Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna
DACIA MARAINI E IL TEATRO: una storia di trent'anni e più di Laura Mariani |
Non è certo una legge, ma quando ho cercato donne di lettere compromesse col "teatro vivente" e in esso attive dall'interno, mi sono trovata davanti scrittrici particolarmente prolifiche: così è stato con Sibilla Aleramo e con Colette, che hanno fatto della scrittura, oltre che un'arte, un mestiere da esercitare quotidianamente e a tanti livelli. E un po' lo stesso è per Dacia Maraini, che ha creato il suo primo romanzo quando non era ancora fuori dell'adolescenza e al teatro si è ampiamente dedicata. Autrice di oltre venti pièces e di altre traduttrice (ad esempio di quelle di Gertrude Stein), attenta al presente - con recensioni, interviste, riflessioni sullo stato di salute del teatro italiano dal punto di vista artistico, economico, legislativo - e interessata alla storia, Dacia Maraini ha promosso varie imprese, assumendo diversi ruoli tranne quello di attrice: dal Teatro di via Belsiana all'intervento a Centocelle, fino alla Maddalena, sempre a Roma.
Alle origini di tanta passione, di un così durevole impegno, ci sono certo vari motivi ma ne vorrei qui segnalare uno perchè ha lasciato tracce in tutta la sua opera letteraria, ora ponendosene al centro ora re-citandone alcuni frammenti. Parlo della memoria dell'infanzia: che si è nutrita di immagini e di persone che l'hanno indirizzata e quasi educata all'incontro col teatro in quell'"isola delle differenze" che è la Sicilia1. Così, in Bagheria (Milano, 1993), rivedendo i luoghi in cui giunse bambina, trasferendosi da Tokyo a Palermo, città d'origine della madre, Dacia Maraini nota la propensione al travestimento di tanta architettura siciliana, nostalgica di un Settecento a sua volta travestito con trine e drappi, in un moltiplicarsi di "metamorfosi inquietanti". Tutte quelle finestre finte che adornano spesso i palazzi altro non sono che "piacere della rappresentazione. Come a dire che l'esterno delle case inventa un interno, forse non vero, forse solo immaginato, ma probabilmente più reale e più affascinante di quello che sta al di là della parete". Ricorda poi la festa del patrono nell'anno in cui cielo e terra entrarono in competizione coi loro giochi di fuoco, e in modo imprevisto quelli artificiali gareggiarono con lampi e tuoni "veri": di nuovo la contiguità tra vita e teatro si presenta come una sollecitazione viva della memoria2. Ai suoi occhi Palermo è stata "la città dei teatri", ed ora che sono per lo più scomparsi al loro posto, a mo' di lapide, nasce il sommacco, una pianta che predilige le rovine e lì si insinua per mettere radici3.
Scava la Maraini nel passato, nelle donne della sua famiglia, fra figure segnate da un persistente gusto di abbigliarsi e comportarsi "teatralmente" (come la nonna materna cilena, quella Sonia cui l'autoritarismo paterno prima e l'amore del marito poi negarono la realizzazione di una prepotente vocazione di cantante lirica), indietro indietro fino alla figura originaria di Marianna Ucría, "la muta": "ché lo scrivere era il suo solo modo di esprimersi".
La parola, ecco ciò che ossessiona Dacia Maraini: che essa occupi i domini inquietanti del silenzio e venga a tutti data, in primo luogo alle donne, alle quali è stata tanto lungamente negata sulla scena pubblica. Vuole un "teatro di parola", pur nella consapevolezza di "quanto è infida e logora e incredibile la parola in teatro". "Ma io amo le parole - ha scritto - e perciò continuo a usarle. È il solo modo che conosco per esprimermi"4. Così la scelta di non limitarsi a creare testi drammatici e di far compagnia è segnata da una persistente identità di letterata, ma muove poi soprattutto dalla passione politica, da un progetto "sovversivo" che si esprime quale "voce" (alla Hirshman, attivamente5), e chiede relazioni: nel fare arte - appunto "in compagnia" - come nell'offrirla a un pubblico presente, visibile, che interagisce. "Un posto dove si parla di quello che succede", questo lei vuole negli anni settanta e ottanta: anche quando ne usufruiscono "una o due persone", "per quei pochi è necessario fare anche teatro".
Gli impulsi si intrecciano. Dall'impegno iniziale a mettere in scena autori italiani che scrivono su argomenti di attualità, stimolando così la produzione di nuovi testi e di una drammaturgia nazionale, nasce la Compagnia del Porcospino: con gli scrittori Siciliano e Moravia, con tre attori - Carlotta Barilli, Paolo Bonacelli, Carlo Montagna - e un regista, Roberto Guicciardini; e ne verrà coinvolto anche un attore regista attratto dalla poesia come Carlo Cecchi, uno degli interpreti del suo Ricatto a teatro6. Commedie su attori e attrici, sulla loro arte: rimarrà questo uno dei temi prediletti dalla Maraini, insieme alla messinscena di interni familiari frantumati, mentre l'impegno politico troverà soddisfazione prima in forma corale, in testi epici, e poi in figure femminili riportate in vita oltre le codificazioni del mito e le rimozioni della storia, o ancora in esplicite prese di posizione.
È del 1969 Manifesto dal carcere, nato da un'inchiesta sulle prigioni femminili, che riunisce attorno alla Maraini quattro attrici - Rosabianca Scerrino, Carla Tatò, Viviana Toniolo, Lucia Vasilicò - e dà origine a una più ampia formazione, La compagnia blu. La "ricerca di un pubblico popolare" si materializza allora, a Centocelle presso la sezione del PCI, nella nuova Compagnia Teatroggi, regista Bruno Cirino: in spettacoli il cui testo viene discusso in assemblea, come Centocelle: gli anni del fascismo7, e in spettacoli di strada, come Guerra popolare in Vietnam, Vogliamo le case!, Resistenza a Centocelle.
Nel suo già citato Fare teatro Dacia Maraini fa il punto sulle esperienze di quegli anni, "impregnate di ideologia" e insieme di una straordinaria volontà di cambiamento. C'è una difesa appassionata del "teatro povero", del "teatro delle cantine", a prescindere dai risultati artistici raggiunti, appoggiandone la volontà di rifondazione anche se arriva ad abolire il testo e l'autore insieme agli altri ruoli; c'è un'attenzione continuata alle modalità produttive, a un sistema di sovvenzioni malato che finisce col favorire le banche. Ma le sue scelte di fondo possono comportare degli squilibri, prodotti dall'approccio prevalentemente letterario o dall'urgenza politica. Pensa, la Maraini, che manchi ai registi e agli attori quando scrivono "la necessità profonda del loro scrivere. [...] Solo lo scrittore scrive per scoprire la realtà oltre che per spiegarla". Apprezza Artaud, il Living e Carmelo Bene ma deplora i guasti manifestatisi nei seguaci con un'enfasi di conservazione; pregiudizialmente non apprezza Grotowski, l'atmosfera
che lo circonda. Quando va a vedere una Medea del Teatro La Mama a Spoleto, finisce con l'entusiasmarsi, ma dopo aver fatto violenza a se stessa:
È un'atmosfera che conosco già; la stessa che circonda gli spettacoli di Grotowski. Un'atmosfera di interdizione sacrale che ha il potere di farti sentire subito insignificante, indegno, profano. Infine, alle sei in punto la porta si apre. Delle studentesse innervosite dal caldo ci spingono e ci pestano i piedi; degli avvocati in completo latte ci ficcano brutalmente un gomito nella pancia per passare avanti tirando per le braccia le mogli dai capelli cotonati. Entriamo. La porta viene chiusa alle spalle con un tonfo.8
È questo un tratto in cui ho risentito l'eco di Colette, le sue reazioni quando vide i Cenci di Artaud nel 1935: irritata già prima di entrare in sala da quel pubblico troppo speciale mentre, schiacciata contro un muro, soffocava per il fumo di sigaretta che una ragazzina arrogante le soffiava addosso9. Un'altra affinità mi sembra si crei attorno all'ammirazione per la figura dell'acrobata ("generoso e impavido", con la sua "freschezza e incoscienza", secondo parole della Maraini che potrebbero essere di Colette) e all'amore per le attrici: si pensi alla Storia di Piera (Degli Esposti) della prima o alle pagine dedicate dalla seconda a Polaire, Marguerite Moreno, Eleonora Duse...
D'altra parte il teatro, se si resta nel territorio della letteratura, difficilmente può essere assunto nella sua pienezza di linguaggio autonomo; e raramente i nostri letterati vi hanno realizzato collaborazioni durature e dall'interno. Merito di Dacia Maraini è aver spiazzato questa consequenzialità, rimettendosi continuamente in gioco e ricercando insieme alle forme una dimensione naïve, con esiti drammaturgici ora apparentemente semplificatori ora felicemente risolti. Anche oggi che è tornata ad essere essenzialmente autrice, l'esperienza teatrale resta in lei come fermento vivo: sia nei testi drammatici (perché conosce per esperienza "cosa sono le parti calde e le parti fredde del palcoscenico, cos'è il movimento in scena, cosa vuol dire l'illuminazione dall'alto, dal basso, di fianco" e scrive per persone e corpi in carne ed ossa), sia nei romanzi, che dall'esperienza scenica sembrano segretamente alimentati, con una dimensione di raddoppiamento che si è venuta insinuando nel suo laboratorio scritturale.
Ma letteratura e scena si sono potute meglio confrontare grazie all'esistenza di una passione generativa per entrambi: quella politica nella specie del femminismo. Il suo impegno in questo campo è noto (anche se non è stato storicamente ricostruito in modo adeguato): ideò il Teatro La Maddalena, un "teatro di barricata" secondo la sua definizione10, e per vent'anni vi profuse energie a tutto campo. S'inaugurò il 7 dicembre 1973 quell'impresa con lo spettacolo Mara, Maria, Marianna. Materiali per un discorso sulla condizione attuale della donna, scelti ed elaborati da Maricla Boggio, Edith Bruck e Dacia Maraini: uno spettacolo emblematico sia per le modalità produttive - un collettivo femminista che metteva in discussione i ruoli tradizionali e privilegiava la dimensione collegiale -, sia per le tematiche e il modo di presentarle. Alcune donne si narravano: la giovane siciliana Maria, oppressa dalla gelosia del marito; Mafalda sposata a un "marchettaro"; Mara, distrutta dai doppi turni; Silvana e i suoi aborti; Anna, la sterile; e la borghese, seduta in platea, che si alzava per reclamare: "Adesso anch'io voglio raccontarvi la mia vita!".11 La Maddalena poi, in sintonia con i percorsi del femminismo, sarebbe andato oltre la denuncia e la dimensione sociale, ma già questo primo spettacolo conteneva scelte tutt'altro che datate: dall'assunzione di ruoli solitamente ricoperti da uomini al privilegiamento della cifra biografica e del monologo.
Donne mie - questo titolo dato a una raccolta di poesie del 1974 - potrebbe ricomprendere buona parte della produzione di Dacia Maraini: dalle donne qualunque ("le silenziose carnefici" di se stesse che pure "ama") alle transfughe dal "destino femminile" per i cammini più impervi. Le hanno ispirato drammi Suor Juana Inés de la Cruz e Veronica Franco, Eleonora Fonseca Pimentel e Carlotta Corday, Maria Stuarda e la grande Elisabetta...
Rimane centrale in lei l'ansia di riscoperta, propria di un sesso lungamente connotato da una situazione di non-potere. Guardiamo per analogia alla Storia: se non ci fossero state delle storiche delle donne troveremmo nei libri tanti nomi maschili e qualche raro nome di regina o di madre d'eroi, masse femminili in tumulto o figure così eccezionali da sembrare dotate soprattutto di "virtù virili". Il fatto è che operazioni di questo tipo non si limitano a riempire dei vuoti, ad aggiungere nomi e contenuti: la materia stessa sprigiona energia, come "il fondo dell'abisso che urla" per dirla con Artaud. E chi la guarda non può restare inerte, essendo necessario eliminare gli automatismi, cambiare il punto di vista, aguzzare lo sguardo. "Sono diventata miope a furia di scrutare il vuoto in cerca di un segno di ambigua certezza, dentro gli occhi angelicati dei miei cerimoniosi attori incapaci di scandalo e d'amore", scrive Dacia.
E si apre poi il vero banco di prova: nel territorio del linguaggio, dove la parola è padrona. Nella consapevolezza che "il neutro scrivente non esiste" Dacia Maraini privilegia non il radicamento in un territorio, non la purezza per via di approfondimenti, ma una dimensione rischiosa di sconfinamento, essendo tra vari luoghi e cercando parole nuove nello spazio tra vita e arte, tra arte e politica, tra individualità e appartenenza di genere, tra mente e corpo. Una dimensione consona alle donne questa, che Dacia Maraini ha caratterizzato con una volontà di presenza nella battaglia civile mai affievolita (si pensi al suo attuale impegno nella lotta contro la mafia e la cultura che la produce), tuttora martellante su certe questioni del femminismo solo apparentemente superate, in una giusta dimensione di fedeltà a se stessa oltre le mode. D'altro canto "la militante" ha sempre teso ad allargare lo spettro della sua battaglia politica alle "malattie del linguaggio" come terreno di scontro primario; e ha continuato a interrogarsi sulla scrittura drammaturgica: sulle qualità del monologo e del dialogo, come sulla natura poetica del teatro, legato al ritmo e al presente, mentre il romanzo le sembra più vicino al cinema.
Oggi definisce il teatro "una linea verticale che dall'interno di un pozzo si collega col cielo, quindi qualcosa di molto angusto e chiuso che si collega con l'universo"; il riferimento al mondo della scena ritrova così attualità per le costrizioni che pone: tra una parola che non può essere solo quotidiana né del tutto letteraria, tra solitudine del "personaggio" e dialogo, tra necessità di comunicazione e spirito di rivolta, in una dialettica arricchita dall'appartenenza femminista. Esemplare può dirsi la sua disponibilità a "sporcarsi le mani", una disponibilità rara, anche eticamente notevole, per una scrittrice di successo internazionale: che sembra richiamare la linea dell'Agit prop disposta all'arte, incentivando la divaricazione fra i due temini. In questo contesto - assumendo l'Agit prop nella sua natura di arte in movimento che sceglie di non risolversi - i trent'anni e più di teatro di Dacia Maraini sono tutt'altro che chiusi.
NOTE
1 La definizione è di Claudio Meldolesi, che così intitola l'ultimo capitolo di Teatro e spettacolo nel primo Ottocento, scritto con Ferdinando Taviani (Bari, Laterza, 1991).
2 Si pensi a come questo tema è centrale nell'ultimo romanzo di Virginia Woolf Tra un atto e l'altro, del 1941.
3 D. Maraini, Il sommacco. Piccolo inventario dei teatri palermitani trovati e persi, Palermo, Flaccovio, 1993.
4 D. Maraini, Fare teatro. Materiali, testi, interviste, Milano, Bompiani, 1974, p. 67. Per le citazioni successive cfr. p. 24 (Stalin a Centocelle) e p. 31 (Attori e altri attori).
5 Albert O. Hirschman ha teorizzato la dialettica fra "voce" (protesta) e "uscita" (esilio) sin dal '70, ma mi piace ricordare qui il modo personale in cui ne scrive nel suo ultimo libro, Autosovversione, Bologna, il Mulino, 1997.
6 Il ricatto a teatro debuttò sulle scene di via Belsiana a Roma, nel febbraio 1968, regia di Peter Hartmann; attori: Laura Betti, Claudio Camaso, Carlo Cecchi, Paolo Graziosi, Isabelle Ruth. Successivamente il cast si modificò, ma Cecchi rimase cambiando personaggio; come Camaso aveva alle spalle l'esperienza politica del Teatro scelta con Claudio Meldolesi, Franco Prattico, Gianmaria Volonté ed altri. Si può leggere il testo in D. Maraini, Il ricatto a teatro e altre commedie, Torino, Einaudi, 1970, pp. 35-111.
7 Il testo Centocelle: gli anni del fascismo è pubblicato in Fare teatro, cit., pp. 293-410.
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