Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Nuovo1

 

Maggio 1998. Schizzo di
Cosetta Gardini per la
Prima Anta di Perhindérion

IL PELLEGRINAGGIO CONTINUA

Conversazione con Marco Martinelli

di Gerardo Guccini

Vent'anni di lavoro: ho cominciato nel '77.

Siamo qui. Ci stiamo parlando. In questa interazione di ruoli, in cui tutti diamo segno di essere vivi, io ho come un ruolo di narratore, e la prima cosa importante è che le persone sedute vicino a te siano sedute bene, stiano comode, respirino; stare seduti bene, questo è importante, è il primo passo. Nel teatro come nella vita.

Mi è stato chiesto di raccontare entrambi, vita e teatro: confesso un imbarazzo di partenza, perché la proposta da un lato mi affascina, dall'altro mi sembra una trappola per il narcisismo. Comunque, mi prendo le mie responsabilità, e vado.

Ho cominciato nel '77 e festeggio a settembre vent'anni di teatro e di matrimonio: il 3 settembre di vent'anni fa mi sono sposato con Ermanna Montanari, e il 10 eravamo in scena con il nostro primo lavoro. Sono legate le due cose, la mia vita in questi venti anni è stata la mia vita nel teatro e la mia vita con Ermanna, attrice e autrice, oltre che la mia sposa: l'incontro con lei è stato un intreccio a tutti i livelli, fisico, psichico, artistico. Io ero nato vent'anni prima a Reggio Emilia, il 14 agosto 1956. Quando avevo tre anni i miei si erano spostati a Ravenna, per motivi di lavoro, e nel mio certificato di residenza c'è proprio scritto "immigrato a Ravenna nel 1959"; dunque sono il primo immigrato della compagnia, che è formata da altri immigrati, venuti da un altro continente.

Visti da lontano sono la stessa razza, visti da vicino emiliani e romagnoli sono diversi: un emiliano beve Lambrusco, non beve Sangiovese, che è un vino robusto, forte, mentre il lambrusco è dolce e spumeggiante. È meno vino, dicono i romagnoli.

Ravenna mi ha adottato sotto tanti aspetti, tra i primi quello linguistico: i miei genitori, entrambi reggiani, quando avevo sei anni e cominciavo ad andare a scuola, in casa non parlavano dialetto reggiano e mia madre censurava le espressioni forti che uscivano dalla bocca di mio padre, intimandogli di non parlare in dialetto, perché altrimenti il bambino non avrebbe imparato bene l'italiano. In questo modo, avendo lasciato il resto dei parenti a Reggio, non sono cresciuto bilingue, e di questa cosa poi, quando ho cominciato a fare teatro, mi sono sempre rammaricato; una persona che oltre all'italiano parli anche un dialetto, è più ricca di me. Io avevo solo la lingua della televisione e la lingua della scuola, quella di Dante Alighieri. A vent'anni, incontrando Ermanna, ho incontrato un'altra lingua, il romagnolo. Ermanna aveva vissuto un'esperienza opposta alla mia: fino a cinque anni con i genitori e i nonni aveva parlato solamente dialetto romagnolo. Ermanna appartiene forse all'ultima generazione che l'italiano lo ha incontrato a scuola, perché adesso le nuove generazioni parlano italiano in casa, lo apprendono con la televisione. Ermanna ha sentito le prime parole di italiano in prima elementare.

Von Humbolt già nell'800 diceva una cosa che oggi la linguistica dà per assodata: una lingua è una visione del mondo. Non diciamo la stessa cosa con due parole diverse, ma piuttosto diciamo due cose diverse, perché diciamo due modi diversi di concepire e pensare la cosa. Avere due lingue è avere due visioni del mondo, un'anima doppia. Questo è molto bello; può essere anche spaesante, ma io sono sempre stato attratto dagli attori che hanno un'anima doppia, sono sempre andato a cercare attori che avessero due lingue, per potergliele rapinare; perché i miei testi, che sono pieni di dialetti, sono scritti da uno che non ha un dialetto, sono intarsi dove l'espressione dialettale è come la madreperla innestata sulla superfice lignea dell'italiano. Ho usato il romagnolo di Ermanna, il wolof di Mandiaye e Mor, il barese di Augusto Masiello, il napoletano di Giacomo Verde, come un vampiro che ha bisogno di sangue e va a succhiarlo là dove lo trova.

È chiaro che per te è stato estremamente importante poter adottare lingue più forti, più vive, più aderenti alle cose, ma quando queste adozioni hanno incominciato ad agire sul tuo teatro? Fin dall'inizio?

No. A 20 anni non capivamo nulla, non sapevamo che cosa fosse il teatro. La mia caduta da cavallo è avvenuta nel '72. Facevo il liceo a Ravenna, quando dall'alto del loggione del Teatro Alighieri vidi il "Re Lear" di Strehler, con Tino Carraro nella parte di Lear e Ottavia Piccolo che faceva Cordelia e il Fool - in una compagnia che allora mi sembrò notevole perché accanto a Carraro e De Carmine c'erano attori giovanissimi, come Lavia, Pambieri, Ivana Monti, una serie di personaggi che avrebbero fatto strada. Io, vedendo questo lavoro, rimasi come traumatizzato. Fu come una conversione. Compresi che "quello", quello a cui avevo assistito, era ciò che volevo fare nella vita. Non ero mai andato a teatro fino ad allora, la mia famiglia non aveva abitudini artistiche, solo il cinema e raramente. E mi domandavo, uscito dal teatro, ma chi è questo Shakespeare, e come ha fatto a scrivere parole come quelle, che ti strappano fuori il cuore, e poi te lo ributtano dentro. E poi la sapienza di quel regista, Strehler, del quale io non sapevo nulla, come non sapevo nulla del teatro; ma quella regia in cui il racconto mi arrivava con tanta naturalezza, tanto che mi sembrava di essere lì a vivere in quel momento la vicenda, sembrava, a me sedicenne, splendida. La scena era povera, magari costava miliardi, però l'apparenza era francescana. Strehler aveva ambientato il "Re Lear" in una pista da circo piena di segatura - poi venni a sapere che si trattava di una regia "beckettiana" - con attori che mi sembravano tutti magici. Questa magia mi colpì particolarmente in una scena con Lavia, che faceva il povero Tom, il figlio di Glowcester che è stato cacciato: Glowcester vuole morire, è stato accecato, e dice a questo giovane, senza sapere che si tratta del figlio, "buttami giù da un dirupo, non ne posso più della vita", e il figlio, con una bellissima invenzione di Shakespeare, lo fa cadere da un piccolo gradino di roccia dicendogli "sei sull'orlo del precipizio, io ti butto di sotto"; cade, Glowcester, e pensa "oh, sono già morto; allora è questa la morte, un saltino". Il fatto che in questa scena si possa rendere con un niente, con un saltino, il senso della morte, il rapporto tra padre e figlio, mi sembrava abbacinante. Questo mi aveva fatto cadere da cavallo, come San Paolo, accecato da una grande luce. Così ho capito che quello, il teatro, era ciò che volevo fare nella vita.

Ho cominciato a farlo in parrocchia con gli amici; poi ho conosciuto Ermanna e, anche se i nostri genitori non volevano, ci siamo sposati. Eravamo al primo anno di università, la nostra intenzione era quella di uscire di casa e vivere di teatro. I nostri genitori non capivano: non c'era un figlio in arrivo, a giustificare quella decisione. E poi, cosa significava "vivere di teatro"?

Così a vent'anni formammo una compagnia. Che cosa sapevamo del teatro? Nulla. Avevamo una lira in tasca? No. Avevamo un partito che ci appoggiava? No. Era pura pazzia, e i genitori miei e dei miei compagni si incontravano la sera, una sorta di comitato, per trovare rimedi alla malattia che ci aveva colpito. Noi sentivamo che quella era la nostra vita, che lì dovevamo spenderci. Non avevamo una lira? Le avremmo trovate.

La mia formazione cattolica, come nei miei compagni, fortemente sentita, aveva in Francesco d'Assisi il santo prediletto; volevamo vivere di teatro e vivere in povertà. Troppo facile, ci dicevamo allora, fare i contestatori a scuola e poi tornare a casa a mangiare i cappelletti. Noi ci usciamo, di casa! Pensavamo a quel modo, e infatti per parecchio tempo facemmo la fame, altro che cappelletti.

Insomma, il mio fare teatro è cominciato così, un fuoco che bruciava dentro, e non era un fuoco solamente teatrale; fin dall'inizio teatro e vita erano indistinguibili. Il mezzo di trasporto delle scene era il carretto che si usava al tempo in parrocchia per la raccolta della carta, e gli unici posti dove potevamo recitare erano i teatrini parrocchiali di Ravenna, raramente utilizzati. Io ho avuto una crisi di fede a 24 anni. Sono caduto da cavallo e non ho visto più nulla. Buio fitto. Quel Dio con cui avevo parlato fino ad allora non mi parlava più. Una ferita, quella, che ancora non si è rimarginata. Fino a 24 anni ero un cristiano fervente, cresciuto sulla lettura dei Vangeli e di Pascal.

