Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna LA NON-SCUOLA DELLE ALBE

 

LA NON-SCUOLA DELLE ALBE

di Cristina Ventrucci

"Maestro, da chi avete imparato l'insegnamento del Tao?" chiese Nan-bo Zikui. "L'ho imparato dal figlio della scrittura; questi dal nipote della lettura; questi dall'illumin azione; questi dall'attenzione continuata; questi dal lavoro penoso; questi dal cantico; questi dall'oscurità profonda; questi dal vuoto supremo; questi dal senza-inizio".

Ecco l'ambiguo racconto di un generare che sfugge alle definizioni, che fluttua tra sguardo e penna di chi è sollecitato a interrogarsi sulla 'scuola ravennate', ovvero su ciò che è stato in questi anni il Rasi di Ravenna con il magmatico Teatro delle Albe celato sotto la veste istituzionale di Ravenna Teatro: una fucina di nuove anime date alla scena, un luogo di contaminazione, una "coltura teatrale".

Penso ai nuovi gruppi nati in Romagna e dintorni la cui origine è legata anche a quell'esistenza, a quella resistenza, a quell'attenzione. Da Fanny & Alexander a Teatrino Clandestino - i nuclei artistici più direttamente a contatto con il centro ravennate insieme al Teatro dell'Idra e oggi a Tanti cosi - fino a Masque, Motus o Bobby Kent che affonda le radici in una formazione flash come lo è stata Il Brodo, così chiamata in omonimia con uno spettacolo puzzolente e alchemico prodotto nell'età di passaggio tra la scuola -o il rock- e la scena. Penso a quale inedito insegnamento provenga da figure a loro volta autodidatte e per propria definizione asinine (come suggerisce loro l'eretica sapienza di Giordano Bruno, oppure di Totò); alla distanza dei linguaggi che proliferano intorno a tale ,scuola', per molti aspetti decisamente altri - alcuni di essi per esempio sono spesso pensiero prima che lavoro scenico e poi scena cristallina piuttosto che di carne; e penso infine all'immagine uniforme e non propria di una così ferma definizione.

C'è poi in questo quadro anche la marea di ragazzi, di ogni estrazione sociale e vocazione, di ogni stazza e carattere che si raggruppano per qualche mese nei corridoi e nelle scalinate di vecchi edifici di epoca fascista, o di recenti bunker (forse di epoca socialista) e poi a primavera sul palco dello stesso teatro Rasi inconsapevoli maschere, materiale esplosivo nelle mani di Marco Martinelli (e dei suoi preziosi collaboratori: Maurizio Lupinelli, Gianni Plazzi, Eugenio Sideri, e in passato Pietro Babina, Marco Cavalcoli). Martinelli, regista affermato della scena contemporanea, è qui eroe di tutte le scuole, i licei,.gli istituti della città, eterno entusiasta, sherpa per la vertigine, anti-despota. E questa la realtà dei laboratori nelle scuole superiori dove da sei o sette anni Martinelli infuria col risultato di una moltiplicazione degli stessi fino alla dimensione di fenomeno cittadino (e di materia su cui interrogarsi). Le Magistrali mettono in scena Aristofane, il Classico compone un allestimento a puntate dell'Orlando innamorato (quello riscritto in prosa da Gianni Celati), lo Scientifico incontra Brecht, l'Agrario Goldoni, gli istituti professionali Shakespeare e Molière per una primavera fitta di serate al Rasi, con pubblico incrociato - ovvero ad ogni debutto tutti gli altri sono in platea per rappresentazioni incandescenti e tifo da stadio. Qualcosa che riaccende l'immagine dell'Atene del V secolo e delle feste teatrali con tanto di carattere competitivo e bivacco: un vero pubblico di non addetti riempie il teatro e non c'è servizio d'ordine che riesca a imporre la disciplina dello spettatore, per un evento che comincia come un incontro di box con chi sta in scena ma dove sempre vince infine l'energia del palco e sembra allora la prima prova di un percorso iniziatico. Lo è per i ragazzi, ma anche per chi in quella pratica rinnova il proprio atto teatrale.

Il racconto s'ispira al Tao e a un certo cortometraggio pasoliniano con marionette, gelosie e rivolta del popolo spettatore, e comprende nel panorama anche chi risponde alla sollecitazione iniziale scrivendo però di una non-scuola ravennate. Sempre pervase dalla necessità di farsi teatro oltre che di fare teatro le Albe sono capostipiti di un moto di emigrazione verso campagne e colline alla ricerca di piccoli spazi dove cominciare. Come oggi i Masque insieme Terza Decade e Accademia degli Artefatti con il festival "Crisalide" a Berfinoro, o ieri quelli di Ivan (Clandestino, Fanny e amici) con "Giardini" a Tredozio, le Albe hanno fatto del momento organizzativo una fase del loro percorso artistico e una tela in cui si intrecciano vari piani (quello dell'esperienza organizzativa collettiva e quello dello scavo nel segreto della creazione), con il Teatro Goldoni di Bagnacavallo. Solo più tardi arriverà l'invito a tornare in città con radicamento al Teatro Rasi subito accolto, elaborato e concretizzato.

Quella che accompagna lo spirito Albe è una vocazione ecologica piuttosto che pedagogica, e il riferimento va al sentirsi parte di una ciclicità, all'intuire come necessaria la relazione senza steccati anagrafici, alla necessità di attingere saperi e energia così come di trasmetterli. Non tarderà, una volta approdate al Rasi, anzi sarà tra i primi, il pensiero di riunirsi con le altre realtà artistiche di Ravenna per un progetto annuale di debutti (erano ben lontani i tempi di un riconoscimento ministeriale come centro di produzione e piuttosto che denaro venivano messe a disposizione sala e collaborazione): nasce così il "Dialogo della città con le sue energie" (anche con ospiti 'foresti') dove compaiono nell'arco di sette anni esperienze già rodate e altre in embrione tra cui Monica Francia, Teatrino Clandestino, Fanny & Alexander, Motus. E' il palco dato alla città, lo spazio-stimolo per misurarsi, senza nominare maestri né allievi, accogliendo ogni proposta, e si tramuta in una sorta di assemblea teatrale cittadina che si esaurisce quando gli stessi partecipanti ne denunciano la crisi avvenuta per esaurimento di necessità (anche in concomitanza con l'apertura di uno spazio autogestito) e per una certa stasi dovuta forse all'eterogeneità dei gruppi (alcuni cominciavano a intravvedere una prospettiva più lunga del proprio fare teatro altri si fermavano al momento dilettantesco). Al Dialogo seguono e si intrecciano i cicli della Lode del lunedì, seminari serali con dedica alla bellezza, e l'intera attività di quella che è stata sempre pensata come una "casa del teatro", o uno "stabile corsaro", appunto, non una scuola.

Da uno scritto di Marco Martinelli (1992):

"Penso al Rasi come a un luogo di Coltura Teatrale. Mi piace questo parlare del nostro lavoro come lavoro contadino. Mi piace la lentezza, la necessità della lentezza, biologica, stagionale, straniera in un'epoca che si sacrifica alla velocità industriale e modaiola, usa e getta, produci e consuma e dimentica. Penso al teatro che nasce dagli antichi riti di fertilità della terra, penso a un teatro di terra, dialettale e epico (la terra è sempre un dialetto!), penso alla possibilità del racconto e della visione. Ci penso. Penso al Rasi come a una casa del teatro, e dei teatranti, vecchi e giovani, affermati e sconosciuti, professionisti e dilettanti. A un incrociarsi di lingue ( ... ). Mi piace la con-fusione. Penso che un'autentica Coltura Teatrale la si fa se non si ha l'animo da mercanti, ma nello stesso tempo se si accetta la sfida di far vivere un teatro dentro la città, non come corpo separato, isola felice e infelice, ma come luogo ricco di tensioni vitali, battagliero, spazio per incroci e innesti, organismo vivente, animale che respira insieme alla città. Penso a un'impegno vero, politico per quel che politico vuol dire, legato alla polis, non alle tessere dei partiti ( ... ). Penso che c'è un modo banale, ingessante, banalmente folkloristico, nel guardare alle proprie radici: e poi penso che ce n'è un altro, che invece ci nutre, ci scalda, essenzialmente inventivo. Perché le radici non esistono e vanno inventate".

Non-scuola si fa creando le occasioni per qualcuno che voglia accollarsi il proprio destino, per esempio invitanto un giovane regista al proprio fianco (Pietro Babina per Incantati), un giovane attore nella propria scrittura scenica (è successo a Fiorenza Menni, poi a Chiara Lagani, Stefano Cortesi, Luigi De Angelis, alla danzatrice Francesca Proia), chiedendo a chi unisce ingegneria e visionarietà di accostare ferro a una lingua rugginosa (Lorenzo Bazzocchi e Chiara Gatelli del Masque). Ma anche lasciandosi invitare e recandosi per anfratti, vecchi cinema e salette e se interpellati dare lettura di ciò che si è visto; e poi interrogandosi incessantemente, mettendosi in ascolto senza pietà, aprendo gli spazi, i mezzi a disposizione, così come sostenendo politicamente, burocraticamente, a titolo gratuito e con una certa dose di rischio le vicende di un centro culturale autogestito, quel Valtorto da cui sono passati molti dei gruppi teatrali che compongono la nuova generazione italiana e che ha avuto stanze per l'eco del Cantico dei cantici, primo approccio artistico tra Fanny & Alexander e Teatrino Clandestino che in comunione trasformavano spazio e tempi e sonorità e aromi; che è stato l'angolo di allucinazione del Ratni Zlocinac di Terza Decade e una delle accanite possibilità di sguardo di Motus; è stato macilento con i rifiuti organici del Brodo, e sala~teatro per il Ghelderode dell'Idra. Erano i tempi in cui nasceva Teatri di linea parallela (coordinamento di piccole rassegne estive sull'Appennino nel segno della solidarietà tra gruppi ai margini) e si schiudeva il piccolo festival Crisalide a Bertinoro, mentre spazi come Link o Interzona diventavano il nodo centrale, essi stessi scuola anzi non-scuola, deposito di sedimenti, magazzino da cui prendere i pezzi, architetture in cui collocare macchine teatrali, terreno su cui generarsi.

Non-scuola, alla maniera delle Albe, si fa fertilizzando l'aridità istituzionale con un sorriso, intaccandola con un'ispirazione anarchica che pervade la scena e la vita, che intreccia la vita e la scena senza che che vi sia un nome per questo. E' un'adesione alla ciclicità del vivere, alla bellezza dello stare in bilico tra la propria sconosciuta provenienza e ciò che viene dopo, nell'armonioso e terribile gioco della natura dove forse la somiglianza esiste per il semplice motivo che le cose si susseguono, in assenza di calcolo o di calco, e appaiono uguali e diverse allo stesso tempo. In questo senso si è potuto riconoscere un legame tra le Albe di Martinelli /Montanari/ Dadina /Nonni e le esperienze del più recente teatro italiano e sondare l'ipotesi di un passaggio linfatico di sapere tra chi non si definisce maestro e chi è lontanissimo dalla concezione di allievo.

Poi ci sono gli allievi per antonomasia, il popolo degli studenti, raggiunti dal teatro nel loro forzato quotidiano: la scuola.

Ancora Martinelli (1997): "Le facce dei trecento adolescenti che a Ravenna partecipano ai laboratori nelle scuole medie superiori, dai licei agli istituti tecnici, le conosco tutte. Fanno parte della mia vita di regista, di direttore artistico, di scrittore, così come le facce di tanti ateniesi erano parte viva dell'immaginario e della scrittura di Aristofane. lo amo questo rapporto carnale tra autore e spettatore, che non è in questo caso solo un rapporto tra autore e spettatore, perché con questi adolescenti costruiamo insieme eventi scenici sorprendenti. Giochiamo, affrontiamo il tutto con la stessa vitalità che richiede una partita di calcio, un concerto rock... Il palco si fa luogo di energie sporche, furibonde, non accademiche, la vita irrompe nel tessuto dei testi antichi, li attraversa senza rispetto, e il linguaggio fisico della scena diventa per chi se ne impossessa più esaltante di un videogame. Le oscenità della commedia antica o i lirismi di Shakespeare rivivono sulla bocca dei quindicenni come lezioni di nuovo teatro, per me e per gli spettatori che le ascoltano".

All'inizio si cerca un canto per il un coro. Potrebbe essere Bella ciao, anzi Ciao bella, la versione romantico-industriale delle Officine Schwartz. E si adotta questo coro, da perfezionare, da risporcare, da gridare e sussurrare come momento di apertura di ogni incontro, per fare calore. Poi si procede, tra la visione di un film o di un reperto teatrale in video, alla lettura del testo scelto, che però può sempre essere cestinato all'affacciarsi di una nuova ipotesi che si leghi maggiormente al gruppo per temperamento, per sintonia o più spesso per gioco dei contrari. Individuati infine nel gruppo, sempre troppo numeroso (ma l'esuberanza è il segno di questa non-scuola), i musicisti, i danzatori, e le attitudini più rare (l'atleta di scherma) e quelle più accese (il fan di Madonna o di Ronaldo), allora si buttano i 'vandali' in scena e si aizzano l'uno contro l'altro o tutti contro il testo scritto, per scrollarlo e farlo rivivere, infiorato di gergo che dalla dimensione del quotidiano volgare si tramuta in espressione della tenerezza e del pasticcio adolescente, e viene poi assalito da fisicità al limite tra candore ed eros. Il testo va imparato e dimenticato cosicché al primo buon errore fuoriesca il genio dell'improvvisazione. Si esalta il grezzo, l'indomabile, il mostro di ognuno perché è lì che cova la maschera, l'archetipo di ogni personaggio. Fatto sta che dallo sfondo di decine di paladini padani, atemesi punk, Leonce e Lena di periferia, si staccano oggi dodici giovanissimi, 'chiamati alle armi' da Padre Ubu come palotini nell'affondo jarryano che le Albe rinnovate si accingono a percorrere. La mattina a scuola, pomeriggio e sera alla non-scuola, con una sfacciataggine che si traforma in vulcanica capacità inventiva, si affaccia con potere sovversivo ad ogni replica e quasi impossibile è il suo contenimento. L un nuovo viaggio all'inferno per il gruppo dopo gli attraversamenti di Goldoni e Aristofane in compagnia di artisti che porìavano le lingue del Sud o quelle della musica, dopo aver cercato un nuovo accesso alle viscere e avendolo trovato nel mito di Ubu: ora è questo coro di voci mutanti l'elemento scatenante dell'immaginario di Martinelli, il contemporaneo che irrompe in scena e invade lo spazio dentro il quale si ergono antichi e furiosi la Madre e il Padre Ubu di Ermanna Montanari e Mandiaye N'Diaye.

Passando dalla galleria del Rasi si possono spiare da lontano i dodici, uno è extra-large, uno piccolissimo, uno biondo con il gel, uno rasta, spunta un po' di barba qua e là; intenti ad ascoltare il resoconto della prova appena finita stanno seduti in fila gambe a penzoloni su quel proscenio pensato da Mejerchold come la linea su cui si fondono attori e spettatori, quella linea dal valore innovativo e antico insieme, lo stesso Mejerchold che,parlava di un lavoro in comune sul testo, che eplorava il principio di improvvisazione, scriveva di una "Casa dell'artista", e a cui si sono ispirati i ravennati al tempo in cui cercavano un nome, che fu quello di Albe (da un testo di Meierchold) ed era un inizio, anch'esso senza-inizio.

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