Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia
DACIA MARAINI:
"IL MIO TEATRO"
E "IL DIALOGO NEL ROMANZO"
INTERVISTE COL PUBBLICO (*)
(*) Il testo riporta il contenuto di due incontri con Dacia Maraini (Il mio teatro, L'uso del dialogo nel romanzo), che si sono tenuti nell'ambito delle iniziative del CIMES (12 e 13 marzo 1997). Ringraziamo l'autrice per aver voluto rivedere le sue dichiarazioni, e ricordiamo altresì le attrici Laura Curino e Anna Rispoli, che recitando in quell'occasione brani di Veronica Franco e di altri testi della Maraini, hanno affiancato ai colloqui col pubblico la viva presenza del teatro. (Nota della Redazione)

 

- Lei che rapporti ha col teatro? Ce ne può parlare?
- Posso dire che il teatro è l'attività che mi ha fatto più soffrire. Perché il teatro italiano è organizzato molto male e non ha nessuno interesse per un rinnovamento di tipo drammaturgico. Direi che della drammaturgia italiana non importa niente a nessuno. E non parlo per me, perché io ho avuto delle bellissime soddisfazioni, però devo constatare, dopo tanti anni che lavoro per il teatro, che quello italiano è preso da altri miti, da altre fiabe, altri traguardi, che non passano attraverso la questione della drammaturgia. L'hanno saltata, come se la drammaturgia non fosse importante, e invece è fondamentale per il teatro di un paese. Nel teatro italiano è molto più importante la scenografia della drammaturgia. E infatti se voi andate a vedere i grandi teatri italiani, sono tutti diretti da registi o scenografi; non c'è un drammaturgo. Io ho fatto parte per un breve periodo del Consiglio di Amministrazione dello Stabile di Roma - per capire come si muoveva un teatro statale - e la prima cosa che ho fatto è stato fondare una scuola di drammaturgia. Ho chiamato dei drammaturghi perché venissero a parlare del loro lavoro, aiutando a tirare su dei nuovi autori. Appena sono andata via, dopo un anno, la scuola di drammaturgia, che pure aveva avuto tanto successo di partecipazione è stata la prima a scomparire. È rimasta invece la scuola di attori e di registi. È curioso come da noi manchi completamente la voglia di rinnovare il linguaggio drammaturgico. Perciò uno che lavora sul testo, sulla parola, fa molta fatica. Ogni volta che un autore ha successo con un suo testo, la cosa muore lì e bisogna ricominciare da capo; questo perchè non esiste un circuito che si interessi alla drammaturgia, non esiste un teatro di repertorio. Voi sapete come funziona: nel teatro ufficiale i testi si vendono 8 mesi prima che incominci la stagione, e a scatola chiusa, e questo incentiva il divismo. Naturalmente, i divi sono soprattutto quelli della Televisione, non importa che siano bravi: se un attore è appena un po' conosciuto in Televisione, il pacchetto si vende.
Come mai una scrittrice di romanzi - poiché avevo 16 anni quando ho cominciato a scrivere il mio primo romanzo - poi si dedica al teatro? Probabilmente perché il dialogo mi ha sempre interessato molto; comunque c'è anche un'altro aspetto del teatro che mi piace, che mi affascina, ed è il lavoro collettivo. Il teatro non funziona se non c'è la collaborazione appassionata di più persone. Ci sono momenti solitari, come quello della vera e propria scrittura, ma poi questa scrittura viene messa continuamente a confronto con un gruppo, un regista, degli attori, e questo comporta una continua dialettica. Mi e sempre piaciuto interrompere l'attività solitaria della scrittura per andare a discutere, fino a rompermi la testa con attori e registi e scenografi. Ho partecipato a tante compagnie, e devo dire che nei momenti di maggiore entusiasmo, che corrispondevano anche a momenti di povertà assoluta, si litigava parecchio, si litigava per questioni di necessità, su come spendere quei pochi soldi che avevamo, per comprare una stufa piuttosto che un riflettore, pagare il nostro lavoro o dedicare lo scarso incasso per migliorare le scene. Ho fatto 3 anni a Centocelle, un quartiere povero di Roma, con ben 130.000 abitanti, una vera città. Era il momento in cui si pensava di dover dare voce a chi non l'aveva; c'era questo entusiasmo che ci trascinava verso le periferia; e Centocelle era una periferia disastrata dove non c'era un cinema, né un teatro, né un giardino pubblico: le grandi case del quartiere dormitorio erano venute su con la speculazione. Noi, un gruppo di attori ed io, abbiamo pensato di andare a Centocelle e lì abbiamo fondato un teatro di quartiere: recitavamo in strada, nelle scuole, davanti ai mercati, nelle cantine. Tutto questo è stato una buona scuola per me: ho imparato a fare ogni tipo di lavoro in teatro. L'unica cosa che non ho fatto è recitare, non mi piace; ma tutto il resto, dalle luci alla scenografia, dalla sartoria al suggeritore, l'ho fatto. Non per megalomania, ma perché non c'erano specialisti che fossero disposti a lavorare senza essere pagati e perciò dovevamo arrangiarci da soli, ci dovevamo arrangiare da soli. Questo è stato faticosissimo ma anche molto utile. Ho imparato a muovermi in teatro, non da scrittrice, ma da persona che si rimbocca le maniche e fa, agisce. Ho imparato tutto quello che si può imparare sulla tecnica teatrale, e tutto mi è stato molto molto utile quando mi sono messa a scrivere, perché scrivevo sapendo già come ci si muove in scena, sapendo cosa sono le parti calde e le parti fredde del palcoscenico, come arriva la voce, cosa vuol dire l'illuminazione dall'alto, dal basso, di fianco, ecco. Con quei pochi riflettori che avevamo dovevamo creare una strategia artistica e luminosa che stesse in piedi. Uno dei miei testi più di successo è stato "Suor Juana" (Inez de la Cruz): su una monaca scrittrice vissuta in Messico nel 1600. Il destino di un corpo legato alla scrittura mi ha sempre interessata, come nella storia di Veronica Franco, insieme poetessa e prostituta. Ma il suo non é un caso isolato: nei secoli passati era assai più facile trovare delle scrittrici in convento o in un bordello di lusso che non nella vita comune. Una donna che faceva vita di famiglia non aveva spazio né tempo per dedicarsi alla scrittura: una monaca invece, sempre all'interno di una concezione religiosa, poteva dedicarsi alla scrittura. Allo stesso modo, curiosamente, una cortigiana poteva, per intrattenere i suoi ospiti, diventare una poetessa e una intellettuale di valore, cosa inconcepibile per una madre di famiglia. Con il testo su Suor Juana Inez de la Cruz sono arrivata a fare uno spettacolo per 9 attori con 2 attrici. Ho usato dei manichini, ho usato delle voci registrate. Per ricostruire il convento ho tirato su uno schermo e le attrici più io più quello che stava alle luci, tutti vestiti da suore, giravamo dietro questo paravento illuminato e il nostro passaggio dava l'illusione che ci fossero tante suore che pregavano. Era la moltiplicazione delle suore ottenuta attraverso un trucco tipicamente teatrale, di quei trucchi a teatro, ne ho imparati parecchi. Ripensandoci, a posteriori, si può dire che era anche divertente lavorare in queste condizioni di difficoltà, ma che fatica!
"Per quanto tempo mi sono rotta / gli occhi e il cuore in una / cantina bianca di calce e di miseria? / ... / Ho girato e rigirato quattro fiochi / riflettori da cinquecento watt per / cercare di ricavarne luce per ogni scena. / Ho comperato stracci, cappelli usati, / parrucche da poco prezzo, ho affittato / scarpe e stivali contrattando sul prezzo / caparbiamente, ho dipinto pareti, / costruito panche, fabbricato montagne / di cartone, tirato su città di tela, / impastato maschere di gesso, appuntato / gonne di carta, disteso fiumi di stagnola / e laghi di iuta, intagliato barche / nel compensato, ricavato coltelli dalla / latta, mobili dal sughero, finestre / dalla gomma sintetica e uccelli dal ferro (...)". (Dacia Maraini, Attori e altri attori, Giugno 1970).
A Centocelle ho fatto 3 anni di un teatro dei più difficili, dei più poveri, economizzando su tutto. Poi ho fondato un altro teatro, al centro di Roma, e questa volta era un teatro di sole donne, il "Teatro della Maddalena". Era il '70, l'inizio del femminismo, e in questo teatrino - sempre di cantina, facendo tutto da noi - rappresentavamo storie di donne, dibattiti, monologhi, incontri, di tutto. Siamo andati avanti per ben 17 anni. È stato un teatro che ha avuto una sua vita. Dopo, ho fatto teatro anche fuori dalla Maddalena, ho fondato altre compagnie, associazioni, cooperative. Spesso, per ragioni economiche, queste compagnie fallivano, non perché non ci fosse una risposta di pubblico, ma si sa che il teatro da solo non ce la fa: ha bisogno di finanziamenti e il paradosso vuole che per avere finanziamenti bisogna avere tanti soldi. Perché i finanziamenti arrivano mesi, anche anni dopo. E intanto bisogna anticipare le spese. E chi non ha soldi da anticipare, non lavora. Quando poi arrivano i finanziamenti, devi pagare il debito alla banca, con gli interessi. Praticamente lo stato paga le banche invece del teatro. Questo metodo è peggiorato con gli anni: c'è stata una vera e propria censura indiretta sul teatro povero, sperimentale, attraverso l'elevazione delle tasse. Oggi è difficilissimo fare teatro sperimentale.
Alla "Maddalena" ho rappresentato diversi testi: quello che ha avuto più successo e alcuni testi miei, curiosamente, hanno girato più fuori dall'Italia che non in Italia, perché qui mancano i circuiti - è stato Dialogo di una prostituta con
il suo cliente, che ha debuttato lì. Era un testo molto provocatorio ed è stato rappresentato in più di 30 paesi, alcune messe in scena le ho viste, altre no. Fra i testi che hanno viaggiato di più ci sono I sogni di Clitennestra, messo in scena a New York, a Parigi, a Londra; poi Maria Stuarda, che è stata rappresentata in tutta Europa, in Australia, in Brasile, in Messico, perfino in Giappone. Era per necessità che scrivevo testi per uno o due attrici o attori, per economizzare. Lo scambio delle parti - sono due attrici in scena che rappresentano 4 personaggi, di cui due non si incontrano mai - ha costituito l'attrattiva e il successo di Maria Stuarda. Le due attrici cambiano carattere, corpo, e un po' si aggrediscono, un po' si vogliono bene. Veronica Franco, del '91, è uno degli ultimi testi. Veronica Franco è una straordinaria poetessa veneziana del 500, che avrete visto citata nelle antologie letterarie. Aveva una curiosa qualità: era una raffinata intellettuale e contemporaneamente una esperta cortigiana, una prostituta di lusso, figlia di prostituta. C'è a Venezia un libro, ancora ben conservato, in cui compare l'elenco di tutte le prostitute di Venezia di quel periodo. Ed è commovente vedere scritto "Veronica Franco, piesa so mae, dò scudi". Piesa vuol dire mezzana, quindi la madre, che era prostituta faceva da mezzana alla figlia che era quasi una bambina. Cominciando per strada con due scudi Veronica poi è diventata la più grande cortigiana veneziana. Tanto importante che quando Enrico III di Francia è andato in visita a Venezia, la città ha offerto all'ospite illustre una notte con Veronica. Naturalmente non era solo una notte di sesso, ma una notte di intrattenimento, di canti, di poesia, e di dotte conversazioni.
Veronica è stata ritratta dal Tintoretto, ha avuto amici fra i più grandi poeti veneziani dell'epoca, i quali si riunivano a casa sua, cenavano con lei, giocavano a carte con lei; Veronica ha avuto tanti successi, tanti soldi, però non poteva smettere di fare la prostituta, perché allora non si poteva uscire dal proprio mestiere: rimaneva prostituta nonostante fosse una poetessa e una grande intellettuale, una che conosceva tutti i libri che si pubblicavano allora, era in corrispondenza con grandi filosofi e scienziati. Le prostitute all'epoca dovevano girare per la città con un fiocco giallo sul petto come gli ebrei durante il nazismo, dovevano farsi riconoscere. Non potevano andare a messa se non alle quattro della mattina, perché non dovevano incontrare le altre donne. E inoltre non potevano portare gioielli, e dovevano sottostare a tutta una serie di regole restrittive. Dovevano per forza abitare nella zona di Rialto e non potevano uscire dal quartiere. Veronica era una donna così intelligente, spiritosa e anche spregiudicata, che quando è stata interrogata dal tribunale dell'inquisizione come eretica (perchè dicevano che mangiava carne al venerdì, giocava ai dadi, andava a messa in orari non propri) si è presentata al Monsignore che doveva interrogarla, e con intelligenza e grazia, ha cominciato a raccontare cosa succedeva nel suo salotto, facendo un lungo elenco dei suoi ospiti, tra i quali c'erano molti vescovi e cardinali. A questo punto hanno pensato che era meglio rimandarla a casa.
Siccome non si sa bene come sia morta e siccome in quel periodo c'era la peste, io ho immaginato che Veronica sia morta per peste: il testo comincia dalla fine, con lei che arriva in questo lazzaretto e crede di morire, e si prepara a morire perché tutti morivano intorno a lei. Invece, inaspettatamente, invece di morire, piano piano guarisce. Vicino a lei c'è una suora che è anche la guardiana del lazzaretto. Questa suora le sta vicino, le porta l'acqua e infine scommette con degli altri portantini sulla morte di Veronica. La suora perde la scommessa e questo la indispone, Veronica per consolarla, le racconta la sua vita, il suo passato, i suoi amori, le sue imprese. Stranamente gli uomini che lei ha amato portano lo stesso nome: Venier. Si tratta di grandi signori ed intellettuali: il più anziano, Domenico Venier, era un poeta raffinatissimo e senatore della Repubblica Veneta, un altro, Marco, era un politico scrittore, un terzo, Maffio, era un poeta maledetto che recitava nelle bettole, fra i gondolieri, vantandosi di fare "poesia per il popolo". Questi tre Venier stavano a litigare per la loro diversa idea della poesia, ma in fondo tutti quanti si riferivano a Veronica. Erano innamorati di lei, ma ovviamente con le dovute distanze, senza poterla sposare né averla come compagna, per il mestiere che faceva, ma passando le serate in casa sua. Veronica ha poi fatto 5 figli ed è stata anche un'ottima madre.
Mi piace scherzare coi dialoghi: che siano ironici, pungenti. Mi piace giocare con la comicità. Spesso nei miei testi c'è questo lato comico a cui tengo molto. Sotto la comicità però trapela l'amaro della realtà sociale. Comunque mi piace che i personaggi sappiano scherzare: è una costante dei miei testi teatrali. Solo quando scelgo un tono lirico la comicità scompare: il lirismo non va d'accordo con l'ironia. Per esempio ne I sogni di Clitennestra, l'umorismo è quasi assente, si tratta della rivisitazione dell'Orestiade nella Prato di oggi. Ho lavorato in effetti a Prato per un certo periodo con Ronconi, conducendo dei seminari. Ho
così scoperto che la popolazione di Prato è fatta per il 70% di immigrati, i quali avevano impiantato nelle loro case delle minuscole aziende tessili nelle quali lavoravano anche i bambini, facendo andare le macchine giorno e notte senza mai fermarsi. L'idea geniale era stata quella di smontare le grandi fabbriche in seguito alla crisi degli anni '50, cosa che ha costituito la fortuna di Prato. Infatti Prato è diventato una città ricchissima. Ma il costo era l'auto-sfruttamento: tutta la famiglia doveva partecipare a questo lavoro coatto e le macchine non dovevano fermarsi mai. Anche i nonni e i bambini erano inchiodati alla macchina e dovevano darsi il cambio mattina e sera.
Io ho ambientato a Prato l'Orestiade, con Agamennone che invece di andare alla guerra, va in America a cercare fortuna, Oreste parte per la Germania a lavorare come operaio, Elettra e Clitennestra si dedicano al telaio. Da questa trasposizione è risultato un testo fortemente lirico e drammatico. Un altro testo, Stravaganza, che è stato rappresentato spesso fuori dall'Italia, racconta di cinque malati di mente che, in seguito alla legge per la chiusura dei manicomi, si trovano improvvisamente liberi di tornare a casa. Ma, una volta a casa, scoprono di essere stati sostituiti: nessuno si interessa più di loro, nessuno li vuole, provocano disgusto e paura. Così decidono di ritornare al manicomio per creare lì una specie di comune.
È un testo sull'oggi, tutto da ridere, poiché ognuno di loro è abitato da una ossessione come da un demone. Poi ci sono gli amori sbagliati, le incomprensioni, l'amicizia che nasce su precedenti ripicche ed abusi. Queste sono le situazioni in cui mi diverto a fare agire gli attori.
Potrei andare avanti per ore con questi racconti, che mi ricordano un periodo molto intenso della mia vita teatrale. Continuo a scrivere per il teatro, però quella vita di compagnia non la faccio più; forse adesso non avrei più nemmeno le forze per una disperata vita di palcoscenico, senza soldi, in mezzo alle liti e alle fatiche quotidiane.
 