Ma noi non eravamo di quei credenti che usano la scena come un pulpito, anzi. I primi lavori che mettemmo in scena furono "Aspettando Godot" e "Finale di partita" di Beckett, "Il compleanno" di Pinter, lavori divertenti e angosciati, che trasmettevano il vuoto di un mondo che non ha più divinità. E andavamo a proporli nelle parrocchie! E il parroco di S. Simone che ci diceva: "mo c's'el Samuel Beckett?" Nel primo anno di attività facemmo 60 repliche di "Godot" a Ravenna di cui 10 al teatrino della parrocchia del Torrione, 25 spettatori in tutte e 10 le repliche: chi doveva venire?

Noi ci consolavamo pensando che così facendo avremmo imparato che cos'era il teatro. Autopedagogia, senza maestri se non il nostro desiderio. Un giorno lessi che Aristotele da qualche parte diceva che in ogni artista c'è un ramo di follia; per noi non si trattava di un ramo, ma di un albero intero.

Quando andava bene, arrivavano gli "aiuti alimentari" da Campiano, dai nonni di Ermanna che erano contadini; se no andavamo avanti con scatolette di tonno e mozzarella. Talvolta, preso da disperazione, andavo a rubare nel supermercato vicino a casa, perché non avevamo proprio nulla: e siccome dovevamo in qualche modo sfamarci, sottraevo quel che potevo al "capitalismo imperante". Mi rendo conto oggi che la sottrazione aveva ben poco di francescano.

A quel tempo ci chiamavamo "Teatro dell'Arte Maranathà", che è l'ultima espressione della Bibbia, apocalittica, e vuol dire "Vieni Signore", ovvero, "arriveranno tempi nuovi". In questo modo siamo andati avanti dal '77 all'81: per quattro anni abbiamo messo in scena, oltre ai già detti, "L'inventore del cavallo" di Campanile, e poi il testo che più mi ha segnato, il "Woyzeck" di Büchner. In quegli anni cominciammo a leggere Grotowski, Barba, Brook, realizzammo provocatorie azioni di teatro in strada (ne ricordo una davanti alle banche che ci costò problemi con la polizia) e una "Via Crucis" scritta da mia sorella Maria che scaravoltava i banchi delle chiese e faceva scappare i "fedeli": ma l'imprinting dato da quella serata "strehleriana" era forte, e all'epoca il teatro significava per me soprattutto l'allestimento di un testo, bello e importante. Se sceglievo Büchner o Beckett era perché sentivo nelle loro opere delle vibrazioni che mi toccavano in profondo: e mi sembrava di poter fare regie solo sui testi di cui avrei voluto essere io l'autore.

E un'altra verità mi aveva colpito, la sera del "Lear": avevo percepito che le parole dell'attore-re non erano un bla-bla da attore-impiegato. Il mistero della scrittura che diventa oralità, le parole che tu ascolti e non pensi neanche che siano state scritte prima, sembrano nascere in quell'istante, sono vere, lì, sono carne di attori: tale mistero lo percepivamo, in quei primi anni, anche se in maniera confusa, sentivamo di doverlo rendere visibile, anche davanti a quattro gatti.

Una sera a San Simone non c'era nessuno: solo il parroco e la perpetua. Che si fa, torniamo a casa? Decidemmo di andarcelo a prendere, il pubblico. Vicino alla chiesa c'era un grattacielo, cominciammo a suonare i campanelli: "Scusi, siamo il Teatro dell'Arte Maranathà; nel teatrino della parrocchia, qui sotto, stasera mettiamo in scena "Aspettando Godot" di Samuel Beckett. Se lei vuole é invitato, non c'é neanche da pagare il biglietto". Non vi dico i commenti, quelli in romagnolo erano feroci. Dopo aver suonato a 50 campanelli, tirammo su due spettatori. Però, una buona media, per un metodo da testimoni di Geova! Perché l'ho raccontato, questo? Ah sì, certo, perché hai voglia di strologare sul mistero del teatro, ma se non hai gli spettatori, per chi diavolo lo fai, questo benedetto teatro?

In questa serie di spettacoli c'era già il dialetto?

No. Il dialetto allora fermentava fuori dagli spettacoli. Quando andavo a Campiano, dai genitori e dai nonni di Ermanna, ascoltavo questa lingua luminosa e impenetrabile, come una lingua antica. I suoi parenti mi guardavano storto, all'inizio, perché ero un "civilino", uno di città, neanche romagnolo. All'inizio era difficile capirli, poi imparai a masticarlo, il dialetto, ma se mi azzardavo a dire due o tre parole davanti a loro, mi stroncavano. La nonna di Ermanna era di una crudeltà pedagogica nei miei confronti: era peggio di un docente di inglese a Oxford. Cominciai a "vedere" la Campiano di Ermanna, e la mitologia selvatica che si portava dietro: cominciai a sentire che, in quel pozzo ribollente di storie, di maschere, di misteri, c'era per me, topo d'appartamento, cresciuto tra la lavatrice e il frigorifero, c'era una ricchezza enorme a cui attingere. Uno dei libri che ho amato di più nella mia infanzia è "Il giro del mondo in 80 giorni" di Verne: i miei 80 giorni di viaggio nel mondo li sto facendo attraverso il teatro, attraverso le lingue e le ricchezze dei miei attori; quando Mandiaye, attore senegalese, mi racconta del suo villaggio, dei feticci, delle leggende della savana, è la stessa cosa di Ermanna che mi racconta delle sue nonne streghe.

Il dialetto in scena non c'era ancora, no. Cominciava a penetrarci da fuori.

Tu scrivevi già i testi?

Gli anni del "Maranathà" furono solo anni di regie. Poi, dall'81 all'83 il "Teatro dell'Arte Maranathà" si legò ad altri gruppi ravennati e nacque "Linea Maginot", che era un centro brulicante di artisti e linguaggi differenti, non solo teatro, ma anche danza, video, fotografia. Nella "Maginot" io non ho fatto regie, mi sono reinventato come organizzatore teatrale, vendendo gli spettacoli degli altri. Non sono diventato un organizzatore, ma credo che quell'esperienza mi sia servita. Mentre gli anni del "Maranathà" nella loro follia dadaista-francescana sono per me un ricordo indelebile, gli anni vissuti nella "Maginot" li ritrovo a fatica: eravamo in tanti, con problemi di relazione che spesso esulavano dalla purezza dell'arte, e quindi perdevamo un sacco di tempo ad accapigliarci tra di noi. Avevamo una sorta di virus assembleare per cui si buttavano giorni a discutere di prospettive senza poi avere il tempo per lavorare veramente, che è la cosa che conta. Nella "Maginot" ho incontrato Luigi Dadina e Marcella Nonni, insieme a me ed Ermanna ci staccammo dalla "Maginot" perché volevamo fare teatro, non rovinose sedute di psicoterapia di gruppo. La "Maginot" fu importante come il segno di qualcosa da cui scappare, da cui imparare in negativo: è necessario confrontarsi, ma anche saper distinguere le cose importanti su cui farlo.

Così, nell'83, nacque il "Teatro delle Albe".

Quando tu venisti a Santarcangelo con il "Woyzeck", il festival era diretto da Ferruccio Merisi che portò alla rassegna un atteggiamento fatto di grande candore e strenuo rigore ideologico. Il candore stava tutto nella convinzione con cui venivano perseguiti i valori culturali del Terzo Teatro. Ora, per un festival, questo é un comportamento rischioso perchè ovviamente l'elemento ideologico per risultare vincente sul piano organizzativo deve scendere a compromessi e cercare confronti - il che, spesso, è quasi la stessa cosa; invece questi erano festival dove i princìpi e i valori espressi da alcuni modelli forti (l'Odin in primissimo luogo) venivano vissuti con tale coerenza da bastare quasi completamente a se stessi. Ma, rispetto alla tua, la storia del Terzo Teatro era completamente diversa. La tua era una follia personale che non rientrava nella follia organizzata della tendenza. Quindi ora mi chiedo: dopo un periodo di grande vicinanza, all'interno di festival "puri", con una teatralità di tendenza (e quindi dogmatica, sicura, culturalmente sostenuta), tu per due anni lasci la regia e fai l'organizzatore. C'é una qualche relazione tra questi due eventi?

Credo di aver fatto l'organizzatore per motivi interni alle dinamiche della "Maginot"... ma tu aggiungi un'altra motivazione che... mi fa riflettere. In quegli anni le tendenze teatrali forti erano il Terzo Teatro, che si rifaceva a Barba e Grotowski, e la post-avanguardia dove a seguito dell'esplosione dei "Magazzini Criminali", stavano nascendo Martone, Corsetti la "Raffaello Sanzio". C'erano molti scontri, belli e vitali, tra "gli zoccoli e le scarpe da ginnastica": mentre la post-avanguardia era metropolitana, sesso droga e rock and roll, azzeramento della tradizione e confronto con il computer e l'immaginario televisivo, il Terzo Teatro cercava il rito, l'oriente, pochi spettatori per una relazione più vera, viscerale. In questo scontro noi non ci riconoscevamo. Da una parte ci affascinava il senso di rigore che dava il Terzo Teatro, io leggevo Barba, Grotowski e li "sentivo" anche a distanza come maestri. Quando le parole di una persona ti toccano il profondo, riconosci in lui un maestro anche se non l'hai mai incontrato. Poi, però, andavamo a vedere i gruppi terzoteatristi italiani e vedavamo cose che, secondo noi, non stavano né in cielo né in terra: imitavano un modo di lavorare che attuato in Polonia, da Grotowski, o in Danimarca, da Barba, aveva un senso, visto qui non ci convinceva. Nel famoso "training" terzoteatrista vedevamo gente che in buona fede si spolmonava, sbatteva la testa contro il muro, senza riuscire a dare un'emozione autentica.

Dall'altra parte, quello che ci colpiva della post-avanguardia era il confronto con la modernità, sentire il teatro in relazione all'oggi, che va preso così, coi suoi computer, la televisione, la società di massa. Ma non ci piaceva per niente il dilettantismo e il cedere alle mode che annacquavano certi gruppi della post-avanguardia, la mancanza di rigore nel lavoro d'attore, trasformato in un simulacro che fa mossette. Il teatro deve essere qualcosa di più.

Gli anni della "Maginot" sono stati anni in cui ci cercavamo, sentivamo che eravamo un'altra cosa, e ancora non ci era chiaro; e pur avendo avuto un imprinting "tradizionale", da Shakespeare e Strehler, andando a vedere gli spettacoli cosiddetti tradizionali ci accorgevamo che quello era soltanto un rituale vuoto che non diceva più niente a nessuno.

Fare l'organizzatore era forse per me un modo di osservare la scena da un'altra angolazione, provare a vederci chiaro senza l'urgenza del fare.

Dunque: imprinting e poi ricerca d'un proprio teatro. Naturalmente nel fare spettacoli-sonda e d'autoesplorazione si conoscono persone, si partecipa a festival, si capisce che intorno ci sono diversi teatri, così ci si cerca anche "nei" teatri; insomma ci si cerca con due dinamiche differenti salvo poi capire che quel si vuole è già tutto lì, tutto presente, e che il problema è come tirarlo fuori.

Nell'83 nasce il "Teatro delle Albe" e io comincio a scrivere: dopo quattro anni di regie e due di organizzazione, da subito il primo lavoro delle "Albe" è anche un lavoro di drammaturgia. I primi passi li faccio sulla pelle di un grandissimo Ventino o Nicole Thibaudaux, come trovare Gigio "sotto" Galy Gay. Rapinare l'attore dei suoi modi di essere, farsi ispirare da questi, e poi scrivergli addosso. È chiaro che la visione è la mia, ma il personaggio, alla fine, è un parto comune. Quando noi leggiamo "La Locandiera" di Goldoni, noi incontriamo un personaggio che è lì, di carta, che Goldoni ha creato in un amplesso psichico con Maddalena Marliani, l'attrice a cui il drammaturgo ha rapinato certi modi di essere, certe frasi. L'ingiustizia è che Goldoni "resta", mentre la Marliani vive solo nella memoria degli storici. Ma gli attori che hanno creato con un autore vivente delle nuove maschere, sono le madri a pieno titolo di queste creature. Ogni creatura di un teatro vero, da Goldoni a Molière, da Shakespeare a Aristofane, non è solo il parto della testa dell'autore-padre; c'è anche la carne dell'attore-madre.

Goldoni, come racconta lui stesso, in parte imitava l'azione recitativa dei suoi attori; in parte, però, li osservava anche quando non portavano maschera, traendo dal loro linguaggio e dai loro comportamenti quotidiani elementi e idee da trasfondere nei personaggi scenici. Allora, quello che mi viene in mente, sentendo questa tua ricostruzione, è che un meccanismo simile a quello abbia portato il dialetto dentro il tuo teatro.

È proprio così. Il teatro per vivere deve venire attraversato dal "fuori". E' un'urgenza insopprimibile. E il "fuori" é la faccia di un attore, un dialetto, una voce, perché se il teatro è solo un'esercitazione formale, che cosa ce ne facciamo?

Finita la trilogia dickiana, andai in crisi. Avevo affrontato la scrittura, e sentivo che non potevo più farne a meno. D'altro canto, nonostante i miei tentativi di rendere carne la parola, sentivo che non c'ero ancora. Sentivo come un bisogno di concentrarmi maggiormente sul lavoro dell'attore, per irrobustire la mia scrittura drammaturgica. Così, subito dopo la trilogia, realizzammo nell'86 uno spettacolo che si intitolava "Confine". Partimmo dai racconti di Marco Belpoliti, uno scrittore nostro amico che aveva scritto dei racconti deliziosi sul mondo del circo, tra realtà e atmosfere surreali. Per noi quello spettacolo fu davvero "di confine", come l'età che avevamo allora, 30 anni. Ci inventammo, a partire dai racconti di Belpoliti, il circo Watutsi: un circhetto disperato che vagava per la pianura padana, dove c'era un unico fantoccio, che era Ermanna-Raffè, il tuttofare, che vendeva i cuscini all'ingresso poi la si ritrovava con un paio di baffi neri a fare il giocoliere ungherese. C'era un telonaccio in fondo alla scena con su scritto "direzione" e "circo Watutsi". Questo telone, che poi abbiamo usato in tanti altri spettacoli, per noi è diventato un feticcio; è uno di quei teloni abbandonati dagli americani durante la seconda guerra, che nella campagna romagnola venivano usati per coprire il grano. Spessi, ruvidi, con un odore particolarissimo. Campiano cominciava a buttare fuori le sue ricchezze. Sulla scena un po' di segatura: Ermanna, lo schiavo tutto fare del circo Watutsi, faceva tutti i personaggi, figurette povere, il circo nella versione più grama. Io ero dietro il telone, facevo le luci e avevo un vestito nordafricano e la faccia dipinta di nero: ero il moro direttore del circo Watutsi. Facevo solo un'entrata di tre minuti, quando Raffè incrociava le braccia e scioperava, smettendo di ballare come per dire "non voglio più essere schiavo". Io entravo con un passo grottesco, mezza sigaretta in bocca, curvo, arrivavo, la guardavo e le dicevo in dialetto reggiano "Ma io ti ho fatto diventare internazionale, ti ho dato un lavoro, ti ho tolto dalla strada, e tu mi tratti così? Balla!". E me ne tornavo dietro il telone. Ermanna-Raffè riprendeva a ballare. Era uno spettacolo "di confine" perché lì, non preoccupato dalle parole che "non dovevo" scrivere, ero concentrato solo su Ermanna e la scena intorno a lei: volevo che il suo corpo parlasse senza parlare, comunicasse senza usare il linguaggio della parola. È stato in "Confine" che abbiamo cominciato a definirci come un teatro "di carne". C'era una scena in cui Ermanna, prendendo a morsi famelici una carota, cantava "Languidi baci, perfide carezze", l'aria della "Tosca": Ermanna stonava in modo straziante e gli spettatori non sapevano se ridere o se piangere, perché lei cantava disperata, addentava la carota e masticandola sputava ovunque. Quella figuretta gridava enorme fame di vita: e mentre Ermanna-Raffè era al massimo dell'esaltazione arrivava da fuori la voce di Di Stefano, una registrazione cigolante che pareva alzare fisicamente il palcoscenico. Vedendo e rivedendo quella scena, mi dicevo che non potevo più staccarmi da quella carota sputata e cantata.

Ermanna è stata un maestro, non solo per me, ma anche per Gigio. Avevamo deciso insieme che lui stesse fuori, che questo lavoro fosse solo con Ermanna. E Ermanna ci ha insegnato il corpo scenico paziente, sofferente, che mostra la sua ferita, e ti fa ridere e ti fa piangere. Questo è il teatro: piangere e ridere.

Questo è il teatro: lo era per Aristofane, lo era per Shakespeare, lo è per noi ancora oggi. Quando saremo clonati tutti, ci penseranno i clonati; ma noi siamo qui, siamo ancora questa carne che piange e che ride. Ecco perché "Confine" è stato così importante.

In "Confine" cominciammo a parlare di "teatro di carne", ma anche di teatro politttttttico, con sette "t", che é un'altro modo, nostro, di autodefinirci. Queste autodefinizioni prendetele per quello che sono: un artista se le racconta per comprendersi. Forse è utile citare il convegno dell'87, quando Beppe Bartolucci ci invitò a Narni a tenere un intervento sul tema "teatro e politica". Accanto a Ermanna che indossava una giacchetta verde infilzata da tante forchette, un San Sebastiano da cucina cannibalica, dissi tra le altre cose che "le Albe producono teatro politttttttico. Perché con sette t? Vi diamo sette possibili risposte. 1. Il polittico è un oggetto sacro suddiviso architettonicamente in più pannelli, destinato all'altare di un tempio. L'etimologia del termine é illuminante: "dalle molte piegature". E questo è il polittico con due t, pensate con sette! Ancora più esaltate sono le innumerevoli piegature del reale, non di ideologie i fervidi abbisognano, ma di un pensiero forte, complesso, polittttttico. 2. È l'errore di un tipografo impazzito. 3. È una licenza poetica. 4. È l'arrotarsi del grido sui denti e sulla lingua, sulle t come lame, un bimbo che si incaglia, un irriducibile, un guerrigliero del terzo mondo. 5. È sapere che non possiamo cambiare il mondo (leggi rivoluzione), ma qualcosa di noi, di qualcunaltro, dispersi su un piccolo pianeta che ruota attorno a un sole di periferia in una galassia tra le tante, arrestare una lacrima, curare qualche ferita, sopravvivere, essere odiosi a qualcuno, saper dire di no, piantare il melo anche se domani scoppiano le bombe, perdersi in un quadro di Schiele, aver cura degli amici, scrivere certe lettere anziché altre (leggi rivoluzione). 6. È pensare che la poeticità é una battaglia disperata. 7. È humor nero."

Queste erano le sette risposte delle Albe in un momento in cui di teatro e politica non voleva parlarne nessuno.

Con "Confine" il dialetto entra dunque nel tuo teatro non solo come lingua possibile, ma come indice e strumento d'una umanità presente e arcaica, che è come pressata in fondo a noi, che vuole esistere e che, nell'emergere, rinnova i rapporti, sia teatrali che, per l'appunto, politttttttici. In questa vostra svolta, che ruolo ha avuto il teatro dialettale di tradizione?

In Italia esiste un teatro dialettale molto diffuso. È un teatro fatto da dilettanti. Ha un forte valore sociale. Persone che recitano e si divertono a farlo e trovano un pubblico che le segue e si diverte, anche se raramente raggiungono livelli d'arte: siamo davanti a un fenomeno importante, e anche in Romagna, che non ha una tradizione dialettale illustre, puoi imbatterti in attori sorprendenti come Giuliano Bettoli, oppure in giovani autori che cercano di rinnovare la linfa tradizionale, come Paolo Parmiani. D'altronde il teatro italiano è, per storia, un teatro dialettale. Dal '500 fino a Eduardo, i dialetti sono la spina dorsale della nostra drammaturgia. Nell'ambito del teatro di ricerca degli anni '80, invece, era sicuramente strano e provocatorio usare i dialetti, forse perché facevano pensare ai dilettanti o a una comicità di consumo. Non eravamo certo gli unici a percorrere questa strada, c'erano Moscato, Scaldati, De Berardinis: si è formata negli anni non una vera e propria corrente, ma una costante infiltrazione dei dialetti come lingua di scena. Tornando alle influenze dirette, per me è stato un grande modello Pasolini, con il suo "Accattone". Pasolini aveva insegnato che non dobbiamo arrenderci alla neutralità dell'italiano. E che il ricorso a una lingua che pare arcaica, quando invece è solo com-presente e sepolta, ha un valore eversivo. I dialetti sono come le rughe dei volti, dove ogni ruga racconta una storia, sono una ricchezza infinita, non sono lingue morte: oppure sono come quei morti arzilli che vengono a parlarci nei sogni, che vengono a tirarci per i piedi.

Non credi che l'uso dei dialetti restringa la possibilità di comunicare e di venire compresi?

È un rischio che va corso. Se ascolto Scaldati che recita i suoi testi in dialetto palermitano, io non capisco niente: sono tagliato fuori sul piano della comprensione razionale. Però Scaldati mi porta dentro a una musica che è un mondo, mi emoziona come una musica, come una musica mi fa capire altro, mi fa capire l'indicibile. Quindi per me è importante che ci sia anche una lingua "nicchia".

Dopo il confine segnato dall'omonimo spettacolo, in quale nuovo territorio vi siete

inoltrati? E siete stati subito consapevoli di questa nuova fase?

Nel 1987 abbiamo realizzato "I brandelli della Cina che abbiamo in testa". Siamo partiti da un testo di Lu Hsun, poeta e scrittore rivoluzionario cinese degli inizi del secolo, un racconto del 1918, "Diario di un Pazzo", in cui il protagonista scopre che attorno a lui, nel suo villaggio, ci sono dei cannibali: l'ossessione cresce e alla fine tutto il villaggio gli si rivela popolato di cannibali. Il racconto si conclude con l'invocazione disperata del protagonista:"Forse ci sono bambini che non hanno ancora mangiato carne umana. Salvate i bambini!".

Il testo di Lu Hsun ci colpiva perché era un periodo in cui ragionavamo sulle tante forme del cannibalismo, che non è riducibile al cibarsi di carne umana: l'uomo lo si può divorare in tanti modi. Mentre stavamo preparando questo spettacolo, al porto di Ravenna, nella stiva di una nave, 13 lavoratori in nero morirono asfissiati. Divorati. Nella democratica, civile, comunista Ravenna. Fu un corto circuito; noi stavamo pensando alla scena e la realtà ci travolgeva.

In quello spettacolo, ambientato in una Ravenna di fine secolo, io ripresi a scrivere; non scrissi un testo, un'architettura di dialoghi, ma solo dei brandelli lirici. Ermanna, che impersonava Lu Hsun, recitava una serie di monologhi: uno era dedicato ai colleghi animali, perché anch'essi, come gli uomini, sono mangiati da tutti, i colleghi animali che non ci sono più, li ritroviamo solo dietro il cellophane delle confezioni dei supermercati, nei documentari televisivi, nei mosaici delle chiese di Ravenna. Un altro monologo cantava le città grigie, imprigionate dall'asfalto, come i cervelli.

"Brandelli" è stato uno spettacolo importante, forse incompiuto, dichiaratamente a frammenti, che però è stato come un passaggio verso il lavoro successivo, l'inizio di una lunga fase che tuttora dura. Lo spettacolo successivo fu "Ruh. Romagna più Africa uguale".

Che cosa era successo? Che eravamo partiti dalla Cina di Lu Hsun e ci ritrovavamo in Africa!

Bisogna ritornare al politttttttico, all'urgenza di raccontare il mondo e noi stessi dentro questo mondo: noi sentivamo che il teatro questo racconto non lo faceva più. Il coro dell"Enrico V" di Shakespeare si chiedeva " potrà mai questa arena di galli, questa "O" di legno, contenere i vasti campi di Francia?", potrà cioé mai raccontare le grandi battaglie, la Storia, le vicende dei re, utilizzando dei poveri guitti, con le povere scene del teatro elisabettiano? "Sì, potrà farlo, se voi ci aiuterete con la vostra immaginazione", rispondeva a se stesso il coro, rivolgendosi agli spettatori.

E noi ci chiedevamo: possibile che questo legame tra i teatranti, gli spettatori con la loro immaginazione e la grande Storia in cui siamo immersi, non sia più vivibile? Possibile che solo il cinema, che solo la narrativa, che solo qualche scrittore che amiamo, riescano a raccontarci la realtà, mentre il teatro è condannato al museo e alla stanca ripetizione formale, incapace ad ascoltare i clamori della vita? Beh, noi nel nostro piccolo stavamo cominciando a verificare se questo era ancora possibile. Nella trilogia dickiana era entrata Ravenna e le piogge acide, in "Confine" era entrato, attraverso la metafora del circo Watutsi, il sud del mondo. Nell'87 in "Brandelli" il cannibalismo, la distruzione non solo dei corpi degli uomini ma anche della natura; erano gli anni di Chernobil, e le Albe cominciavano a pensare in termini di militanza ecologica, necessità civile di uomini di fine millennio. Sapevamo che il politttttttico non doveva dare risposte agli spettatori, risposte che d'altronde non aveva, ma ci muovevano la tenacia, l'ostinazione da muli, la volontà di continuare a farci delle domande. C'era dieci anni fa, c'è ancora oggi, una vocazione sociale all'amnesia, al non porsi interrogativi, a eludere. Noi non abbiamo mai amato un certo teatro politico, alla Fo, autoritario, che dà la linea, perché non c'è, la linea; ma ci ha sempre mosso la tensione a interrogare la polis. E la polis oggi non è solo Ravenna, come invece era Atene per Aristofane, perché quello che avviene anche a migliaia di chilometri da qui, ci riguarda. E nella primavera dell'87, mentre eravamo dentro questi pensieri, ecco un'altra illuminazione. In una delle prime università verdi, a Lugo, quando mancava poco al debutto di "Brandelli", il prof. Franco Ricci Lucchi dell'università di Bologna, professore di geologia, teneva un corso di lezioni sulla Romagna. Interessati, andammo. Egli ci rivelò: "la Romagna è Africa, il sottosuolo romagnolo, quello che sta molti chilometri sotto, è africano". E aggiunse: "partiamo dalla teoria dei continenti, di Alfred Wegener, geologo tedesco del nostro secolo, che, inizialmente sbeffeggiato, teorizzò che in origine i continenti erano un unico blocco di terra, la "Pan-Gea", "Tutta-Terra". Poi, nel corso dell'evoluzione geologica, si formarono i continenti attuali. Quando Europa e Africa avevano ormai raggiunto la loro forma, una zattera di terra africana, una zolla scura, si staccò dal continente madre e veleggiando per il Mediterraneo venne a incastrarsi qui, tra le nebbie mitteleuropee". Chi parlava non era Philip Dick; avrebbe potuto esserlo, invece era il prof. Franco Ricci Lucchi dell'Università di Bologna. Splendido. Allora siamo tutti marocchini! Ci prese il matto: dobbiamo dirlo subito, ai romagnoli, che sono marocchini, anche perché certi romagnoli chiamano "maruchè" gli abitanti della penisola da Pesaro in giù. In quel tempo stavamo lavorando ad un progetto, che si intitolava "Romagna mia", a cui avevamo invitato il teatro "Due Mondi" e la "Raffaello Sanzio", e gli allora CCCP. Al suono del liscio di Raul Casadei, sul proscenio del Teatro Goldoni di Bagnacavallo, io aprii i lavori con una conferenza di geologia dove illustravo ai romagnoli presenti in sala le loro origini: "non dovete prendervela con loro, gli africani che vedete sulle spiagge, sono i padri che ritornano, perché la Romagna è Africa, anche voi siete africani!"

Le facce di alcuni romagnoli in platea si fecero scure - a dimostrazione che la teoria aveva un fondamento! -, altre invece risposero con entusiasmo. Con questo paradosso inizia la nostra storia afro-romagnola. Non ci limitammo a quella conferenza di geologia, ma ci ricordammo della faccia scura del moro direttore del circo Watutsi. Capimmo che stavolta non era il caso di dipingerci la faccia di nero, ma di andare là dove c'erano le facce scure, cioé in spiaggia. Erano là, e là vendevano accendini, orologi, elefantini di legno.

Forse avevo in mente Pasolini, quel film, "Accattone", di cui vi ho parlato in precedenza: per raccontare il sottoproletariato delle borgate romane, Pasolini non era andato a prendere gli attori dell'Accademia. Dopo che Franco Interlenghi aveva detto no al ruolo di protagonista - per fortuna! - Pasolini aveva "ripiegato" su quella che poi sarebbe diventata una invenzione di stile: Franco Citti è questo, un'invenzione di stile di Pasolini. Ha preso la macchina e l'ha messa davanti a un pezzo di società italiana, ai margini, e l'ha fatta protagonista.

Così, quello che ero certo di non voler fare era cercarmi degli attori africani; volevo invece andare là dove era la nostra Africa, a Marina di Ravenna, sulla spiaggia, a prendere un pezzo di società africana trapiantato qui, e portarlo sulla scena, con la sua natura grezza, non rifinita, non teatrale, persone con la loro dignità, con la loro cultura. Erano i primi anni dell'immigrazione in Italia. Dopo alcuni incontri, riuscimmo a coinvolgere tre giovani senegalesi nel nostro spettacolo. La loro presenza non era attorale, era uno stare in scena, alla lettera: il vu cumprà veniva rovesciato nel suo contrario, non uno stereotipo ma una presenza. Anche la storia di "Ruh" era ambientata a Ravenna, in un futuro - le suggestioni di Dick lavoravano sottopelle - dove il mare si era preso la sua rivincita e aveva invaso tutto, seppellendo sotto l'acqua Marina di Ravenna, anche il grande parcheggio "Piazzale Adriatico", un po' mussoliniano. Su una spiaggetta si mescolavano personaggi reali ed altri simbolici: c'erano tre vitali senegalesi che sembravano gli esponenti di un popolo invasore, e c'erano, come relitti, dei personaggi bianchi che ancora sopravvivevano. Il prologo era recitato da un ragazzo con due lunghi basettoni, vestito da spiaggia, con un sacchettino di plastica in cui c'era un amplificatore collegato a due trombe d'altoparlante che lui aveva applicate dietro la schiena, e sembravano un paio di alucce: il prologo parlava con un filo di voce, ansimante. Entrava spaesato, dicendo "in epoche antiche mi chiamavano Prologo, e spiegavo alla gente dove stavano loro e dove stavano i personaggi; il fatto è che adesso io non so più niente": era un prologo che non dava il contesto, era più spaesato di quelli a cui doveva spiegare. A un certo punto, però, verso la metà dello spettacolo, il ragazzo-Prologo fermava l'azione e diceva "scusate, devo fare una precisazione: il sottosuolo della Romagna è Africa": la precisazione aumentava ulteriormente lo spaesamento rendendo gli spettatori edotti della rivelazione del sottosuolo africano-romagnolo.

Poi c'era Vincenzo Balsamo, l'informatore di Cristo, informava la gente a proposito di Cristo e chiedeva sempre in giro "Lei sa chi è Cristo? Non lo sa? Si informi. Se vuole, ho delle videocassette". L'altro relitto bianco era Fattorini, il mio ultimo ruolo d'attore: era l'uomo di fiducia di un certo Raul, un potente principe di Ravenna. Alla fine degli anni '80, a Ravenna comandava Raul Gardini; quel Raul che Fattorini invocava era Gardini, che sembrava dovesse fare chissà che cosa, a quel tempo, uno degli uomini più potenti d'Italia. E Fattorini gli gridava: "Stai attento al mare, non annegare!". Poi c'era la Madre Terra, incarnata da Ermanna: una piccola figura sopra un pozzo, parlava romagnolo, una furia, la madre di tutti, dei bianchi, dei neri, una madre che non consola, che non può salvare, una creatura ferita. Un'umanità alla deriva, quella di "Ruh", un funerale dell'occidente che terminava con una gioiosa consegna di limoni agli spettatori. Quando avevo fatto il "Woyzeck" mi era molto piaciuta la frase del capitano che diceva "Woyzeck, daremo i limoni al tuo funerale"; nell'800 in Germania si usava così, un limone come segno apotropaico contro la morte. In questo spettacolo "sghignazzante", la gente

 

rideva molto, ma di un humor nero, il congedo era un segno giallo, di luce. Molti spettatori lo rifiutarono: fu un lavoro che divise il pubblico. Anche il teatro può far discutere, non solo il cinema o la politica. Facemmo centinaia di repliche in tutta Italia.

Mi sono soffermato su "Ruh" perché per noi questo è stato lo spettacolo-manifesto del "meticciato teatrale", l'idea di lavorare insieme, italiani e senegalesi, ognuno con la propria lingua: con "Ruh" il wolof è diventato lingua di scena, gli immigrati usavano le sonorità della loro lingua che si intecciavano in maniera sorprendentemente musicale con il romagnolo gutturale di Ermanna. In "Confine" avevo usato il reggiano, in "Brandelli" c'era un pezzo sul cannibalismo, tratto da Lu Hsun, che Ermanna aveva tradotto in romagnolo, e infine in "Ruh" il romagnolo e il wolof vennero introdotti come elementi portanti della partitura drammaturgica.

Il dialetto non figura fra le idee-guida che hanno diretto il vostro sviluppo. È come una ricchezza sulla quale crescete, ma che non potete programmare.

In realtà il nucleo delle "Albe", io, Ermanna, Gigio e Mandiaye, siamo un narratore, uno che ama raccontare storie, e che capisce che per farlo a teatro deve farlo anche da regista e da attore-autore. È come se fossimo i de Filippo: se tu immagini il teatro dei de Filippo, gli elementi fondanti erano le storie e gli attori, gli altri elementi arrivavano a seconda degli spettacoli. Nel nostro lavoro succede la stessa cosa: l'incontro con il sassofonista Michele Sambin é stato importante perché ci ha portato nuove suggestioni sia sul piano musicale che visivo, ma resta il fatto che la radice che fa germogliare il tutto è sempre quella: raccontare storie, creare maschere. E, tornando alla tua osservazione, è stata proprio questa radice, il raccontare, che ha succhiato il dialetto facendone un nutrimento per il nostro teatro.

Perché solo Mirandolina di Goldoni? Perché solo i personaggi di Pirandello? Non possiamo creare anche noi delle maschere che siano altrettanto forti? Sul doppio binario romagnolo-africano, che pratico dall'88 ad oggi, ho creato con gli attori delle Albe alcune figure che per noi sono maschere "vive".

Potresti descrivere le maschere che hai creato sul binario romagnolo?

Su tutte Daura e Arterio, madre e figlio. In "Bonifica" gestiscono un bagno, è l'89, l'anno della caduta del muro ma anche l'anno della grande mucillaggine, le alghe che resero il nostro mare una schifezza. L'industria del turismo romagnolo entrò in crisi, Arterio era come lo specchio di tanti atteggiamenti, di tante facce, di tante possibili risposte davanti alla distruzione della natura-mare. E che cosa pensa Arterio, davanti alle alghe? Qui i turisti diminueranno, qui non si guadagnerà più. Qui ci vuole una bonifica totale, una distesa di cemento su tutto l'Adriatico: costruiamo uno Stato tra gli Stati, con la sua amministrazione, i suoi campi da calcio, uno Stato per metà italiano, per metà jugoslavo, per un pezzetto albanese. Vendiamo il bagno, e con il ricavato diamo inizio all'impresa. Nel frattempo Daura sogna che Arterio la vuole ammazzare, e i sogni della madre si intrecciano ai propositi di bonifica del figlio: c'è nel testo un doppio piano, onirico e reale, che alla fine combaciano, perché Arterio di giorno vuole stendere il cemento sul mare, e di notte, dentro la mente di Daura, vuole uccidere la madre. Mare e madre coincidono.

Ne "I Refrattari" ritroviamo gli stessi due personaggi, così come in Molière o Jarry ritroviamo lo stesso personaggio presente in più opere. "I Refrattari" è un "drammetto edificante" in due atti. Arterio non ne può più: la Lega è imperante, siamo nel '92, sono gli anni di tangentopoli, la vecchia Italia è allo sfascio. Arterio e Daura sono chiusi nella loro casetta romagnola, parlano in dialetto. Lo spettacolo inizia con un piatto di tagliatelle fumanti che Daura versa al figlio. "Sono buone?" domanda lei. "Sono un po' troppo cotte", risponde Arterio. "Non gli va mai bene niente", esplode Daura e inveisce contro il figlio. A un tratto Arterio la interrompe: "Chiudi la porta, che é buio". Daura va per chiudere ma dalla porta entra un giovane dai capelli arruffati che dice "Scusate, ho trovato aperto, sono entrato". Dice di essere una lucciola-pianta-topo, uno nato in un laboratorio americano, che dopo tante traversie è arrivato fin qua, ha visto la bella casetta di Daura e Arterio, e insomma lui si vuole fermare qui! Qui! La "lucciola" si mette a sedere al posto di Arterio e chiede un lavoro, perché non glielo si può negare, a lui, un lavoro! Arterio va in proscenio davanti agli spettatori e dice: " Non è possibile! Qui tra negri, drogati e "lucciole" che scappano dai laboratori americani e ti piombano in casa, qui non si vive più! Qui non ci voglio più stare: ho deciso, me ne vado sulla luna, prendo Daura e andiamo a farci la casa sulla luna". Un'altra idea strampalata, come bonificare col cemento l'Adriatico. Arterio prende un coltello, se la porta fuori, la lucciola, e sentiamo il grido del ragazzo là fuori. Arterio rientra come se niente fosse, prende il suo cellurare e telefona a Rubbia, lo scienziato. Dice di averlo già visto alla Fiera della Motonave e vorrebbe consigli su come andare sulla luna. Rubbia dopo un po' stacca. Allora Arterio decide di organizzarsi da solo: lo troverà lui, il modo di andare sulla luna! Chiede a Daura di fargli un gran pentolone di passatelli, che sono una pasta romagnola tradizionale, e con il pentolone lui va nella Russia del '92, affamata, e fa uno scambio: pentolone ai russi e per Arterio un razzo, di quelli che ormai i russi non sanno più cosa farsene. Ritorna a casa, mette il razzo in giardino, ha portato anche un colbacco alla sua mamma, lei é tutta contenta. Poi però i due litigano perché lei vuole andarci da sola con il "suo" Arterio, sulla luna, mentre il figlio dice che non riuscirà mai a costruirla da solo, la casa. I due discutono in quinta, sopraggiunge un signore elegantemente vestito che "per evitare equivoci" si presenta subito come un mafioso, incaricato di far pagare i moduli 770 e 780, altrimenti la mafia brucia la casetta. Daura scambia il mafioso per uno dell'ENEL. Arterio invece prende il fucile da caccia, si porta via il mafioso e fa fuori pure lui. Passano i giorni, e ancora non riescono a trovare qualcuno che venga con loro sulla luna, per aiutarli a costruire la casa. Daura propone al figlio un ragazzo, "un po' strano", ma pieno di buona volontà. E' Mustaphà, un senegalese. Arterio, in un nuovo a parte al pubblico, si lamenta: "con l'autore di questo drammetto non c'è da fidarsi, trova sempre il modo di sbatterti in scena l'africano. Questi ci portano la lebbra, ma io non mi debbo far fregare. Se lo porto sulla luna, noi bianchi siamo in maggioranza, io e la Daura contro di lui, perciò, va bene, possiamo portarlo". Così si chiude il primo atto.

Da quella porta sono entrati una lucciola-pianta-topo, un mafioso e un senegalese: per fuggire tutto questo Arterio e Daura vanno sulla luna. Nel secondo atto la scenografia è la stessa, perché i due si sono ricostruiti, identica, la casetta. Però Daura è sospesa levitante sopra la porta, su una sedia, con una calla in mano ed un velo rosso in testa. Arterio è seduto a tavola. Mustafà viene avanti a spiegare cosa è successo: ha messo i suoi due fratelli di nascosto nel razzo, arrivati lassù Arterio e Daura si sono trovati in minoranza. Ma Mustaphà e i suoi fratelli hanno aiutato la madre e il figlio a costruirsi la casa. La luna, che doveva essere la pace per i due romagnoli, è più caotica di quanto non sia la terra: è una società multietnica all'ennesima potenza, e la casa di Arterio é circondata da moschee. Daura è levitata in aria e Mustaphà è diventato il cuoco della famiglia sfamando Arterio con la cucina senegalese anziché con le tagliatelle. Tutto è rovesciato. E nella casetta ritorneranno il mafioso e la lucciola-pianta-topo, o dei loro doppi. Da quella porta, sulla luna, continuano ad entrare intrusi. Non c'é pace per Arterio e Daura, finché alla fine Arterio ha un'idea geniale: gli sono rimasti dei mattoni, di quelli serviti per costruire la casa, e con i mattoni chiude quella maledetta porta, mura dentro se stesso e la madre. Daura è contenta: finalmente soli! E il canto degli anacoreti di Mahler chiude la storia iniziata con il viaggio sulla luna alla ricerca della pace e terminata con il cemento.

Daura e Arterio sono maschere della nostra Romagna: somigliano ai contadini di Aristofane, anarchici, conservatori, utopici, più neri forse, più negativi, alla ricerca di una piccola pace, senza le utopie di Aristofane.

E le maschere africane?

Ho inventato, insieme a Mor, la maschera di Mor Arlecchino. L'invenzione di Mor Arlecchino è nata dal ripensare la tradizione, cos'era la maschera di Arlecchino nel '500. Una maschera complessa, frutto di un intreccio di motivi: una componente sociale, quella dell'immigrazione, l'Arlecchino come immigrato che dalle valli di Bergamo partiva per andare a cercare pane e lavoro nella ricca Venezia; e una componente magica-simbolica, l'Arlecchino come figura di diavolo, l'Hellequin della tradizione nordica. E chi è oggi il nostro Arlecchino? Io ce l'avevo in casa: non l'immigrato da Bergamo, ma chi parte oggi dalla savana per giungere nella ricca Europa. Sono i miei attori africani, gli Arlecchini di fine secolo. Un giorno ho chiamato l'amico Silvio Castiglioni, un Arlecchino padano, a dare alcune indicazioni tecniche a Mor: dopo un'ora di lavoro si è accorto di non avere più nulla da insegnare, anzi era Mor adesso che doveva insegnare a lui. Il tipo di fisicità buffonesca di Mor e la sua danza terrigna, che discendono entrambe dalla tradizione artistica famigliare di Mor, quella dei griots senegalesi, facevano di lui "con naturalezza" un Arlecchino del nostro tempo; e attorno a Mor Arlecchino ho costruito diversi lavori, "Siamo asini o pedanti?", "Lunga vita all'albero" e "I ventidue infortuni di Mor Arlecchino", la riscrittura di un canovaccio di Goldoni.

Le stanze con le porte per entrare e per uscire, figurano nei tuoi spettacoli solo due volte: nel "Mor Arlecchino" e ne "I Refrattari"

Anche in "Siamo asini o pedanti?". All'inizio la storia si svolge nell'appartamento di alcuni poveri immigrati senegalesi. Poi c'è il sogno in cui questo appartamento esplode, la stanza dell'inizio scomparirà per tornare alla fine del sogno. Le porte sono soglie verso altri mondi.

Queste stanze sono un elemento importante del tuo lavoro. La stanza, infatti, dal momento che racchiude l'azione, diventa uno schema drammaturgico di vitale importanza: impone di giustificare le entrate e le uscite, si rafforza attraverso la rievocazione dei rituali domestici, suggerisce infrazioni o invenzioni originali. Come ne "I Refrattari" che si chiude con la muratura della porta. La stanza è un elemento spaziale molto semplice e che però stabilisce già di per sé un elemento di continuità strutturale fra la tua drammaturgia e la forma commedia.

Quando ho avuto la visione dei "Refrattari", era l'immagine di un mondo chiuso dove però c'è una maledetta porta che sputa continuamente degli "intrusi". Nella Campiano di Ermanna io vedo spesso figure simili: contadini nel loro tinello, sono tornati dal campo, hanno lavorato e la porta, la "vera" porta é la televisione, la porta che ti sputa dentro di tutto, lucciole-pianta-topo e mafiosi. È una stanza particolare quella de "I Refrattari", è una stanza che è anche il mondo, e la Tv é la porta-mondo. Quanta roba vomita dentro nella nostra stanza! Staremmo così bene, io e te, soli, sospira Daura.

Maggio 1998.
Schizzo di Cosetta Gardini
per la Prima Anta di
Perhindérion

 

 

 

La stanza e la porta, più che una citazione delle tecniche della forma-commedia, erano dunque l'effetto di un traslato: qualcosa che serviva per dare corposità scenica a qualcosa d'altro.

Se io avessi messo Daura e Arterio attorno alla televisione come in un quadretto realistico: Daura e Arterio che guardano la televisione e vedono magari un transessuale che passa e si presenta come lucciola-pianta-topo, poi un mafioso, etc. Potevo farlo, ma non mi interessava. Certo realismo è la morte del teatro. La porta è il segno di un possibile passaggio verso l'invisibile.

In certi tuoi spettacoli lo spazio nasce insieme allo spettacolo, in altri lo precede. Puoi parlarci di questo importante elemento di costruzione scenica.

Lo spazio ha avuto in tutti questi anni un ruolo importante. Ermanna è sempre stata, tranne in casi come "All'inferno!" dove la scenografia è di Michele Sambin, l'autrice delle scene. Ermanna è i miei occhi. E le scene nascono sempre da alchimie accese, dove lo scontro di visioni differenti porta a un risultato fecondo. Prendiamo"I Refrattari": io immaginavo il tinello, Ermanna diceva che una simile storia di morte doveva svolgersi in un cimitero. Dopo mesi di discussioni e litigate alla fine è venuto fuori un fondale di legno con la porta nel mezzo, un tavolaccio, una lampadina, il fondale è a fiamme rosse e nero, come un quadro fauve, espressionista: fiamme, inferi. Lo spettatore sente di essere da una parte dentro uno spazio-casa, e d'altra parte, non è certo il tinello della casa di Campiano. Il doppio piano della narrazione, reale e surreale, trova quindi un esito anche nell'aspetto scenografico-visivo: i due aspetti si intrecciano, non sono l'uno al servizio dell'altro. Lo spazio scenico cresce insieme alla storia, al lavoro con gli attori e tutto il resto. Quello che lo spettatore vede come un esito è l'arrivo di un percorso molto lungo: come all'inizio non c'è un testo, così non c'è nemmeno una scena. I linguaggi che formano l'opera crescono insieme, vengono portati avanti parallelamente. Nel teatro "normale" ognuno - scenografo, drammaturgo, attori, regista - ognuno fa il suo pezzetto, poi si assemblano le parti. Da noi il procedimento è diverso, è alchemico. Come in un organismo, tutto cresce insieme.

Quando componi un testo segui un procedimento determinato. Ce ne puoi parlare?

Non scrivo mai un testo dall'inizio alla fine, per poi andare dagli attori e assegnare loro le parti già fatte. Io invece vado dagli attori con un'idea di fondo, magari qualche monologo e qualche personaggio in testa. E lì si comincia a ragionare insieme. Io vivo con i miei attori, parliamo di tutto, ci raccontiamo di tutto. Spesso utilizzo cose che mi hanno detto loro, e che loro nemmeno si ricordano di averle dette, quelle cose.

La mia scrittura si impasta con quello che offre il palcoscenico, il corpo degli attori, una luce, perché una luce particolare può suggerire altre parole; la luce è un elemento drammaturgico.

Così, nella scrittura dialettale, a forza di ascoltare, certe frasi riesco a scriverle io e poi Ermanna le ripulisce; altre volte le chiedo come direbbe una certa frase, lei mi fa due o tre esempi e io scelgo quello che mi piace di più, oppure scegliamo insieme. Ognuno ha la sua responsabilità, il proprio ruolo di drammaturgo o di attore, ma l'intreccio é continuo. Con Ermanna poi non smettiamo mai, perché dopo le prove si va a casa e si continua a pensare al lavoro. Sono molto curioso nei confronti dei miei attori, sono curioso fino al vizio, devo entrare dentro quel corpo se voglio scrivere sopra quel corpo.

Anni fa ho scritto un dialogo di quattro paginette, un dialogo nell'oltretomba tra lo scrittore Vittorini e il pittore Veronese, ed è l'unico testo che ho scritto senza pensare alla scena o agli attori: tutto il resto che ho scritto è nato sul palco, in relazione a quelle persone. E anche in "All'inferno!", a un mese dal debutto, dopo dieci giorni che lavoravamo tutti insieme a Ravenna - e avete visto quanta gente! ben tre compagnie - ho capito che non andava più bene niente, bisognava stracciare tutto: e già sapevamo che lo spettacolo sarebbe durato due ore - due ore e mezzo, che doveva essere un affresco di diverse opere di Aristofane. Questo stracciare tutto ha mandato la compagnia in crisi nervosa, me per primo, ma é stato importante. Ci sono momenti in cui lavori senza dormire né mangiare: l'ultimo mese è così, è proprio così. Deve esserci molto fuoco sotto affinché si possa bollire bene la carne.

Negli ultimi tuoi spettacoli c'è un'attenzione particolare per l'aspetto figurale che deriva dalla composizione dei corpi. Nell'800 era frequente il ricorso ai "tableau", ma tu non fai dei "tableau" perché questi irrigidivano in pose fisse - per l'appunto 'quadri' - il flusso pantomimico, di cui, in un certo senso, costituivano la giustificazione e il climax. Tu invece non blocchi il movimento, nondimeno, una volta che lo spettatore comincia a seguire le figurazioni corporee, si accorge che queste non costituiscono un effetto occasionale, ma un piano di svolgimento dello spettacolo. Ora, sentendoti parlare d'un teatro di carne e della ricerca della verità del corpo, mi sono chiesto quale potesse essere il legame fra il livello dell'organizzazione figurale e questa tua poetica, che esalta mi sembra l'umanità della materia.

È come se nel mio modo di comporre ci fossero vari strati. La drammaturgia delle parole, la drammaturgia delle luci e delle musiche, la drammaturgia dei corpi. Vorrei arrivare a fare uno spettacolo pieno di parole italiane comprensibili anche a un tedesco; vorrei che la storia arrivasse attraverso lo svolgersi dei corpi, delle luci e di tutti gli altri elementi che reagiscono nell'alchimia teatrale. Alchimia è una parola che abbiamo usato sempre in questi anni perché è molto chiara: gli elementi della composizione interagiscono creando qualcos'altro. Nella narrazione stessa, il narratore che racconta non è solo parole: è fondamentale l'uso della gestualità, è fondamentale come guarda le persone a cui sta raccontando. I piani sono diversi e sono molto importanti. Uno può dire cose molto interessanti, ma se il tono di voce e la gestualità sono morti, noi non riusciamo a seguire il filo del discorso. Tutti ne faccciamo esperienza, ai convegni, per esempio.

Cos'è che passa attraverso i linguaggi? I greci usavano due parole per dire "vita": usavano "bios" e "zoê". "Bios" è la mia vita, la tua vita, la vita particolare di un essere: é un'orologio a tempo, c'è una data in cui si spezzerà. Ed è la morte che la traccia. "Zoê" invece non è la vita mia o di quel gatto o di quella pianta, ma è la vita infinita, quella che non muore mai, perché vive al di là dei singoli "bios". Cos'è che passa tra di noi, adesso? La "zoê". Cos'è che passa quando noi, al bar, vediamo due persone che litigano? Se noi le guardiamo e siamo catturati da questo teatro della quotidianità, è perché c'è un insieme di parole, atteggiamenti, sguardi, insomma sono attori splendidi quei due che stanno litigando al bar, e non lo sanno. Che cos'è che passa fra di loro? La "zoê", la vita che si dà una forma. E questo è il teatro.

Se guardo all'arte del 900 qualcosa che faccio fatica a capire è certa arte "concettuale": la comprendo razionalmente, da uomo colto; so, da uomo colto, che faccio una cattiva figura a dire che non la capisco, quindi dico che la capisco, ma al fondo c'è qualcosa che mi allontana, che mi ripugna, ed è il fatto che questi artisti parlino solo alla testa, lasciando da parte cuore, sesso, ventraglia. La "zoê" ci parla attraverso sesso, cuore, testa, ventraglia. E in questo senso non conosce la morte. C'è un libro splendido, cui spesso ho fatto ricorso in questi anni, è "Dioniso" di Karoly Kerenyi, dove l'autore fa questa distinzione fra "bios" e "zoê": Dioniso è il dio del teatro, il dio della "zoê". La "zoê" non conosce morte perché noi, qui, nel momento in cui circola la "zoê" siamo vivi, non possiamo morire. È un paradosso, ma è così. Quando non circola la "zoê"- prendete certe rassegne di prosa in abbonamento, guardate gli abbonati: uno annoiato, uno lì per caso, l'altro che vi guarda, l'altro che dorme - circola la morte, l'irrigidimento, la mancanza di quella "zoê" che un bambino o un animale rivelano in maniera limpida. La Raffaello Sanzio lavora direttamente sulla "zoê" che può essere espressa da un corpo ferito, o da un cavallo; noi che abbiamo "solo" attori, abbiamo di fronte un compito terribile, che è quello di innalzare un attore al livello di un cavallo, di un fiore, di un tramonto. Noi dobbiamo costruire e sognare i miracoli della "zoê", e questo è il difficile, perché il tramonto, il cavallo, la litigata nel bar, non sono costruiti, sono la "zoê" che si esprime. Noi dobbiamo costruire e sognare una trappola per la "zoê", una trappola in cui attori e spettatori stiano abbracciati. Forse è anche questa la figurazione di cui parlavi tu.

Lingua materna, carne, zoê, verità: il tuo teatro si riconosce in valori primari. Qual'è, allora, il posto che assegni alle novità?

Devo dire che noi non siamo mai stati dentro l'onda. "Prendi l'onda! Prendi l'onda!" dicevano i "Magazzini"; ma rispetto alle avanguardie e al Terzo Teatro noi abbiamo sempre seguito la nostra strada.

Credo che anche se in modo lentissimo, siamo in presenza di un passaggio di testimone, di un cambio generazionale. Le istituzioni tendono, per loro natura, ad essere sorde, chiuse; ma a me sembra che la generazione dei quarantenni, come me, Martone, Corsetti, stia cominciando a farsi sentire, a contare qualcosa. A quarant'anni sei considerato ancora un giovane, per cui c'è effettivamente una certa lentezza. Questo è tipico non solo del teatro, ma anche della letteratura, del cinema; però a me sembra che il teatro stia mutando, lentamente. A metà degli anni '80 si lavorava come in una cartolina bloccata, oggi mi sembra che respiriamo dentro una fase di passaggio.

Noi sentiamo che la tradizione profonda è essa stessa ricerca, che tradizione e ricerca non sono termini antitetici. Inventarsi un nuovo Arlecchino è un gesto d'avanguardia, ma, d'altra parte, è fedeltà alla tradizione. Aristofane io l'ho riscritto completamente, l'ho impastato con il senegalese, il romagnolo, ho cambiato cose, ma credo di avere avuto una mia forma di fedeltà alla sua vena mistica e politica. Le novità esistono, come esiste il loro impatto sulle arti. Ma credo che anche la novità più sconvolgente nasca da qualche cosa. Negarne l'influsso vorrebbe dire negare la "zoê" stessa. Siamo tutti influenzati dall'esterno, da quello che mangiamo, da quello che vediamo. La nostra forza è prendere l'esterno e trasformarlo in persona, in noi stessi, tenere alto il tiro o profonda la mira.

Non è possibile in questo universo immaginare di essere una camera d'aria in cui non può entrare nulla. L'impatto di una novità autentica ti penetra, ti sconvolge, questo sì; ed è bellissimo quando un'invenzione emerge nella storia dell'arte, della cultura. È che non c'è contrapposizione fra novità e radici. Anche le novità fanno parte del viluppo delle radici, sono il loro modo di manifestarsi.

Ritorno su un punto sfiorato in precedenza: l'aver fatto l'attore influisce sulla tua scrittura?

Penso che il fatto di essere stato attore mi aiuti ad amare la fragilità dell'essere-attore, che è al contempo la sua grande forza. Nell'ultimo lavoro in cui ho recitato, "Cenci", con la regia di Ermanna - che si è ispirata al testo di Artaud sui Cenci, famiglia patrizia del '500 dove la figlia Beatrice uccide il padre, tiranno terribile -, io ero il padre contadino morto - Ermanna ambientava la storia in campagna - e stavo, all'inizio, già steso in fondo alla saletta coi piedi nudi in avanti. Dovevo stare lì dieci minuti, mentre la gente entrava in sala e prendeva posto. Quando la gente era tutta entrata, Ermanna cominciava un monologo a pochi metri di distanza da me. Io stavo lì come un morto. In quei dieci minuti avevo problemi di formicolìo alle gambe, ma pensando di essere morto mi dicevo che non potevo muoverle. Risultato: i primi dieci minuti dello spettacolo erano per me delirio mentale attorno ai miei piedi che si muovevano. A spettacolo finito chiedevo a qualche amico se aveva visto i miei piedi muoversi. C'era una luce fioca, era difficile percepire movimenti minimi: questo non mi tranquillizzava, ogni sera io ero alle prese con il mio corpo presunto tremolante. Questa è la fragilità dell'attore, la sua gloria: il corpo. Il regista ha lo sguardo da fuori, non recita, non sente lo stomaco che brontola. L'attore è la bellezza del corpo esposto, corpo che è lì, sulla graticola, e prova emozioni che un regista non proverà mai. Il regista è sguardo. L'attore è l'officiante del rito, non colui che assiste dal di fuori. Come a messa: c'è il prete che sta dicendo l'omelia e, all'improvviso, gli arrivano delle immagini scabrose, e mentre parla gli passano davanti corpi femminili. Però lui è l'officiante, è lì in quel momento, è il suo povero corpo che sta comunicando, e deve dire la potenza di Dio.

I rutti di Ermanna, ad esempio. Voi non sapete cosa sono perché nel video di "All'inferno!" non li avete sentiti bene. A un certo punto Farì, l'asinella, lancia due o tre rutti giganteschi e il pubblico ride, e questi rutti sono importanti, nella figura di quest'asinella magica e parlante. Pensate al rutto, che cos'è? Un eruttare, un vulcano. Io non riesco a farli come li fa lei. L'attore è il livello basso, santo, del teatro. E' la carne, e devi proprio ascoltarlo, questo livello basso, perché il rischio per noi drammaturghi è quello di crogiolarci sopra grandi concetti, grandi frasi, tutti figli di Apollo. Gli attori sono figli di Dioniso, sono carne, sangue, rutti. Io non sono mai stato un buon attore, ma credo di avere capito cose che mi sono servite.

Platone afferma che Omero è il padre dei tragici; dunque il padre di Sofocle e Euripide sarebbe un narratore. E il narratore è colui che è insieme drammaturgo, regista e attore. Il mio pensarmi narratore è un pensarmi in maniera antica, come un rapsodo greco o un griot senegalese, dove la drammaturgia, la regia e anche la recitazione sono intrecciate insieme: quello che è importante per il narratore, infatti, è il qui ed ora, è l'oralità, non il testo che poi verrà pubblicato. In Grecia i testi dei classici furono pubblicati dopo decenni, pare che neanche Shakespeare e gli elisabettiani fossero così interessati alle pubblicazioni, che la preoccupazione vera rispetto ai testi scritti fosse quella di non farsi fregare le idee dai colleghi sleali. Quando tu entri nel territorio dell'oralità, il drammaturgo e il regista sono indistinguibili: la dimensione della pagina letteraria, scritta, è veramente un'altra cosa.

Possiamo pensare alla scrittura teatrale come a qualcosa di simile alla notazione scritta delle note? Qualcosa che fissa un fruscìo, un ritmo?

La musica è un linguaggio irrinunciabile del teatro. È come se la musica e la danza fossero l'essenza stessa del teatro. Pensiamo alla "Nascita della tragedia" di Nietzsche, uno dei miei libri sacri: Nietzsche ci racconta le due divinità che presiedono al teatro nella grecia antica. Dioniso è il dio dell'ebbrezza e quindi della musica, come scatenamento, come uscire da sé. Apollo invece è il dio della divinazione, del quadro, dell'immagine, del sogno. È stata l'unità tra queste due "opposte" divinità a creare il teatro: un evento apollineo da contemplare, un evento dionisiaco in cui vieni trascinato e travolto.

La musica, suonata dal vivo o registrata, è stata sempre un cardine del nostro lavoro. Il primo momento importante di confronto artistico nel meticciato afro-romagnolo è stato quando gli attori senegalesi hanno portato in scena i tamburi, la musica della loro tradizione. Al di là dell'importanza che riveste negli spettacoli il linguaggio musicale (in "All'inferno!" usiamo i tamburi di Has, il sax di Michele, delle basi registrate che interagiscono e il violino albanese di Mirela), quando io penso alla musica dello spettacolo, non penso solo al suono ma a tutto l'universo sonoro che lo spettacolo mette in vita, comprese le battute. Le battute io le intendo come frasi musicali. Nel lavoro di alcuni gruppi questo è molto chiaro: senti subito la musica delle battute, costruite secondo una logica sonora "artificiale". Che anch'io lo faccia non appare così evidente, ma è proprio una mia ossessione, il giocare musicalmente dentro un dialogo "realistico". E qui si ritorna ancora, inevitabilmente, al rapporto tra scrittura e oralità: se io scrivo una battuta e poi la consegno al mio attore, e il mio attore la dice, e nel dirla io sento che certe "note" vanno aggiunte, altre tolte, altre trasformate dialettalmente, bene, questa è una composizione che io realizzo da scrittore-musicista. In un dialogo é fondamentale il senso ritmico, e nel comico lo è in maniera crudele, perché ti rendi conto subito se la musica è quella giusta: te lo fa capire il pubblico! In una battuta comica basta rallentare il ritmo, o accelerarlo, e già non fa più ridere.

Platone diceva "La musica è l'anima di tutte le arti" e non intendeva la musica nel senso della "tecne" musicale, intendeva un senso più profondo di armonia, che contiene anche le dissonanze, e che sta al fondo di tutto. Per questo, io non finisco mai di scriverlo, un testo. La musica continua, replica dopo replica. Si arriva al giorno del debutto, ma è solo la prima "messa in pubblico", non è l'opera finita. Continuo a seguire e a modificare il mio testo giorno dopo giorno, replica dopo replica, ascoltando le reazioni vive dello spettatore-autore, e a seconda delle sue reazioni decidiamo se e quanto e come modificare. Succede che un certo momento dello spettacolo vada allungato, allora mi metto a scrivere le battute necessarie, e le aggiungiamo; un'altra volta è un monologo che si rivela troppo dilatato, e lo comprimiamo. Così io costringo gli amici a

vedere più volte lo stesso spettacolo, perché vedendolo al debutto e poi alla trentesima replica vedono due cose che hanno magari la stessa struttura di fondo ma moltissimi cambiamenti all'interno, e i cambiamenti sono avvenuti perché ho seguito il lavoro passo dopo passo, come una pianticella a cui dare più acqua o meno acqua, più sole o meno sole, e l'ho tenuta in vita. Una creazione teatrale drammaturgica non è una macchina, è una pianta: è qualcosa che va tenuto in vita, con passione. E poi questa pratica tiene svegli gli attori, perché può succedere che io arrivi con battute nuove o addirittura un'intera scena nuova alla sessantesima replica di uno spettacolo, come è successo in "Incantati". Infatti la scena finale, quella "giusta", è arrivata solo dopo sessanta repliche.

La musica è il respiro della "zoê", l'autore che scrive per la "zoê" è un musicista.

Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna