Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna ROMPERE IL VASO

Prove di Drammaturgia


Lettera di accompagnamento per un dossier teoretico e 'arcaico'

di Gerardo Guccini

 

Caro Paolo,

di tutte le Lettere di accompagnamento richieste per questo numero di "Prove di drammaturgia", la mia è l'unica che abbia andamento epistolare e si rivolga in prima persona all'interlocutore lontano. Scabia, da poeta, introduce la poesia di Costa con una prosa che, ancor più che accompagnarla, costituisce con essa la prima parte di un'unità snodata nell'ottica del dittico poetico. Laura Mariani (scrivendo di Dacia Maraini) ha incastonato impressioni e zone problematiche in un medaglione biografico sorprendentemente fermo, già consegnato agli storici. Io, però, non rinuncio alla convenzione che mi consente, per scritto, di parlarti direttamente. Mi fa piacere fissare, una volta tanto, le idee che nascono dai nostri confronti, e credo che il dialogo, anche se a una voce sola, sia un mezzo particolarmente adatto per afferrare il tuo scivolosissimo argomento: le idee sullo spazio che fermentano nella "terza ondata" del nuovo teatro. Sollevare la cronaca, ideologizzandola o traducendola in simboli, può anche essere una questione di stile, anzi, di comportamenti e di 'registri' stilistici; ma entrarci dentro, in questa cronaca, e rivivere i fatti prima ancora che la loro energia si sia esaurita decantandosi in percorsi intelleggibili, è un'operazione vertiginosa; un arrampicarsi immaginando appigli. Per compierla, conviene senz'altro essere almeno in due. Così ci si accerta, attraverso la mutua testimonianza, della solidità degli argomenti. Anche tu, componendo il dossier, hai avvertito lo stesso bisogno di incrociare sguardi, di chiedere conferme, di trovare testimoni. Il risultato è un mondo di testimonianze. Brisighella, il progetto 'Crisalide' e il suo svolgimento intorno all'èquipe di Thierry Salmon, figurano briosamente dipinti sul siparietto d'apertura, ma quando questo si solleva il panorama diviene scuro e profondo. Un astratto addensarsi di processi logici, in base ai quali sembra già possibile e quasi normale tracciare conclusioni. Il confronto diretto, il poterti parlare come spiando le reazioni, mi consente di fare perno su questa massa, di usufruire della sua solidità.

Tutte le idee di spazio che hai raccolto trascrivendo le concettualizzazioni estemporanee del seminario o chiedendo ai gruppi di definire le loro idee, si collocano al centro di una dinamica generativa che non conosce nè un prima nè un poi. E quindi escludono alla radice la nozione di scenografia. Qui, lo spazio non contiene un elaborato drammaturgico, non si formalizza per una sorta di empatia nei riguardi di questo ospite necessario; ma nemmeno è il sedimento di un'operare che gli sia estraneo o lo utilizzi in modo strumentale. "Lo spazio scenico forse è stata la nostra prima esigenza, di tipo fisico" (Pietro Babina, Teatrino Clandestino); "il nostro modo di lavorare ci fa individuare un luogo (...) in cui la fisicità dell'attore avrà un contatto con il materiale di quel mondo" (Lorenzo Bazzocchi, Masque); "credo al lavoro sullo spazio dove l'attore andrà a lavorare come a una terra di nessuno, una zona, un dominio di possibilità drammaturgica creatrice di realtà" (Gabriele Argazzi, Terza Decade).

Lo spazio, nella sensibilità dei nuovi gruppi, mi sembra agire come un oggetto di immedesimazione non antropomorfo; un equivalente del personaggio, che stimola la creatività dell'artista portandola a ridefinirsi nel confronto con una organicità 'altra'. E, infatti, a conclusione del tuo studio, presenti come elemento comune alle varie dichiarazioni la "necessità di formulare, attraverso la creazione del sè artistico come esperienza estetica, una precisa identità individuale". Però, poi, affidi la descrizione di questa precisa e nuova "identità" al concetto di responsabilità etica formulato da Jean-Luc Nancy (il lettore veda la bella citazione che chiude il saggio) togliendoti con le tue stesse mani la possibilità di riprendere una notazione che qualche tempo fa avevi inserito in un contributo a più mani: "Adesso, il divenire dei teatranti non si misura più con tradizioni da infrangere, confini da superare, non ha nulla a che vedere con la dialettica storica, potremmo forse definirlo un divenire arcaico?" ("ETInforma", Anno II, numero speciale, 1997). Senza questa espressione - "divenire arcaico" - il lavoro che adesso appare su "Prove di drammaturgia" mi sembrerebbe restare come nudo, privo di un'importante chiave di lettura. é infatti il paradossale riprodursi dell'arcaico, che, in queste testimonianze, modella pensieri, esperienze e linguaggio. L'arcaico, nell'accezione un po' personale che sto utilizzando, è quanto si contrappone al trionfante modello duale per cui l'uomo si compone di corpo e spirito, la scrittura di significati e significanti, e tutto è leggibile, scrivibile, potenzialmente chiaro. Il modello duale antropomorfizza quanto tocca; per contro la sua crisi ci rende permeabili a confronti inusitati con le più varie regioni dell'esistente: con gli animali, con la materia e, come qui si racconta, con lo spazio.

Fra gli interventi ricorre la nozione di "spazio mentale"; nozione che non designa il confronto fra il concepire e la realizzazione concreta, ma immerge entrambi - pensiero e materia - in unico alveo di esistenza. L'attributo, a seconda delle sfumature, indica che lo spazio è 'della mente', ma anche che lo spazio 'è mente'. Fabrizio Arcuri parla del "contenitore" scenico come "di un nuovo limite autogenerato"; Pietro Babina considera lo spazio "astratto"; Gabriele Argazzi dichiara di prendere lo spazio scenico "come elemento puro, privo di un proprio doppio nel mondo della vita, e di conseguenza vuoto". Mi sembra che queste definizioni concorrano a illustrare una stessa percezione, che vede nello spazio una 'mente autogenerata, pura e vuota'. Lo spazio-mente, per così dire, non è la materia con cui si confronta l'inventiva artistica, ma un astratto guscio di forme e di idee, che da questa inventiva viene riempito e materiato. Così gli artisti delle "terza ondata" compiono una radicale inversione di valori; nelle loro prassi, il concreto non si contrappone al mentale ma nasce dal relazionarsi dell'artista con l'alterità dello spazio e delle cose.

Cristina Ventrucci, commentando la potente presenza del ferro sulla scena dei nuovi gruppi, ha scritto: "Teatro del ferro, sì, ma di fabbri filosofi, di fabbri esteti"("Art'o", numero zero aprile 1998). La sua intuizione viene confermata dalle testimonianze che hai raccolto nel dossier. I nostri "fabbri" sono infatti "esteti" e "filosofi" anche perchè estetica e filosofica è la realtà su cui agiscono: una realtà che, in sè "astratta" e "pura", simile a una "mente vuota", viene concretata dal riconoscersi in lei del teatrante che, con questo gesto, la crea in quanto teatro. Dice Babbina: "l'idea che vi sia un luogo che va riempito mi rimanda sempre alla creazione e di qui l'ossessione per un teatro metafisico; mi diverte pensare di fare questa domanda a Dio: che cos'è per te lo spazio scenico?"

Chiedere proprio a Dio dello spazio scenico, non è possibile. Però, possiamo rievocare la risposta d'una divinità minore - Ermete Trimegisto, lo scriba degli dei - ad analoga domanda. Gli chiede Asclepio: "Come definiremo dunque il luogo in cui si muove l'universo?". Risponde Trimegisto: "Un essere incorporeo". Asclepio, però, non è convinto. Un "essere" lo può immaginare benissimo: "Ma che cos'è l'incorporeo?" E Trimegisto: "Un intelletto".


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