- Conosce l'opera di Natalia Ginzburg? Ne è stata influenzata?
- Natalia Ginzburg non ha fatto il mio stesso itinerario, forse perché era di una generazione precedente alla mia, era una persona già adulta mentre io ero una ragazza, quindi più pronta a gettarmi in imprese impegnative. Natalia aveva un grande senso del dialogo - basti pensare a quel capolavoro di analisi del linguaggio che è Lessico familiare, da cui non sarebbe difficile estrarre uno spettacolo divertentissimo, con tutti questi personaggi che parlano un gergo buffissimo. Ricordo che lei aveva scritto un testo teatrale, lo aveva fatto leggere ad Adriana Asti, la quale lo aveva dato a Visconti e lui lo aveva rappresentato. Era un testo delizioso, molto divertente che poi è stato ripreso molte volte - mi pare sia stato fatto con successo anche a Londra. Poi ha scritto altre cose per il teatro. Però certamente anche lei è stata delusa dal teatro: in un altro paese, dopo un successo come Ti ho sposato per allegria, lei sarebbe entrata di diritto nel mondo del teatro; da noi invece si ricomincia ogni volta daccapo. Così, nonostante il successo, Natalia non ha avuto poi quella vita teatrale a cui avrebbe avuto diritto. Questa è una caratteristica del teatro italiano. È un peccato.
 
