Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna ROMPERE IL VASO

ROMPERE IL VASO

di Anatolij Vasil'ev

"Mostrate ad uno scolaro russo una carta astrale, della quale fino a quel momento non sospettava nemmeno l'esistenza, e il giorno dopo ve la vedrete restituire corretta". Nessuna conoscenza e illimitata presunzione - ecco, facendo questo esempio, cosa voleva dire a proposito degli scolari russi quel tedesco. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov.

 

No, non posso dire che sono in crisi. Sono stanco, piuttosto. Proprio così. Davvero stanco. Mi sembra di essere malato. Ed effettivamente è così. Posso dire che è stato un anno difficile, e che ho fatto tante cose. Ma dire che sono in crisi, non lo posso. Né che i miei pensieri siano "da crisi". Mi trovo solo in una situazione strana.

Ora non sono in condizione di parlare delle incrollabili regole dell'educazione teatrale che sono arrivato a conoscere, che mi sembra mi portino successo e di cui sarebbe bene che anche gli altri udissero qualcosa.

Mi riesce difficile parlare in prima persona, come fossi un qualche rappresentante di una conoscenza definitiva. Soprattutto ora.

Esiste un'epoca, ma non esiste una cultura artistica per l'epoca. La difficoltà è tutta qui. Esiste un nuovo tipo umano, ma non esiste ancora una cultura artistica per lui. Intendo cultura teatrale, teatro.

Vedo pochi spettacoli, e non mi assumo la responsabilità di esprimere giudizi sulla condizione attuale del teatro. Ma sull'epoca che abbiamo appena passato posso parlare: in ambito teatrale, e cioè attraverso i suoi spettacoli, la sua cultura teatrale, quest'epoca non si esprimeva. Si esprimeva nella musica rock, nell'arte figurativa; nel cinema, un po' meno. Nel teatro, al massimo arrivava a narrare, raccontava delle storie. C'è questo tipo di mansione nell'arte: raccontare delle storie.

Forse per il teatro questo è sufficiente. Prendere Shakespeare e raccontare una storia. Poi prendere Vampilov e raccontarne un'altra. Ma la mia opinione è che questo non sia sufficiente

Dal momento in cui è sorta questa corrente anomala - il teatro psicologico russo - in ambito teatrale tutto è diventato più complesso. Da allora raccontare qualcosa dalla scena ha iniziato ad essere insufficiente ed ha cominciato ad essere indispensabile che quel qualcosa effettivamente sia, che sulla scena l'uomo non illustri, ne narri, ma effettivamente sia. E che rifletta l'uomo attuale, vale a dire quello che siede in sala, l'uomo passato, vale a dire quello proposto dall'autore, e l'uomo del futuro, e cioè che il dramma tocchi qualche tema filosofico. Fare tutto ciò è risultato molto complesso. Perchè il teatro ha smesso di essere solo un'occupazione per uomini di talento, ed è diventato un'occupazione per uomini di talento e istruiti nella loro arte, per persone che tendono a rapportarsi all'arte scenica come ad una scienza. Non solo con l'intuizione, ma anche con un'intuizione finalizzata all'autoconoscenza.

Dei miei successi nell'attività pedagogica mi sono rimaste sensazioni tristi. A lungo ho pensato che mi riuscisse qualcosa, ma i risultati effettivi sono zero. Lavoravo su una sintesi di teatro psicologico e ludico, mi sembrava di aver ottenuto qualcosa... e invece niente. E se è così, e se è vero che io non conosco altre strade (e di fatto non ne conosco), allora che senso ha il mio quotidiano battere e ribattere sullo stesso punto? È come una barca ancorata. Sciogli le gomene che la legano all'attracco, sciogli, sciogli, sciogli, ecco che dovrebbe iniziare a navigare, vedi anche che si muove un po'... ma il giorno dopo (o un'ora dopo, o cinque minuti dopo, o in sogno) vai a quello stesso molo e la barca è ancora lì. Che angoscia!

Una volta non ho scritto un articolo. Non va sempre così. Ho molti articoli non scritti, altri non li ho finiti, ma quella volta proprio non sono stato capace di scriverlo. La rivista Junost' mi aveva proprosto di raccontare la storia dello spettacolo Vassa Zeleznova. Volevano raccontassi come era venuta l'idea di farlo, come era stato pensato, che descrivessi la sua esistenza nel "Teatro Stanislavskij", che narrassi come venne cacciato fuori da quel teatro e come a lungo non ebbe una scena, una casa dove vivere fino a quando Ljubimov ci invitò ad andare da lui alla Taganka dove lo spettacolo fu rimesso in piedi ed ebbe una nuova prima ecc., ecc.

Io so perché non l'ho scritto. Avrei dovuto raccontare troppe cose che avevano un rapporto diretto con lo spettacolo. Avrei dovuto raccontare come è stato distrutto il "Teatro Stanislavskij", come fu licenziato il mio amico e compagno di GITIS Iosif Rajchel'gauz, raccontare di una delazione falsa, di un ricatto, di come Andrej Alekseevic Popov fu convocato dalle "istanze superiori" dell'apparato e di chi, per nome e cognome, lo ha convocato. Avrei dovuto raccontare tutte le discussioni che avemmo a quel tempo, i nostri tentativi di cambiare la situazione... è una storia vecchia, ma l'avrei potuta ricostruire in quadri molto dettagliati. Ma la cosa più complicata, forse assolutamente impossibile, sarebbe stato il racconto di avvenimenti arcani e al tempo stesso intimi che si verificarono nella vita dell'attrice impegnata nel ruolo principale. Senza questo, il quadro della vita dello spettacolo sarebbe stato inesatto e non veritiero, e quindi privo di qualsiasi senso. Devi parlare di troppe cose se vuoi fissare onestamente la situazione in cui nascono e vivono gli spettacoli drammatici, ché negli spettacoli sono le persone ad essere messe in gioco.

E così è anche in questo tema. Per parlare della mia attività pedagogica nel teatro, dovrei raccontare come ho cominciato ad occuparmene. E sarebbe un racconto difficile, per me. Mi toccherebbe spiegare tante cose, e finire di dire quello che c'è da dire su tante altre. Dovrei racontare di quando ero studente io, di A.A. Popov e della Knebel'. Della mia esperienza di insegnamento al GITIS insieme ad Efros [Efros è uno pseudonimo fantastico dello stesso Vasil'ev. N.del c.], e del perchè ci siamo divisi. Del metodo che professava Anatolij Vasil'evic, e di quello che utilizzavo io. Cercavamo di ottenere lo stesso risultato, ma battendo due strade diverse. Io allora mi muovevo in un sistema in cui erano gli avvenimenti di partenza della pièce e dei ruoli ad avere più forza. Efros invece partiva dall'avvenimento principale. Efros si muoveva verso lo scopo. Io invece partivo basandomi sull'inizio. Gli attori e gli studenti con me si muovevano dal principio della pièce, e si avvicinavano intuitivamente verso lo scopo. La strada di Efros verso lo scopo, invece era più razionale. Metodologie diverse, ognuna di esse rispondenti a diverse epoche e a diversi umori. La mia strada era più indirizzata al lavoro sul subcosciente e come volutamente non organizzata, non finalizzata; avevo scelto questa strada perché allora già sapevo che gli scopi dell'uomo non sono così determinati come a volte ci sembra. Efros rimase della sua idea (sto parlando di metodologia, non di valutazione degli esseri umani). Proponeva un disegno rigido, grafico, perfetto, che bisognava essere capaci di ripetere. Spesso diceva: "Voi siete degli esecutori. La vostra arte è arte dell'esecuzione". Io invece insistevo sull'arte libera, sul ruolo d'autore dell'attore, dello studente.

Dovrei parlare di molte cose... ma anche questo lasciamolo ad altri articoli e altre storie.

Tutto ciò che ho fatto fino ad oggi è sbagliato. Credevo che fosse necessario insegnare lasciando all'allievo piena libertà. Ma invece è risultato che l'unico mezzo capace di dare risultati, ai fini di far apprendere il nostro mestiere, è la paura. Pare che tutti gli altri metodi non funzionino. Ma la paura non è un metodo. Insomma, contraddicendo me stesso vedo dei risultati. Ma sono risultati incompleti, non mi piacciono, sono risultati privi di massa, di consistenza. Forse gli studenti non sono dotati, sono privi di talento. No, questa è una stupidaggine! Forse fanno già tutto ciò che dovrebbero ed è solo che io sono troppo puntiglioso?

Eccolo un tema: quale dev'essere il metodo di insegnamento? E neanche insegnamento, ma semplicemente e solo comunicazione. Quando dare piena libertà, e quando limitarla? Come educare la gente, indipendentemente dalle loro doti effettive e in situazioni in cui non c'è libertà, a sentirsi esseri che si librano in volo? E quale sarà il momento in cui si dovrà limitarne la libertà? E poi: ho scritto "librarsi", però una persona non è un uccello, la realtà è che non può volare. Neanche la gallina è un vero e proprio uccello. Una gallina che si libra in aria? Non si è mai vista: la gallina rimarrà comunque una gallina. Ma se non si tenderà verso il volo neanche una volta non capirà mai che appartiene alla famiglia dei pennuti.

Col corso che dirigo attualmente ho provato a percorrere una strada assai interessante e significativa che, attraverso un graduale autolimitamento, va dalla più ampia libertà di rapporto con se stesso, con la cultura, col teatro, verso l'assenza di libertà. Perché è solo in situazioni di massima costrizione che nell'arte è possibile manifestarsi nella massima libertà. Mi sono basato su questa teoria, mi pare che sia giusta. L'ho chiamata "rompere il vaso". Il significato è molto semplice. C'è una bella cosa. 11 primo e naturalissimo impulso, impulso infantile, è di romperla, di distruggerla. Il desiderio di fare a modo proprio, di non accettare ciò che è stato fatto prima di te è il sentimento comune a tutti gli artisti che sono agli inizi. Di regola tutti fanno così. Sempre lo stesso. Lo stesso gesto vietato, sacrilego, ma al tempo stesso molto naturale: vogliono rompere il vaso. E bisogna utilizzare quest'impulso. E il processo di apprendimento, forse, consiste tutto nell'imparare ad incollare i frammenti, in maniera tale che il recipiente torni di nuovo intero come era prima.

Quasi tutti rimangono al primo stadio del rapporto con l'arte e sono pochi coloro che lo superano. Ci si ferma al primo sentimento aggressivo: rompere. E quello che rimane sono frantumi.

L'opinione che l'arte, e la cultura artistica in genere, abbiano una tradizione, che la cultura artistica abbia radici nazionali, etniche, non è senza fondamento. L'avanguardia in quanto tale è possibile solo sulla base della tradizione. E le cose più complesse in realtà sono quelle che alla loro base, nella loro concezione, nella loro esecuzione scenica sono le più semplici. Dico e sostengo tutto questo; ma al tempo stesso ho dei dubbi in proposito. Perché mi piacerebbe che le cose stessero diversamente e amo quando tutto è distrutto, quando c'è l'anarchia piena, quando l'ordine finisce a gambe all'aria. Cosa è più importante: la costrizione o la liberazione, la necessità che la manifestazione creativa dell'individuo si svolga nella più piena libertà o le regole, la scuola, la grammatica, il regime?

Ho cominciato con la creazione libera. Arrivai all'inizio del corso nell'inverno del 19X5. Portai a conclusione il mio primo semestre. Durante quel semestre gli studenti mostrarono dei lavori preparati e fatti in piena autonomia, in base alle loro scelte. Etjudy, piccole composizioni, frammenti di pièces. Mi ricordo che l'esame di fine anno mi sembrò niente male. Dopo di che, il semestre successivo, tentai di limitare leggermente gli studenti; detti loro dei compiti: solo scene di coppia, dialoghi. Ma il materiale drammaturgico da cui estrarre questi dialoghi era di nuovo a scelta dello studente. Insomma era un tema libero. Chissà perché da noi appena danno un tema libero tutti scelgono sempre la drammaturgia occidentale. Forse per rimediare ad un qualche deficit...?

Il semestre successivo. Di nuovo dialoghi, ma con una limitazione in più per gli studenti: solo classici russi. Il tema era la cultura russa. Una cultura nella quale la scienza del dialogo ha delle tradizioni ben determinate che bisogna assolutamente arrivare a comprendere, a conoscere. La cultura ludica è connaturata alla verbalità russa. E di questo, solitamente, quasi non si tiene conto. La nostra letteratura non è poi così infarcita di realismo come ci hanno fatto credere per tanto tempo. Mi era sembrato giusto svilupparne proprio l'aspetto ludico, visto che in qualche maniera era collegato al mio stile. Proposi agli studenti di cominciare a lavorare sull'intrigo, sulla struttura ludica come tale, e cioè su Dumas, ma mettendo in relazione questo lavoro al tema successivo: Dostoevskij. Il cerchio che delimitava il loro ambito di libertà andava stringendosi sempre più. E qui ci incagliammo definitivamente.

Appena incominciammo ad occuparci di Dumas vidi tutto ciò che di più sgradevole si può vedere sulla scena: volgarità, atteggiamenti sboccati, provincialismo. I costumi antichi non stavano bene addosso a quelle persone. E non solo: non gli piacevano neanche. Io tendevo ad uno spirito ludico ma il risultato era che sulla scena vedevo solo parodie. E si tratta di cose diverse; dietro di loro ci sono epoche diverse e diverse culture.

Insomma ci impantanammo in Dumas; ci abbiamo perso molto più tempo di quanto avrei mai potuto supporre.

Dopo un po' cominciò a sembrarmi che le cose riuscissero.

Facemmo lo spettacolo d'esame. Al momento di salutarci annunciai agli allievi che quando ci saremmo reincontrati alla sessione seguente la prima cosa che avremmo fatto sarebbe stato tentare di ripetere l'esame. E fu solo nel momento in cui decisi di ripetere ciò che era stato fatto, solo in quel preciso momento, che detti veramente inizio al processo di istruzione: fino ad allora c'era stata solo e semplicemente comunicazione. D'altronde la mia posizione era sempre stata (e in realtà lo è tutt'ora) quella secondo cui il processo di istruzione consiste proprio nella comunicazione di un uomo con un altro e che oltre questo non è necessario niente altro. Ma comunque bisogna ammettere che probabilmente questo non è sufficiente.

Credo che la prima volta che mi è diventato chiaro in cosa debba consistere la parte conclusiva di un corso di studi, di un programma pedagogico, sia stato durate il lavoro su Pirandello che svolgevo col corso parallelo a questo. Fino a quel momento il mio lavoro era consistito semplicemente nel dirigere gli allievi mentre svolgevano la seguente operazione: entrare in una camera buia ed aprire una alla volta tutte le finestre che ci sono. Ma questo non può considerarsi un punto d'arrivo. Perché nulla ancora vi garantisce che la prossima volta che entrerete in una camera buia riuscirete di nuovo ad arrivare tranquillamente fino ad una finestra, e poi ad un'altra e ad una terza fino ad aprirle tutte; e nulla vi garantisce che lo farete nello stesso ordine in cui le avete aperte per la prima volta. No. Ogni volta ricomincerete ad errare per territori ignoti e di nuovo sarete insicuri di voi stessi: non saprete se riuscirete o no, questa volta, ad aprire tutte le finestre.

È così: il problema della conoscenza delle regole del teatro lo si affronta solo quando una cosa è stata fatta ed è necessario ripeterla. E ripeterla molte volte. La condizione indispensabile, in tutto ciò, è che la cosa sia stata fatta bene, e cioè che sia stata fatta conformemente a tutte le conversazioni, gli accordi che avevano preceduto l'andata in scena; ma è solo durante la ripetizione, la reiterazione che si comincia a studiare veramente la grammatica del teatro. Prima di ciò, in realtà, essa non può essere oggetto di studio. Prima, tutt'al più, ci può essere una presa di contatto con le sue leggi.

Nell'arco del processo pedagogico le limitazioni devono essere rigidissime; bisogna arrivare gradualmente a ridurre alla ragione la libertà, sia pur muovendosi per la strada della libertà. Limitare, limitare fino a giungere al massimo della costrizione, perché solo così ci si potrà esprimere nella massima libertà. A1 corso che conducevo con Efros e Antolij Vasil'evic convenimmo su una cosa: provare non in larghezza, ma in profondità. Provare solo una cosa. L'istruzione concentrata su una cosa dà risultati più forti. Provare continuamente solo alcuni brani di uno stesso autore, e dopo far provare a tutti gli studenti solo la stessa cosa.

Ma anche questa limitazione è insufficiente. È indispensabile limitarsi ulteriormente; fare uno spettacolo, se è necessario. Dirò di più: uno spettacolo che dovrà venir replicato più volte.

Il teatro professionale comunque è teatro che ripete se stesso. Che replica. Lo stesso teatro di improvvisazione, tutta la sua problematica tecnica e teorica, verte attorno al come ripetere. Indipendentemente dalla tendenza artistica a cui appartiene, ogni spettacolo, anche quello sottoposto alle leggi dell'improvvisazione pura (vale a dire alla composizione dello spettacolo durante il suo svolgersi), si preoccupa della propria riproducibilità.

Mi sembra che nel teatro esistano alcuni punti fermi dei quali, in ambito pedagogico, non si tiene dovuto conto ed è un peccato. Son costanti che, ad esempio, risultano dallo studio del ruolo di Amleto, oppure da quello della Ranevskaja. La nostra pratica pedagogica non si preoccupa di queste costanti. Eppure, operando in termini di massima limitazione, l'idea di dedicare il corso, o parte di esso, allo studio di uno di questi punti fermi potrebbe rivelarsi corretta

Questo è quanto ho pensato fino ad oggi, ma ora ho capito all'improvviso che, nonostante tutto ciò che ho fatto nella pedagogia l'abbia fatto consequenzialmente e in maniera corretta, i risultati sono insignificanti. E bastato insistere sulla grammatica e si è chiarito tutto subito: anche a domande banali non ho ricevuto risposte soddisfacenti dagli allievi. Alcuni di loro comunque continuano a "battere sul vaso", benché a quest'età sia un'occupazione senza senso. Arrivati a questo punto è meglio contemplarlo il vaso, parola d'onore! Che senso c'è in questi innumerevoli frantumi? Alcuni invece, come si suol dire, "guardano nel libro, e quello gli fa maramao". Qual è il problema? È che la scienza della regia, come tale, è difficile? E vero, lo è. Forse il metodo era scorretto? Non dovevo permettere alcuna libertà? Ho sbagliato a instaurare un rapporto paritario con gli allievi? Ho cominciato troppo tardi ad essere intransigente su alcuni punti fondamentali? Comunque stiano le cose, bisogna ammettere che non vedo risultati confortanti.

Ma forse il problema è solo che di talenti non ce ne sono molti. E il risultato è che passiamo il tempo a spiegare con grande tatto cosa e come fare a persone che non solo non hanno talento, ma non hanno neanche particolari capacità. E il risultato è che sul campo in cui avrebbe dovuto crescere il grano, ci cresce anche la gramigna.

No, non sono in crisi ora, sono confuso. Ma non è la confusione di un uomo. È il cammino della confusione; quello che viene percorso coscientemente, per principio, da quel pedagogo che decide di confrontarsi con l'autonomia dell'allievo. Ma dove trovare in se le forze per dirgli, un bel giorno: "Tu non sei autonomo, sei ancora più confuso di me!". Parlo dell'obbligo dell'insegnante di essere più in basso dell'allievo: e in questo senso trovarsi più in alto di lui. Non è semplicemente difficile. È la via del sacrificio. È la scienza della malinconia.

Non ho voglia di discutere della pedagogia dalla posizione di conoscenze acquisite definitivamente. Sarebbe volgare.

Da noi, dove la gente non sa in che direzione scorre il Volga, è ridicolo parlare da posizioni di conoscenza acquisita, a proposito di qualsivoglia cosa.

Questo articolo di Vasil'ev è stato pubblicato per la prima volta nel giugno 1988 dalla rivista "Teatral'naja zizn' ", un anno e mezzo dopo l'apertura della "Scuola d'arte drammatica". Traduz.ione di Alessio Bergamo.


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