboratorio con Roberto Tarasco e Lucio Diana e inventavamo cose così: immagini¼ E questo era più o meno la regia¼ Il lavoro dell’attore erano esercizi che però non riuscivi mai a mettere nello spettacolo¼ Sostanzialmente il lavoro dell’attore era qualcosa di staccato, di indipendente dallo spettacolo. Si facevano esercizi per occupare un tempo da cui, misteriosamente, di tanto in tanto, appariva un’invenzione¼ E proprio come un’apparizione mistica non si sapeva come e dove si producessero¼ Non era neanche tanto lecito parlarne, perché ci sembrava che avessero a che fare con il sacro e si sa: non nominare il nome di Dio invano¼ Sapevamo che quella battuta, quel telo che si alzava, quella musica in quel punto, erano belle, facevano ridere o ti emozionavano, ma come avevamo fatto a farle era un mistero¼ Infatti io mi chiedevo sempre come avrei fatto ad inventarmi un’altra volta, per uno spettacolo nuovo, una cosa così bella¼ Era un incubo¼ Gli attori poi erano strumenti meravigliosi¼ Io gli dicevo che sarebbe stato bello quel certo suono, e loro dopo un po’ lo facevano¼ Quel movimento¼ E dopo un po’ era fatto¼ Non sapevo come facevano¼ Ognuno doveva fare la sua parte¼ Si facevano molti esercizi, si faceva molto "laboratorio", è vero: ma questo non c’entrava quasi niente con lo spettacolo, con quello che poi faceva un attore e tu restavi secco a guardarlo¼ Con quello io non c’entravo¼ Erano fatti suoi¼

Una sera, per esempio¼ Una sera mentre si faceva laboratorio per preparare Stabat Mater, Laura Curino fa un monologo di mezz’ora¼ Erano giorni che lavoravamo su quel testo¼ Era la storia di una figlia che raccontava la vita di sua madre¼ Beh, una sera, all’improvviso la Curino lo dice tutto di seguito e noi siamo rimasti secchi. Tutti. Come aveva fatto? Glielo chiesi a notte fonda¼ Non so se lei si era resa conto che noi eravamo rimasti secchi, tutti, credo di sì¼ Ma gli attori le cose le sanno in un altro modo¼ Beh, io le chiedo come ha fatto, e lei mi fa: "l’ho imparato a memoria". Come se fosse la cosa più naturale del mondo¼ Il fatto era che quella cosa che aveva fatto lei valeva infinitamente di più di più di qualsiasi macchina per fare la nebbia¼ Il fatto era che fino ad allora, per me, fare il regista era inventare e costruire macchine e poi farci stare dentro gli attori¼ E, devo ammetterlo, se non ci stavano proprio comodi si trattava di costringerli più o meno con le buone¼ Il mio lavoro in qualche modo si contrapponeva a quello degli attori. Diciamo che ero un regista di quelli che progettano lo spettacolo, decidono come sarà, e poi cercano di far fare agli attori quello che il regista vuole¼ È così che ci si immagina il regista: un despota che costringe gli altri a fare qualcosa contro la loro volont༠Anche a me un po’ avevano insegnato così¼ Esistono diversi modi di praticare questa coercizione: i registi più feroci domano gli attori, ci sono quelli che li addomesticano e i registi che li incantano¼ Ma si tratta sempre di far fare qualcosa a qualcuno che non vuole farlo¼ È difficile sottrarsi a questa logica: tutto sembra predisposto perché il regista sia cattivo, autoritario¼ Perché il regista sia l’autore dello spettacolo, quello che ha l’idea e poi piega al suo volere tutti quanti, specialmente gli attori…

Ora: la cosa importante che aveva fatto la Curino quella sera era qualcosa che mi sfuggiva nella sostanza, qualcosa in cui io c’entravo poco o niente¼ Eppure quella cosa lì a me piaceva, era straordinaria¼ Era che il teatro accadeva in quel momento lì, e in quel momento lì in scena c’era lei, era lei l’autore di quel che stava accadendo, anche se da giorni lavoravamo insieme a scrivere il testo e a cercare di capire come dirlo... Voglio dire che se uno scrive la cosa è fatta: l’autore è lui. In teatro no, tutto quello che prepari poi deve essere fatto in un momento e in un luogo, e il teatro è solo quello, tutto il resto, tutto quello che hai scritto, tutto quello che hai preparato serve, certo, ma è al servizio di quanto poi accade in quel momento che è il teatro… Insomma: non è difficile far fare a qualcuno qualcosa che non vuol fare¼ Ci sono un sacco di imbroglioni in giro capaci di convincerti a fare le cose più turpi¼ Difficile è far fare a qualcuno quel che lui vuole fare veramente! Ogni attore vuol fare spettacoli belli, no? Chi è che vuol fare un fiasco?¼ E allora come si fa a convincere un attore a fare quello che vuole fare?

Intanto più che convincerlo, costringerlo o incantarlo, si tratta di aiutarlo¼

Ecco: è questo che può fare il regista¼ Aiutare, sorreggere, consolare¼ Solo che è molto più difficile¼ Perché è il gregario quello che devi fare, non quello che vince la tappa¼ Un po’ come Cyrano quando, da sotto il balcone, suggerisce a Cristiano quello che deve dire a Rossana… Però poi a baciare Rossana ci vanno gli attori… E poi è più difficile perché se chiedi agli attori come diavolo fanno, loro ti rispondono: l’ho imparato a memoria¼ E poi è difficile perché non si tratta più di contrapporre, ma di comprendere. Allora mi sono messo a seguirli, gli attori, a spiarli, a cercare di capire come fanno¼ E c’è anche da dire che ognuno fa in modo diverso… Preparare Libera nos con Marco Paolini per me è stato un po’ questo: seguire un attore, mettersi sulle sue tracce piuttosto che precederlo... Tirargli la volata standogli alle spalle… È un lavoro difficile, qualche volta bisogna farlo di nascosto, però è infinitamente più interessante che far fare agli attori quello che vuoi tu… Libera nos a Malo, il romanzo di Luigi Meneghello è una specie di dizionario, il vocabolario di una lingua che non esiste più. Il nostro percorso è stato costruire il corpo che potesse pronunciare le parole di quella lingua. È un processo di incarnazione. In questo senso è sacro e non si può tanto parlarne, dev’essere per questo che gli attori sono reticenti, se gli chiedi come hanno fatto ti dicono poco o niente… Perché un attore è l’incarnazione di una lingua, è il corpo di quelle parole…

Fernando Pessoa, il grande scrittore portoghese, diceva che la sua terra era la lingua portoghese… Se pensate alle dimensioni del Portogallo e a quelle del Brasile si capisce perché Pessoa la pensava così, è chiaro che la cultura portoghese è intrecciata con il Brasile dove, appunto, si parla la stessa lingua… Però è vero che la lingua è terra… È stupefacente come certe lingue, certi dialetti assomiglino al paesaggio che li ha prodotti… Il Sefer Jezirah è il libro della creazione degli ebrei. Nel Sefer Jezirah Dio crea il mondo impastando le lettere dell’alfabeto: in questo caso è addirittura il paesaggio, la terra che viene dalla parola, dalla lingua… Comunque sia esiste una parentela stretta tra una terra, il corpo di chi la abita e la sua lingua… Mentre diventava il corpo della lingua di Libera nos a Malo, Marco Paolini diventava quella terra… La ricerca era gestuale: come si potevano tenere le braccia per dire quella certa parola senza che sembrasse ridicola, senza che sembrasse vernacolo?… Quando trovavi una certa curvatura delle braccia ti rendevi conto che questo produceva una precisa ed unica torsione delle spalle… E quella torsione delle spalle ti costringeva ad una certa posizione del collo… E così, via via, si formava un corpo… Era il corpo di certi contadini che io e Marco, che abbiamo la stessa età, abbiamo fatto in tempo a vedere, era il corpo di certi cavalieri di Vittorio Veneto, era il corpo di chi non aveva mai visto qualcuno che si lavava i denti prima di andare militare… Corpi che non esistono più, corpi che abbiamo dovuto cercare nella memoria… Quello che abbiamo fatto era costruire il corpo della memoria.

La stessa cosa era accaduta quella sera con Laura Curino. Stabat Mater parlava di certe storie sudamericane… In particolare c’era un personaggio: una venezuelana che era capitata in una città del nord Italia appena industrializzato, nei primi anni Sessanta… Era questo che ci interessava dire: quelle città di immigrati che avevamo visto nella nostra infanzia… Volevamo raccontare la miseria e l’orrore di quelle periferie senza Dio… Così abbiamo inventato questa venezuelana che invece quella periferia la trovava bellissima… Anche in questo caso si trattava di costruire il corpo che potesse pronunciare quelle parole, dire quella lingua…

Marco Paolini e Laura Curino hanno poi continuato a raccontare quelle terre.

Nel tempo sono diventati quelle terre: il nord-est opulento o le periferie industriali senza dio, che in fin dei conti sono due facce della stessa medaglia…

Allora si può dire che il loro lavoro è popolare perché è il corpo di quel popolo. L’incarnazione della sua lingua.

In questo senso erano popolari anche prima della televisione, anche quando le persone che li conoscevano erano centinaia e non milioni…

Credo che il teatro abbia una vocazione a questo tipo di popolarità più che alla popolarità dei grandi numeri. Però questi diversi tipi di popolare non sono in conflitto. Possono convivere, nutrirsi l’un l’altro, oppure ignorarsi… Non bisogna fare graduatorie in base a questi valori. Semplicemente certi strumenti sono più adatti a certe funzioni altri ad altre. Tutto qui.

Un attore in teatro ha più possibilità di diventare terra quando il rapporto con il pubblico è diretto. Perché gli spettatori vedono lui ma lui vede gli spettatori, ne spia i gesti e gli sguardi. Allora è chiaro che l’autore della cosa che avviene dev’essere lui, in prima persona, direttamente.

Per fare questo è necessario il suicidio del regista, la soppressione del ruolo di direzione, di conduzione…

Chissà che dalle ceneri di quel regista, di quel teatro di regia legato all’opposizione dei ruoli, non nasca qualcosa di diverso… Per esempio attori di terra, attori che anziché cantare una terra siano la terra stessa che canta, il canto di quella terra.

Allora la preposizione è importante: non si tratta tanto di cantare per una città, ma di diventare il canto della città. Così come Marco Paolini e Laura Curino non è che cantano Venezia o Ivrea, sono Venezia e Ivrea che cantano.

Questione di sguardo.

Questione di rovesciarlo lo sguardo.

C’è un bel racconto che parla di questo sguardo rovesciato. È un racconto di Dario Voltolini. È in una raccolta che si intitola Forme d’onda, edita da Feltrinelli, anche gli altri racconti di questo libro sono molto belli. Il nostro s'intitola Laurea. Ve ne leggo qualche pezzo, però voi leggetelo tutto, ne vale la pena:

"Si era laureato in architettura il giorno prima. Ora, frastornati dai riflessi delle vetrate sulla terrazza, sui bicchieri, sulle bottiglie, stavano festeggiando lui, i compagni del suo gruppo e di lavoro e una decina di amici comuni in un ristorante sulla scogliera a picco sul mare quieto. La loro tesi, un progetto raffinato di ristrutturazione del vecchio arsenale era pronta già per la sessione precedente, ma si erano dovuti laureare in luglio per non coincidere con la discussione di un laureando fenomenale che avrebbe oscurato qualunque altro. Lui comunque alla discussione di quella tesi ci era andato. Voleva rendersi conto di persona della genialità di quel tale. Rimase effettivamente impressionato, non però dalla potenza teorica di quel progetto - la riedificazione completa di una metropoli - e nemmeno dalla furia visionaria che alimentava una simile proposta, nemmeno, perché tutti se lo aspettavano, dall'applauso che concluse la discussione. Fu impressionato dalle vene sottili e azzurre sul dorso della mano sinistra del genio. Una mano pallida che nervosamente tormentava una stilografica passandosela incessantemente tra le dita per tutta la durata della discussione. Il fatto era che il resto di quel corpo magro stava perfettamente immobile, perfino le labbra dalle quali tuttavia sibilava un'argomentazione implacabile. Un uomo congelato, una mano febbrile. Questo lo turbava. Si era presto dimenticato di quella vicenda, perché coi suoi compagni aveva deciso di utilizzare il tempo per lavorare ancora alla tesi, allora giorno dopo giorno in piacevoli ed estenuanti sedute si erano messi a lavorare. Un lavoro lieto. Dal momento che si trattava di cosa fatta, solo limare qua e là in una condizione di agio che una laurea solitamente non consente".

Gli scrittori mi fanno impazzire quando riescono a dirti con pochissime parole il senso profondo di sentimenti complessi: "un lavoro lieto", finita la laurea, finito di fare tutto… Quando ci si può permettere di limare... "Un lavoro lieto" sono le parole giuste… È come quando si deve debuttare con uno spettacolo: dovevi debuttare ieri e invece per un motivo o per l'altro, indipendente dalla tua volontà, salta il debutto, hai ancora una settimana, e il lavoro diventa lieto...

Continuo a leggere: "¼ Il risultato era stato ottimo e la laurea era arrivata per tutti carica di voti e soddisfazioni. Allegramente ora festeggiavano. Si apriva il tempo delle vacanze, le vele sul mare stavano esattamente a segnalare questo. Ora, in attesa del caffè stavano fermi a guardare il tavolo con il suo carico di macerie, resti di crostacei, lische di pesce, pane avanzato, tovaglioli raggruppati ai lati dei piatti, un bicchiere in una felice posizione disgregava un raggio di sole proiettando i colori dell'iride sulla tovaglia in una zona immacolata che così brillava di arcobaleno. Nella staticità della scena, in quell'istante spiccava l'affannoso dimenarsi di un ventilatore dentro il ristorante posto vicino alla soglia della terrazza. Le pale giravano all'interno di una griglia di sicurezza e l'insieme si spostava troppo velocemente, prima a destra e poi a sinistra come mimando una situazione caricata d'ansia. In quel momento ripensò al genio, alla sua mano, alla sua immobilità. L'arrivo del caffè rimise in moto tutta la scena. Dopo qualche minuto passato a conversazioni disimpegnate si alzarono e se ne andarono. Voleva un passaggio? Era senza macchina. Disse di no, grazie, avrebbe fatto volentieri una lunga camminata".

E qui cominciano quattro pagine che sono quella lunga camminata: "Bianchissimi barbagli canarini…- comincia così -… acciottolati e pietre a scendere per strade strette, muri a secco, verdeggianti e lussuosi giardini intravisti tra cancellate e siepi pareggiate, ombre azzurre di fogliame sulla calce¼ ".

Avanti così per un po’... Ad un certo punto passa vicino al porto, è una città in cui c'è il porto, ma è anche una città dove c'è il porticato del Bernini... Strano, è una città che è molte città insieme, è tutte le città, diverse città, una dietro l'altra... Entra in un supermercato e si imbatte in un gruppo di persone che guardano dei quadri strani, la gente dice che bisogna mettersi più indietro… Che quei quadri bisogna guardarli pensando ad altro… Che bisogna gettare lo sguardo al di là del quadro… Come se fosse facile… E allora anche lui ci prova, e da quella rete di segni geometrici fitti emergono dei cuori con "Ti amo" in rilievo, oppure un aereo... Ecco, quelle cose lì, le guarda ed esce dal supermercato… Continua la sua passeggiata attraverso la città e intanto viene buio: Voltolini te lo dice così: annotta… Bellissimo…. Annotta…

Vi leggo l’ultima pagina: "Ora, benché sia giovane, è stanco. Dipende dalla testa, ma lo è piacevolmente come quando si è terminato un lavoro. Appoggia i gomiti alla balaustra" – è infatti arrivato su una specie di altura, su una balconata, c'è una collina e su questa collina c'è una chiesa, c'è una trattoria, ci sono dei tavolini, lui si siede e davanti c'è una balaustra. Da questa balaustra, da questa collinetta si vede tutta quanta la città. C'è nell'aria un certo sgomento, lui, ad esempio, è inquieto - "le stelle sembrano così vicine, la città si estende fino alle montagne, vede la baia, vede l'intimo contrasto dei quartieri industriali, i dolorosi contorcimenti su pianta regolare. Attorno al compatto barbacane sotto le mura c'è festa, di quelle popolari, con porchetta e vino sfuso. Le luci della metropoli che viste da vicino sono ferme, dure e rigorose, da lontano oltre la massa, l'aria fatta di vene, colonne a strati di densità diversa in turbolenza tremolano come se fossero fiamme di candele, intermittenze di luce sotto l'ala degli aerei che atterrano. In volo, vediamo di notte le città illuminate come cellule cerebrali, come galassie. Le autostrade come comete. I grattacieli sono specchi scuri, sagome neri, segnalate da tralicci leggeri, con luci. All'alba, le cisterne sui tetti saranno depositate dalla notte aliena, ma non nemiche, compagne osservatrici. Ora, sulla terrazza collinare, lui vede per intero l'organismo metropolitano, scorgendo il flusso degli esseri umani, le nostre intimità nelle cornici di finestre illuminate. Indovina i cablaggi sotterranei, i cunicoli dove passano le informazioni, pensa agli strati cittadini, alle incrostazioni successive che la nostra vita ha prodotto senza pause popolando i quartieri distrutti dalla guerra. Il faro sul promontorio lampeggia, l'urlo di una nave sale dal porto, i clacson e i rumori del traffico sono coperti da un aereo, il raggio teso che parte da una discoteca lontana illumina la terrazza, un raggio lungo che sembra cercare proprio lui. La città gli mostra i denti, un treno gli fischia, un vento di città, di miasmi, di profumi gli soffia in faccia: la città è un gatto che soffia, un puma rabbioso, una tigre che ruggisce. "Non sono io quello" - pensa, le dice:- "non sono io quello che ti vuole spianare, ti vuole rifare, ti vuole razionalizzare. Io sono solo il chirurgo plastico, il dermatologo, il fisioterapista. Calmati bestia". Il leone allora abbassa le palpebre, resta vigile, pensa già a qualcos'altro. Probabilmente a come fare d'inverno".

Bellissimo racconto che spiega il rovesciamento dello sguardo e suggerisce un percorso possibile per farlo, partendo in primo luogo da una rinuncia che è un atteggiamento nei confronti della realtà: "Non sono io quello che ti vuole spianare, io sono soltanto il dermatologo, il chirurgo plastico". Penso che questo, dopo la caduta del muro di Berlino, dopo il secolo delle contrapposizioni, sia un atteggiamento possibile, qualcosa come il suicidio del regista, qualcosa che ha più a che fare con l’ascoltare e il guardare più che con l’affermare.

È qualcosa di cui si parla in un altro famosissimo rovesciamento di sguardo: Sempre caro mi fu quest'ermo colle / e questa siepe che da tanta parte/ dell'ultimo orizzonte il guardo esclude… È di nuovo questione di preposizioni. L’infinito di Leopardi dice che questa siepe esclude lo sguardo da tanta parte dell’ultimo orizzonte… Allora non è che io sto guardando l’orizzonte e la siepe me ne esclude tanta parte, no, non è così: Sempre caro mi fu quest'ermo colle / e questa siepe che da tanta parte/ dell'ultimo orizzonte il guardo esclude… Vuol dire che è il mio sguardo a non essere visto da tanta parte dell’ultimo orizzonte… È questione di una preposizione semplice ma è un fantastico salto mortale: non sono io che guardo l'orizzonte, è l'orizzonte che mi guarda, che in qualche modo che mi crea guardandomi… Da tanta parte dell’ultimo orizzonte… È lì il segreto… È la metropoli di Voltolini che si rivolta a chi vuole spianarla, a chi vuole razionalizzarla, rifarla completamente…

Per i registi è un po’ come per gli architetti… Dopo la caduta del muro di Berlino si tratta probabilmente di diventare fisioterapisti, dermatologi, al massimo chirurghi plastici… Qualcuno che ascolta il canto di quelle metropoli complesse che sono gli attori…

C'è un artista torinese che dagli anni Settanta va alla ricerca di questo sguardo. Si chiama Giuseppe Penone, arte povera, fa delle cose straordinarie… Un po’ difficili da capire ma straordinarie… Per esempio una volta si è fatto costruire da un ottico delle lenti a contatto a specchio. Avete presenti quegli occhiali da sole che specchiano? Ecco, così, solo che invece di occhiali erano lenti a contatto… L'opera d'arte consisteva nel fatto che lui si metteva queste lenti a contatto e andava in giro per la città, con le lenti a contatto a specchio. È questo che si tratta di fare… È qualcosa del genere che diventano gli attori che mi piacciono, qualcuno che gira con delle lenti a contatto a specchio… Qualcuno che puoi guardare negli occhi e vedere te stesso e quello che ti sta intorno, la realtà, le persone, il popolo… Attori popolari in questo modo, in un modo che magari ci permette di uscire dalle secche della contrapposizione novecentesca tra qualità e quantità.

È proprio un salto mortale... È una cosa anche pericolosa… Sì, perché Giuseppe Penone che va in giro per la città con le lenti a contatto a specchio non ci vede… Davvero, diventa cieco… È logico se ci pensate: lo specchio ha bisogno del retro opaco… Quindi chi si mette le lenti a contatto a specchio diventa cieco… È quanto succede un po’ anche agli attori, allora il ruolo del regista a questo punto cambia, bisogna trasformarsi in uno di quei bastoni bianchi che i ciechi battono a terra… Comunque si tratta di annullarsi, di trasformarsi in oggetto d’uso: il bastone con cui si batte la terra, la forcella del rabdomante: strumento nelle mani dell’attore… È un salto mortale, l’ho detto, è il contrario di quello che si pensa normalmente, no? Non l’attore che è uno strumento nelle mani del regista, ma viceversa… Anche se poi, dopo la caduta del muro di Berlino, sai quanto valgono i viceversa…

Quel che importa è lo sguardo: trovare la forza di guardare nonostante quel che si vede… Trovare la forza di guardare e ascoltare le città anche se le città sono Sodoma e Gomorra… È un lavoro pericoloso, perché si sa: chi guarda diventa cieco, anzi, diventa una statua di sale… E ci sono attori che hanno il coraggio di guardare, altri che non possono farne a meno, perché sono irresistibilmente curiosi… Il risultato è lo stesso: si diventa statue di sale, perché si ha avuto il coraggio oppure perché non si è riusciti a resistere alla curiosità di guardare e ascoltare… Guardare e ascoltare lo sguardo dell'orizzonte che mi guarda...

Allora non si tratta più di organizzare un canto per una città… Non è più che io, attore o regista, canto una città, si tratta di far diventare il corpo dell'attore la statua di sale che ha guardato la città, anche quando la città è Sodoma o Gomorra… Il "Canto delle città"… Questione di preposizioni.


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