- Facendo teatro, ha avuto modo di entrare in contatto con altri autori?
- Le disgrazie portano a unirsi, anche se gli intellettuali e scrittori italiani sono individualisti e solitari; o forse in tutto il mondo è più o meno così. Comunque da noi c'è questa tradizione dell'individualismo per cui ognuno fa da sè. Però effettivamente questa difficoltà di fare teatro mi ha portato quando nel '67 ho fondato il teatro di Via Belsiana - anche quello in una cantina, con attori che poi hanno girato il mondo come Paolo Bonacelli, Carlo Checchi, Laura Betti - a cercare di invitare il maggior numero di narratori a scrivere per il teatro. Allora abbiamo rappresentato testi di Pasolini, di Siciliano, Moravia, Wilcock, Gadda. Però come al solito non avevamo una distribuzione, questo è il problema, il teatro, se vuoi farlo, sei libero di farlo dove vuoi e come vuoi ma senza distribuzione. È come se uno pubblicasse un libro che non viene mandato nelle librerie, lo leggono quelli del tuo quartiere, al massimo di due città e basta. Non è possibile. Senza "le piazze" come si dice in gergo, non c'è vita teatrale. Abbiamo fatto una grande attività teatrale a Roma ma sempre inchiodati nella nostra piccola cantina perché non abbiamo mai avuto una distribuzione. Mi ricordo che di Gadda prendemmo Il guerriero l'amazzone, che non era un testo teatrale ma noi trattammo come tale con molto successo. Recitavano con noi Paolo Bonacelli e Carlotta Barilli. Io cercavo anche altri autori, però dopo è stato più difficile. Quando ho deciso di andare in periferia non ho trovato nessuno che avesse voglia di fare quel tragitto così faticoso. Negli anni '80 ho incontrato molti altri autori di teatro, senza però mai avere un vero rapporto di collaborazione. Quando ho fatto la Scuola di teatro per lo Stabile,
ho chiamato dei drammaturghi, ma si trattava già di una situazione istituzionale. Molti autori di fronte a queste difficoltà, facevano compagnia per sè. C'erano pochi scambi nonostante gli interessi comuni. Così non c'è mai stato un vero incontro strategico che forse sarebbe stato utile per cambiare le cose.
 
- Adesso cosa sta scrivendo?
- Il mio nuovo romanzo, che esce fra un mese, che si intitola Dolce per sé - porta nel titolo una citazione da Leopardi, dove "dolce per sé" è la memoria. Racconta la storia di una drammaturga. Però non parla di teatro; racconta invece una sua storia d'amore, che la donna narra alla nipote dell'uomo che ha amato: un curioso triangolo costituito da una drammaturga, una bambina e un violinista. È tutto incentrato su questa figura maschile vista attraverso l'intelligenza e la grazia di una bambina.
 
- Perché, ora, rispetto al passato, scrive molto meno per il teatro? E che differenze ha riscontrato fra il mercato teatrale e quello dell'editoria?
- Continuo a fare teatro. Fra un mese va in scena un mio testo, Diario di una cameriera con la regia di Luca Ronconi. Pubblico poco teatro perché non si vende e gli editori sono restii a stampare testi drammatici. La narrativa può essere difficile da pubblicare la prima volta, anche perché sono tantissimi quelli che vogliono pubblicare. Ma poi, una volta guadagnato il pubblico, la cosa va da sé. Ma cominciare è difficile.
C'è un'enorme offerta e pochissima domanda, solo pochi leggono. Non so se sapete che il 42% dei libri che arrivano in libreria non vendono neanche una copia. Molti non lo sanno, ma evidentemente c'è un eccesso di pubblicazioni. Non perché manchino i talenti, il fatto è che mancano i lettori. Questa è una strana caratteristica del nostro paese, in cui tutti vogliono scrivere e nessuno vuole leggere. Ma una volta che si ha pubblicato qualcosa - e questa è la legge del mercato - e che si ottiene un piccolo successo - guardate tutti i giovani che vendendo anche solo 6000 copie sono già entrati in una piccola distribuzione - arriva l'editore importante che ti porta via all'editore primo, meno importante, e ti lancia meglio. Insomma una qualche carriera esiste. Questo in teatro non succede. La cosa grave è che il teatro italiano non ha rapporti con il mercato. È alienato. Dicevo prima che si vendono gli spettacoli già preparati, alla cieca, e questo certo non aiuta. Prima di comprare un libro devi sapere di che si tratta, devi aver sentito dei pareri. Invece il teatro viene venduto a scatola chiusa, sul nome di un attore importante che è spesso l'unico che viene pagato - mentre gli altri ricevono paghe misere. Questo significa che viene incoraggiato soprattutto il divismo, un teatro di divismo in cui le idee non importano a nessuno. Per vendere meglio, si utilizzano dei testi che hanno avuto successo in America, oppure dei classici già collaudati. Che poi, la cosa sia fatta bene o male, non importa, perché il circuito è già stabilito in partenza. Questa è la burocratizzazione del teatro italiano. Se mi chiedono che cosa si può fare, io dico innanzitutto una legge apposita che ancora non esiste. E poi la possibilità di detassare l'attività teatrale. L'unico modo di aiutare il teatro è detassarlo. Scusate se parlo sempre di soldi, ma il teatro, come tutte le iniziative culturali, è anche un'iniziativa economica. Dunque si detassa il teatro, si può permettere a chi non dispone di capitali, di farlo. Se invece, come succede adesso si paga un'enorme quantità di tasse in anticipo, il teatro può farlo solo chi dispone di grandi entrate. Oppure si deve andare in banca a chiedere un prestito e poi bisognerà pagare il 20% su questi anticipi e quando arrivano i finanziamenti dal ministero se ne vanno praticamente tutti per pagare gli interessi. In questo mondo burocratizzato chi ne paga le conseguenze sono le persone che si muovono in maniera libera e creativa. In altri paesi di maggiore civiltà teatrale la drammaturgia è considerata essenziale e si cerca ogni anno di rinnovare il linguaggio in teatro. Da noi nessuno se ne preoccupa e questa è una grave deficenza del teatro italiano.
Ogni teatro in Italia deve inventarsi un programma, con sei mesi di anticipo e cercare di venderlo prima che sia allestito. Si punta molto sugli abbonamenti, e poi giù; ogni teatro propone uno Shakespeare, un Goldoni, un Pirandello, non porcherie, ma testi che non sorprendono se non per il livello scenografico o interpretativo. Siccome la drammaturgia è un rischio, a nessuno va di investire al buio, vogliono cose sicure. I pochi autori italiani devono comportarsi come, per esempio, Chiti, che io stimo molto, arrabattandosi per sopravvivere: facendo lo scenografo per altre compagnie, gestendo di persona la sua compagnia che ha comunque dificoltà enormi a girare. Se io avessi in mano il teatro italiano, a Chiti farei ponti d'oro, perché è bravissimo, il suo è un teatro aspro, duro, crudele, ma molto intelligente, profondo. Un altro che purtroppo è morto, Annibale Ruccello; anche lui si arrabattava nelle cantine, come me, ed è morto prima dei 30 anni. Anche lui aveva difficoltà enormi. Io lo conoscevo, avevo molta simpatia per lui e per il suo coraggio. Quando poi è morto gli hanno rappresentato un testo al Quirino, ma i suoi testi non circolano come dovrebbero. C'è questa grave inerzia rispetto ai testi italiani. La gente nonostante tutto ama il teatro, ed è bello che sia così, ma per ora ci va come se andasse al museo. Ormai il teatro italiano è un museo, dove si vanno a vedere i bei quadri antichi, le cose che appartegono alla storia. Non è da poco, perchè anche i musei sono importanti - e io amo frequentare musei; però, oltre i musei ci devono essere testi nuovi, che alimentino e rinnovino la vita teatrale italiana. Questo non succede.
 
- Che cosa le hanno lasciato le esperienze teatrali?
- Il teatro mi ha dato una intensità di rapporti straordinari. Ancora oggi la maggior parte dei miei rapporti, amici e amiche, sono attori. Piera degli Esposti, e altri che ancora frequento e mi sono sempre vicini. Le attrici hanno un posto importante perché io ho sempre scritto su donne, non per partito preso, né per un fatto ideologico, ma perché io sono una donna e perché il teatro è povero di parti femminili, e questo lo dicono tutte le attrici. I grandi testi teatrali classici sono poveri di parti femminili. Per esempio; quando mi hanno chiesto di scrivere su Maria Stuarda, mi hanno detto: riprendi questo testo - bellissimo, di Schiller - e vedi di darne una versione moderna. Maria Stuarda, si chiama così ma la protagonista del testo di Schiller non compare quasi mai; è un testo tutto di uomini che si confrontano in azioni sceniche di grande intensità morale. Maria Stuarda, che è il perno della situazione, compare solo in rari momenti. Dunque mi suggerirono di scrivere una rivisitazione del testo in cui Maria Stuarda avesse un certo peso. Io ci ho provato. Ma, letto il testo di Schiller ho visto che era perfetto, non ci si potevano mettere le mani. Allora ho cominciato a leggere tutti i libri su Maria Stuarda e ho fatto una "Maria Stuarda" completamente diversa, con due donne sole: Maria e la regina Elisabetta; i due centri drammatici della situazione. Naturalmente ho perso di vista Schiller - mantenendo solo una piccola citazione - il suo era un testo che non poteva essere manomesso. Ho costruito un testo diverso che per fortuna ha avuto un grande successo, è stato tradotto in 30 lingue, rappresentato ovunque. Sulla scena ci sono solo Maria Stuarda ed Elisabetta, due regine che non si incontrano mai, ma stanno in scena insieme: quando una fa la regina, l'altra fa la dama di compagnia. Il dialogo è molto serrato fra queste due donne, sebbene non siano proprio le due regine a parlare. Fra l'altro l'idea è nata dalla dificoltà di disporre di più attori; ma poi si è rivelata molto funzionale. È stata fatta in tantissime università, è un testo che dà anche la possibilità di giocare coi ruoli. Le attrici sono sempre in scena. E viene rappresentato come un testo di prova nei teatri sperimentali. Da noi purtroppo le università non hanno teatri o ne hanno pochissimi. Il teatro dell'Università di Roma per esempio è stato chiuso, una cosa tristissima, e non so perché. Invece a Stanford negli Stati Uniti, dove sono stata recentemente, c'è un teatro straordinario, attivissimo dove si rappresentano continuamente testi nuovi con registi che vengono da fuori e gli studenti del dipartimento di teatro che recitano, e gli scambi fra professionisti e non professionisti sono continui. Questo, nei paesi con una civiltà teatrale, si fa continuamente. A noi manca questo tessuto connettivo vivo di teatro che si alimenta continuamente.
 
- Secondo lei, quali sono i principali requisiti del testo teatrale? E a quale altro genere assomiglia?
- Credo che il teatro sia fatto soprattutto di ritmo. Il ritmo nel teatro è importantissimo, come nella poesia. Si potrebbe trascrivere come un disegno geometrico, una proiezione che rappresenta una figura grafica. Fra il teatro e la poesia ci sono più relazioni, più rapporti, che non fra il teatro e la prosa, anche se la prosa ogni tanto viene utilizzata per la scena. Ma la narrativa che viene usata in teatro è soprattutto quella che già nasce teatrale, ed è quella dei monologhi: il monologo di Molly Bloom dell'Ulisse di Joyce ad esempio, è stato fatto in teatro e abbiamo visto che funziona molto bene perché è un monologo interiore già pronto per il teatro. In generale il romanzo però ha dei tempi diversi da quelli del teatro: tempi più allungati, più meditabondi, basati sulla riflessione e sulla contemplazione. Cosa che il teatro, più ritmico e rapido, non ha. Il teatro assomiglia alla poesia soprattutto per la questione del ritmo come ho già detto. Infatti è più facile mettere in scena la poesia che non la prosa, salvo quei casi di prosa mimetica, quando uno scrittore sta addosso al personaggio in termini linguistici, allora funziona. Ma quando si racconta una storia, con il tipico distacco e l'ironia della prosa narrativa, è più difficile.

 

Accademia degli Artefatti, "Un pezzo d'occasione"

- Ha mai pensato di scrivere per il cinema?
- La sceneggiatura è ancora un'altra cosa. Io non credo che ci siano molti rapporti fra il cinema e il teatro, francamente. Il cinema è veramente un altro linguaggio, un altro stile, richiede altri tempi. Il cinema è molto più naturalistico. Nel cinema, se un regista ordina una sedia per la scena, lo scenografo chiede subito lo stile, l'epoca, la forma, il colore. Invece in teatro possiamo anche avere una sedia simbolica, e lo stile non ha nessuna importanza: ecco che l'idea della sedia funziona in senso quasi platonico. Il teatro prilegia il momento mistico e simbolico. Anche l'età degli attori in teatro non conta niente: si sa che Sarah Bernhard recitava Giovanna D'Arco ed era zoppa, aveva una gamba di legno ed aveva più di sessanta anni, ma nessuno trovava poco credibile che rappresentasse la parte di una ragazza. In teatro l'età non conta niente: si stabilisce che questa è Giovanna d'Arco, punto e basta. Poi, se l'attrice ha 70 anni o 24, non importa perché è la simbolicità del personaggio che prevale nel teatro. Invece nel cinema no. Per una parte da 15enne ci vuole una 15enne. Gli invecchiamenti col trucco - anche se si vedono subito - si possono ancora fare, ma il ringiovanimento proprio no.
Il cinema è naturalistico: l'età è quella che appare, il vestito è quel vestito lì, le scarpe sono quelle scarpe lì, e il tavolo è quello dell'epoca. Anche se c'è stato - come Godard - qualcuno che negli anni dello sperimentalismo ha fatto del cinema simbolico. Però, francamente, di Godard non rimane quel cinema, rimane Pierrot le fou, rimane Due o tre cose che so di lei, rimane cioè il cinema narrativo, il cinema cinema. Quello teatrale, simbolico, è solo una provocazione. Mi ricordo un film di Godard in cui c'era una donna che stava ferma e parlava, parlava, parlava: una noia mortale.
Sinceramente credo che il cinema e il teatro non abbiano niente a che fare. Quando nel teatro si usa il cinema, non funziona. Così come rende poco il teatro in cinema. Sono due mondi distinti, due strutture espressive completamente separate. Non credo che ci siano punti di contatto.
La letteratura e il cinema invece dicono molto l'uno all'altro, sono in un rapporto simbiotico. Più della metà dei film americani si ispira a dei libri, non sempre romanzi ma comunque libri. C'è un continuo pescaggio di storie dalla letteratura; e anche la letteratura si ispira al cinema. Per esempio l'uso del flashback, che è tipicamente cinematografico, è entrato nella letteratura in modo prepotente. I romanzi moderni fanno un grande uso del flashback, che è sempre esistito nella letteratura, ma il modo in cui entra oggi nel romanzo e tipicamente cinematografico. Anche certi dialoghi nei romanzi, sono chiaramente cinematografici, e vengono a volte presi come sono e portati nel cinema. Cinema e letteratura si alternano o si scambiano le parti. Nel mio caso, quello di Marianna Ucrìa, io non ho partecipato alla sceneggiatura del film di Faenza. Ho soltanto riguardato i dialoghi. Naturalmente il film ha dei tempi più brevi del romanzo. Se il regista avesse dovuto riraccontare l'intero romanzo con tutti i personaggi, il film sarebbe durato sei ore. Molti personaggi nel racconto cinematografico, sono spariti; molte cose sono state tagliate, lasciandomi magari un po' perplessa, ma sono tagli necessari per forza di cose. Si tratta del film di un artista, non di un commerciante, il quale ha una sua visione del mondo, un suo linguaggio. Non si può chiedere al film di essere la riproduzione o l'illustrazione del libro, non può esserlo, il film è un'altra cosa. Un film si esprime prima di tutto per immagini e non attraverso le parole. Nel mio libro tutto il dramma di Marianna, sordomuta, viene trasferito nel suo pensiero. Questo nel cinema non si poteva rappresentare, quindi mi sono dovuta inventare una serie di stratagemmi per sostituire il pensiero di Marianna; si poteva introdurre una voce fuori campo, ma è una cosa troppo letteraria che il regista non ha voluto fare. Il pensiero si è trasferito nelle azioni, nei personaggi che parlano, nei dialoghi indiretti. Faenza comunque ha saputo vedere il centro della questione, cioè il rapporto di Marianna con i suoi familiari, con i suoi vicini, con la sua menomazione. Ha reso molto bene la pietà che ispira un personaggio negativo come quello del marito-zio, che è anche uno stupratore, che piano piano finisce per suscitare una grande pena, anche grazie all'attore Herlitzka, che è bravissimo. Quando è vestito il marito-zio è arrogante, con gli abiti ricchi, rossi, lussuosi. Quando si spoglia e si avvicina a questa ragazzina che ora è sua moglie, diventa un vecchio fragile e triste, con quelle spallucce magre e grinzose, non si può che provare un senso di pietà. Infatti anche Marianna, nonostante l'avversione verso questo marito impostole dal padre, prova un sentimento di affetto per lui. E questo è ciò che viene fuori con più evidenza nel film. Si capisce che tutta la storia di quest'uomo, di mortificazioni, di delusioni, di amarezze, lo porta ad essere una persona mutilata; che si accanisce contro un'altra mutilata, come spesso accade nella vita.

Accademia degli Artefatti,
"Altri altari"

- Può parlarci dei rapporti del romanzo col teatro? E dell'importanza del dialogo nel romanzo?
- Diciamo che il romanzo può essere immaginato come una linea orizzontale,
 
mentre il teatro è una linea verticale. Il teatro mette in rapporto l'uomo con Dio, con la trascendenza, mentre il romanzo rivela il rapporto dell'uomo con altri esseri umani. Il romanzo, per me, è sempre legato al tema del passaggio del tempo. Il perché del romanzo è sempre legato al perché del tempo. Non essendoci più canoni o regole, un romanzo teoricamente potrebbe essere lungo anche sole due pagine, ma in realtà non può, perché mima il passaggio del tempo, ha bisogno di un certo spazio per rappresentarlo. Rimanendo nelle metafore, il romanzo è simile allo scorrere di un fiume, il dialogo, che dovrebbe rappresentare movimento, curiosamente nel romanzo costituisce la stasi: la terra ferma. Il dialogo è il momento in cui tutto si fa presente. L'inquietante passaggio del tempo si ferma nell'attimo in cui si concretizza un dialogo. Il teatro è fermo, è immobile, instaura - a mio parere e per mia personale esperienza - rapporti verticali, legati al presente, all'attualità, anche quando parla di cose lontanissime. Invece il romanzo ha questa orizzontalità di cui parlavo, e il dialogo, nel momento che entra a far parte di un romanzo, lo immobilizza. Poi il tempo ricomincia a scorrere.
Io ho usato molto i dialoghi nei miei romanzi, forse anche perché amo il teatro, pur essendo consapevole della profonda differenza dei due linguaggi. Ma vanno ugualmente vissuti in modo diverso. Ho fatto un libro sperimentale, oggi introvabile perché non è più stato ristampato, che si chiama A memoria, ed è un romanzo quasi tutto fatto di dialoghi, dialoghi e lettere. Era un esperimento e non a caso è il mio romanzo di minor successo. Probabilmente proprio perchè il romanzo ha bisogno di intreccio, di scorrevolezza, di descrizione, di tempi ed accadimenti. Però non è che io sia la sola ad averlo fatto. La Compton-Barnett, una scrittrice inglese contemporanea che scrive in maniera molto sperimentale, ha fatto un romanzo Un dio e i suoi doni dove c'è solo dialogo. C'è anche un romanzo di Malcolm Lawry fatto di soli dialoghi. Mi pare che si chiami Marina. Ma questi esperimenti, queste provocazioni dimostrano ancora di più come sia poco romanzesco il teatro.
Io ho cominciato molto presto a scrivere romanzi e mi considero in effetti una romanziera, anche se ho scritto parecchio per il teatro: ho cominciato quando avevo 15 anni a scrivere romanzi. È una tradizione di famiglia: mia nonna, la madre di mio padre, scriveva libri di viaggi nei primi del '900. La mia casa era piena di romanzi inglesi. Io mi sono formata, sopratutto sui romanzi che parlavano di viaggio, come quelli di Conrad, di Stevenson, di Melville. Continuo ad tanto che recentemente ho tradotto un romanzo breve di Conrad che si chiama The secret shearer. Titolo intraducibile in italiano poiché "shearer" vuol dire "la persona con cui si condivide qualcosa" e non c'è una parola equivalente in italiano. Perciò ho lasciato il titolo di una precedente traduzione Compagno segreto. È un romanzo bellissimo, molto moderno, sul tema del doppio, dell'altro da sé. È la storia di un capitano che una notte, da solo sul ponte, tira su un naufrago e scopre che questi è uguale a lui, una sua copia; però il naufrago è anche un assassino che ha ucciso un marinaio in una rissa, per cui è un se stesso un po' inquietante. Lui lo nasconde per una settimana nella sua cabina facendo delle acrobazie per non farlo scoprire dagli altri marinai: infine lo lascia, con un'altra acrobazia, che quasi manda la nave contro le rocce, vicino alla riva per non farlo affogare. È un romanzo straordinario che vi consiglio di leggere. Per me è stata una grande esperienza quella di tradurre questo romanzo. Io penso che tutti gli scrittori dovrebbero tradurre, perché il lavoro della traduzione non può che arricchire: si decodifica e si ricodifica un libro, si riflette sulle strutture che si è forzati a distruggere per poi ricostruirle, e questo è un esercizio straordinario per chi scrive. Io credo di aver imparato molto traducendo. Ma comunque non è la prima volta che lo faccio. Ho sempre tradotto, quando potevo ho tradotto poesie, racconti, dialoghi.
I primi tre o quattro romanzi che ho scritto nei miei 20 anni raccontavano l'iniziazione alla vita sessuale, sociale, sentimentale di giovani ragazze, che in qualche modo partivano da esperienze che mi erano vicine; ma nello stesso modo mi erano lontane. E lì il dialogo aveva una funzione strutturale. Il dialogo è spesso usato dagli scrittori per far capire come vanno le cose o chi sono i personaggi. Questo si può fare, tutto è lecito in letteratura. Ma io ho una certa ripugnanza a servirmi del dialogo in questo senso, perché si appesantisce e diventa didascalico. Nei filmati televisivi i dialoghi sono tutti fatti così, in funzione della spiegazione, della rivelazione. Invece il dialogo ha una sua forma autonoma, una sua bellezza, un suo stile, che si ottiene lavorando sulle parole, e questo è ciò che spesso non capiscono le persone che hanno una visione funzionale della scrittura. Naturalmente la cosa più difficile è stabilire quale tipo di linguaggio si debba usare nel dialogo. Il dialogo ha bisogno di credibilità, di orecchiabilità, mentre la narrazione no; la narrazione può essere lirica o surreale mentre nel dialogo si sente immediatamente il bisogno di una certa aderenza alla realtà. Allora ci si chiede fino a che punto il dialogo debba essere legato alla lingua parlata. Chiunque abbia un po' di orecchio sente che la lingua parlata è opaca, poco espressiva e poco sensuale; è una lingua ridotta all'osso e oggi coesiste col mito del linguaggio tecnologico. Le macchine parlano inglese, parlano una lingua estremamente astratta; e siccome le macchine sono prestigiose e potenti, si tende a inseguire il linguaggio della tecnologia come il linguaggio del prestigio, del futuro, della forza di un popolo. Invece, secondo me, è esattamente l'opposto: il linguaggio della tecnologia è il luogo della debolezza linguistica. Tanto per cominciare, questo continuo riferimento a un'altra lingua, all'inglese ad esempio, che è tipico delle macchine, è una forma di servilismo linguistico. Ormai l'italiano è infarcito di parole straniere, soprattutto inglesi, e questa è certamente una malattia del linguaggio. Se veramente vogliamo appropriarci di un'altra lingua, allora facciamolo, e facciamolo parlandola bene. Invece non si parla l'inglese in Italia, ma si introducono continuamente nell'italiano parole straniere di cui non si conoscono nemmeno il significato e l'origine. Questa è una grande debolezza linguistica. Se voi fate un confronto fra il dialetto e la lingua vi accorgerete quanto sia più sensuale, più ricco di metafore e sensuale il dialetto rispetto all'italiano. Ora, io non dico di tornare ai dialetti, ma conservare una qualche vicinanza, una conoscenza con i dialetti, non sarebbe male. Si pensa che dove c'è il dialetto non possa esserci la lingua italiana. Perché no? Noi possiamo ben apprendere la lingua italiana e poi tenere un contatto auditivo, visto che i dialetti non sono scritti, con le lingue regionali, perché il dialetto suggerisce delle forme così dirette, così ricche, così immediate, intense, che non fanno che arricchire la lingua. Tutto questo rientra nelle riflessioni che si fanno quando ci si incontra con un dialogo, sia nel romanzo che nel teatro; il dialogo, se si allontana troppo dal parlato, rischia di risultare affettato, letterario; allo stesso tempo, se è troppo addentro alla lingua parlata, rischia di diventare mimenticamente povero, sordo, opaco, come è secondo me oggi la lingua parlata italiana. Noi usiamo normalmente poche parole, frasi infarcite di parole tecnologiche e termini inglesi, ci riferiamo continuamente ai gerghi, e soprattutto abbiamo perso quell'eleganza, quella vivacità che avevano i dialetti. La scommessa di uno scrittore è quella di costruirsi un linguaggio credibile - che non sia banale, fatto di luoghi comuni, gergale, convenzionale, ma nemmeno letterario e artificioso. Facendo spesso dei seminari con gente che vuole scrivere, sono tormentata dai gerghi, che sono i parassiti della lingua parlata e sembra che molte persone siano talmente infestate da questi parassiti da non riuscire a liberarsene. Questi gerghi li troviamo ovunque nel parlato dei mass media; sono spesso legati ad un gruppo sociale; ad esempio il gruppo degli psicanalisti usa un gergo. Però, mentre gli psicanalisti che stanno dentro il gergo conoscono l'itinerario che porta da A a B, ovvero sanno per esempio cos'è il complesso di Edipo, o il concetto dell'Ego di cui parlano, altre persone si appropriano delle formule psicanalitiche senza conoscerne l'itinerario, e questo da subito il senso di appicicaticcio, di qualcosa che non appartiene alla lingua parlata di cui in quel momento ci si sta servendo. E così avviene con il gergo politico, calcistico, medico, ecc. Sono linguaggi specifici di gruppi sociali prestigiosi di cui gruppi più sprovveduti si appropriano per fare sentire che anche loro sono partecipi di una cultura specialistica. Purtroppo il risultato è una lingua presa in prestito, che comunica un senso di falsità. Quando conduco i miei seminari, il lavoro che faccio prima di tutto, la terapia del linguaggio: cercare di liberare la scrittura dai gerghi che tanta parte hanno nel parlato quotidiano. Non dico che il gergo non possa mai essere usato, però deve essere fatto con una consapevolezza estrema, con una grande sofisticazione, come fa Gadda, l'unico che io conosco che li abbia adoperati come un intenso materiale espressivo. Però, appunto, ci vuole una forza linguistica che solo pochi hanno; di solito si è preda dei gerghi, non li si domina. Gadda invece prende i gerghi di svariati gruppi sociali, li mette insieme in una specie di calderone e li mescola, li bolle insieme e ne trae un materiale esplosivo. L'effetto che se ne ricava è il grottesco. Di solito invece i gerghi si usano mimeticamente, per dare una impressione di verità; finendo per cascarci dentro, diventando opachi anche essi. Quando vedete un pino con tutti i licheni gialli intorno, vuol dire che sta soffocando perché i funghi si sono attaccati alla sua corteccia. I gerghi fanno la stessa cosa con la lingua, sembrano abbellirla ma in realtà la soffocano. Il miracolo che deve fare lo scrittore è non perdere la credibilità e allo stesso tempo eliminare i gerghi. È un'operazione abbastanza complessa, difficile, che non sempre, pur con tutte le buone intenzioni, riesce. Lavorare all'interno di una lingua opaca e rigida per tirarne fuori la plasticità naturale, che nella nostra lingua c'è, checchè se ne dica, è dovere di uno scrittore. Alcuni vizi di cui siamo poco consapevoli ma che portano inevitabilmente al soffocamento della lingua italiana sono: 1) riferirsi continuamente in maniera snobistica a parole straniere. Io non faccio del nazionalismo; le lingue si possono imparare, ma a parte. La lingua italiana ha una sua struttura che va rispettata. Alle volte arriviamo a delle forme ridicole di servilismo linguistico; quando, per esempio, usiamo il plurale in "s" e non ce n'è assolutamente bisogno. La nostra lingua è dotata degli articoli determinativi, per cui se abbiamo già usato il plurale nell'articolo, risulta superfluo non meno che orribile dire "i leaders", "i films". È prendere a prestito un' "s" plurale dall'inglese, per puro spirito imitativo. 2) Leggere sempre in traduzione. È un errore perché la traduzione è pur sempre un compromesso fra l'assoluto della lingua di un autore, e la lingua del traduttore. Questo non vuol dire che non ci siano delle belle traduzioni, ma sono delle reinvenzioni, delle rivisitazioni arbitrarie. Nel leggere bisognerebbe conservare un 50% di spazio per un rapporto diretto con la propria lingua scritta. Molti sbagliano dicendo "Io parlo tutto il giorno l'italiano, lo conosco, lo scrivo." Il rapporto con la lingua scritta non è il rapporto con la lingua parlata. Lo sottolineo perché quando faccio i miei seminari e chiedo che cosa leggono, l'80% dei presenti dichiara di leggere solo traduzioni di libri stranieri, non leggono italiani, non sanno cosa siano i classici italiani. Questo è grave, e c'è di mezzo anche la responsabilità delle nostre scuole, che costringono a certe letture, senza farne capire il valore profondo. Per cui, una volta fuori dalla scuola, nessuno legge più. Però se uno vuole scrivere deve avere un rapporto con la lingua scritta del proprio paese. 3) Si legge poco. Molti pensano di saper scrivere perché vanno al cinema, o perché vedono alcuni filmati alla Tv e quindi hanno una conoscenza dell'italiano parlato. Ma spesso si tratta di un parlato in traduzione o passato attraverso delle manipolazioni che spesso lo modificano. Vi faccio un esempio. Traducendo dall'inglese, nel doppiaggio cinematografico, quando gli attori dicono "yes", non si può tradurre con "sì", perché "sì" è breve e "yes" è lungo, e i movimenti delle labbra sono diversi così hanno pensato, pessimamente, prendendo a prestito una parola gergale da ragionieri, di usare la parola "esatto". Ma quando mai si dice "esatto" nella vita di tutti i giorni! È orribile! Sembra incredibile che la lingua italiana possa essere influenzata da una cosa meccanica come questa.
Spesso in Tv gli attori degli sceneggiati usano un linguaggio che sembra quello della previsione del tempo, così artefatto, così burocratico, così poco reale, così legnoso e goffo. La lingua per rivelarsi espressiva deve essere sensuale, morbida, inventiva, diretta. Quelle forme ragioneristiche e burocratiche insegnano solo a legare e immmobilizzare e chiudere e imbalsamare la lingua. Più si va dentro alle questioni sul linguaggio e più si scoprono cose che non funzionano, vere e proprie malattie del linguaggio. Ricordiamo che il linguaggio è un organismo vivente, e quindi soggetto a malattia e a morte. Le parole cambiano di significato, modificano il loro senso e il loro peso. Continuo con gli esempi, perché sono chiarificanti: stavo facendo una sceneggiatura con Margherete Von Trotta, e a lei piaceva molto la parola italiana "magico", ma io le dissi che non era il caso di usare quella parola: "perché" le dico, "ti sei guardata intorno? Prova a guardare i muri di Roma," le ho detto, "tappezzati dalla frase calcistica: `magica, magica Roma!'" Ecco che la parola "magica" si è logorata, è entrata nel gergo sportivo, ha perso la sua freschezza. Lo scrittore deve stare con l'orecchio teso; non può utilizzare parole svuotate e vanificate.
Chi scrive deve essere fare grande attenzione a quello che succede al linguaggio, tanto a quello scritto quanto a quello parlato, che sono due cose diverse, ma complementari.
L'ultimo libro che io ho scritto si chiama Voci ed ha la struttura di un poliziesco. Si parte da un delitto: una donna viene uccisa e la vicina di casa che fa la giornalista radiofonica, Michela Canova, si chiede chi possa essere stato. Riflettendo si rende conto che non sa niente della vicina assassinata e incomincia una specie di investigazione giornalistica andando in giro con un registratore a tracolla e raccogliendo voci, come un altro raccoglie notizie. Analizzando queste voci, mettendole a confronto, piano piano Michela arriva a scoprire la verità su questo delitto. Quello che mi interessava non era tanto il poliziesco in sé quanto piuttosto questo lavoro sulle voci, sul linguaggio della creazione e su quello della funzione. Naturalmente ci sono tanti avvenimenti in questo romanzo; tanti temi vicini alla violenza contro le donne, una cosa che mi sta particolarmente a cuore. È strano che noi donne pensassimo che con l'emancipazione la violenza sarebbe diminuita, creandosi una maggiore armonia tra i sessi. Invece no: la violenza sui bambini e sulle donne è in continuo aumento: lo strupro e la pedofilia sono cresciute ovunque. Io non so perché, non è così semplice da spiegare, e sicuramente le ragioni sono tante. Comunque questa è una cosa che mi inquieta. Credo che tutti siamo investiti della violenza che viene fatta ai più deboli; anche se non viene fatta a noi, ci riguarda perché la
violenza è un fatto culturale, non solo un fatto di cronaca, è un fatto che ci tocca da vicino. Dunque cerchiamo di capire perchè succede tutto questo. L'investigazione di questa giovane giornalista radiofonica che raccoglie voci è anche un itinerario alla ricerca delle radici della violenza.
 
- Pensa che esistano punti di contatto fra il giornalismo e la scrittura?
- Ci sono dei punti di contatto fra giornalismo e scrittura, soprattutto nei suoi momenti narrativi. Però c'è una differenza di base e consiste nel fatto che la scrittura non ha finalità mentre il giornalismo è di solito finalizzato. Voglio dire: un articolo di giornale ha il fine di informare, di divulgare, di polemizzare, o altro. Invece uno scritto creativo non ha alcuno scopo, è fine a se stesso. E questo cambia moltissimo non tanto la qualità - poiché può esserci un giornalismo di alta qualità - quanto piuttosto la prospettiva con cui ci si avvicina al linguaggio. Sono due modalità diverse. Una volta nei giornali c'era più spazio per la parte creativa della scrittura: c'erano gli elzeviri, le terze pagine, gli interventi degli scrittori, dei poeti. Oggi questa parte è molto ridotta e si tende a ridurla sempre di più. I giornali moderni sono fatti in maniera più rapida, funzionale, immediata, per cui lo scrittore, se interviene nelle pagine di un giornale, lo fa per portare un'opinione e non più per fare un esercizio di stile. Insomma, l'elzeviro è scomparso. I rapporti tra scrittura e giornalismo si sono fatti lenti, lontani. Io stessa faccio del giornalismo, ma solo quando voglio comportarmi da cittadina consapevole e partecipe: lo considero uno strumento di intervento quasi politico, di politica culturale. Il mio rapporto con la lingua, nel momento in cui scrivo per un giornale è diverso, più legato a quella cosa immediata che voglio dire, mentre quando scrivo un romanzo posso spaziare, avere tempi diversi, passeggiare con la mente, prendermi spazi che non corrispondono a quelli immediati del giornalismo.
 
- Ha mai scritto canzoni?
- Ho scritto con Pasolini una canzone, una canzone molto semplice, che si accompagnava a un film. Ma in generale io scrivo poesie. La poesia è molto diversa dai versi di una canzone. Nelle canzoni la rima è ancora molto importante, mentre la poesie moderna l'ha totalmente abolita; anzi, direi che la rima fa pensare automaticamente ad una canzone, e richiede un accompagnamento musicale. Non che la poesia faccia a meno del ritmo, che è essenziale per la scrittura, ma si è lasciata indietro la metrica e la rima, ciò non vuol dire che non ci sia una struttura armonica, quasi matematica all'interno della poesie. Da ultimo, un amico musicista, Giuseppe Moretti, ha musicato delle mie poesie.
- La poesia, però, fa largo uso di ripetizioni. Esattamente come la canzone...
- L'uso della ripetizione ha la funzione di introdurre il lettore in un mondo sospeso, onirico. Infatti la ripetizione è tipica delle formule magiche, delle preghiere, delle ninne nanne: attraverso una formula verbale si entra in una specie di ipnosi, in un mondo del sonno e della visionarietà. La ripetizione in letteratura ha spesso questo scopo: introdurre nel mondo della logica un granello che ne inceppi il meccanismo e metta in evidenza un elemento di surrealtà, non prevedibile e quindi sorprendente.
- Come nascono i suoi personaggi?
- Parlando per me, poiché ognuno ha il suo metodo di scrittura, e parlando per metafore, la mia mente è come se fosse una stanza vuota che viene visitata da dei fantasmi. Questi, come tutti i fantasmi, vengono, stanno, poi se ne vanno. Quando un fantasma comincia a rimanere nella stanza della mia mente e comincia a chiedere di farsi corpo, questo è il momento per me di incominciare a scrivere un libro. Io scrivo di solito perché sono spinta e spesso anche ossessionata da un personaggio. Il coagulo attorno a cui comincia il progetto di un libro, è sempre un personaggio, non necessariamente un protagonista, ma qualcuno attorno al quale comincio a divagare con l'immaginazione. In questo senso sono pirandelliana: penso che sono i personaggi che vanno in cerca degli altri autori, ed hanno una loro autonomia. Questa è la mia esperienza: i personaggi vengono e bussano, vengono e chiedono, e spesso si crea un dialogo fittissimo, una specie di corpo a corpo col personaggio in visita: per esempio, nel caso di Marianna Ucría io non avevo nessuna intenzione di scrivere un romanzo storico, perché mi sembrava un'impresa enorme, non l'avevo mai fatto e non avevo voglia di farlo.
Ma Marianna era così insistente, così rompiscatole, così assillante, che mi sono dovuta rassegnare a parlare di lei. Non è un gioco della fantasia, è proprio così: i personaggi, prima nella mente e dopo sulla carta, ancora di più sulla carta, acquistano una loro autonomia. Ci sono dei momenti in cui il personaggio si impunta e vuole fare una cosa, mentre tu ne hai in mente un'altra. Ma
devo dire che di solito hanno ragione loro. Io, come un direttore d'orchestra, sono più propensa a considerare le ragioni dell'insieme, penso alla struttura del romanzo e alle sue armonie; è come una architettura che deve stare in piedi. Invece il personaggio ha una specie di assillante fedeltà al suo destino personale, ed ha ragione poiché ogni personaggio deve seguire il suo destino. Qualche volta l'autore cerca di strapparlo al suo destino o di fargli fare un cammino che lo porti fuori dalla sua strada perché ha delle preoccupazioni d'insieme. Ma il personaggio con la sua cocciuta fedeltà a se stesso ha sempre ragione: dopo anni che scrivo me ne sono convinta. Bisogna dar retta ai personaggi, perchè hanno una profonda conoscenza di se stessi. Come Madama Pace o la figlia, che nei Sei personaggi in cerca d'autore, dire "Io sono la storia. Voi che ne sapete, io so chi sono". Questo è il personaggio. Porta dentro di sè la storia e pretende di essere raccontato. Questo è per me il rapporto coi personaggi. Può diventare conflittuale o difficile, ma deve poi in qualche modo risolversi, poiché non si può imporre niente ai personaggi. Se uno disprezza i personaggi, poi essi si vendicano. Il personaggio, anche quando rappresenta qualcosa che noi detestiamo, non può essere disprezzato. Il personaggio, perfino quello che agisce nel modo più vile e volgare, deve ottenere il nostro rispetto narrativo. Il giudizio morale sul personaggio, che può essere anche completamente negativo, deve in qualche modo dividersi dal giudizio estetico. Vi faccio un grande esempio: Riccardo III. Forse è il personaggio che più rappresenta il male fine a se stesso. Riccardo III non ha ragioni per agire come agisce, fa il male per il piacere di farlo: il piacere di tradire, di uccidere, di vedere soffrire. Eppure Shakespeare non lo disprezza mai, nonostante che lo giudichi con molta severità - in certi momenti si sente che lo odia - però non lo disprezza come personaggio, e infatti è un grande personaggio. Questa è una cosa che io ho imparato a mie spese: quando il giudizio morale ha prevalso sulla qualità del personaggio, questi si è spento tra le mie mani, mi è morto nelle pagine del racconto.
 
- Ma lei ha scritto anche di cronaca. Isolina non è ispirato ad un fatto vero?
- Sì, Isolina è un romanzo-documento che si ispira ad un fatto di cronaca. Naturalmente c'è dentro una tensione narrativa, ma i fatti sono presi dal vero e mantengono un carattere cronachistico. Sono andata a Verona, ho raccolto la storia di questa ragazza di 19 anni fatta a pezzi, e l'ho raccontata. Ho diviso la narrazione in tre parti: nella prima parte racconto la storia attraverso i giornali dell'epoca perché altri documenti non ne esistono - la città ha voluto disfarsi di questo ricordo increscioso. Nella seconda parte racconto come io mi sono avvicinata alla storia: il mio viaggio a Verona, la ricerca di strade che hanno cambiato nome e fisionomia, il tentativo di rintracciare la memoria di questa ragazzina morta così giovane, della quale non è rimasto niente, la visita al cimitero, la ricerca dei documenti negli archivi, ecc. Nella terza parte racconto del processo al militare imputato dell'omicidio. Pur dando un giudizio storico e morale, ho cercato di tenermi abbastanza distaccata da questa materia. Ci sono molti modi per raccontare una storia. Nel mio caso c'era attenzione anche per il personaggio dell'assassino. Volevo capirlo prima di giudicarlo. Credo di averlo scrutato molto da vicino, senza mai disprezzarlo fino alla fine.
 
- Secondo lei, esiste una scrittura femminile riconoscibile come tale?
- Sì, penso che esista una scrittura femminile ma non nei termini di cui si parla di solito, ovvero in termini di stile o di contenuto, questi dipendono dalla personalità di chi scrive, che si tratti di uno scrittore o di una scrittrice. Se esiste una scrittura femminile, è quella scrittura che assume una soggettività storica, diciamo quindi una questione di punto di vista, una questione di prospettiva. Quando un uomo si mette a scrivere un libro assume una soggettività che non è solo la sua, personale, ma è anche di genere ed è storica. Insomma si può dire che il neutro scrivente non esiste: nemmeno gli scienziati possono pretendere di essere neutri; c'è sempre una prospettiva, che qualche volte si identifica con l'universale. Il genere maschile infatti si è da millenni autoidentificato con l'universale. Così anche nella grammatica italiana, l'universale è maschile e il femminile ne è la derivazione. Dove ci sono un genere maschile e uno femminile, l'aggettivo si coniuga al maschile, soggiacendo ad una vera e propria gerarchia. D'altronde non è che si possa modificare il linguaggio in quattro e quattro otto. Ma è importante essere consapevoli di questa gerarchia.

Accademia degli Artefatti,
"Un pezzo d'occasione"
 
Infine, quando una donna scrive assume una soggettività storica che è anche di genere. Il suo sguardo, per quanto pretenda di essere "obiettivo" ed universale, avrà sempre una prospettiva femminile, un'ottica femminile. Che non c'entra niente con lo stile o tantomeno col contenuto. Sarebbe troppo semplice. Non è che le donne parlino solo delle cose che riguardano le donne. Per fare un esempio: c'è un libro di Patricia Highsmith, grande scrittrice di gialli atipici, che introduce un concetto molto nuovo nella letteratura: il concetto del mistero maschile. Noi siamo talmente abituati al mistero femminile, che questo è diventato una specie di mito, un archetipo della nostra cultura, ma naturalmente il mistero femminile scaturisce da una lunga pratica della scrittura fatta da uomini. Il mistero femminile è perciò il risultato di un'ottica maschile - lecita e giusta: un uomo che guarda le cose vede le donne come un altro mondo e di conseguenza le trova misteriose. La Highsmith rovescia la prospettiva e guarda l'uomo come simbolicamente misterioso. La donna scrivendo, si fa soggetto e vede l'altro da sé come lontano e impenetrabile, rovesciando le prospettive può succedere questo. Le due cose sono lecite entrambe. Nel mondo delle lettere dovrebbero essere ammesse entrambe. Finora invece la prospettiva femminile l'abbiamo vista poco, e anche quando è stata presente ha contato poco dal punto di vista del prestigio e delle istituzioni letterarie. Adesso però le cose stanno cambiando: che si possa vedere il mondo da una prospettiva maschile e da una femminile senza provocare scandalo o paura, comincia ad essere ammesso.
 
Accademia degli Artefatti, "Altri altari"
- Cosa ne pensa del teatro?
- Volendo parlare per immagini, vedo il teatro come una linea verticale che, dall'interno di un pozzo si collega col cielo, quindi qualcosa di molto angusto e chiuso che si collega con l'universo. Il romanzo invece è una linea orizzontale. Ma voglio spiegarmi meglio: sappiamo che il teatro nasce come il luogo delle grandi questioni che mettono in rapporto l'uomo con la trascendenza. Il teatro è nato come lo spazio in cui ci si interrogava sul destino dell'uomo, sul suo rapporto con la morte e col cielo. Il teatro è sempre stato un luogo sacro, riservato, sessista; tanto è vero che le donne sono state tenute fuori. Erano considerate impure e, in quanto tali, escluse. Nel teatro greco le donne erano tabù, non potevano restare né tantomeno salire sul palcoscenico; le parti femminili erano rappresentate da uomini con una maschera femminile. L'attore, all'inizio, usciva dal retro della skené e metteva questa parrucca che rappresentava Medea o Clitennestra o Fedra, grandi personaggi femminili anche se le donne non erano ammesse nemmeno in platea. Nel teatro romano era lo stesso. Soltanto con la decadenza romana, nel 50 a.C. si sono avute delle donne sulla scena, anche se in veste soltanto decorativa. Il teatro medievale non faceva eccezione: era recitato da frati che si travestivano da Madonna, da Sante e da Vergini. In Oriente, le stesse regole: ancora oggi nel teatro No le donne sono assolutamente escluse, è un teatro tutto di uomini che usano per le parti da donna maschere e abiti femminili, proprio come facevano i greci. Soltanto nel Rinascimento, con la nascita della Commedia dell'Arte, si hanno per la prima volta delle donne in scena, e non solo per recitare storie altrui ma per rappresentare la propria voglia di libertà. Una cosa mai immaginata, esplosiva. E questa è stata la ragione del grande successo della Commedia dell'Arte. Vi diranno che la Commedia dell'Arte ha avuto tanto successo perché era il trionfo dell'improvvisazione, perché c'era l'allegria delle maschere, un vero teatro popolare, ma non è così. La Commedia dell'Arte ha avuto un successo strepitoso fino alle corti di Polonia, di Spagna, di Parigi, soprattutto perché, per la prima volta, portava le donne in scena e le faceva esprimere in prima persona, anche se in maniera stilizzata, i propri interessi. Poi purtroppo andando avanti nei secoli, siamo tornati indietro rispetto a quel momento di libertà.
La sacralità del teatro continua con il teatro borghese, seppure fortemente modificata, ma sempre mantenendo questa struttura verticale.
Il romanzo invece, come detto ho prima, racconta il mistero del passaggio del tempo. Tutto il romanzo, che si svolga ieri, o cento o mille anni fa, è basato su questo mistero che si cerca di interpretare o di scoprire senza riuscirci mai.
- In che conto tiene le descrizioni nella sua narrativa?
- Le descrizioni fanno parte del flusso, dello scorrere del romanzo. Il romanzo antico era tutto fatto d'azione, e la cosa curiosa è che oggi è il romanzo commerciale a proporre l'azione come base della lettura: il romanzo di spionaggio, di fantapolitica, di fantascienza. I grandi best seller sono quasi tutti romanzi d'azione. Si tratta di ciò che resta del romanzo antico: le gesta di un eroe che parte alla ricerca di un bene perduto o alla conquista di un trofeo e si trova a dovere superare molte e difficili prove. Oggi, sia il teatro che il romanzo hanno introiettato gli avvenimenti, per cui tutto avviene all'interno della psicologia e della coscienza del personaggio. Il tempo del romanzo moderno è tutto interiore. L'Ulisse si svolge in una sola giornata, ed è un magma di pensieri, di parole, di fantasie, c'è di tutto dentro quel libro. E naturalmente, la descrizione si cimenta soprattutto col pensiero anziché con l'azione.
- Lei perché scrive? Crede di avere un messaggio da dare?
- Per me scrivere è un piacere, quindi è un atto fine a se stesso. Non credo di raggiungere qualcosa attraverso la scrittura; non ho nessun messaggio da dare. Quando incomincio a scrivere, e lo faccio di solito ogni mattina presto, mi metto davanti alla macchina (non uso il computer, perché ho paura di cancellare ogni cosa, e poi devo dire che mi piace la carta come materiale organico) e provo un piacere fisico a stare lì e a riempire la carte di segni. C'è un momento quasi di ubriachezza quando ci si mette davanti ad un foglio bianco. Naturalmente poi alla scrittura seguono altri momenti meno felici come quello di doversi confrontare con gli editori, con il mercato dei libri, con i critici. Ma sono tutte cose che vengono dopo. La finalità prima dello scrivere è la gioia di farlo. Nessuno al mondo ti lega alla sedia. Ed è anche una fatica, scrivere. È una gioia e una fatica. Chi ti costringe a passare per trenta anni 6 o 7 ore al giorno davanti alla macchina da scrivere? Lo fai solo se hai una passione. Fra l'altro la letteratura non rende. Io sono arrivata adesso, dopo 40 anni di lavoro, a guadagnare bene, ma per tantissimi anni io ho ricavato pochissimo dalla mia attività. Quasi tutti gli scrittori italiani fanno un altro mestiere. Da noi si sa si legge poco, e gli scrittori di conseguenza devono arrabattarsi con qualche altra attività redditizia. Non è un mestiere gratificante dal punto di vista economico. Per una o due persone che guadagnano bene, ce ne sono tante che tirano la cinghia. Non è un mestiere che si fa per guadagnare, ma per passione e perché non se ne può fare a meno.
- Come mai lei ha trattato sempre personaggi femminili?
- Qualche volta ci sono anche personaggi maschili che bussano alla mia porta. In Marianna Ucrìa il marito-zio per esempio nasce come un personaggio nemico e incomprensibile; però poi conoscendolo meglio e praticando è nata la pietà e questo accade solo quando il personaggio passa attraverso un'attenzione profonda dello scrittore. Ci sono tanti padri che abitano i miei romanzi: io sono stata una bambina innamorata del padre, chi conosce i miei libri lo sa. L'ho molto idealizzato, l'ho molto amato, l'ho molto sognato, e nei miei libri il rapporto col padre è sempre presente.
Di scrittori maschi che scrivono di personaggi femminili ce ne sono tantissimi, però se andate ad analizzare, vi accorgerete che ogni scrittore che inizia un processo di identificazione con un personaggio femminile, ad un certo punto prende le distanze da esso. L'identificazione totale con un personaggio femminile non è possibile per uno scrittore, rischierebbe di perdere la sua identità. Pensiamo a Madame Bovary che è un grande esempio di questa contraddizione: certamente Flaubert ha molto amato Emma fino ad identificarsi in lei: ma alla fine l'ha odiata. A tal punto da punirla con una violenza, con un sadismo che colpiscono per la loro ferocia: tre capitoli sulla morte della sua eroina, una agonia che non finisce mai, un accanimento nel descrivere il vomito di sangue, il taglio dei capelli, la bocca come un buco nero ed orribile. Flaubert che quasi s'è sbilanciato nel suo immedesimarsi col personaggio femminile, ha poi sentito il bisogno di mettere le mani avanti per non farsene travolgere. E si capisce che l'allontanamento è stato durissimo e crudele.
 
- Quando ha cominciato a scrivere e perché?
- Ho cominciato spinta da una grande passione: fin dai 10 anni sapevo che avrei scritto, forse anche perchè era una tradizione di famiglia, e andavo scrivendo dappertutto, dovunque, anche a scuola, e infatti sono stata spesso punita perché avevo questa mania di scrivere sui libri. Se non avessi avuto questa passione, probabilmente avrei smesso, perché sono stata scoraggiata in tutti i modi: il primo romanzo è stato un vero e proprio calvario, sono stata trattata malissimo dai critici, dai letterati, ho avuto degli attacchi forsennati, delle cose sgradevolissime, offensive. E avrei potuto smettere. Ma essendo presa da questa passione che mi rendeva un po' incosciente, andavo avanti lo stesso. La passione è una forza che supera qualunque ostacolo.
 
- Come comincia un libro?
- La mia attenzione si concentra sempre su un personaggio. Per esempio, dato che gli esempi sono sempre molto illuminanti, quando ho deciso di scrivere Marianna Ucrìa non sapevo cosa avrei scritto di lei. Il personaggio mi affascinava per la sua menomazione, e poi perché scriveva, ed aveva un grande rapporto con la scrittura: la scrittura era per lei primaria, necessaria alla comunicazione, non era una scelta estetica. Questo mi ha colpito del personaggio e mi ha portato a scriverne. Quando poi è uscito il libro, ho ricevuto molte lettere e poi mi è stato detto mille volte, in circostanze come questa di oggi con voi, che Marianna simboleggiava il silenzio femminile oppure il silenzio storico della Sicilia. Sinceramente non ci avevo mai pensato. Evidentemente questa carica simbolica è una cosa che si portano appresso i personaggi e nasce a posteriori. Sono convinta che Cervantes, tanto per fare un esempio, non ha mai pensato a Don Chisciotte in termini simbolici: il libro voleva essere la caricatura del romanzo cavalleresco. Cervantes trovava ridicolo che tutta l'Europa stesse a sdiliquirsi sullo stucchevole romanzo cavalleresco; lui ne vedeva il lato umoristico, grottesco. Eppure Don Chisciotte è diventato un archetipo, un simbolo; ma Cervantes pensava semplicemente a un personaggio che lo divertiva, che gli stava a cuore, che gli assomigliava, in qualche modo, che conteneva la caricatura e la tenerezza. Solo dopo è diventato un personaggio emblematico. Può darsi che io sbagli, ma non credo che uno scrittore pensi in termini simbolici quando tratta un personaggio.
Mi capita di essere raggiunta da un personaggio nelle situazioni più strane e diverse, quasi sempre assolutamente imprevedibili. Io scrivo la mattina perché mi sento più fresca; qualche volta se ho urgenza di finire un lavoro, scrivo anche il pomeriggio. Non parto mai dalle scalette, come si usa nel cinema. Non so mai come andrà a finire una storia. Persino quando ho scritto Voci che è un romanzo poliziesco, fino agli ultimi capitoli io non sapevo chi fosse l'assassino. L'ho scoperto interrogando i personaggi. Anche nel teatro è lo stesso, ognuno ha il suo metodo; non ce n'é uno sbagliato e uno giusto. Io comincio con la suggestione di un personaggio, di una situazione; poi, conoscendo meglio questo personaggio descrivo le azioni che nascono fuori dal personaggio; la realtà si modifica attraverso le azioni dei personaggi e dei loro rapporti con altri personaggi.

 

Masque, schizzo per "Nur Mut"
- Qual'è il suo procedimento creativo?
- Io riscrivo molte volte i miei romanzi, anche sei o sette, dieci volte e non finirei mai di riscriverlo. Certe volte me lo strappano proprio dalle mani. Io andrei avanti a riscrivere, ogni volta vorrei aggiungere, modificare, e se andando avanti modifico, poi devo tornare indietro a rivedere quello che ho già scritto. Una continua tela di Penelope.
C'è un momento però in cui senti che hai finito. Ma essendo io una perfezionista, non sono mai contenta del risultato. Anche se la struttura ha una sua forma e c'è un momento in cui si può dire che un romanzo è finito, non c'è niente da aggiungere.
Quando comincio sono presa dall'entusiasmo: poi andando avanti viene l'ossessione di perfezionare la forma, e spesso ti allontani dal progetto iniziale. C'è questo assillo di migliorare, di perfezionare, di cambiare. Sono sempre presa dai dubbi.
- Come si è trovata a scrivere un romanzo giallo come Voci?
- Se io scrivo un romanzo poliziesco, chiaramente non posso prescindere da una serie di regole legate al genere. Non posso andare tra le nuvole, perché il poliziesco è un gioco di scacchi, ha delle regole precise. Se si esce dalle regole si finisce col fare un'altra cosa, non sarà più un giallo. Se scelgo di scrivere un romanzo di investigazione, io scelgo di contenere tutto quello che immagino, anche di magmatico, dentro una struttura fissa. Se invece scelgo un romanzo epistolare come Dolce per sé mi lascio andare alle dispersioni del pensiero, al piacere del ricordo, alla casualità delle connessioni, dato che la struttura è meno fissa, meno rigida. Tutto dipende dal tipo di struttura che si sceglie.
- Che rapporti ha con la tecnologia, la considera una conquista di segno maschile?
- La tecnologia non è maschile, ma si presenta come lo strumento principale per la conquista del potere. La tecnologia oggi è la sapienza più legata al potere. Quindi per un giovane che entra nel mondo del lavoro, la tecnologia è vista come una necessità per fare carriera. Il suo modo di intervenire nel mondo del lavoro sarà legato al dominio della tecnologia. C'è una corsa ad impadronirsi degli strumenti tecnologici, quasi che fossero i soli capaci di aprire l'accesso alla proprietà e alla conquista. Invece le materie umanistiche sono affidate soprattutto alle donne, o comunque le donne scelgono in prevalenza in questa direzione. Me lo diceva qualche giorno fa anche un'insegnante di scuola media: che i ragazzi sono stregati dal computer, mentre, le ragazze scelgono spesso altri strumenti culturali. Però non è una regola assoluta. Ci sono anche dei ragazzi attratti dalle materie umanistiche, ma sono una minoranza. Questa separazione è chiaramente artificiale, legata alla tradizionale divisione dei compiti che, nonostante l'emancipazione, è rimasta nel fondo, invariata. Continuare a dividere il mondo in competeze tecnologiche e competenze umanistiche, uomini da una parte e donne dall'altra, mi sembra un impoverimento. È importante che si creino scambi tra una parte e l'altra. Le competenze devono essere il frutto di una scelta personale, secondo il gusto, il talento di ognuno, e non una eredità storica che ci viene imposta dalla divisione dei sessi.
 
Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna