Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia

Prove di Drammaturgia


"Una grande cerchia di esperti"

di Marco Martinelli

 

I temi dell'incontro di oggi sono dei nodi, sono nodi dentro i quali è cresciuto il mio lavoro, quello delle Albe. Sono nodi complessi dei quali è difficile parlare, le parole faticano a scioglierli: ci vogliono azioni, ci vogliono esperienze, ci vuole tattilità per scioglierli, questi nodi.

Quando abbiamo cominciato a lavorare come Teatro delle Albe, alla fine degli anni '70, ci sentivamo come tra Scilla e Cariddi, tra due mostri che volevano divorarci. Da una parte il teatro convenzionale, dove il pubblico andava: la platea era piena di spettatori, ma quello cui assistevamo era un rituale vuoto, inutile. Dall'altra parte l'avanguardia, che pur avendo tanti aspetti importanti e significativi a cui noi stessi attingevamo, pur avendoci insegnato tanto con i libri e gli spettacoli dei Maestri, tendeva a richiudersi in una "piccola" platea, un clima asfittico e pedante.

La parola "platea" è interessante, guardiamo l'etimologia, deriva dal latino, vuol dire "piazza". Nei teatri convenzionali la platea era veramente una piazza, c'erano mille persone a sera, l'attore sapeva di fare il proprio lavoro per un pubblico. Magari era una piazza di addormentati, quasi morti, ma era una piazza ampia, estesa. L'avanguardia spesso non garantiva neanche un cortiletto: poche anime in sala, magari coltissime, ma per chi si lavorava? All'inizio, ci dicevamo, è inevitabile, se si ha qualcosa di nuovo e profondo da dire non si è seguiti, e non importa lavorare per trenta spettatori se la comunicazione è vera. Ma poi... poi il "nuovo" e il "profondo" tendevano a sparire, di epigono in epigono, e davanti restava solo una platea sparuta e triste.

L'avanguardia, la ricerca, chiamiamole come vogliamo, tiravano a campare in un cerchio sterile, in una piccola cerchia di esperti, dove l'esperienza tante volte era più che altro libresca, fatta di centinaia di spettacoli visti, centinaia di libri letti. Tutti sapevano le stesse cose, tutti conoscevano le stesse teorie, e lo spettacolo non veniva giudicato (parlo di una tendenza generale, al di là delle eccezioni) non veniva giudicato per la vitalità che sapeva trasmettere, ma per la sua congruità agli schemi del piccolo gruppo di esperti. Eravamo stretti tra questi due mostri, la piazza ampia ma addormentata (quasi morta...) dei teatri istituzionali, il cortiletto senza vento degli epigoni delle avanguardie. Dove trovare aria? Per fortuna, cominciarono ad aleggiare sulla nostra scena i fantasmi della grande Tradizione: cominciammo a sognare Aristofane, Molière, Shakespeare, cominciammo a chiederci che cos'era il sapere scenico in quei secoli d'oro, qual era il rapporto con lo spettatore. Quei grandi racconti erano stati scritti per il popolo o per gli intellettuali? Il teatro era allora quello che Brecht definì con precisione: "una grande cerchia di esperti".

Le platee di Aristofane e di Shakespeare erano grandi piazze, stracolme di spettatori critici e appassionati come oggi a una partita di calcio: gli attori erano sapienti nel comunicare con la parola e con il corpo (e se non lo erano, venivano fischiati, come oggi un cattivo calciatore), gli autori costruivano macchine drammaturgiche semplici e profonde, elementari e raffinate, costruite su livelli differenti, dove spesso la comicità si alternava al tragico, la battuta divertente alla tirata lirica, livelli che permettevano a ogni spettatore di costruirsi il "proprio" spettacolo. C'era tutta Atene a seguire Aristofane, ma le sue opere erano colte e stratificate. Non c'era scissione tra il "popolare" e l'arte: un sogno! Ci veniva spontanea la domanda: perché ci hanno fatto nascere in Emilia Romagna nel XX secolo e non ad Atene nel V avanti Cristo, o al tempo di Elisabetta la Vergine? Prendiamone atto, siamo nati qui. I manuali ci insegnano che la rivoluzione industriale ha modificato radicalmente la società, sradicando gli artisti che fino al Settecento erano "radicati".

Benjamin, nel suo saggio sulla figura del narratore, scrive: "Il grande narratore avrà sempre le sue radici nel popolo". Questa frase la scrive cinquant'anni fa, descrivendo la narrazione come un'arte al tramonto. Ma se l'arte della narrazione è al tramonto, e dall'altra parte il grande narratore avrà sempre le sue radici nel popolo... vuol dire che il narratore, le radici, il popolo stanno tramontando, stanno finendo. O sono già finite? Vuol dire che se io sogno i fantasmi della Tradizione, sogno Aristofane, Shakespeare, Molière, la Commedia dell'Arte, io non sono che un dinosauro al crepuscolo. Prendiamone atto. Siamo invischiati in un paradosso: dai tempi della rivoluzione industriale, tanti artisti hanno avuto nostalgia per quel tipo di comunicazione popolare, per quelle radici, negate dalla società di massa, una nostalgia attiva, eretica, non piagnucolante, ma inevitabilmente questo porsi come "forze del Passato" li ha resi maledetti e incompresi, li ha portati a far circolare in piccole cerchie le loro invettive "ridicolose" contro la borghese, onnipotente società di massa, emporio planetario delle merci, macchina sociale che distrugge il narratore, le radici, il popolo, distrugge la comunità, fa a pezzi gli dèi.

Allora... dove siamo? Siamo in un grande ginepraio, siamo davvero in mezzo a spine pungenti, ai nodi di cui parlavamo all'inizio: le parole "popolare", "popolo", "radici", non sono che un letto di Procuste. Non siamo messi bene. Davvero viviamo in tempi bui, e questo buio oggi è scintillante, scintillante di pubblicità, di apparenza, di Vuoto. Che cos'è il "popolare" nella società di massa? È il campionato di calcio. È Domenica In. È un qualunque cretinetto che passa dal Maurizio Costanzo Show. L'anno dopo può accedere alle stagioni di prosa dei teatri comunali, perché si è fatto conoscere, si è fatto la faccia. Andare da Costanzo è un maquillage estetico, funziona. Si è fatto la faccia da Costanzo, bravo. Prima che la faccia di Marco Baliani "acceda", dovrà lavorare una vita. Nonostante qualche intelligente apparizione televisiva, Baliani non è "popolare". Non lo sono neanche Paolini e Vacis, non si illudano, nonostante il Vaiont e Totem. E Leo? Chi lo conosce Leo? Un grande attore come Leo de Berardinis, chi lo conosce? Sono più "popolari" decine di attorucoli e replicanti televisivi. Lo so, se Leo fosse qui replicherebbe con una pernacchia alla Totò contro il "popolare" della società di massa: e noi ci uniremmo a lui. Però questa, mi sembra, è la situazione, il viluppo di nodi nel quale ci muoviamo.

Se parliamo di teatro "popolare", teatro di "ricerca", dobbiamo essere consapevoli che ci confrontiamo da una parte con Aristofane, con il sogno della Tradizione, dall'altra con Maurizio Costanzo. E questo se non ci atteggiamo da artisti "puri", da vergini stolte, ma proviamo a reagire da combattenti impuri, disposti ad affondare le mani nel fango e nelle contraddizioni, senza per questo rinunciare alla necessità etica e vitale che ci ha portato sulla scena. Anzi. Io a Ravenna dirigo da otto anni un teatro comunale, il Rasi, fortemente segnato dalla presenza delle Albe, un teatro cantiere del nuovo e del teatro vivo, e contemporaneamente dirigo la stagione di prosa per l'Alighieri, l'altro teatro comunale, la stagione "vera", quella degli "abbonati". Uno dei compiti che mi fa soffrire, ogni anno, non è programmare in assoluta libertà i 365 giorni del Rasi, bensì scegliere la manciata di titoli da mettere nella stagione di prosa dell'Alighieri. Lì siamo condizionati: mica dal Comune, o dall'Assessore, assolutamente no, ma da un impalpabile volontà "popolare", la "voce" dell'abbonato medio. Dio ci liberi dall'abbonato medio! È un flagello.

L'anno scorso per esempio, sono venuti Paolo Villaggio e Dorelli, lo confesso, li abbiamo chiamati apposta dopo anni di "resistenza": li volete? Eccoli. Hanno fatto uno spettacolo indecente, non si sentiva nulla, non si sentivano le battute che dicevano, abbiamo detto all'organizzatore: "Mettiamo il microfono, così almeno arrivano le battute". L'organizzatore ci ha risposto: "No, no, è meglio così, è meglio che il pubblico non li senta". C'è stata addirittura una sollevazione di tanti abbonati: il tonfo è servito per dimostrare quello che non bisogna fare in una stagione di prosa. In tutte le città dove è andato quello spettacolo ha avuto incassi favolosi, con conseguenti sollevazioni degli abbonati.

Negli anni '80 c'erano funzionari comunali che sentenziavano: "No, no, la ricerca non si può fare nei grandi teatri". Poi un bel giorno, davanti alle insistenze di qualche appassionato, inserivano nella stagione, a caso, senza progetto, un paio di titoli off, i Magazzini, la Raffaello Sanzio, il risultato era che gli abbonati scappavano via e i funzionari ghignavano: "Vedete che non si può proprio fare la ricerca!" Ecco, noi abbiamo fatto come loro, ma al contrario: abbiamo chiamato Villaggio e Dorelli per dimostrare che certi misfatti andrebbero evitati.

Negli ultimi anni il Brecht drammaturgo e teorico si era trasformato in un "pratico" direttore di teatro, aveva fondato il Berliner e si poneva concretamente i problemi del pubblico e del "popolare". Diceva: "Noi dobbiamo trasformare una piccola cerchia di esperti in una grande cerchia di esperti". Un bel programma, ma come si fa? È possibile? E se è impossibile, abbiamo la forza di provarci lo stesso? Quali sono le domande che ci dobbiamo porre per compiere la trasformazione cui allude Brecht? Non sono domande sociologiche, sulla società di massa, sulla televisione, sui linguaggi, no. Almeno non per me. Per me le domande fondamentali sono altre. Io faccio una grande fatica ad alzarmi da letto, la mattina. Fatico a lasciare il sogno, il mondo del sogno. A mettere giù il primo piede. È difficile. E dopo che l'hai messo giù, il problema è: sei vivo? Sei ancora vivo? Hai 43 anni, ma sei ancora vivo? Il tuo cervello è aperto come quando ne avevi venti? Il tuo cuore batte ancora? Sei ancora capace di commuoverti, di indignarti, di sorprenderti? E il tuo sesso? Il tuo sesso è ancora vivo? Si erge? Queste sono le domande che reputo fondamentali per formare "una grande cerchia di esperti", per provare a rispondere all'imperativo politico di Brecht. Le risposte, credo, si nascondono tra i fantasmi della Tradizione e il sesso che si deve ergere. Dioniso, il dio del teatro, è il dio del sesso eretto. E noi, avrebbero detto gli antichi, siamo "oi tecnitai Dionisou", i "tecnici di Dioniso".

Se è così, allora dobbiamo cercare qualcuno da fecondare. Un dio eretto cerca qualcuno da fecondare. Aristofane aveva Atene da fecondare, Marco ha Ravenna: l'Atene del V secolo prima di Cristo aveva 130.000 abitanti come la Ravenna di fine millennio, le proporzioni sono rispettate. Sono tanti, perché 130.000 da fecondare sono tanti, però ci si può provare. Io non so che cosa vuol dire abitare a Torino, questo ce lo racconterà Gabriele, non so cosa vuol dire vivere in una metropoli. So cosa significa vivere in una piccola città, e mi conforta sapere che l'Atene di Aristofane o la Londra di Shakespeare erano piccole città, misurabili, lo dico da provinciale, da persona che va in giro per il mondo e però continua a vivere in una città misurabile come Ravenna. Per cominciare direi che per fecondare una città intera è bene non rinunciare a nessuno dei mezzi che si hanno a disposizione: se Ravenna ha due teatri, occorre lavorare con entrambi. Perché rinunciare agli abbonati, anche quelli medi? Perché non provare a stimolarli, a togliergli il sonno? In questi anni abbiamo portato all'Alighieri gli spettacoli di Vacis, Leo, Cecchi, Carmelo Bene, Moni Ovadia, De Capitani, quest'anno porteremo Baliani. Non rinunciamo a fare questa stagione per un semplice motivo: gli abbonati sono 3.000, e tra loro tanti studenti che per tradizione famigliare fanno l'abbonamento all'Alighieri, e allora meglio che il loro approccio al teatro avvenga sotto il nome di Leo o di Cecchi, piuttosto che sotto quello di Columbro.

Leo o Cecchi all'Alighieri creano un legame con il lavoro assatanato e "corsaro" che facciamo al Rasi 365 giorni all'anno. Il Rasi è così diventato una casa del teatro, un teatro 'politttttttico', ovvero un teatro della Polis. Ma non basta aprire il teatro, bisogna anche cercare Dioniso fuori dal teatro. E dove lo si può trovare, Dioniso turgido e ribollente? Nelle scuole, tra i ragazzi dai 14 ai 18 anni. Adolescenti esplosivi che possono essere da un momento all'altro tossicodipendenti, artisti, terroristi, possono studiare da bravi ragazzi oppure tirare i sassi alle vetrine o dai cavalcavia. Possono incarnare maschere diverse e contraddittorie, come il dio del teatro. A me interessa proprio questo tipo di barbarie: quando vado nelle scuole a Ravenna incontro giovani che davanti al professore o al genitore stanno zitti, poi, altrove, esplodono. Genitori e professori non se ne accorgono, continuano a gestire il tutto come se davanti avessero solo gli impiegatini della società futura, e non invece carne, corpi, creature piene di desideri infiniti e di una vitalità mostruosa, piccoli mostri. Io vado a lavorare su Aristofane con i quindicenni, e non solo i quindicenni del Liceo Classico, che sarebbe più facile, sono abbastanza educati, ma con i quindicenni della Callegari o dell'ITI o dell'Olivetti, barbari assoluti, ai quali tu puoi dire qualsiasi nome della Tradizione, della letteratura, nomi che sono il nostro nutrimento, e invece nulla, per loro sono il nulla. Ed è esaltante confrontarsi con questo nulla, perché sotto questo apparente nulla si agitano un'infinità di cose, passioni, sentimenti.

Anni fa ho messo in scena con un istituto tecnico I satiri alla caccia di Sofocle. All'inizio avevo solo una traduzione in versi, ottocentesca, non avevo trovato una traduzione più agile, e andai lì con questo testo arcaico: tutti mi guardavano come si guarda uno appena uscito dall'ospedale psichiatrico. Del testo di Sofocle non capivano nulla: per forza, erano loro, i satiri! Chi erano i satiri nel mito greco? Erano creature comiche e dionisiache, caprine, che parlavano in maniera oscena e appena vedevano una ninfa le correvano dietro a sesso eretto. E che cosa erano i quindicenni dell'istituto tecnico di Ravenna che mi stavano davanti, con il loro italiano sporco, le cadenze dialettali, le bestemmie in anglo-romagnolo, la voglia di fare a botte, le discussioni stereotipate su ragazze e motori? Erano perfetti, e non lo sapevano. I satiri di Sofocle diventarono così una banda di quartiere, opposta alla banda delle ninfe (le ragazze dello stesso istituto tecnico) che si combattevano e si desideravano a colpi di rap.

Dal '92 a oggi abbiamo lavorato in tutte le scuole di Ravenna, mettendo in scena i classici della Tradizione, da Aristofane a Beckett. Io ho imparato tanto, dagli adolescenti: abbiamo giocato a fare a pezzi le storie antiche e a farle risorgere attraverso i loro corpi e i loro linguaggi. Ci siamo insegnati Dioniso a vicenda. Quindi, tornando al programma di Brecht: forse, forse la "grande cerchia di esperti" si può creare se chi fa teatro è assetato di vita e di Dioniso, e li va a cercare là dove la vita e Dioniso stanno, per fare della scena un luogo pulsante. Se lavora come un traghettatore di energie. Quando ho cominciato, sette anni fa, lavoravamo con tre gruppi di tre scuole differenti, in tutto una quarantina di studenti, oggi sono 400 i ragazzi che tutti gli anni a Ravenna partecipano ai nostri laboratori, che non sono laboratori o scuole di teatro (giustamente Cristina Ventrucci li ha definiti non-scuola), sono "messe in vita". I risultati di queste "messe in vita" vanno in scena al Teatro Rasi davanti a una platea gremita di 500 persone, una platea simile a quella di Atene, "una grande cerchia di esperti".

Spesso gli spettatori non sanno chi sono gli autori, se non per sentito dire... ma gli attori li conoscono, eccome! Li sbeffeggiano, li osannano, come gli ateniesi conoscevano gli attori di Aristofane, e a loro volta gli studenti-attori usano Goldoni o Buchner per prendere in giro uno studente in platea, o alludere a un professore, e nel farlo usano una lingua che è anche quella dei loro bersagli. Si crea, attraverso la storia antica riscritta, un cerchio immaginario e linguistico di forte identificazione palco - platea, palco - piazza, e gli spettacoli risultano spesso eventi carichi di vitalità e divertimento. Quei disciplinati 400 che lavorano sul palco, quei rumorosi e attenti 5.000 che li vanno a vedere, non sono forse un modo, una via (una: ce ne sono anche altre) per arrivare alla "grande cerchia di esperti"?

Quei 400 imparano che il teatro è un linguaggio impetuoso, capace di dare emozioni profonde a chi lo pratica forse più di un telecomando: quei 5.000 possono forse intuire, attraverso uno spettacolo realizzato con rigore dai loro compagni, che il teatro non è un luogo dove annoiarsi a morte, ma un luogo di possibile ebbrezza, un luogo nel quale si può anche "rischiare" di tornare, magari a vedere un attore che nessuno dei tuoi amici conosce, perché la televisione non glielo ha mai mostrato, ma se recita al Rasi dove hai recitato tu, per giunta chiamato dalle Albe con le quali hai lavorato nel laboratorio, forse forse un po' bravo lo è!

Per concludere: i nodi sono tanti e complicati, e uno può raccontare solo i suoi passi. Quello del lavoro delle Albe nelle scuole di Ravenna è solo un esempio della mia strategia di uomo di teatro, di "tecnico di Dioniso", per tenermi in vita. Il "popolo", se c'è, se ancora ha senso usare questa parola, mi appare a lampi, in questo perdere sangue in azioni "inutili", come gli spettacoli con gli adolescenti, che non danno né gloria né soldi, ma regalano volti esaltati e cervelli frementi, regalano l'ebbrezza di sentirsi comunità di carne, di avvertire la presenza degli dèi. Sono i nostri teatri luoghi dove c'è Vita? I nostri occhi si stanno incontrando? I nostri corpi sono in questo momento in relazione? Cuore mente pancia sesso, ebbrezza e saggezza, non stiamo rinunciando a niente? O stiamo amputando qualcosa del nostro miracoloso essere vivi? Dioniso ci vuole così, sul palco o sulla sedia in platea, spudoratamente interi. All'inizio ho detto che siamo dei dinosauri e che le radici non esistono e i narratori stanno morendo e che il popolo è un'illusione. È vero. Però è vera anche un'altra cosa: l'opposto. Che le radici, il popolo, i narratori, bisogna inventarseli, ogni giorno. C'è un dialogo fulminante dei Fratelli Marx, che non è un dialogo, è un manifesto filosofico-politico concentrato in tre battute. Uno dei due fratelli rivela all'altro: "C'è un tesoro nella casa qui accanto". E l'altro gli risponde, sorpreso: "Non vedo nessuna casa". "Bene" conclude il primo, "costruiamola". I tesori sono davanti ai nostri passi, la vita ci spinge avanti, seguiamola.

Gerardo Guccini: Caro Marco, vorrei proporti una piccola riflessione. Mi sembra che nell’utilizzare l’atto della riproduzione sessuale come metafora del rapporto fra l’uomo di teatro e il suo pubblico, tu abbia lasciato da parte il mondo della fecondazione ittica. Mi spiego. I mammiferi si riproducono in un modo che implica il contatto diretto e tu – per l’appunto – hai parlato di un allargamento della "cerchia degli esperti" che passa attraverso una fecondazione diretta, dionisiaca, sanguigna: un corpo a corpo sensuale. C'è però anche la fecondazione ittica: il pesce maschio deposita il suo liquido seminale nell'acqua, poi i pesci femmina attraversano questo liquido fecondandosi. Io trovo che, nel teatro, i rapporti che più corrispondono al modello della fecondazione ittica siano quelli che si dipanano intorno alla drammaturgia scritta.

Marco Martinelli: Bella la fecondazione ittica, non ci avevo mai pensato. Mi fa pensare a quello che succede quando si va in giro con gli spettacoli. Fare gli spettacoli è come spargere il seme del proprio desiderio nell'acqua, spargere idee, spargere visioni, spargere suoni, poi chissà, che non passi di lì un pesce femmina, uno spettatore a sua volta desiderante... Ma tu dicevi la drammaturgia... beh, io lavoro con i quindicenni nelle scuole con lo stesso metodo drammaturgico con cui lavoro con i miei attori da vent'anni. Non so se chiamarlo metodo... è un corpo a corpo, in cui il drammaturgo e regista fa i conti con quei corpi, e non altri. Il mio costruire maschere e storie parte (anche ma non solo) dalle differenti fisicità con cui mi relaziono.

Prendete Mandiaye... quel signore lì, in terza fila... Mandiaye è stato Padre Ubu nell'ultimo nostro lavoro, ispirato a Jarry. Ho riscritto in dialetto romagnolo e in wolof la figura di Padre Ubu partendo dal sorriso furbo e infantile e dalla giocosità africana, surreale e feroce, del mio attore senegalese: così è nato Pêdar Ubu, e lo abbiamo creato insieme, facendo ognuno la propria parte, come in un amplesso, un amplesso psichico e creativo. È un segreto della grande Tradizione teatrale, che ci restituisce solo i "padri", gli autori, e non ci parla quasi mai delle "madri", cioè degli attori: se si scava un po', se si va a leggere la presentazione della Locandiera, per esempio, si viene a sapere da Goldoni stesso che il personaggio di Mirandolina lui lo ha creato a partire dal fisico, dal carattere, dalla voce e dai vezzi di Maddalena Marliani, attrice nella sua compagnia. La Marliani è stata la musa ispiratrice, la "madre" di Mirandolina, creazione fantastica. La stessa cosa avviene con i ragazzi a scuola: per costruire il Cremilo di Aristofane ho osservato come Alessandro balbetta e sputacchia le parole. Come lo fa Alessandro è eccezionale. Siamo partiti da lì, un Cremilo sputacchiante che vuole fare giustizia nel mondo e ridistribuire la ricchezza in parti uguali. La drammaturgia non deve aver paura degli sputi, anzi, deve nutrirsene.


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