Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna ROMPERE IL VASO
Lettera di accompagnamento
 
STANISLAVSKIJ E ARTAUD
Sul filo della biografia
 
Artaud e Stanislavskij: da molto tempo mi interrogo su cosa li accomuna al di là delle differenze di poetica e di collocazione nella storia. Continuo a pensare che, con lingua e obiettivi diversi, entrambi esprimano una stessa scienza dell'attore. In più, mi pare che li accomuni una stessa nostalgia: il cui richiamo per Stanislavskij si mette a tacere di fronte alle bisogne dello spettacolo, e che invece, per Artaud, proprio dinanzi alla tentazione dello spettacolo risuona più alto.
Ma qui scienza dell'attore e nostalgia di teatro oltre lo spettacolo voglio metterli da parte, e tirare un altro filo dell'annodo tra Artaud e Stanislavskij: il filo della biografia. Anche perché è sul filo della (loro) biografia che hanno lavorato i due autori di questo numero di "Prove di Drammaturgia", che è composto di due contributi belli e importanti. Il primo, di Alessio Bergamo, è il rapporto critico di una ricerca sul campo nella scuola di teatro di Anatolij Vasil'ev (e la pedagogia di Vasil'ev si pone sulla linea di Stanislavskij, dichiaratamente e oltre). Il secondo contributo del fascicolo è di Enzo Moscato, ed è l'adattamento d'artista dei materiali approntati da Artaud per la conferenza del 13 gennaio al Vieux Colombier.
Tradizione, diceva recentemente Mimmo Cuticchio, dopo aver ricordato il padre che non c'è più e i figli che appena cominciano ad esserci, è "1'esperienza che confinua" mentre le persone cambiano, e penso volesse dire: nelle persone che cambiano.
Stanislavskij
La tradizione, Stanislavskij la consegnò ai libri, scrivendoli, lavorandoli all'interno, organizzandoli nelle parti e nei reciproci rimandi, come l'equivalente di un'esperienza capace di continuare nelle persone che cambiano. Un libro (un insieme di libri) che voglia essere l'equivalente di un'esperienza non può affidarsi solo alla lettura; attraverso la lettura chiede al lettore di cogliere il percorso d'azione che c'è nascosto, e di rifarlo nella propria persona: seguendo il ritmo -l'anima-, che è altra cosa dal capire i significati del libro. Se questo avviene, al cambiare delle persone -Fautore, i lettori- c'è però un'esperienza che continua.
Com'è noto, i libri di Stanislavskij (parlo specificamente de La mia vita nell'arte e de Il lavoro dell'attore sii se stesso, nelle sue due parti) hanno circolato per lo più nelle edizioni americane Aly Life in Art, An Actor Prepares (prima parte) e Building a Character (seconda parte de Il lavoro dell'attore su se stesso). Per ragioni complesse, sono libri molto diversi da quelli che Stanislavskij avrebbe voluto, e che di fatto realizzò -almeno per gran parte- nell'edizione russa. Cosa fece realmente Stanislavskij? My Life in Art, lo scrisse controvoglia, di fretta, impossibilitato a controllare le parole in inglese che i lettori avrebbero letto. Si adattò alle richieste dell'editore, per ragioni di danaro. Il figlio Igor era in sanatorio in Svizzera, e il rublo non aveva corso internazionale. Scrisse secondo le indicazioni del mercato. Poca teoria, tanti aneddoti preferibilmente divertenti, poco spazio -o niente- agli insuccessi artistici. Scritto in pochi mesi, My Life in Art uscì nell'aprile del 1924. La "vita nell'arte" vi era ripartita in due periodi, il primo fino al 1905, e il secondo dopo il 1905. Gli anni dopo la rivoluzione d'ottobre vi avevano uno spazio ridotto, sia perché la rivoluzione non era argomento gradito al pubblico americano, sia perché proprio nel periodo post-rivoluzionario Stanislavskij aveva registrato le maggiori difficoltà.
L'autobiografia americana, in conclusione, risultò piuttosto una cronaca: una sequenza di fatti sbilanciati più verso l'aneddoto che verso il senso.
Appena ripartito dall'America, Stanislavskij cominciò a rielaborare il testo per l'edizione russa, che uscì nel 1926. Contrariamente a quanto si afferma di solito, i cambiamenti introdotti furono molti e profondi: un bradisismo magari poco appariscente ma profondo ricompose un nuovo libro.
Se quella americana era stata una biografia a livello di cronaca, quella russa fu una biografia a livello di scienza. Dalla cronaca alla scienza passa quel dislivello per cui la cronaca appartiene a tutti e si ferma alla superficie, mentre la scienza della biografia si destina a quelli che cercano il senso degli avvenimenti oltre la loro superficie. Nella nuova vita nell'arte apparve lo snodo del 1917. Ne seguì una tripartizione -fino al 1905, dal 1905 al 1917, dopo il 1917- che tributava l'omaggio di rito alla rivoluzione proletaria, ma che anche metteva a fuoco spietatamente sugli anni del sospetto, dei compromessi e dei fasti di regime, dopo il fatidico Ottobre. Gli aneddoti si ridussero nel numero e nel tono. Gli anni di mezzo, tra il 1905 e il 1917, andarono a circoscrivere un periodo che, dallo "scoglio in Finlandia" alla sconfitta del sistema di fronte ai versi di Puskin, disegnava un preciso arco problematico. Nel 1905 Stanislavskij aveva avuto la rivelazione della miseria che può esserci nella recitazione imitativa; dal 1916 (in quell'anno era stato costretto ad abbandonare una parte dopo la prima) ebbe l'altra rivelazione: che ad esorcizzare quella miseria non basta la verità immediata dell'emozione, che la verità va riconquistata oltre la finzione.
Dalla cronaca alla scienza della biografia.
Nell'edizione russa, i fatti della "vita nell'arte" si spogliarono della loro titolarità individuale e si consegnarono ad una funzionalità generale. Al di là della vicenda di Stanislavskij persona, passarono a testimoniare della vicenda senza nome di un attore e uomo di teatro alle prese con i problemi artistici e umani del proprio lavoro.
E qualcosa di più. Portati al livello di problemi, la successione biografica dei fatti si rivelò come l'unica possibile successione logica dei problemi. Non c'era una progressione logica in sé dei problemi d'attore; c'era solo il progresso organico nella vita nell'arte con i problemi che via via vi emergevano.
Arrivato a questa consapevolezza, a Stanislavskij non bastò più affermare che non esiste un "sistema"; gli bisognò ridare l'esperienza che il cosiddetto sistema è solo la (propria) vita nell'arte, a patto che non la si svuoti nella cronaca.
A questo scopo, congegnò il suo secondo libro, Il lavoro dell'attore su se stesso nelle sue due parti, in un modo acuto preciso ed efficace, e talmente semplice da risultare impercettibile alla vista. Il diario dell'allievo Kostia e del maestro Torzov, lo sviluppò lungo un tempo di scuola che ricalca momento per momento il tempo della biografia, così come esso s'era manifestato ne La mia vita nell'arte. Un problema segue un altro, o lo precede, non perché questo richieda la logica o il programma didattico, ma solo perché nella stessa identica successione i fatti all'origine di quei due problemi s'erano presentati nella biografia.
Questo calco tra tempo della scuola e tempo della biografia, che risolve il sistema nella vita nell'arte e viceversa, non viene dichiarato. Sta al lettore, attraverso la lettura, coglierlo e alla lettera farlo proprio.
Dalla cronaca alla scienza della biografia, con La mia vita nell'arte. Dalla scienza della biografia alla biografia della scienza, con Il lavoro dell'attore sii se stesso, dove biografia della scienza vuol dire ordinamento dei problemi d'attore non secondo teoria, ma secondo il loro organico emergere lungo la biografia.
Con questi passaggi, Stanislavskij realizzò un complesso edificio di scrittura, aperto -oltre il livello della lettura~ alla ricerca di una personale esperienza di vita e d'arte da riattivare.
Le edizioni americane, bloccando la biografia al livello della cronaca, sottoponendo Il lavoro dell'attore su se stesso ad uno spietato lavoro di editing mirato alla leggibilità, hanno distrutto quell'edificio complesso o, peggio, l'hanno ridotto ad un'ordinata casetta, da viverci comodi, appagati e senza sospetti di recondite esperienze.
 
Da Stanislavskij ad Artaud
A guardare tutta insieme e dal dopo l'impresa dei suoi libri, viene da dire che Stanislavskij si limitò a "fare di necessità virtù". Per necessità aveva pubblicato l'edizione americana dell'autobiografia. Non avrebbe mai scritto l'edizione russa se non vi fosse stato costretto dal dover fare virtù della necessità americana. 1 problemi dell'arte gli si rivelarono allora nella successione oggettiva della biografia: un'altra necessità, di cui nuovamente fece virtù, riconoscendo nei problemi senz'ordine del lavoro dell'attore l'ordine della vita nell'arte.
Stanislavskij fu profondamente artaudiano, si può dire, dato che la crudeltà consiste proprio nel fare di necessità virtù. Né rifiutare la necessità, che è impossibile; né subirla passivamente però, che sarebbe rinuncia alla libertà. Farne virtù: che è la libertà concreta di volere ciò che si deve fare, essendo vuota illusione quella di fare ciò che si vuole.
È il lavoro dell'attore, a prescindere da Stanislavskij e Artaud, ad essere intrinsecamente crudele, visto che la libertà nell'arte (Stanislavskij diceva la "condizione creativa") sta proprio nell'agire come se si volesse fare ciò che la parte impone di fare.
 
Artaud
Per Artaud la crudeltà fu un dato assoluto. Come "sottomissione alla necessità", nel teatro è solo più evidente che nella vita; inoltre nel teatro la si può sperimentare. Quando all'inizio degli anni trenta Artaud cominciò a scrivere manifesti e lettere per spiegare la crudeltà, disse che era sempre esistita nel suo pensiero, e che gli era occorso solo prenderne coscienza.
Si riferiva allo spettacolo dei balinesi del 1931. Di fronte a quella tradizione in atto, di fronte a quella partitura d'azioni predeterminata e tuttavia piena di vita nascente, Artaud aveva preso coscienza -coscienza totale: nella mente, nel sentimento, nel corpo- della crudeltà. Cominciò da lì il viaggio verso il "teatro vero", che non deve più patteggiare con lo spettacolo.
In quanto assoluta, la crudeltà abita nel teatro ma non gli appartiene, si rivela nelle biografie personali senza essere delle singole persone. Più che una condizione dell'individuo, è una condizione dell'Essere Umano.
Poi ci fu il viaggio in Messico, nel 1936; e poi il profondo viaggio nella follia. Dopo l'Irlanda, ultima tappa nella geografia terrestre, Artaud fu internato in manicomio e, tra un trasferimento e l'altro, vi restò fino al maggio del 1946, quando gli fu concesso un regime di semilibertà, in una casa di cura ad Ivry.
Addentrandosi nella follia -nella sofferenza e nella solitudine- Artaud cominciò a vedere sempre più la vita di sé individuo come vita di sé Essere Umano. Senza perdere niente della propria assolutezza, la crudeltà potè intrecciarsi sempre più con il teatro e con la biografia di Artaud, fino ad identificarvisi.
Mettiamo in fila alcuni fatti. La vita di Artaud nel periodo della follia è immersa nel buio, salvo sporadici sprazzi. Ne emerge all'inizio del '45 attraverso la scrittura. I Cahiers de Rodez, che coprono il periodo dal febbraio 1945 al 25 maggio 1946 (il giorno del rilascio), occupano sette volumi delle Oeuvres complètes. Poi ci sono le lettere, i testi più o meno compiuti e raccolti a parte, e poi i Gahiers dit retour à Paris, dal 25 maggio 1946 al gennaio '47, per complessivi altri quattro volumi; e due volumi sono annunciati alla pubblicazione. Un totale di quasi venti volumi, più di seimila pagine di stampa in poco più di mille giorni, dai quali sottrarre il tempo degli incontri, della malattia, della pittura, e gli interminabili maneggi per procurarsi la droga necessaria a sopravvivere.
Dicendo che la vita di Artaud emerge dal buio attraverso la scrittura, non intendo un complemento di mezzo, ma un complemento di moto per luogo. Dall'inizio del 1945, la vita di Artaud è la sua scrittura, quanto meno è nella sua scrittura in tempo reale.
All'origine della scrittura -cioè della biografia- di Artaud dall'inizio del 1945, ci fu il teatro. A fine gennaio aveva ricevuto copia della nuova edizione (1944) de Il teatro e il suo doppio. A rileggerlo, qualcosa scattò nella sua mente. Scrisse subito due testi, Le retour de la France aux principes sacrés e L'Ame théátre de Dieu, ricchi di riferimenti critici al suo vecchio libro. Era cristiano, al momento: lo restò per poco, fino all'abiura della Pasqua 1945.
I riferimenti al teatro ricompaiono, copiosi e puntuali, solo molto più tardi, nel maggio del '46, al ritorno a Parigi. Dietro, c'è ancora un fatto concreto. A seguito della riedizione de Il teatro e il suo doppio, Henri Thomas aveva cominciato a lavorare ad uno studio critico su Artaud. Gli aveva scritto già nel gennaio del '45, ma si decise a fargli visita solo il 10 e 11 marzo 1946, insieme alla moglie Colette che 1avorava per il teatro". Artaud rimase molto colpito da Colette. Scrivendo a Marthe Robert Fl 1 marzo, le manifestava 1'intenzione di costituire una compagnia teatrale" una volta tornato a Parigi, e le chiedeva di farne parte (Oeuvres Completes XIV*, pp. 79-80).
Dell'annunciata compagnia non si fece niente, ma effettivamente Artaud prese a fare teatro. Lavorò con Colette in estenuanti prove d'attore, per arrivare a mettere la vita -il soffio- non in ogni parola del testo pronunciato, ma in ogni sillaba e lettera e, al fondo, in ogni impulso di suono articolato prima dell'articolazione. Del lavoro di maestro di Artaud si potè vedere un saggio durante l'Hommage che gli amici artisti gli dedicarono al Théátre Sarah Bernbardt, il 7 giugno 1946. Colette disse dei versi di Artaud, con effetti sconvolgenti, secondo la testimonianza di Charles Estienne su "Combat". Artaud non potè assistervi; gli amici, in apprensione, decisero di tenervelo lontano.
 
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Intermezzo. Colette fu l'unica allieva di Artaud, e fu il solo fantasma d'amore durante la follia, uno squarcio subito richiuso appena apertosi nell'involucro della solitudine. Artaud le scrisse lettere numerose, intime e dense, tra il marzo e il giugno del'46. Appena tornato a Parigi, all'inizio del suo lavoro di pedagogo, annotò che "Colette è sulla via di nascere veramente" (O.C. XXII, p. 28), ma ritrattò subito dopo ogni intenzione sospetta dichiarando che 1a passione è una malattia alla quale preferisco la morte" (O.C. XXII, p. 36). Di questo rapporto di teatro e vita, inestricabilmente l'uno e l'altra, Colette scrisse in un libretto -Le testament de la fille morte- firmandosi René, che vuol dire Rinato. Davvero, Artaud nel trasmetterle teatro voleva anche darle la vita. Nel riceverla, e dunque rinata dopo essere stata una ragazza morta, Colette parla di teatro: e pare di sentire Artaud appena qualche girone più in su dell'ultimo, nello stesso imbuto della follia.
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Ho detto che Artaud con Colette prese a fare teatro, ma si devono fare due rettifiche. La prima per precisare che Artaud riprese a fare teatro; la seconda che riprese a farlo, ma adattato al mutato statuto della sua biografia.
Artaud si era congedato da Il teatro e il suo doppio con il testo sull'atletismo affettivo. Siamo nel '36. Il riferimento alla kabbala che vi è contenuto distrae dalla sostanza del discorso di Artaud, che è concreto e operativo.
Ciò che dice si può sintetizzare in due punti. Primo: nell'attore, all'organismo fisico si affianca un altro organismo doppio del primo, che è l'organismo affettivo. (Il che è vero per l'uomo in generale, per l'attore in più è necessario, anche se non fosse vero). Affettivo è il residuo del corporeo rispetto alla totalità dell'uomo, cioè è lo psichico e il mentale. Secondo: tra l'organismo fisico e quello affettivo dev'esserci una corrispondenza biunivoca e senza spazi vuoti. Ogni movimento dell'organismo fisico deve riflettersi in un movimento dell'organismo affettivo e viceversa.
L 'attore della crudeltà è 1-atleta del cuore". A lui non sono consentiti né i puri movimenti del corpo, né i puri moti dell'affettività. In altre parole, non gli è consentita né la meccanicità (sono questo le azioni senza pensiero), né l'arbitrio (è questo il pensiero che non si traduce in azione). L'attore della crudeltà deve sapere come riempire di pensiero ogni sua azione e, reciprocamente, come riempire d'azione ogni suo pensiero. A questo gli serve il controllo del respiro, a prescindere dal sofisticato impianto kabbalistico.
Il teatro di Artaud dentro la follia continuò ad essere questo. Ma con un cambiamento: che l'atletismo affettivo, più che una via per fare teatro, diventò una via per servirsi del teatro, allo scopo ultimo e primario di continuare a vivere. A datare dal 1937, nove anni di sofferenza avevano portato il corpo al centro della coscienza.
Dice Artaud a metà aprile 1946, congedandosi da Rodez verso la libertà, che "prendere coscienza d' un gesto o d'uno stato incosciente, non è sapere come esso gioca nel sistema o essere dell'organismo generale, ma come soffre; e non triangolando la percezione della sua sofferenza, ma semplicemente soffrendo. Lo stomaco è una gastralgia, le midolla sono una mielite, i polmoni un'asma cronica, i denti una carie, e le tibie una gamba di legno. Gli intestini sono quest'entrata di sorci chiamata enterocolite, e il mentale è un'apoplessia" (O.C. XXI, pp. 89-90).
Nell'esercizio della vita, Artaud ritrova una legge che i maestri di teatro trovano nell'esercizio della scena: è necessario il dolore ~o un suo equivalente funzionale, come il disagio o il pericolo- per attivare e tener desta la coscienza.
Diventato corpo-di-dolore, l'attore Artaud non è più minacciato dalla meccanicità. Resta solo l'altro rischio, quello del pensiero che si sottrae all'azione. Questo rischio, che sulla scena è l'affanno del sovrappiù d'intenzione, nell'Artaud della follia prende l'aspetto cannibalesco di "esseri di pensiero" che, in cerca di vita, divorano il corpo che se li è lasciati sfuggire.
Né il corpo può fare a meno di lasciarsi sfuggire pensieri, dato che la sua anatomia è sbagliata. L'anatomia sillogistica", come Artaud la chiama, l'anatomia che si suddivide per organi distinti ognuno dei quali risponde alla logica del come e del perché, questa anatomia nozionistica non può far altro che produrre sillogismi, sofistiche questioni di come e di perché, nozioni. Il "corpo senz'organi" con il quale Artaud chiude il viaggio nella follia è l'obiettivo ultimo dell'uomo che voglia riconquistare l'immortalità.
Ferdinando Taviani ha descritto come "esperienza espansa" la eccezionale velocità di associazione e sintesi di Artaud. Nell'esperienza espansa di Artaud si susseguono e si combinano senza intervalli questi passaggi: l'uomo è il suo corpo, il corpo è immortale, l'immortalità ci è sottratta dagli esseri di pensiero che il corpo secerne a causa della sua anatomia sillogistica.
Infine: per riconquistare il corpo senz'organi, e con esso l'immortalità, è necessario teatralizzare gli esseri di pensiero, riportarli al corpo dal quale sono sfuggiti. "L'idea nozione -dice Artaud- nozione corporea, deve andarsene per essere sostituita da quella di movimento infigurato del corpo [mouvement infiguré du corps], e là sono io che ho sofferto tutto e so tutto" (O.C. XXIII, p. 349). E ancor più chiaramente: 9o non sopporto che si pensi una cosa senza farla, la mimo con dita, tronchi, espressioni, camminata, gambe, braccia, ecc. Il pensiero puro non esiste, le idee pure non esistono, tutto si canta, si parla, si mima, si danza, la dialettica, la dissertazione, la sillogistica, la logica, ecc., e tutto ciò che appartiene al mentale non è che corpo elettrico, no, è una elettricità corporea rubata al lavoro del corpo per il corpo per un lavoro stornato dalla sua VIA" (O.C. XXIII, pp. 280-281). In chiusura de Il teatro e il sito doppio, Artaud aveva chiesto all'attore di "conoscere il segreto del ritmo delle passioni, di questa specie di tempo musicale che ne regola il battito armonico" (O.C. IV, p. 117), proprio per poterle mettere organicamente in azione. Il lavoro di riportare il pensiero al corpo, cioè di riempirlo della sua azione, non era diverso da quello previsto nell'atletismo affettivo. Però ne era il dimezzamento: del metodo complessivo restava solo la via che dal mentale va al fisico.
Questo teatro a metà, è ancora teatro? Questo atleta del cuore a metà è ancora attore? No. Però penso che questo teatro e quest'attore fossero a metà solo perché avevano perso la loro dimensione di doppio.
Prima della follia, il teatro era il doppio della vita e l'attore il doppio dell'uomo. Dentro la follia, il teatro è la vita e l'attore è l'uomo. Questa vita e quest'uomo universali sono al contempo la vita di Artaud e Artaud. Essendosi fatta assoluta -attraverso il dolore e la solitudine- la biografia di Artaud poté accogliere come propria quella crudeltà che dall'origine sera posta come assoluta, oltre il teatro e l'attore e oltre gli individui singoli.
 
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Accludo due citazioni dai materiali preparatori per l'Histoire vecue d'Artaud Momo, l'autobiografia che Artaud presentò al Vieux Colombier come racconto di sé individuo in vista della morte, e come racconto di sé Essere Umano in vista dell'immortalità da ritrovare attraverso il teatro. La prima collega il teatro della follia con quello della crudeltà, e ne cancella però la dimensione di doppio. La seconda oppone all'uomo comune che crede di poter pensare senza agire, l'"uomo vero" che prende su di sé la responsabilità in azione d'ogni pensiero.
Prima citazione: "Durante i tre anni che passai a Rodez il dottor Ferdière, dottore capo dell'asilo, non lasciò mai passare una settimana senza rimproverarmi almeno una volta ciò che chiamava i miei canticchiamenti, le mie aspirazioni col naso, i miei esorcismi, i miei vorticamenti. Ora, c'è ne Il Teatro e il sito doppio un testo intitolato l'atletismo affettivo che riguarda le diverse maniere di applicare il soffio umano, di utilizzare la respirazione: ispirazione ed espirazione, come un crogiolo, al che si trova associato tutto un sistema di atteggiamenti e gesti, di piazzamenti ed emissioni di voce, di modi diversi di scandire un testo non soltanto frase per frase o parola per parola, ma sillaba per sillaba e lettera per lettera; tutto questo non allo scopo di formare un attore ma di formare un personaggio d'uomo, di ricomporre il mio organismo d'uomo su un piano al di sopra non del teatro, ma della vita fino ad ora e da sempre infagottata dentro una falsa coscienza, dentro questa sordida parodia di coscienza che forma il mondo nel quale viviamo. È un'impresa a lunga scadenza e ci vuole una pazienza senza nome. Comunque sia, arrivato a Rodez credetti che l'atmosfera fosse favorevole a questi lavori. Nella qual cosa mi sbagliavo" (O.C. XXVI, p. 103).
Seconda citazione: "La massa passa per non amare le idee, e mente perchè è proprio essa che le ha imposte La massa passa per essere stata senza coscienza e senza pensiero, ebbene no, non c'è niente come la massa per amare la spiritualità. Perchè? Perchè il pensiero permette d'avere e di possedere immediatamente ciò che sarebbero dovuti passare cent'anni per cominciare a meritare [ ... ] Ciò ch'essa non pensa con braccia e piedi come un soldato del ritmo e della misura fisica, come un piallatore manuale degli slanci, dei colpi di sangue della vitalità, lo pensa con il cervello senza muoversi [ ... ] t così che l'imbecille che come me ha voluto teatralizzare tutto e non avere un sentimento o un'idea che non sia un gesto concreto in una misura fisicamente passionata [mesure pliysíquement passionnée] si vede rapinare il proprio lavoro dalle scimmie d'una crapulosa immobilità" (O.C. XXVI, p. 189).
 
Il filo della biografia
 
Mi chiedo se il comune filo della biografia, tra Stanislavskij e Artaud, consista solo nell'averla usata entrambi nella trasmissione dell'esperienza. Mi chiedo in particolare se anche per Artaud l'insieme degli scritti non debba essere attraversato -sperimentatocome una biografia della scienza.
Artaud non dedicò al teatro solo Il teatro e il suo doppio. Ne aveva scritto prima tra il 1921 e il 1930, e ne scrisse dopo, marcatamente nei testi degli ultimi due anni, come I' Hístoire vecue d'Artaud Momo e Pour en finir avec le jugement de Dicu, con la sua appendice a tornare Le thèátre de la cruauté.
A leggere tutto di seguito, non si trovano le tappe di una teoria del teatro; si trovano soprattutto domande. L'Artaud attore e poi regista del primo periodo aveva chiesto come superare la rappresentazione. Dopo la visione delle danze balinesi, chiese come produrre simboli (segni efficaci) avendo come sola garanzia di Tradizione il corpo dell'attore. Dentro la follia, chiese al teatro di ritrarsi nella sua sede intima e primaria, per "rifare il corpo" e liberarlo dalla sofferenza e dalla morte.
Domande al teatro, non di teatro. Domande di vita, come per Stanislavskij. Ma con questa grande differenza da rifletterci sopra: che quella di Artaud sempre meno fu, e alla fine non fu più per niente, una vita nell'arte.
 
Prof. Franco Ruffini Terza Università di Roma
Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna