- Come mai una scrittrice di romanzi - poiché
avevo 16 anni quando ho cominciato a scrivere il
mio primo romanzo - poi si dedica al teatro?
Probabilmente perché il dialogo mi ha sempre
interessato molto; comunque c'è anche un'altro
aspetto del teatro che mi piace, che mi
affascina, ed è il lavoro collettivo. Il teatro
non funziona se non c'è la collaborazione
appassionata di più persone. Ci sono momenti
solitari, come quello della vera e propria
scrittura, ma poi questa scrittura viene messa
continuamente a confronto con un gruppo, un
regista, degli attori, e questo comporta una
continua dialettica. Mi e sempre piaciuto
interrompere l'attività solitaria della
scrittura per andare a discutere, fino a rompermi
la testa con attori e registi e scenografi. Ho
partecipato a tante compagnie, e devo dire che
nei momenti di maggiore entusiasmo, che
corrispondevano anche a momenti di povertà
assoluta, si litigava parecchio, si litigava per
questioni di necessità, su come spendere quei
pochi soldi che avevamo, per comprare una stufa
piuttosto che un riflettore, pagare il nostro
lavoro o dedicare lo scarso incasso per
migliorare le scene. Ho fatto 3 anni a
Centocelle, un quartiere povero di Roma, con ben
130.000 abitanti, una vera città. Era il momento
in cui si pensava di dover dare voce a chi non
l'aveva; c'era questo entusiasmo che ci
trascinava verso le periferia; e Centocelle era
una periferia disastrata dove non c'era un
cinema, né un teatro, né un giardino pubblico:
le grandi case del quartiere dormitorio erano
venute su con la speculazione. Noi, un gruppo di
attori ed io, abbiamo pensato di andare a
Centocelle e lì abbiamo fondato un teatro di
quartiere: recitavamo in strada, nelle scuole,
davanti ai mercati, nelle cantine. Tutto questo
è stato una buona scuola per me: ho imparato a
fare ogni tipo di lavoro in teatro. L'unica cosa
che non ho fatto è recitare, non mi piace; ma
tutto il resto, dalle luci alla scenografia,
dalla sartoria al suggeritore, l'ho fatto. Non
per megalomania, ma perché non c'erano
specialisti che fossero disposti a lavorare senza
essere pagati e perciò dovevamo arrangiarci da
soli, ci dovevamo arrangiare da soli. Questo è
stato faticosissimo ma anche molto utile. Ho
imparato a muovermi in teatro, non da scrittrice,
ma da persona che si rimbocca le maniche e fa,
agisce. Ho imparato tutto quello che si può
imparare sulla tecnica teatrale, e tutto mi è
stato molto molto utile quando mi sono messa a
scrivere, perché scrivevo sapendo già come ci
si muove in scena, sapendo cosa sono le parti
calde e le parti fredde del palcoscenico, come
arriva la voce, cosa vuol dire l'illuminazione
dall'alto, dal basso, di fianco, ecco. Con quei
pochi riflettori che avevamo dovevamo creare una
strategia artistica e luminosa che stesse in
piedi. Uno dei miei testi più di successo è
stato "Suor Juana" (Inez de la Cruz):
su una monaca scrittrice vissuta in Messico nel
1600. Il destino di un corpo legato alla
scrittura mi ha sempre interessata, come nella
storia di Veronica Franco, insieme poetessa e
prostituta. Ma il suo non é un caso isolato: nei
secoli passati era assai più facile trovare
delle scrittrici in convento o in un bordello di
lusso che non nella vita comune. Una donna che
faceva vita di famiglia non aveva spazio né
tempo per dedicarsi alla scrittura: una monaca
invece, sempre all'interno di una concezione
religiosa, poteva dedicarsi alla scrittura. Allo
stesso modo, curiosamente, una cortigiana poteva,
per intrattenere i suoi ospiti, diventare una
poetessa e una intellettuale di valore, cosa
inconcepibile per una madre di famiglia. Con il
testo su Suor Juana Inez de la Cruz sono
arrivata a fare uno spettacolo per 9 attori con 2
attrici. Ho usato dei manichini, ho usato delle
voci registrate. Per ricostruire il convento ho
tirato su uno schermo e le attrici più io più
quello che stava alle luci, tutti vestiti da
suore, giravamo dietro questo paravento
illuminato e il nostro passaggio dava l'illusione
che ci fossero tante suore che pregavano. Era la
moltiplicazione delle suore ottenuta attraverso
un trucco tipicamente teatrale, di quei trucchi a
teatro, ne ho imparati parecchi. Ripensandoci, a
posteriori, si può dire che era anche divertente
lavorare in queste condizioni di difficoltà, ma
che fatica!
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- "Per quanto tempo mi sono rotta / gli occhi
e il cuore in una / cantina bianca di calce e di
miseria? / ... / Ho girato e rigirato quattro
fiochi / riflettori da cinquecento watt per /
cercare di ricavarne luce per ogni scena. / Ho
comperato stracci, cappelli usati, / parrucche da
poco prezzo, ho affittato / scarpe e stivali
contrattando sul prezzo / caparbiamente, ho
dipinto pareti, / costruito panche, fabbricato
montagne / di cartone, tirato su città di tela,
/ impastato maschere di gesso, appuntato / gonne
di carta, disteso fiumi di stagnola / e laghi di
iuta, intagliato barche / nel compensato,
ricavato coltelli dalla / latta, mobili dal
sughero, finestre / dalla gomma sintetica e
uccelli dal ferro (...)". (Dacia Maraini,
Attori e altri attori, Giugno 1970).
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