Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna PDD 97 4 -IL "TEATRO STABILE" DI GIULIANO SCABIA
IL "TEATRO STABILE" DI GIULIANO SCABIA
di Franco Acquaviva
 
PRESENTAZIONE
 
UN RITRATTO IN MOVIMENTO
Giuliano Scabia
Il poeta albero
Il cerchio e il camminare
 
PERCORSI E VALORI
Il poeta in viaggio
Fuori dal Teatro
Il "mito" della scrittura collettiva
Avanguardia e istituzione
 
IL "TEATRO STABILE" DI GIULIANO SCABIA
Università e teatro: tre elementi di fondo
Il rapporto coi testi
Le dispense universitarie
Paratesto e drammaturgia delle coincidenze
Istituzione e "affettività"

UN ESEMPIO: OTTETTO

Cronologia dei corsi tenuti da Giuliano Scabia all'Università di Bologna


PRESENTAZIONE
Provocatoriamente, in una conversazione preparatoria avuta con Gerardo Guccini, il redattore di questa rivista, mi è stata lanciata, per questo dossier, l'idea di un titolo interessante: "Il teatro stabile di Giuliano Scabia". Interessante perché, nell'ironia, coglie un paradosso attivo e fecondo. Un paradosso che enuncerò fra breve. Intanto: il "teatro" a cui si riferisce il titolo è l'Università di Bologna - dove Scabia è docente di Drammaturgia dal '72 e dove da quella data conduce un'ininterrotta attività pedagogica che, tra le altre cose, costituisce per molti studenti una prima tappa nell'avvicinamento alla scena materiale. Si sa, poi, che la stabilità è una caratteristica e un portato dell'istituzione. Allora - ecco il paradosso - il discorso verte subito sul come una stabilità siffatta - rigida, periodica nei suoi svolgimenti e sottoposta all'obbligo di una programmazione - può venire a patti con l'idea di teatro di Scabia. Un'idea tutt'altro che da teatro Stabile o da "scuola di teatro". Basti pensare che Scabia chiama il suo teatro "teatro vagante"; e "ciclo del teatro vagante" denomina l'insieme delle "commedie" scritte nel corso di tutta la sua attività. Si legge infatti nel titolo completo di Fantastica visione: "Commedia del ciclo del Teatro Vagante/ Del Ciclo fanno parte, direttamente o indirettamente, All'improvviso/Zip/Scontri Generali/Commedia armoniosa del cielo e dell'inferno/Fantastica visione/ Commedia del poeta d'oro (Teatro con bosco e animali)/Apparizione di un teatro vagante sopra le selve (Teatro con bosco e animali)" [C. Scabia, Fantastica visione, Milano, Feltrinelli, 1988, p. 143].
Cosa Scabia intendesse con 'ciclo' lo si deduce da una nota a Commedia armoniosa del cielo e dell'inferno (1971): "Gli attori del teatro vagante devono invece assomigliare piuttosto ai dieci di Zip, agli otto degli Interventi, al gruppo impegnato nella lotta e navigazione di Scontri generali [C. Scabia, Commedia armoniosa del cielo e dell'inferno, Torino, Einaudi, 1972, p.110]. Una buona parte delle commedie è quindi attraversata da uno stesso nucleo di personaggi in continua crescita ed evoluzione: gli attori del teatro vagante. E il teatro vagante, che da Commedia armoniosa in poi diventa il simbolo della condizione esistenziale di questi attori costretti al girovagare infinito, alla fine addirittura si materializza ed appare nel cielo alle "due persone legate da affinità profonde" [C. Scabia, Apparizione di un teatro vagante sopra le selve, in Teatro con bosco e animali, Einaudi, Torino 1987, p.207] che compaiono in apertura di Apparizione di un teatro vagante sopra le selve, l'ultima commedia del ciclo.
La nozione di 'ciclo' si potrebbe interpretare come il tentativo, da parte di Scabia, di disegnare la "curva" della propria attività letteraria anche alla luce dell'esperienza concreta del teatro, un teatro voluto e progettato al di fuori di schemi e convenzioni.
Nel corso di questo scritto percorrerò il filo del paradosso che ho esposto più sopra, cercando di evidenziarne la presenza nelle diverse fasi del lavoro di Scabia, ma soprattutto soffermandomi sulla sua attività di docente al DAMS di Bologna. A questo scopo mi riferirò sia alle pubblicazioni relative all'attività indipendente di Scabia (come drammaturgo, regista, animatore), che alla documentazione prodotta dagli studenti del corso di Drammaturgia 2 del DAMS nell'arco di un ventennio circa: si tratta di dispense che registrano anno per anno l'esperienza del corso. La prima è stata redatta nel 1974 e ha dato origine a un libro pubblicato nello stesso anno da Feltrinelli (Il Gorilla quadrumano), l'ultima s'intitola Da bosco a bosco camminando ed è stata prodotta nell'a.a. '94-'95. In preparazione invece è la dispensa sulle Baccanti di Euripide, il tema del corso nell'a.a. 1995-96.
 
UN RITRATTO IN MOVIMENTO
Giuliano Scabia
Se è consigliabile che le parole richiamino il più possibile realtà sensibili, perché non cominciare a parlare di un fiore, di un animale o di un albero? Ci sono alberi detti sempreverdi che mantengono chiome intatte tutto l'anno, chiome a volte giganti, spartite nel mezzo dai rami lungo la verticale del tronco; ricadono sui lati, sospese sul filo del vento e ondeggianti.
Giuliano Scabia è un uomo dai capelli candidi e mossi, credo che varie generazioni di studenti se lo ricordino così, coi capelli spartiti nel mezzo, liquido nello sguardo, un sorriso luminoso. Si muove e parla con una particolare lentezza che tra una parola e l'altra, un gesto e l'altro, sembra accennare a spazi fisici e mentali inconsueti.
Ho di lui l'immagine, forse un po' leziosa, di uno spirito dei boschi incarnato che cammini di buon passo fiatando parole, nella convinzione che il ritmo dei passi dia loro vita; quest'uomo dalla chioma semprebianca tesse il filo di questa storia, ne emette il fiato.
Nel Prologo de Il poeta albero si coglie l'energia creativa che anima tutta l'esperienza artistica di Scabia. Vale la pena citare per esteso questo brano, che dà la rappresentazione vivida di un modo di essere poeta al quale mi riferirò più volte nel corso del presente scritto:
"Camminando si sentono i piedi della poesia, uno, due, tre/ uno, due, due, tre, quattro/ uno, uno, due, tre, quattro - ballando si sentono ancora meglio. Quando il camminante incontra altri camminanti (nei sentieri dentro i boschi, dentro le città o dentro il corpo) li ascolta nel suono dei piedi - per sentire la poesia. Solo dal suono dei piedi si riconosce la poesia.
I poeti camminanti vanno in giro per ascoltare il suono dei piedi o stanno fermi come alberi. Camminano anche perché vogliosi di suonare i piedi della poesia. Ci sono poeti camminanti che vanno in giro cercando non farsi vedere per meglio sentire [ ... ] .
Stando fermi, invece, si è alberi e si sente il battere della terra - sia il rumore dei passi camminanti sia i terremoti o bombe o motociclette o i piedi della signora morte. Poi c'è il vento che fa suonare i rami e le foglie, vengono gli insetti e gli uccelli mentre l'albero cresce. Anche l'albero è un poeta camminante, in senso verticale."[ C. Scabia, Il poeta albero, Torino, Einaudi, 1995, pp. 3]
 
Il poeta albero
Così il titolo di un libro di poesie uscito nel 95 per Einaudi. Si tratta della seconda raccolta poetica di Scabia; la prima - Padrone e servo - è del 1964. Tra questa e quella tutta l'opera di Scabia: opera di drammaturgo, attore, uomo di teatro, pedagogo, narratore. E la poesia? Tra i due distanti affioramenti in canonica forma di raccolta, scompare forse? 0 non è piuttosto il caso di pensare che come un fiume carsico scavi passaggi, apra varchi, si arricchisca di preziose sostanze minerali, modelli sue proprie figure, sotto la montagna dell'azione teatrale a tutto campo? Se così è, tra la poesia e l'azione teatrale di Scabia il rapporto è di continua osmosi, l'una e l'altra si corrispondono più o meno strettamente in modi quasi costantemente verificabili. In altri termini: nelle poesie e nelle storie di Scabia confluisce un po' tutto il bagaglio di figure e di temi, persino di lingue" - nel senso di gerghi, parlate, dialetti - che egli incontra nelle sue peregrinazioni teatrali.
Ma è vero anche l'opposto: nelle azioni teatrali di Scabia si avverte la ricerca del poeta intorno a certe figure, a certe lingue, l'attenzione per certi temi, che nascono dalla sua vis poetica profonda.
C'è almeno un elemento immediatamente visibile, nell'opera di Scabia, che rende evidente il sussistere di questa interdipendenza: il fatto, per esempio, che buona parte delle commedie, dei racconti e delle poesie, maturino la loro forma definitiva nel corso di anni di riscritture, correzioni, aggiunte. Nel suo laboratorio letterario Scabia sembra seguire i tempi della montagna geologici, e non è un'ironia
rispetto al tempismo immancabile della sua azione teatrale, sociale e politica. La quale anche produce testi, quasi con lo stesso tempismo dell'azione: e sono i libri-cronaca che documentano le esperienze teatrali più vive, più contraddittorie: quelle fuori dal teatro. Il laboratorio letterario invece vive di tempi lunghi, forse perché lavora al di fuori della "storia", in un alveo, o profonda fucina; però si serve della "storia". Nane oca è un romanzo uscito nel 92 per Einaudi, eppure, a detta dello stesso Scabia, le prime idee e progetti su di esso risalgono a trent'anni prima. Fantastica visione, una commedia pubblicata nel 1988, vede la prima stesura nel 1973.
Perché questi "ritardi"? La sensazione è che le opere di Scabia siano una sorta di camuffato diario di lavoro - e di vita. Ad esempio nel Poeta albero troviamo tracce consistenti del lavoro teatrale di Scabia: "Una volta (1978) facendo la commedia Leonce e Lena su per le colline di Bologna sono apparso all'improvviso dal bosco insieme a tre suonatori portando il ritratto di Büchner ingrandito e adornato di nastri colorati lunghi, e sono andato verso un grande cedro del Libano al cui tronco l'ho appeso. Tutti i partecipanti stavano intorno ascoltando la musica sotto i rami. Era come se Büchner fosse il cedro e l'aria. L'idea del poeta albero è nata lì ( ... )."[ C. Scabia, Il poeta albero, Torino, Einaudi, 1995, pp. 115]
La commedia Leonce e Lena di Büchner, fu l'argomento del corso di Drammaturgia 2 del DAMS, nell'a.a. 1977/78.
Ma ben più significativa è l'eredità teatrale presente in un altro esempio che tratterò fra poco e che racchiude le figure archetipiche della creatività formalizzata e/o pedagogica - di Scabia.
 
Il cerchio e il camminare
Nel romanzo Nane Oca, la storia di Giovanni Oca detto Nane è raccontata da un personaggio scrittore per diletto, di mestiere coltivatore di fiori, Guido il Puliero, intorno al quale, la sera, si riunisce un gruppo di altri personaggi che ascolta, dalla sua viva voce, i nuovi episodi che egli ha composto. Questi personaggi formano un cerchio e ascoltano, poi intervengono, raccontano a loro volta.
Alla fine del romanzo il Puliero vince il premio Nobel: i suoi amici, per gratitudine, mettono in scena una finta premiazione che avviene nella città di Stoccolma, con tutti i personaggi travestiti da Re, Regina, Accademici eccetera. Il pranzo di gala viene servito nel parco della villa affittata per l'occasione. Tutti siedono intorno a un grande tavolo rotondo: hanno, alla fine, trovato il momón? (il romanzo è anche una ricerca del vero momón, che è tutte le belle cose della vita e insieme una cosa ben precisa, che alla fine Giovanni Oca e gli altri personaggi della storia trovano: le foglie dell'albero della vita che danno immortalità). Il loro Graal? Scabia mi suggerisce, in un incontro recente, che dietro Nane Oca ci sono anche Re Artù e i Cavalieri della tavola rotonda. La tavola rotonda, ancora una volta: si compone o ricompone un cerchio che, nella finzione del Premio, è quasi più vero di quello, "vero", dell'inizio, con gli amici radunati intorno al Puliero. Tutto ciò porta a una Il vertigine di indeterminatezza", per dirla con Celati, dove il Puliero, che sa tutto della messinscena dei compagni, "a stento trattenne il riso. Gli amici travestiti come per una recita dilettantistico amatoriale, lo sogguardavano preoccupatamente, paurosi del riconoscimento - e fissavano Rosalinda (l'amante del Puliero N.d.R.) che per la prima volta vedevano. Quante cose erano racchiuse in quel guardarsi!"[ C. Scabia, Nane Oca, cit., p. 182] (Il corsivo è mio). Le "cose racchiuse in quel guardarsi": domande sospese, emozioni trattenute, ma anche esperienza di un limite sul quale la "realtà" si potenzia con un gioco di specchi che dà vertigine.
Si potenzia o svanisce?
Insieme a una virtù, a una possibilità di arricchimento esperienziale, in questo caso, è presente un pericolo.
Infatti, poco più avanti, nel discorso del Nobel, il Puliero, chiedendosi cosa sia la "finzione" (artistica: il romanzo, le storie), e perché è così necessaria agli uomini che con essa vengono condotti in un altro mondo, conclude: "Confesso a voi, buon Re e Regina gentile, cari Accademici sapienti, che l'altro mondo mi fa un po' paura. Non ci farà perdere la testa? È difficile, a volte, tornare alla realtà. 0 realtà unica maestra in grado di liberarci dagli inganni! [ C. Scabia, Nane Oca, cit., p. 185] Ma nel romanzo, il "pericolo" è sempre neutralizzato dalla "virtù" della finzione; cioè dal senso "sano" della commedia, il cui sorriso si insinua tra l'essere consapevoli della finzione e il godersela.
Tornando a noi. La tavola rotonda, i personaggi in cerchio che ascoltano il Puliero: ecco il tema del cerchio degli ascoltanti, o dei lettori, o degli attori, in un'espressione sola il "cerchio narrativo"; figura che si ritrova spesso al centro dell'attenzione anche nei lavori realizzati all'Università con gli studenti. Ottetto (1986), per esempio, è un lavoro nel quale questo tema è fortemente presente: uno dei "fili" dello "spettacolo" che il corso produsse era in fondo la creazione, la rottura e il ristabilimento di un cerchio narrativo. Il tema del camminare, che abbiamo osservato nel Prologo a Il poeta albero, è invece presente nel corso di Drammaturgia 2 dell'a.a. 93/94. Il corso ebbe per argomento la fiaba Il Gatto con gli stivali[Il titolo del corso dell'a.a. 93-'94 fu Gli stivali del gatto e la voce della poesia (esercizi di lettura, traduzione, narrazione e recitazione)].
Su questo tema gli studenti produssero una serie di testi. Se il camminare è un'azione ben presente nella fiaba, una camminata fu anche ciò che Scabia propose agli studenti il primo giorno di lezione -attraverso il centro storico della città, per raggiungere la nuova sede di lezione.
Nel lavoro sulle Baccanti di Euripide (1996), l'ultimo effettuato con gli studenti, presentato in forma di performance attorica di gruppo, mi è sembrato di vedere in azione qualcosa che potrei chiamare, parafrasando Scabia, il "cerchio camminante". Quello che ho visto cioè, mi è apparso come il tentativo di tradurre fisicamente, con corpi che agiscono, l'idea stessa di poesia così come viene descritta nella prefazione al Poeta albero[C. Scabia, Il poeta albero, Torino, Einaudi, 1995, p.3]: i ragazzi formavano un cerchio cingendo ognuno le spalle del compagno o compagna che gli stava a fianco; cominciavano i tamburi a battere un ritmo, che era la trascrizione musicale del ritmo del verso greco utilizzato nell'opera; su quel ritmo i ragazzi eseguivano all'unisono un semplice passo di danza regolato, appunto, dai tamburi; subito dopo, sugli accenti del ritmo, il gruppo iniziava a cantare i versi della tragedia (dalla quale sono stati estratti e tradotti i primi 167 versi) seguendo l'andamento di una semplice melodia: gli accenti ritmici dei versi corrispondevano a quelli marcati dalle percussioni; i piedi a loro volta eseguivano la danza sulla base di quegli stessi accenti.
Ritmo del verso, ritmo dei piedi (danza), cerchio dei danzatori/ "dicitori": in questa simultanea interdipendenza sembra quasi di scorgere un momento originario di sintesi tra poesia, narrazione orale, danza e teatro.
 
PERCORSI E VALORI
Il poeta in viaggio
Un po' arbitrariamente faccio partire il "viaggio" di Scabia, come poeta e uomo di teatro, nello stesso anno: il 1964.
Nel 64 escono le poesie di Padrone e servo, ed è già attiva la collaborazione con Luigi Nono, per il quale Scabia sta scrivendo i versi de La fabbrica illuminata. L'opera, sorta di manifesto della neoavanguardia italiana, andò in scena il 15 settembre di quell'anno al Festival della Musica Contemporanea di Venezia.
Nel 1965, Scabia scrive un testo per il teatro (All'improvviso), intriso dello spirito della neoavanguardia, e poco dopo compone Zip [Il titolo completo dell'opera è Zip, Lap Lip Vap Mani Crep Scap Plip Trip Scrap e la Grande Mani. Ricorda Scabia: "Credo che Zip sia stato un po' un detonatore ( ... ) Corrado Augias che era il critico dell"'Avanti", aveva fatto un peana per Zip, un altro era Franco Quadri, poi c'era Edoardo Fadini, Alfredo Orecchio di "Paese sera", Ettore Capriolo... Capriolo è stato un altro degli osannatori di Zip, ne aveva scritto un paio di volte ... queste persone avevano visto aprirsi una via ..."], rappresentato alla Biennale di Venezia nel settembre dello stesso anno per la regia di Carlo Quartucci. Con Zip Scabia si rivela come uno dei più interessanti drammaturghi italiani del momento: quello spettacolo e quel testo costituiscono un punto cruciale nella storia della avanguardia teatrale italiana.[ Per un racconto dettagliato del "caso Zip" cfr. Marco De Marinis, Il nuovo teatro. 1947-1970, Milano, Bompiani, 1987, pp. 162-167]
La drammaturgia inaugurata con Zip esperimenta le possibilità scaturite dalla rottura della scatola teatrale convenzionale. In Zip si progetta l'invasione da parte degli attori di tutto lo spazio del teatro e non solo del palcoscenico; è previsto l'uso di nuove tecnologie - registrazioni su nastro magnetico, proiezione di diapositive e film. La composizione scenica di tutte queste possibilità, entra a far parte del testo teatrale scritto.
In questo modo il rapporto fra il drammaturgo e la scena materiale viene totalmente rinnovato.
Testo e spettacolo provocarono uno "scandalo" nel mondo teatrale di quegli anni; entrambi non furono capiti dalla critica ufficiale, né tantomeno dai teatranti "storici", quelli che avevano contribuito alla "ricostruzione" del teatro italiano dopo la guerra. La SIAE non volle tutelare l'opera: non era una commedia, non era un poema, non c'erano riferimenti convenzionali per iscriverla. Eppure ci fu chi additò Zip come esempio di una possibilità feconda per la drammaturgia italiana.[ Intervista a Scabia del 21/2/ 1993; cit. avvenuta a Bologna. Ampi stralci di questa intervista - e di un'altra effettuata il 9 novembre 1992 sono contenuti nella mia tesi di laurea dal titolo: La drammaturgia di Giuliano Scabia. Dall'avanguardia alla poesia del teatro, relatore: Prof. Claudio Meldolesi, Corso di laurea in DAMS, A.a. 1993/ '94]
L'ipotesi iniziale è stata quella dífar vivere, partendo da un testo verificato continuamente sulla scena, dieci maschere contemporanee: dieci forme capaci di racchiudere ognuna più tipi. Non mascherefisse, come nella commedia dell'arte, bensì maschere mobili, aperte, in continua crescita nel gesto, nel costume, nella voce, nel significato, durante tutto lo spettacolo. Per raggiungere questo scopo ho partecipato alla realizzazione scenica dello spettacolo, scrivendo direttamente in teatro parte del testo. La messa in scena è stata frutto di un lavoro collettivo fra regista scenografo attori autore e tecnici. 3. Le elencazioni di oggetti, o le indicazioni' sulla mimica, sui movimenti, sulle proiezioni, sulle luci, fanno parte del testo, senza subordinazione rispetto ai dialoghi. Sia nella concezione come nel risultato scenico Zip è (come All'improvviso) un testo essenzialmente visivo, dove non c'è differenza di pianofra gesto parola suono oggetto proiezione.
(da Nota su Zip, in All'improvviso &Zip, Torino, Einaudi, 1967, p. 181).
Nel 1967 le tensioni all'innovazione si coagulano ed evidenziano in un convegno che segna l'atto di nascita "ufficiale", dell'avanguardia italiana; ebbe luogo a Ivrea nel giugno 1967 e fu un'importante occasione di incontro e confronto tra teatranti, critici, operatori. Le motivazioni di tale chiamata a raccolta sono sintetizzate in un articolo a più firme che apparve nel numero di "Sipario" del novembre 1966 intitolato Per un convegno sul nuovo teatro, di cui Scabia è firmatario e anche, in parte, estensore.
Il '68 porta un altro testo, altra pietra di scandalo, scagliata contro il tempio del Teatro Ricostruito
il Piccolo di Milano. La drammaturgia di Zip si va sviluppando coerentemente, e invade, critica, polemizza duramente con l'istituzione nella quale cresce senza blocchi o falsi pudori. La direzione del Piccolo non gradisce la provocazione e rompe i rapporti con Scabia; gli impedisce addirittura di entrare in teatro.
Il testo in questione era Interventi per Visita alla prova de l'isola purpurea. Visita alla prova de l'isola purpurea è una commedia di Bulgakov di cui Scabia stava allora curando la traduzione. Così Scabia ha poi ricordato l'operazione su quel testo: "Allora ho detto: va bè, qui c'è una commedia tradizionale che tocca l'argomento censura, è bellissima, funziona come un treno, gli facciamo degli aggiustamenti, cioè mettiamo le frasi di questi giorni di Strehler, di Grassi, l'adattiamo al Piccolo e la spacchiamo in cinque punti, con gli interventi. E questo è il mio intervento che prosegue quello di Zip; cioè sono ancora gli attori di Zíp che si presentano vestiti da costruttivisti, e si va a portare il vento della strada in teatro. [Intervista del 21/2/93, cit. Idem]
A detta di Scabia lo spettacolo fu molto divertente. Costituì certamente una grossa provocazione in un'epoca in cui i teatri venivano occupati. Non condusse a tanto, ma fu un segno che si manifestò in sintonia con quanto stava accadendo nei teatri e nelle piazze d'Italia: " ... poi il 68. .. l'occupazione della Statale... Capanna che arriva la sera della prima e in scena stanno dicendo le stesse cose che lui sta dicendo nell'atrio ..."[La cronaca di quest'esperienza è riportata in G. Scabia, Teatro nello spazio degli scontri, Roma, Bulzoni, 1973, pp. 197- 426]
Dopo la parentesi di Interventi... Scabia riprende la sua strada, cerca l'"incontro" con una compagnia e con un regista - come già era successo per Zip. Incontra, intorno al '69, un giovane gruppo di attori
la Comunità Teatrale dell'Emilia Romagna - con il quale progetta un esperimento di teatro collettivo esteso alle assemblee dei militanti di tutta l'Emilia Romagna, sulla base di un testo di cui era già stata effettuata una prima stesura. Il testo era Scontri generali. Anche questo esperimento fu bloccato, questa volta dall'Ater, che vi ravvisò un pericolo per gli equilibri politici della regione. Una delle costanti operative dell'attività scabiana consiste non solo, com'è ovvio, nello stabilire dinamiche creative tra persone che partecipano a uno stesso progetto, ma addirittura nel progettare - testi o altro - pensando specificamente a persone o gruppi con cui condividere interessi culturali e/ o politici o riconoscere affinità artistiche e/ o umane profonde. E' una ricerca di ambiti umani e di sensibilità comune prima ancora che di situazioni produttive. Ricerca che si è sviluppata in teatro fino a Interventi... e, da allora in poi, comincia a liberarsi dalle pastoie del teatro professionale per cercare nuovi ambiti di progettazione.
La carica utopica insita nella pratica teatrale scabiana trova, dopo i manifesti rivoluzionari, i proclami, le sperimentazioni d'avanguardia, un ulteriore impulso da questo cambio di prospettiva.
 
Fuori dal Teatro
A partire dal '69 Scabia inaugura la pratica del cosiddetto "teatro a partecipazione", un esempio del quale sono le "azioni di decentramento" effettuate a Torino tra il novembre e l'aprile di quell'anno, in collaborazione col locale Teatro Stabile. In alcuni quartieri operai della città, Scabia promuove un'attività teatrale difficilmente definibile in poche frasi; un'attività che confina col sociodramma, investe la ricerca sulla drammaturgia, si fonde con la militanza politica e l'azione sociale.
Il "teatro a partecipazione" porterà Scabia a verificare la forza e la necessità del teatro al di fuori dei suoi contesti abituali; nel manicomio di Trieste, nelle scuole, nelle periferie metropolitane. Nel fare questo Scabia si appoggerà sempre a un'istituzione committente: i teatri stabili, i comuni, le scuole, gli ospedali psichiatrici ecc...
Ecco dunque un'altra costante operativa: il rapporto dialettico, a volte violentemente dialettico, con le istituzioni. La ricerca di un punto di equilibrio dinamico tra la forza vitale dell'innovazione e della sperimentazione e la presenza dell'istituzione, teatrale e non, è un po' la cifra del lavoro scabiano. In quegli anni Scabia lavora sulle contraddizioni dell'istituzione teatro. Sfruttando l'impegno spesso solo formalmente sottoscritto dall'istituzione, Scabia porta fino in fondo le premesse contenute nei suoi progetti mettendosi poi in una posizione concretamente polemica nei confronti della committenza. Così è avvenuto per Zip, per Interventi..., per le azioni di decentramento e per il primo progetto di Scontri generali. Così, ma in modo più diffuso, sistematico e anche, proprio per questo, radicale, sarà, a partire dal 1972, per il lavoro teatrale di Scabia all'Università.
Elenco brevemente le esperienze principali del "teatro a partecipazione" negli anni '70. Del '69 è il già citato "decentramento torinese"': sei mesi di lavoro (novembre 1969 - aprile 1970) coi laboratori creativi, organizzati per l'occasione, di quattro quartieri "dormitorio" della città; laboratori di dibattito politico culturale e di pratica teatrale appassionata.
Quattordici azioni per quattordici giorni [G. Scabia, Teatro nello spazio degli scontri, cit., p.437-459] (1971): due settimane di teatro e scuola con una scuola media di Sissa, provincia di Parma.
Forse un drago nascerà [Cfr. C. Scabia, Forse un drago nascerà, 12 città-teatro di una regione costruita dal Teatro Vagante, Milano, Emme Edizioni, 1973] (1972) è un'esperienza di teatro e scuola per tredici classi di scuola media di differenti città d'Abruzzo. Il progetto fu finanziato dal Teatro Stabile dell'Aquila.
Il Gorilla quadrumano [Cfr. G. Scabia, Il Gorilla Quadrumano, Milano, Feltrinelli, 1974] (1972-1975)
il viaggio di un corso universitario (il gruppo di Drammaturgia 2 del Dams) a cavallo di un'antica commedia popolare, prima studiata e poi recitata dagli studenti stessi in alcuni paesi dell' appennino reggiano; nell'ottica di uno scambio con la cultura e la memoria della gente del posto.
Marco Cavallo [Cfr. C. Scabia, Marco Cavallo. Un'esperienza di animazione in un ospedale psichiatrico, Torino, Einaudi, 1976] (1973): due mesi di animazione teatrale al manicomio di Trieste. Un laboratorio di linguaggi espressivi (teatro, canto, musica, pittura, scrittura), costruito all'interno della comunità dei degenti come un luogo di riattivazione della memoria e dei vissuti individuali repressi; riscattati però nella ritualità di una pratica collettiva liberatoria. Simbolo di questa liberazione rituale diventa il grande cavallo azzurro di legno - Marco Cavallo - che viene costruito nel corso dei due mesi di lavoro, e infine portato in parata per la città ad aprire la festa ed il corteo finali della comunità che gli è cresciuta intorno (malati, operatori, infermieri, medici, studenti).
Parallelamente a questa attività si è sviluppato negli anni il lavoro dello Scabia scrittore. Oltre ai resoconti delle sue esperienze e progettazioni, Scabia ha continuato a comporre per il teatro testi che sono stati più volte messi in scena dallo stesso autore o da altri registi. Si possono qui ricordare Commedia armoniosa del cielo e dell'inferno (1972); Scontri Generali (1973); Il Diavolo e il suo Angelo (1982); Teatro con bosco e animali (1987); Fantastica visione (1988); Nuove lettere a un lupo (1989). Del 1990 è il racconto lungo dal titolo In capo al mondo; del 1993 il romanzo Nane Oca; infine, del 1995 è la già citata raccolta di poesie Il poeta albero.
Scabia ha affiancato all'attività di drammaturgo e regista dei propri testi anche quella di attore e lettore degli stessi. Sotto le spoglie di un Diavolo con tanto di costume, corna e forcone ha recitato, insieme a un immancabile Angelo musicista, tra il 1982 e il 1984 per città e piazze, d'Italia e non, una commedia itinerante in 44 scene dal titolo Il Diavolo e l'Angelo. Sovente accompagna la pubblicazione dei suoi testi con letture pubbliche degli stessi al chiuso di teatri, circoli culturali o case di amici, oppure a cielo aperto, spostandosi per boschi e colline insieme ai suoi ascoltatori, in una forma di teatro della natura e della poesia che in un caso ha assunto il titolo di Trekking di letture del poeta Giuliano Scabia per monti e boschi da Rosignano a Pomarance con sguardo su Volterra (1989).
 
Il "mito" della scrittura collettiva
Così come ci sono legami tra i tre momenti principali dell'attività scabiana, cioè quello dell'avanguardia, il teatro a partecipazione e il lavoro all'Università, allo stesso modo le pratiche di scrittura che attraversano tutte queste esperienze contengono un principio profondo di continuità; questo principio credo si possa indicare nell'espressione di "mito" della scrittura collettiva. "Mito" nel senso di racconto fondatore di una pratica, "racconto" che il teatro di Scabia fa a se stesso sulla possibilità della propria esistenza. E questa possibilità può realizzarsi solo attraverso un ripensamento generale della funzione della scrittura teatrale, e dei modi in cui avviene: alla base di tutto ciò c'è anche l'esigenza di dare nuova concretezza alla lingua; è il problema della lingua italiana letteraria, lingua che sulla scena suona subito inadeguata. Allora la ricerca è anche quella di una lingua concreta: per arrivarci ecco il "metodo" della scrittura collettiva, che è molto più di un metodo freddamente costruito: è una situazione umana nella quale si stabiliscono dinamiche relazionali e dunque linguistiche; situazione umana creata all'insegna di un progetto comune. La scrittura collettiva come "mito fondatore" è questo cerchio umano nel quale si producono racconti, siano essi quelli del Puliero, della gente dell'Appennino reggiano, dei "matti" di Trieste, degli studenti del corso di Drammaturgia 2. Essa si pone dunque come necessità strutturale ed etica, punto di partenza di ogni esperienza concreta di scrittura. Omologa ad essa è l'immagine della piazza, che compare nei primi scritti teorici di Scabia. Oppure, maggiormente venata di utopismo, quella del giardino: "Uno dei temi ricorrenti nel mio lavoro è questo del giardino-paradiso, non come rifugio, come arcadia, ma come progetto possibile. La ricerca degli attori del teatro vagante è la ricerca del giardino possibile; cioè possibile come possibilità del cervello dell'uomo, del corpo dell'uomo, di costruire questo giardino. Infatti il fallimento di Scontri Generali, il fallimento di Fantastica visione ("fallimento" dei personaggi e dell'azione che essi incarnano. N.d.R), sono fallimenti di fronte alla possibilità del "giardino"... e questo giardino si costruisce progettandolo fortemente, volendolo fortemente, volendolo politicamente, volendolo immaginariamente, volendolo poeticamente, perché il giardino è una funzione poetica..."[Intervista a Scabia del 9/11/ 1992, cit.]
Vediamo come questo "mito" della scrittura collettiva si "storicizzi', nella concreta pratica di Scabia; e dove e come appaia, in filigrana o solidamente espressa, l'immagine del giardino.
Abbiamo già visto come nelle note poste in calce all'edizione Einaudi di Zip, si legga che la messinscena è stata il frutto di un lavoro collettivo che ha coinvolto gli attori, l'autore, il regista, lo scenografo, i tecnici.
La scrittura del testo segue l'andamento collettivo del lavoro di messinscena. Nel suo adattarsi alle varianti creative personali di ogni membro dell'ensemble e al respiro comune del lavoro, la scrittura solitaria tende, fin da ora, a scivolare verso un ambito che prevede la collaborazione tra i soggetti creativi che partecipano allo spettacolo. In questo senso essa tende a configurarsi come "scrittura collettiva".
Scrivere durante le prove significa tener conto dei modi di parlare degli attori, del loro modo di essere, della loro psicologia. Benché il risultato finale della scrittura "di compagnia" sia molto diverso dai materiali iniziali, Zip è ancora sottoposto al gesto selettivo del drammaturgo che si assume la responsabilità, ma anche il privilegio, della stesura definitiva.
Una suggestione filosofica a cui Scabia mostra di aderire profondamente, e che ci riporta immediatamente all'immagine della scrittura collettiva, della piazza, finanche del giardino, è una citazione da Gombrowicz riportata dallo stesso Scabia al termine della cronaca del decentramento: "(la letteratura) non piace più e non attira. (...) Questo o quest'altro carattere della letteratura è il risultato delle dipendenze che nascono tra l'artista e gli altri uomini. Se volete che un cantante canti in maniera diversa, dovete legarlo ad altra gente - farlo innamorare di altri e in un'altra maniera. Le combinazioni stilistiche sono inesauribili, ma tutte sono in realtà combinazioni di persone, sono il risultato del fascino che l'uomo esercita Sull'Uorno."[Gombrowicz, Diario 1953-1956, in G. Scabia, Teatro nello spazio.... cit., p.261]
L'esortazione finale di Gombrowicz, poi, nel suo entusiasmo quasi missionario, mi sembra renda bene l'atmosfera emotiva e ideologica che si può immaginare impregnasse l'ambiente in cui avveniva il decentramento ma, anche, esplicita nettamente il carattere radicale di un simile approccio alla letteratura. Di una tale modalità di approccio, infine, la drammaturgia a "scrittura collettiva" appare una conseguenza del tutto evidente: "Coraggio! Rompete questo cerchio magico, andate in cerca di nuove ispirazioni, lasciatevi dominare da un bambino, da un moccioso, da un ebete, legatevi a gente di diversa condizione sociale!" [Idem.]
A Torino gli appunti raccolti durante il decentramento confluiscono in una cronaca pubblicata nel volume Teatro nello spazio degli scontri. È evidentemente stata rivista ma, nella forma, si tratta di una cronaca per appunti costruita come un diario. In questo diario gli avvenimenti sono raccontati per lampi, sintetizzati nella misura di una frase che tende ad essere esauriente e racchiusa in sé come un verso. Ciò che però evita che questa scrittura risulti diaristica in senso intimistico o arcadica per la sua attenzione alla metrica, è l'urgenza di testimoniare e documentare a viva voce l'esperienza che si sta compiendo. In questo senso è proprio un diario di guerra, con la descrizione delle varie battaglie che vi si svolgono.
Anche se non si può parlare, letteralmente, di scrittura collettiva del resoconto, c'è al suo interno un senso della pluralità del reale che la rende "oggettiva" o "concreta".
Il lavoro di due mesi compiuto a Trieste da Scabia, Vittorio Basaglia e altri all'interno del manicomio diretto da Franco Basaglia, è descritto nel libro Marco Cavallo. Il racconto di quest'esperienza è un buon esempio di "scrittura collettiva".
Mi spiego brevemente: Marco Cavallo è un testo "collettivo" perché la scrittura della cronaca è passata attraverso la lettura e correzione da parte di un buon numero di partecipanti al lavoro. Solo dopo varie letture e riscritture il testo ha trovato la sua dimensione - peraltro non definitiva: Scabia ipotizza addirittura un processo di scrittura ininterrotto, allargato a un numero ancora più alto di persone che hanno avuto a che fare col laboratorio.
Marco Cavallo è anche il caso in cui l'immagine del giardino, di cui ho detto poco fa, prende consistenza concreta. Dove quell'utopia, fallimentare in un testo come Scontri Generali, trova per un momento realizzazione pratica e poetica.
Giardino è infatti quella comunità che si fonda intorno al grande cavallo azzurro di cartapesta, simbolo della nuova situazione umana che si è venuta creando tra malati, medici, infermieri, operatori. Questa comunità si pone come modello possibile di convivenza, al di fuori dei "cancelli" che isolano, materialmente e metaforicamente, il manicomio dal resto degli uomini.
Scrittura collettiva, inoltre, sarà quella fatta non solo per mezzo delle parole, ma per mezzo di altre attività connesse all'espressività immediata: il disegnare, il danzare, il cantare, il recitare. È da questo punto di vista che la dimensione dello scrittore, in Scabia, si trasfonde in quella del teatrante. Dove le storie non possono passare attraverso le parole, perché le parole sono incrostate dal cattivo uso, o si sono allontanate dall'esperienza, o hanno generato disturbi della comunicazione e vere e proprie malattie, il modus operandi della scrittura collettiva lavora intorno alle possibilità della comunicazione attraverso linguaggi disparati, più immediati della parola. Così accade, per esempio, con i pazienti del manicomio di Trieste. Ma anche dove le parole ci sono, e raccontano, hanno rapporto stretto con l'esperienza e la memoria di una comunità, lì ugualmente il teatro fa la sua apparizione. Per essere più chiari: non siamo in presenza di uno scrittore che si porta a casa la materia che ha trovato: Scabia la rimette in circolo nel momento stesso in cui la trova, e la scambia con la materia che lui e i suoi collaboratori propongono (sull'Appennino reggiano era lo spettacolo Il Gorilla Quadrumano). In questo senso dunque, e non esclusivamente in quello legato allo spettacolo, si può parlare di "teatro" quando Scabia e i suoi studenti vanno sull'Appennino reggiano a interagire con le comunità che lì vivono. In quei paesi non si fa solo lo spettacolo, né soltanto si coinvolge in un evento spettacolare collettivo la gente del luogo (la festa). Si va oltre: si progetta e si vive un'esperienza umana e politica che si arricchisce attraverso i linguaggi espressivi e che li arricchisce; arricchendo anche la comprensione del loro funzionamento.
Ecco allora, privato del tono predicatorio, il significato concreto dell'esortazione di Gombrowicz che ho citato qualche pagina fa.
 
Avanguardia e istituzione
Si noti come ogni esperimento di scrittura collettiva tentato da Scabia almeno da Zip in poi, debordi sempre dalla normalità del contesto da cui prende avvio.
Zip, come allestimento di un testo già letto e approvato dai direttori dello Stabile di Genova, suoi promotori, deborda dal suo esclusivo alveo autorale e si stratifica nel lavoro di compagnia. Scontri Generali tende ad uscire quasi programmaticamente dal teatro, va a cercare la sua dimensione nel sociale e nel politico.
Il decentramento torinese diventa da subito qualcos'altro: la normalità burocratica del progetto viene scalzata via, l'azione di Scabia va a inserirsi in un tessuto sociale vivo e contraddittorio.
Anche Marco Cavallo va a far leva su una normalità istituzionale che è quella dell'ospedale psichiatrico, una normalità - a Trieste - già fecondamente insidiata dall'opera di Franco Basaglia.
Si noti che l'ipotesi del teatro a "scrittura collettiva" - o "a partecipazione" - si è fin qui sostanziata in una dialettica, spesso aspra, tra istituzione promotrice e operatori (lo stesso Scabia e i suoi collaboratori). Inoltre, la potenzialità eversiva di una tale concezione della drammaturgia appare evidente dalla seguente riflessione scabiana: "Poiché ritengo il teatro la forma più semplice ed elementare di comunicazione fantastica, l'unico luogo dove ci si può permettere di apparire idioti senza venire emarginati, ritengo la scrittura un fondamento importante, aiutando le immagini profonde ad emergere e a chiarirsi." [G. Scabia, Casa delle immagini profonde. Ciclo del teatro vagante. Arte della fuga, 1974; inedito]
È evidente qui come la scrittura tenda a rendere operativa la necessaria mediazione tra "forma di comunicazione" e sua radice nelle "immagini profonde"; e come tale direzione di lavoro tenda ad escludere ogni mediazione politico
istituzionale, nel momento in cui quest'ultima potrebbe influenzare pesantemente il progetto in corso. È altrettanto vero che si tratta di un progetto "espansivo", cioè esposto alla verifica collettiva ínevitabile del fare teatro, altrimenti ci troveremmo di fronte solo al progetto del poeta dove, invece, è necessariamente assente ogni forma di mediazione politico-istituzionale: il poeta fruga nelle immagini profonde e tra questo atto intimo - e non comunitario - e la forma comunicabile che assume non si interpone alcuna necessità di mediazione che non sia quella imposta dalla lingua.
Diversamente accade per il teatro, dove evidentemente la mediazione non investe soltanto questioni linguistiche, ma anche questioni legate ai meccanismi socio-politici con i quali si confronta. La cosa si complica ulteriormente se tra il progetto del teatrante e il suo referente socio-politico si inserisce, come ente promotore, un organismo istituzionale.
Quali sono le possibilità di relazione del teatrante con esso: l'equidistanza (anche rispetto al proprio referente socio-politico); lo scontro; una dialettica che contenga scontro e rispetto?
Ma il "rispetto" verso l'organismo istituzionale dove si situa? Al livello delle regole che impone o nel solo fatto di accettarne l'esistenza come committente? Accettare l'istituzione come committente non vuol dire necessariamente accettarne le regole.
E non si tratta di un uso puramente strumentale del mecenate istituzione, in quanto la storia degli scontri teatrali in seno all'istituzione di volta in volta interessata ai progetti scabiani ha lasciato, all'interno di essa, delle tracce. Nel manicomio di Trieste dopo Marco Cavallo si è aperta tutta una stagione fatta di laboratori teatrali e di pittura, fatta di gruppi che propongono teatro e altro, conseguenza principale, è ovvio, del lavoro faticoso e permanente che gli operatori vi hanno condotto e vi conducono, ma, altrettanto evidentemente, figlia diretta di quella prima provocazione.
"Avanguardia dell'istituzione" si potrebbe dire di un simile processo, avviato nel seno dell'istituzione stessa e portato a modificarla radicalmente più che a scavalcarla o a distruggerla. "Dell'istituzione" perché in questo caso è l'istituzione stessa a chiamare a sé, per così dire, l'"agente provocatore". Nel manicomio, all'università, anche nella scuola, la condizione per cui avviene ciò che avviene è che, dall'interno, qualcuno che crede nella necessità che l'istituzione si apra, prepari la strada alle esperienze anche le più estreme. Non è un caso che Scabia incontri proprio Basaglia e non un altro direttore di Manicomio; come non è un caso che Scabia venga chiamato ad insegnare al DAMS - nato come corso universitario sperimentale sopra un progetto che prevedeva di individuare e definire una nuova figura professionale nel campo della progettazione e della organizzazione culturale.
Dove l'intervento di Scabia si svolge in una situazione di solo apparente apertura - vedi le esperienze con lo stabile torinese, quello genovese, con l'ATER, con il Piccolo - di esso rimane invece attivo esclusivamente l'aspetto "dinamitardo", come testimoniano le vicende già note di censure, veti, dure polemiche, allontanamenti che hanno costellato buona parte dell'operato di Scabia nel teatro "ufficiale". In questo caso la contrapposizione è più netta; perciò si può parlare con maggior precisione di "avanguardia nell'istituzione".
Credo che il passaggio di Scabia all'insegnamento universitario abbia prodotto un ulteriore scarto nella sua tensione sperimentale, che passa dal perenne conflitto con l'istituzione teatrale e politica (avanguardia nell'istituzione), a una sperimentazione integrata nel corpo dell'istituzione universitaria. Anche se in una zona anomala dell'istituzione che nasceva a seguito di un progetto innovativo.
Il corso di laurea DAMS fondato ne'72, prevede l'integrazione fra l'insegnamento universitario e le forze artistiche e intellettuali cresciute all'esterno dell'istituzione. E Scabia, con Eco, Squarzina, Celati, Furio Colombo, Polidori e altri, entra a farne parte come docente nello stesso anno.
 
IL "TEATRO STABILE" DI GIULIANO SCABIA
Università e teatro: tre elementi di fondo
Il percorso pedagogico-universitario di Scabia si snoda tra cultura universitaria "ufficiale", esplorazioni teatrali (che partono, sempre, da un testo), esplorazione delle possibilità umane e artigianali di un gruppo di persone (gli studenti dei vari anni di corso).
Vorrei esaminare un momento i tre elementi appena menzionati.
l. La cultura universitaria "ufficiale" si esprime in quella specie di summa della conoscenza potenziale, di cui ogni studente dovrà decifrare i segni, che è il "programma di corso" (preparato annualmente da ogni docente per il proprio insegnamento). Esso, osservato dal punto di vista della particolare drammaturgia scabiana, diventa un documento più concretamente progettuale, uno schema di intervento, assomigliando in ciò allo "schema vuoto", per usare una nota nozione scabiana che
nell'ambito del "teatro a partecipazione" da lui praticato - ben fotografa, di un'esperienza avvenuta, il grado minimo di progettazione che le è stato preposto: "Lo schema vuoto è un canovaccio, una "commedia" di cui sono scritti soltanto i titoli delle scene: può venire riempito in molti modi, a seconda delle situazioni".[Dattiloscritto messomi gentilmente a disposizione da Scabia, consultato presso l'archivio Scabia a Colleramole Firenze. C. Scabia, Forse un drago nascerà, cit., p. 13]
Anche nel caso del "programma di corso", dunque, potremmo dire di essere di fronte a una specie di "schema vuoto"? Di fronte a qualcosa cioè, che stabilisce un grado zero della drammaturgia perché è pensato per essere in seguito riempito dai contenuti dell'esperienza?
2. Le esplorazioni teatrali, che conducono su strade le più diverse e impensabili, partono
sempre da un testo, o da testi. Per "testo" qui non si intende solo una unità drammaturgica compiuta e convenzionale appartenente al repertorio drammatico occidentale: accanto alla scelta di testi teatrali canonici e basilari per la storia del teatro occidentale (Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare; Pentesilea di Von Kleist; Faust di Goethe ecc...), si sviluppa un'attenzione verso altri tipi di testo.
Una volta è un testo che nasce dalle improvvisazioni su di una traccia proposta da Scabia (Ottetto
a.a. 1984-85). Un'altra volta la scrittura anticipa il lavoro di scena che poi si sostanzia in uno "spettacolo": ed è scrittura individuale di ciascuno studente su tema dato, che in seguito si integra nella stesura collettiva del testo finale (Questa sala - a.a. 1986-1987). In un altro caso il riferimento di partenza non è un testo, ma un personaggio che percorre una catena di testi di varie epoche (Don Giovanni in "Rassegna di moderni Don Giovanni" a.a. 1991-1992). Ogni anno cambia il punto d'osservazione nell'indagine sulla drammaturgia del testo e sui suoi rapporti con chi lo affronta
leggendolo o mettendolo in scena o, è il caso del corso del 1996 sulle Baccanti di Euripide, addirittura danzandolo.
3. Esplorazione delle possibilità umane e artigianali di un gruppo di studenti. Questo è uno degli aspetti più pregnanti e originali dell'attività universitaria di Scabia. Forse l'aspetto che presenta i più evidenti parallelismi con la sua attività indipendente. Abbiamo visto infatti come ogni processo artistico che porta poi a un testo, a uno spettacolo, o va a configurare un'esperienza di '1eatro a partecipazione" prenda sempre le mosse da incontri con persone particolari, che suscitano determinati stimoli. Il lavoro con gli studenti non prende mai come punto di partenza l'eventuale prodotto finale, ma tende a indagare le dinamiche di relazione, si interroga sul rapporto tra soggetto e sapere, su quello tra soggetto e ideologia, tra soggetto e memoria, tra soggetto e suo ruolo nella cultura della propria epoca. Allo stesso tempo tende a produrre meccanismi di seduzione reciproca, cioè una dinamica simile al rapporto che si instaura tra artisti che collaborano per un'opera. Pur, con questo, mantenendo chiara la natura essenziale di rapporto pedagogico che caratterizza allievo e docente.
Semplificando, si potrebbe dire che: 1) queste esplorazioni partono dalle esigenze didattiche del contesto ufficiale; 2) coinvolgono gli studenti facendo leva sulla loro disponibilità a rendersi percepibili, a sé e agli altri, come individui complessi e in relazione reciproca e non solo come semplici, isolati fruitori di "sapere"; 3) passano per il "fare teatro" dunque si pongono il problema della scena: del "se" e del "come" arrivarci a partire dallo stimolo preciso di un "testo"; 4) approdano, anche se non sempre, a uno spettacolo che diventa anche esemplificazione teatrale della storia, piccola o grande, di quel gruppo in quel contesto); 5) si concludono tornando al punto di partenza, all'Università
lo spettacolo spesso diventa anche prova d'esame, insieme ad una verifica colloquiale sulla base di relazioni interne al lavoro svolto, le "scritture", così compiendosi il passaggio obbligato dell'esame, dunque il "ritorno" istituzionale, e compiendosi anche il percorso "nell'esperienza" dello schema vuoto/programma d'esame.
 
Il rapporto coi testi
Durante il corso Scabia affronta i testi di base seguendo tre tensioni fondamentali:
A) La prima conduce la riflessione nei pressi delle opere "rnonumento", e cerca rispetto ad esse non tanto l'approccio teorico/interpretativo, quanto una modalità di contatto più intima, sia con la "superficie verbale" del testo - che spesso viene tradotto da ciascuno studente, trasformandosi anche in pretesto per la ricerca di una scrittura organica alla propria lingua più vera e profonda - sia con il tema di fondo, con l'anima nascosta dell'opera, o con l'"archetipo" che va a toccare.
Scabia usa il termine "archetipo" almeno in due differenti contesti: in un ambito progettuale /pratico e in una prospettiva già teoretica. Nella cronaca del lavoro con le scuole d'Abruzzo (Forse un drago nascerà) Scabia usa l'espressione "tastiera di archetipi". Dice: "Lo schema Forse un drago nascerà si fonda sulla struttura dei miti di fondazione e delle fiabe di draghi, attraverso una tastiera di archetipi (il Fondatore-Padre (fondatore delle città di cartone che vengono costruite e animate dai ragazzi N.d.R), la Città Nuova, il Gran Teatro Spettacolo della Città, gli Alter Ego burattini - lo sdoppiamento degli abitanti -, il Drago, il Cavaliere) che ha lo scopo di mettere in moto tutta la forza fantasmatica di chi è coinvolto nell'azione." [Idem.] Nel caso citato dunque ogni "archetipo" emergerebbe attraverso la costruzione e la presenza attiva di un oggetto più o meno grande il Fondatore-Padre è un pupazzo gigante; il Drago una lunga struttura di stoffa e cartapesta sotto la quale trovano posto i bambini che lo animano, e così via. In ambito più teoretico si colloca invece la seguente riflessione sopra l'uso di oggetti che tendono a suscitare archetipi:
"La verità e grandezza dei pupazzi giganti, totem, draghi, eccetera (il fare "gigante") è prima di tutto un bisogno narrativo, una proiezione esterna di archetipi (protettivi o distruttivi) allo scopo di renderli più forti nei confronti della scena esterna (la città, la campagna). Ma è anche un'astuzia per accrescere il rapporto fantasmatico di partecipazione. Il pupazzo gigante, il drago, eccetera, accendono una serie di ricordi e di proiezioni che mutano le relazioni esistenti fra corpo e mondo esterno. Un oggetto gigante gestito nello spazio e continuamente inventato fa mutare di segno a tutto lo spazio: la sorpresa di questa nuova ottica costituisce l'inizio di un processo conoscitivo: cioè l'inizio della messa in discussione dell'assetto stereotipo (e ideologico) dello spazio in cui ci troviamo immersi. In questo senso l'oggetto gigante è uno stimolo gestito attraverso una storia fantastica costruita collettivamente."[G. Scabia, Teatro nello spazio degli scontri, cit., p. XVIII]
Anche il testo può contenere archetipi. Portarli alla luce e confrontarcisi: è una delle direzioni del lavoro con gli studenti.
Coerentemente, Scabia parla di "andare dentro al testo con tutto il corpo", anche per scoprire i reali punti di contatto tra il testo e chi, in quel momento, lo attraversa.
Le opere prese in esame nei vari anni di corso sono le seguenti: Leonce e Lena di Búchner (a.a. 1977/78) Pentesilea di Von Kleist (a.a. 1981-1982), Doctor Faustus di Marlowe (a.a. 1982/83), Maistre Pierre Pathelin di anonimo francese del 300 (a.a. 1983-1984), Les jeux de lafeuillée di Adam de la Halle (19851986); Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare (a.a. 1987-1988), Faust di Goethe (a.a. 1989-1990), Le Baccanti di Euripide, il tema del corso 1996.
B) La seconda tensione si manifesta nello "spezzare" i testi, - pur senza prescinderne - per individuare temi o personaggi presenti in più di un'opera in epoche diverse, che possono considerarsi archetipi della cultura occidentale (Rassegna di moderni Don Giovanni (a.a.1991-1992), sul personaggio di Don Giovanni; Cavalli e cavalieri (a.a.1992-1993), sulla figura letteraria del cavaliere antico; Gli stivali del gatto e la voce della poesia (a.a.1993-1994), sul personaggio del Gatto con gli stivali nella sua versione perraultiana, ma toccando anche altre versioni conosciute; Da bosco a bosco camminando (a.a.1994-1995), sul tema del bosco nei due drammi shakespeariani Sogno di una notte..., e Come vi piace). Anche in questo caso non cambia l'approccio deideologizzante e attualizzante - tendente cioè a confrontarsi con l'esperienza "storica" e personale dello studente - rispetto ai temi-personaggio affrontati. Mi sembra che in ultima analisi lo scopo sia sempre quello di suscitare negli studenti reazioni "vere", rispetto a qualcosa che altrimenti rimane argomento puramente accademico. E a partire da qui strutturare un percorso pedagogico.
C) La terza tensione, che si manifesta solo un paio di volte (Ottetto, a.a.19851986; Questa sala, a.a.1986-1987), consiste nel lavoro diretto sulla scrittura nel suo rapporto con la scena, senza la mediazione di un testo preesistente; cioè partendo esclusivamente dalle improvvisazioni e dai testi prodotti dagli studenti su tema dato.
Quello che abbiamo poc'anzi sommariamente descritto è un po' il processo visto in sezione, l'estrapolazione di una serie di costanti deducibili dai documenti che registrano, anno per anno, le esperienze teatrali compiute da Scabia all'Università. E di questi documenti è indispensabile parlare, poiché non sono semplici verbali d'attività svolte, non hanno solo funzione istituzionale giacché costituiscono programma d'esame. Ma sono il momento in cui la logica istituzionale del corso universitario e l'esperienza compiuta si fondono in un testo che oltrepassa la circolarità equilibrata, logica, del processo "università - esperienza - università".
In altre parole, questi testi richiedono un sovrappiù di energia, assolutamente non richiesto dalla logica istituzionale della prova d'esame. In certi casi questo sovrappiù non si limita a produrre testi straordinari (le dispense: testi straordinari - nel senso di "fuori dalla norma" - perché non mi risulta che in nessun'altra facoltà gli studenti scrivano i testi dell'esame!), ma, addirittura, sfocia in un'attività semiprofessionale di teatro; con tournèe, dunque viaggi, esperienze di autogestione e quant'altro. Non è un caso che molti allievi di Scabia, nel corso degli anni, siano poi effettivamente entrati nel mestiere del teatro. A questo proposito è qui il caso di citare l'esperienza del Gorilla Quadrumano (1972
un gruppo di studenti, muovendo dallo studio di una commedia popolare del secolo scorso, che si recitava nei paesi dell'Appennino reggiano, parte alla volta dell'Appennino a "riportare", recitandola a sua volta, la commedia suddetta. Il viaggio diventa un'occasione per avvicinarsi alla conoscenza di una cultura "subalterna", la cui memoria è seriamente minacciata, e nello stesso tempo per indagare e approfondire i rapporti esistenti tra culture "subalterne" e cultura "ufficiale".
Il tempo dedicato a questo tipo di lavoro comincia ad essere un tempo extrascolastico; da individuale che è normalmente, il tempo tende a diventare di gruppo, con le sue regole e le sue scansioni stabilite dal programma che il gruppo si dà; il luogo del lavoro comincia a non essere più soltanto l'aula universitaria, ma i luoghi in cui il gruppo sceglie di agire, e quel particolare tempo-spazio quasi impalpabile, ma ben presente, che è la coordinata interna che qualsiasi buon gruppo - specie teatrale - finisce per possedere e che gli consente di adattarsi a spazi e tempi esterni sempre diversi.
Non si tratta più solo di energie intellettuali, ma è anche lavoro fisico, sudore, fatica che vengono profusi. Il caso del Gorilla Quadrumano è il più eclatante - addirittura una tourneè in Francia al festival internazionale di Nancy, e parecchi giri per l'Italia - ma non è il solo. Allora: il corso che diventa gruppo e il gruppo che diventa compagnia teatrale semi-professionale. Fin qui è quello che, probabilmente, può avvenire in una qualsiasi buona scuola di teatro. E scuola di teatro in un certo senso è, così come è scuola tout court. Siamo cioè di fronte a una particolare pedagogia, dove teatro e scuola si fondono in una medesima ricerca: "La linea su cui mi sono mosso è stata comunque sempre quella della ricerca di un "vero naturale" del comunicare, che mi appare sempre - paradossalmente - vicino e lontano, facilissimo e difficilissimo obiettivo."[C. Scabia, in E. Casini Ropa, C. Scabia, L'animazione teatrale, Rimini - Firenze, Guaraldi, 1978, p. 12.]
Ricerca che può: "Gettare luce su alcuni nodi non solo del fare teatro, ma della comunicazione in generale, e in particolare della comunicazione corporea nell'età elettronica. "[G. Scabia e la Scuola di Bologna, Il sangue e le rose. Laboratorio su Pentesilea di H. von Kleist. Dispensa realizzata per il corso di Drammaturgia 2, A.a.19 81 /'82. La descrizione citata è di Massimo Marino, p. l.]
È importante sottolineare che non solo il teatro, il manicomio o l'università vengono interessati dall'azione di Scabia, ma anche la scuola che, non diversamente dalle altre istituzioni citate, aveva intrapreso, tra il finire degli anni '60 e l'inizio dei '70, soprattutto per merito di maestri elementari/ animatori come Mario Lodi e Fiorenzo Alfieri - per citarne solo un paio - dello stesso Scabia e del Movimento di Cooperazione Educativa, una radicale critica al sistema educativo che fin'allora ne aveva caratterizzato l'esistenza. La pedagogia di Scabia non solo fonde insieme teatro e scuola, ma cerca il modo di far "saltare" la scuola col teatro, per così dire; sia nel senso di farla "saltare in aria" - metaforicamente parlando - che in quello di ricollocarne la funzione a un altro livello, con un salto. Nella duplicità semantica del verbo "saltare" - riferito alla scuola, all'università, al teatro, al manicomio, a qualsiasi istituzione interessata - si può cogliere mi sembra abbastanza bene la dialettica che governa il lavoro di Scabia: quando si intende "saltare per aria" viene in evidenza l'aspetto rivoluzionario dell'azione; quando si intende "far fare un salto" emerge l'aspetto di vivificazione all'interno dell'istituzione stessa. Entrambi sono presenti, l'uno non esiste senza l'altro. Il manicomio di Trieste salta per aria; i ruoli, le distanze tra operatori psichiatrici, artisti, malati saltano; si crea una unica "comunità"; il manicomio salta in aria così forte che proietta per tutta la città il suo "contenuto"; i "matti" escono per la città. Ma il "saltare in aria", lungi dal rimanere una bella festa passata, deve porre le basi per un salto di consapevolezza.
 
Le dispense universitarie
L'autonomia "letteraria" dei testi prodotti nei vari anni di corso è direttamente proporzionale alla forza dell'esperienza che li ha generati. Alcuni di questi testi hanno la forza narrativa di un romanzo: il Gorilla Quadrumàno è un racconto perennemente in equilibrio tra esigenza di chiarezza documentaria sul metodo didattico che guida l'esperienza del gruppo, impegno eticopolitico, e momenti di limpidezza narrativa che escono dalla bocca di alcuni personaggi memorabili scovati in qualche villaggio dell'Appennino.
Il Gorilla Quadrumàno viene pubblicato da Feltrinelli nel 1974, mentre Dire, fare, baciare esce nel 1982. Sono gli unici due documenti sul corso di Drammaturgia 2 che siano stati pubblicati. Ma paralleli ad essi esistono altri corpus di descrizioni e testi prodotti all'Università al ritmo di uno per anno.
Ogni corso prende avvio dalla lettura di un testo, non necessariamente teatrale o costituito da un'opera completa.
Nel 1993-1994 si parte dalla fiaba Il gatto con gli stivali di Perrault; nel 19821983 dal monologo finale di Faust tratto dal Doctor Faustus di Marlowe; nel 1986-1987 gli scritti vengono prodotti dagli studenti su un tema dato (la descrizione della Sala de' Fiorentini, allora sede dei laboratori del D.A.M.S). Si tratta di testi molto diversi - come si vede - il cui criterio di scelta probabilmente ubbidisce alle suggestioni culturali che in quel momento sono attive nel docente/autore, suggestioni che, colte in filigrana nella lettura dei documenti, rimandano ai loro contesti specifici di provenienza. Credo non sia un caso, per esempio, che, nel 1994, la scelta della fiaba di Perrault cada in un momento in cui l'attenzione dello Scabia scrittore è ancora rivolta al problema della narrazione in prosa, appena affrontato in romanzi come In capo al mondo (1990) e Nane Oca (1992). Altrettanto indicativa è la scelta di Leonce e Lena di Biichner, che, nel 1978, cade in un momento politico delicato e disperato come quello che seguì i fatti del 1977 bolognese (il poeta Búchner, giovane e rivoluzionario, appariva forse, rispetto agli studenti del 1977/1978, un "coetaneo" di un secolo prima). Ma il criterio della scelta è secondario rispetto al metodo con cui Scabia affronta il lavoro sui testi. Non si pensi che la breve fiaba di Perrault, ad esempio, venga subito trattata come tema per uno spettacolo. Il testo anche qui, come lo era stato per Scontri generali, funziona da "test" ("testo/test" è la definizione che Scabia aveva dato del primo Scontri G.). Mette cioè alla prova.
Una prima prova è quella della traduzione dalla lingua originale. Nel caso del Gatto con gli stivali gli studenti traducono, ognuno per conto proprio, dal francese. In quello della farsa di Maistre Pierre Pathelin - argomento del corso 1983 /1984 - Scabia tenta una traduzione collettiva, ma poi propende per una "traduzione letterale molto commentata "[Corso di Drammaturgia 2, C. Scabia, Bee ovvero farsa di Maistre Pierre Pathelin, dispensa realizzata nell'a. a. 83-'84, P.III]. Sulla base della quale ogni studente conduce poi una traduzione personale. Non sempre si parte dalla traduzione o dalla scrittura. Ne Gli stivali del Gatto e la voce della poesia l'incontro con il testo avviene a corso cominciato, ma, in ogni caso, la fiaba di Perrault comincia ad esercitare la sua influenza fin dal primo giorno di lezione.
Diciamo, meglio, che intorno alla fiaba si crea una rete di azioni che si rapporta ad essa in vari modi. La prima di queste azioni è una camminata. Una camminata che i ragazzi del corso, insieme a Scabia, compiono attraversando il centro di Bologna per raggiungere la nuova aula di lezione.
Si tenga presente che il personaggio di Perrault è simboleggiato dagli stivali che indossa. Con questi stivali il gatto precede sempre il padrone e sistema le cose in suo favore ("il bravo gatto, che faceva sempre da battistrada"; o che "trottava sempre avanti la carrozza") [Charles Perrault, Il gatto con gli stivali, trad. di Carlo Collodi , in Gli stivali del gatto e la voce della poesia, a cura di Francesca Gasparini, dispensa realizzata per il corso,di Drammaturgia 2, A. a. 93/94, p. 66]. Dunque la camminata del primo giorno di lezione è insieme un modo indiretto e corporeo di entrare dentro al testo. E' una prova di resistenza per le motivazioni del gruppo, l'atto di fondazione del gruppo stesso, il silenzioso patto che il gruppo degli studenti sottoscrive con Scabia, e anche, in senso lato, la prima inconsapevole improvvisazione del gruppo sul tema del corso. E infatti, il giorno dopo Scabia propone di fissare con la scrittura la memoria di quel primo, sorprendente esercizio su un tema molto preciso: camminare.
 
Paratesto e drammaturgia delle coincidenze
Entrare nel testo per Scabia significa spesso creare con gli studenti un "paratesto", che ricalca i motivi strutturali del testo preso in esame, ma che non è propriamente il testo stesso, nè un testo letterario composto per l'occasione. Il paratesto è una dimensione dell'esperienza che viene suscitata dal testo; o il contenuto mentale e formalizzato di un'esperienza in atto.
Oppure, in altri termini ancora, è il "fantasma" del testo, che lascia il suo corpo di parole e va ad abitare corpi di carne e oggetti.
Il paratesto si specchia nel testo momento per momento, costruendosi sul suo modello, sulla sua struttura, ma con una storia diversa. Ad esempio, la fiaba del Gatto con gli stivali comincia con la morte del padre e con l'eredità che questi lascia ai figli; all'ultimo di essi il padre lascia solo un gatto, che però è molto furbo: di questa furbizia gli stivali e il sacco sono il mezzo e insieme il simbolo. Grazie alla poetica/pratica del paratesto l'inizio della fiaba, così come l'ho descritto poc'anzi, si rispecchia nel primo giorno di lezione. Viene a mancare l'aula; bisogna trasferirsi in quella nuova. Davanti al portone sbarrato Scabia dice: "Seguitemi, ma state attenti che potrei anche scomparire."; così il gruppo si mette in marcia.
Si sente l'eco di due dei temi della fiaba: quello della morte del padre, corrispondente all'improvvisa indisponibilità dell'istituzione; quello del camminare, del mettersi in marcia, come conseguenza di questa perdita. Il tema del camminare nella fiaba è simboleggiato dagli stivali del gatto; il primo giorno di lezione, invece, questo tema si sostanzia in una vera camminata.
Il paratesto emerge proprio dal testo, se ne stacca come un ectoplasma, usa i suoi temi, ne ricalca la struttura, ma racconta una storia diversa, storia di persone qui ed ora, all'università a seguire un corso negli anni '90, ma entrate nell'alone di un racconto di qualche secolo prima che diventa, poi, racconto di gruppo.
Non pochi ragazzi dubitano che il "professore" abbia predisposto, come fa credere, l'incidente del primo giorno; sembra loro più probabile che abbia sfruttato una coincidenza, una mera casualità. Annota una studentessa: "Una camminata attraverso la città, vissuta a posteriori come un "tutto calcolato" da parte del professore. Forse sì, forse no"[Ibidem, p. 11]. Oppure: "Il primo giorno di lezione dobbiamo camminare. Il giorno successivo dobbiamo scrivere sul camminare. Penso che molti di noi si siano interrogati sulla furbizia del professore. Fare e poi scrivere: metodo educativo o coincidenza?"[Ibidem, p. VIL].
Che Scabia abbia sfruttato una coincidenza o meno è poco importante. Più interessante è constatare che Scabia ha messo in atto, in questo caso, una "drammaturgia delle coincidenze". Che una tale drammaturgia, qui, risulti come il frutto di un progetto, o di un'improvvisazione, cambia poco; l'importante è notare la presenza di questo principio d'azione: una gestione delle coincidenze a scopo drammaturgico.
Un altro esempio della tendenza a far emergere un paratesto dal testo preso in esame, lo si può trovare in questa nota di Massimo Marino33 relativa al corso tenuto nel 1982-83, su un frammento del Doctor Faustus di Marlowe, e contenuta nella dispensa prodotta in quell'occasione: "Nel primo incontro Scabia propone un patto agli studenti: ognuno di loro deve costruire individualmente - uno spettacolo a partire dall'ultimo monologo di Faust. ( ... ) Scabia detta e fa firmare ad ognuno il patto: il testo del Faustus da percorrere con attenzione microanalitica per poter mettere in scena l'immaginario profondo che contiene. (...) 1 discorsi che ho sintetizzato qui - usando il presente - non sono durati più di un'ora (la prima ora del corso). Essi costituiscono la traccia delle ipotesi da verificare nell'esperimento: mi sembrano il corrispettivo del primo monologo di Faust e della scena del patto con Mefistofele. Ora proseguirò usando il passato prossimo e l'imperfetto, come se fossi Faust che rievoca davanti ai colleghi il percorso della sua vita e che, nel ricordare, aggiunge racconti sul "Gran Mondo" che ha attraversato. Riflette prima della sua ultima ora, che sarà costituita dai canovacci e dagli spettacoli (dispensa come riscrittura del Faustus di Marlowe, come testimonianza, "in testo", di un percorso contemporaneo dentro quel testo?)".[Massimo Marino è stato stretto collaboratore di Scabia all'Università; tra le altre cose ha curato il resoconto dell'esperienza su Leonce e Lena, pubblicato con il titolo di Dire fare baciare, La Casa Usher, Firenze, 1981]
Qui il paratesto viene addirittura "scritto": è il testo della dispensa. Corneper effetto di una mimesi congenita, la dispensa tende a divenire il "corrispettivo', del Faustus. Così, per esempio, la parte introduttiva della dispensa - dove si sintetizzano i discorsi della prima ora di lezione - si pone quale "corrispettivo" del "primo monologo di Faust" e della "scena del patto con Mefistofele". Non solo: ad un certo punto l'autore della cronaca introduce un "come se" che fa tendenzialmente coincidere l'atto narrativo del cronista con quello dello stesso Faust, allorchè questi, poco prima della scadenza del patto, rievoca la sua vita. Il cronista non parla della propria vita, ma di ciò che il gruppo ha elaborato e vissuto intorno e dentro al Faustus. Nel paratesto il gruppo degli studenti, in un certo senso, "diventa" Faust; analogamente il racconto dell'esperienza del gruppo "diventa" il racconto di Faust.
Inoltre, nella dispensa la nozione di paratesto è indirettamente enunciata. Mi riferisco alla definizione di "dispensa come riscrittura del Faustus ( ... ) ", dove è evidente lo specchiarsi della scrittura documentaria della dispensa nel modello drammaturgico costituito dall'opera.
Negli scritti contenuti nella dispensa sul Gatto… la consapevolezza del paratesto è meno attiva, la sua presenza è vissuta come un fatto suggestivo, al limite magico o di "furbizia" - "Penso che molti di noi si siano interrogati sulla furbizia del professore. Fare e poi scrivere metodo educativo o coincidenza?"[Corso di Drammaturgia 2, G. Scabia, Gli stivali del gatto e la voce della poesia, cit., p. II]
In un'altra parte della dispensa una studentessa dice: "Così partiamo, professor Scabia in testa ("seguitemi, ma state attenti, qualche volta potrei anche scomparire")", oppure: "non vorrei insistere sulla magia di quella camminata ( ... )", e ancora: "Non vorrei insistere sul fatto che il professore, dopo essere finalmente giunti alla meta, ci promette di rivelarci-svelarci il segreto dell'eterna giovinezza ( ... )"[Idem.]
Il tono letterario delle cronache, che a volte offusca, copre gli eventi, mi sembra una spia della forte suggestione esercitata da Scabia. Le cronache raccolte nella dispensa tendono alla creatività, segno che si è messo in moto un meccanismo di "comprensione affettiva", totalmente opposto a quello intellettivo cui abitualmente gli studenti si affidano. La "suggestione" esercitata dal professore è un semplice atto di affabulazione. Scabia comincia immediatamente a "recitare" - nel senso di to play - a far teatro; crea suggestioni con corpo e parola d'attore.
In questo modo gli studenti sono sottoposti a una sorta di spaesamento - c'è anche chi lo rifiuta e se ne va.
 
Istituzione e "affettività"
Una delle domande che ponevo qualche pagina fa torna ora d'attualità: com'è possibile tener vivo e fecondo il paradosso di una completa identità tra lo spazio-tempo istituzionale d'un corso universitario e uno spaziotempo "affettivo" che vi si sovrappone fin quasi a farlo scomparire? Si potrebbe dare una risposta con le parole di una studentessa. Cosa rimane di quella camminata affabulatoria di inizio corso?
"Rimane la qualità di quella camminata, determinata dalle richieste dei giorni successivi. Ripensarla, scriverne, non accontentarsi dei primi pensieri che vengono alla mente e ancora camminare, immaginare di camminare, leggere di camminare. Senza saperlo apprendiamo le regole di un sistema di indagine." (il corsivo è mio).[Ibidem, p. VIL]
Attraverso la messa in moto di una "conoscenza affettiva" cioè, si giunge, inizialmente senza saperlo, ad apprendere metodi di lavoro, di ricerca. Mi sembra che tutto questo possa vivere nella misura in cui viene a formarsi un gruppo. Dal corso come insieme di studenti si passa, anche se non sempre, al gruppo, mentre il passaggio alla compagnia teatrale semiprofessionale è avvenuto poche volte: per il Gorilla (1974), per il Pathelin (1984), per Les jeux de la feuileè (1986). Intuire la possibilità che ci sia gruppo e seguire questa intuizione: non è cosa che venga detta, nè definita nè, forse, preparata. Ma nel momento in cui si avvia il lavoro è necessario, precisa Scabia, "mettere la fine nell'inizio"; cioè assegnare all'esperienza in corso, fin dal primo momento, una durata limitata nel tempo; e anche ritualizzare collettivamente il tempo, in modo che la fine dell'esperienza venga percepita chiaramente da tutti: avvertenza, questa, quanto mai necessaria se si pensa al caso limite di Marco Cavallo, dove ci furono grossi problemi nel momento del distacco, quando fu necessario sciogliere il gruppo, dichiarare terminata l'esperienza. Certamente il gruppo non si forma ogni anno, dipende da una serie di circostanze. Credo, alla luce della mia esperienza personale con il Teatro Ridotto di Bologna, che un insieme di persone cominci a diventare gruppo, o comunità, nel momento in cui si definisce rispetto a un fatto esterno che lo coinvolge e, anche, lo mette alla prova. In altri termini si potrebbe parlare della necessità di una "dislocazione" iniziale - mentale, fisica, spaziale -che faccia scattare l'impegno psico-fisico dell'esperienza.
È come un meccanismo di "spaesamento/ orientamento" che viene avviato fin dall'inizio del corso e comporta una specie di piccolo shock, necessario per uscire dai binari di una percezione ordinaria di sé e del proprio ruolo abituale di studente. L'esempio della camminata del primo giorno di lezione, in questo senso, mi pare abbastanza calzante. Ma non è il solo, anche l'idea del "patto iniziale" dichiarato e fatto firmare da Scabia, in una delle prime lezioni sul Faustus, rientra in questa modalità.
O, molto più semplicemente, il fatto di far leggere a ciascuno studente, davanti agli altri compagni, un testo scritto il giorno prima su tema dato. Oppure il fatto di preparare teatralmente lo spazio dell'aula: partire dallo spazio per cambiare la relazione tra i corpi e, dunque, tra le persone.
Ora mi sembra sia giunto il momento di cambiare punto di vista. Fin qui ho parlato da studioso dei fatti trattati: ho letto, fatto collegamenti, azzardato, interpretato una serie di avvenimenti e informazioni, aggiustando lo sguardo, nei momenti più critici, col sestante della mia esperienza diretta di teatrante come di quella, a suo tempo avvenuta, di studente del corso di Drammaturgia 2. E proprio di quest'ultima, ora, credo sia interessante parlare; per far riaffiorare qualcosa alla luce di qualcos'altro.
 
UN ESEMPIO: OTTETTO
I. Ottetto è un'esperienza che ho fatto, insieme ad altri compagni di corso, nell'a.a. 1985-86 [Parteciparono al corso: Franco Fiore, Tommaso Correale, Marcela Perez Silva, Angela Mangini, Annamaria Arcangeli, Roberta Ghidossi, Federica Cicchi e Franco Acquaviva.]. Eravamo in otto, appunto; il titolo non si riferiva al tema del corso, ma alla formazione degli esecutori, come in musica.
E in effetti il lavoro finale risultò più un concerto di corpi e voci che non la messa in scena di un testo.
Prima di iniziare il racconto di questa esperienza vorrei sottolineare una cosa: il risultato "artistico", qui come in altri lavori di Scabia con gli studenti, non è mai l'obiettivo che ci si prefigge, benchè possa darsi il caso che la particolare motivazione che muove i singoli componenti il gruppo, alla fine trasmetta al lavoro una tensione che lo fa vibrare emotivamente, mentre la struttura rigorosa che lo sorregge, consentendone una percezione articolata, favorisca nello spettatore la fruizione estetica.
Il fatto è che programmaticamente questo lavoro, come altri condotti intorno all'idea del "cerchio narrativo", o del cerchio degli attori", si configura come un "rito" per chi lo fa, che non prevede spettatori, anche se si può ammetterne la presenza in qualunque momento. Il punto focale dell'azione viene così ad essere il centro del gruppo che agisce, non è previsto l'occhio pubblico su cui modellare una comunicazione strutturata, si lavora su ciò che potremmo definire l'occhio interno di ciascuno, che viene stimolato a oggettivarsi e ad entrare in relazione con l'occhio interno degli altri.
Il lavoro tende così a far emergere un unico occhio, che guida i movimenti di un corpo collettivo.
È opportuno avvertire che questa terminologia è di mio conio, e non corrisponde a un linguaggio di lavoro interno al corso. La uso perché mi sembra renda bene la sensazione che ho avuto guardando una prova del lavoro sulle Baccanti.
Come fa quest'unico occhio a emergere dalla selva intricata delle soggettività, degli ego e del comprensibile disordine "studentesco" che accompagna il procedere del lavoro?
Tanto più lo schema delle azioni e delle loro relazioni reciproche è chiaro, quanto più l'occhio interno di ciascuno è chiamato a una focalizzazione sempre più netta dell'azione sia individuale che collettiva. Quando questa focalizzazione rende percepibile l'azione individuale in relazione all'azione collettiva, è possibile arrivare a toccare qualcosa che possiamo, per convenzione, chiamare l'occhio/mente collettivo[L'espressione "occhio/mente" nasce per assonanza con l'espressione barbiana "corpo/ mente"]. Nel momento in cui questo contatto avviene, in quell'esatto momento, si è anche corpo collettivo.
Credo che un punto alto della pedagogia scabiana venga toccato proprio nel momento in cui si stimola ciascuno studente a tendere al proprio occhio interno che si oggettiva nell'azione del gruppo. L'occhio interno si può definire come un'attenzione maggiorata ai propri moti interni in relazione all'esterno; mi richiama la "vigilanza" di sè di cui Scabia talvolta parlava a lezione per indicare un analogo atteggiamento interiore, che è anche osservazione partecipata della realtà e tensione alla sua trasformazione.
Come si vede tutto quello che ho descritto finora non ha nulla a che vedere con una teatralità chiassosa e approssimativa. Non che questa a volte non appaia tra gli studenti, poichè essa spesso è il portato di un'esuberanza giovanile, ma si tende a riportarla entro binari che la disciplinino in relazione all'assetto e alle necessità del progetto comune.
II. Ottetto nasce da una costola di Zip, dallo spazio nudo e neutro che quel testo progetta; e dall'immaginazione di un attore /personaggio come presenza non ancora espressiva - almeno inizialmente - che in quel testo prende forma. Questo attore/personaggio è pensato come l'esploratore dell'ambiente - nuovo, ignoto, nudo - in cui si trova calato.
Il suo atto di nascita è decretato dalla didascalia della scena I. parte prima, di Zip: "I personaggi nascono dal fondo oscuro del teatro;/ pronti a ricevere qualunque forma". Dalla scena II: "I personaggi scoprono lo spazio;/ percorrono scena e platea in tutte le direzioni;/ scoprono la dimensione del loro corpo e intorno al loro corpo". Dalla scena IV: "I personaggi cominciano a far risuonare la sala;/ 1 batte con le nocche sul dorso di una poltrona;/ 6 risponde battendo i piedi sul palcoscenico"[C. Scabia, All'improvviso & Zip, Torino, Einaudi, 1967, pp. 51-52.]
Il primo giorno Scabia ci lesse queste prime righe di Zip; già il secondo giorno salimmo tutti (all'inizio eravamo solo in cinque) sul palco della sala dei Fiorentini - che ancora qualche anno fa era la sede deputata di tutti i corsi di teatro "pratici" del Dams - a cercare di tradurre fisicamente le didascalie.
Fu una prima improvvisazione probabilmente piuttosto caotica; era la prima volta che salivo su di un palcoscenico, come buona parte dei miei compagni, del resto. Ma la traccia era chiara; si trattava di accorgersi di uno spazio nuovo, non aveva nulla a che fare con la recitazione, bisognava semplicemente accorgersi, esplorare. Il fatto che pochi di noi avessero avuta l'esperienza del palco fu probabilmente un bene, non ci contagiammo con esibizionismi vacui; anzi, piuttosto una certa timidezza e goffaggine furono le prime caratteristiche di quell'incontrarsi in scena.
In quell'occasione credo che nessuno di noi cercò di esprimere qualcosa; eppure, credo, quello "stare" in scena fu per ognuno di noi causa di una forte emozione; almeno per me lo fu.
Sentire lo spazio; cioè improvvisamente accorgersi di un ambiente - della sua aria, delle sue polveri, della luce che lo taglia, dei suoni che produce, della sua consistenza sfuggente e concretamente familiare insieme, del suo ronzio di fondo, come una voce sua propria che ti può parlare. Divenne quasi una persona quello spazio. E attivò le funzioni del suo corpo: il respirare, l'odorare, il risuonare; e della sua mente: il pensare, il trascorrere, il consistere. Sentire lo spazio fu quel momento di immobilità colmo di tensioni verso il mondo, che alle volte è la vita stessa.
Non sto cercando di abbellire di immagini poetiche il ricordo della mia "prima volta" in scena, sia chiaro: sto cercando di descrivere un momento preciso di quella mia prima esperienza.
III. Ognuno di noi cercò dunque di improvvisare sulla traccia data: ci fu chi andò a battere i muri o il pavimento di legno, come la didascalia espressamente prescriveva; chi si mise a misurare con ampi passi lo spazio del palco, chi si collocò in un angolo di spalle a tutti, chi si sdraiò per terra a osservare il legno del pavimento.
La lezione dopo ripetemmo l'improvvisazione e ci fu chiesto di descrivere quello che avevamo fatto. Ognuno di noi produsse un breve testo che conteneva la descrizione di ciò che era accaduto e anche (così almeno nel mio testo), associazioni di idee, lampi di storie possibili, immaginazioni più o meno sfrenate su quel fatto apparentemente così nudo.
Scabia ci chiede poi di leggere ad alta voce il testo davanti agli altri compagni. Sentite le prime frasi blocca subito la lettura: le prime frasi, cioè quelle che semplicemente descrivono l'atto. Ce le fa ripetere. Ognuno manda a memoria la frase, ha così a disposizione una battuta. Questa è la mia: "Rannicchiato su di un fianco, mi svolgo e torno in ginocchio". Si stava così delineando la traccia per la seconda tappa del nostro lavoro, quella denominata Didascalie. Alle prime azioni mute, strappate all'inerzia del nostro iniziale sostare sul palco, si aggiunsero dopo poco tempo le parole iniziali di quei primi racconti, le "didascalie": presentazioni alla comunità interna, brevi comunicazioni di ciò che era avvenuto durante le prime azioni, quando nessuna relazione definita tra i personaggi/ attori era stata ancora scoperta.
Avevamo così una piccola struttura di azioni e testo: cioè una improvvisazione ripetuta e fissata, e una battuta a testa, che ognuno diceva di seguito all'altro. Dopo un tempo di concentrazione sulle proprie azioni, ciascuno di noi alzava lo sguardo e diceva la sua battuta.
Ci si immaginò, dietro stimolo di Scabia, che il momento iniziale della relazione soggettiva con lo spazio si fosse finalmente esaurito: dal sonno sonnambolico della prima situazione, immaginammo di passare a un risveglio per il quale ci si comunica a parole ciò che si è visto e fatto. In questo modo si creò la base per una relazione tra i personaggi. Da quel momento in poi ognuno aveva elementi per reagire alla presenza dell'altro, presenza prima solo confusamente avvertita: ora c'erano delle parole, degli atteggiamenti fisici, dei modi di guardare, delle posture.
IV. Un giorno Scabia ci dice di pensare a quelle parole che, ascoltate da bambini, non abbiamo poi avuto occasione di ripetere, o che abbiamo ripetuto in certe occasioni e solo con certe persone. Parole che avessero lasciato un alone in ognuno di noi, una particolare aura di intimità. Scabia ci dice di sceglierne qualcuna o anche soltanto una. Poi ci disponiamo in cerchio e ognuno dice la sua, o le sue, ne spiega il significato, il contesto d'origine e quant'altro. Scabia le chiama le "parole segrete", sono la seconda fase del nostro lavoro.
Spiegare ai compagni il significato di parole quali Pteto, Pepeccè, Giargianese, Pitti uu, per citarne solo alcune, comportava un ulteriore passaggio dal proprio ruolo di studente più o meno attivo a quello di soggetto impegnato simultaneamente in diversi ruoli: studente, attore, persona privata.
il momento dello stare in scena mantiene operanti tutti e tre questi ruoli, con un'ovvia accentuazione del ruolo di attore. Si è attori perché si è in scena; studenti perché all'università; persone private perché il processo interno che fornisce materiali al lavoro di scena è processo privato, intimo.
Anche il momento in cui si legge e si spiega ai compagni il significato delle parole segrete contiene tutt'e tre queste cose: qui l'accento è posto più sul livello del soggetto privato. Viene a mancare la sicurezza della "rnaschera" teatrale che protegge e svela. Per questo motivo, credo, quello e altri momenti simili del lavoro furono più delicati e decisivi, pervasi com'erano da sentimenti contrastanti: imbarazzo, fiducia, voglia di comunicare, qualche paura.
Credo che ognuno di noi si chiedesse a che cosa sarebbero servite quelle parole. Quello stesso giorno Scabia prende un pacco di fogli e ne scrive una - in grande - su ogni foglio. Ci disponiamo con le sedie in un cerchio. Scabia comincia a giocare coi fogli come con tessere di un puzzle: per terra, li dispone secondo un ordine, ci fa leggere le parole nell'ordine, lo cambia, si rilegge. Alla fine si trova una sequenza accettabile; si ripetono in sequenza le parole, si prova a dar loro un'intonazione. I fogli così ordinati vengono poi fissati l'uno all'altro con dello scotch: ecco, tenuta tra le mani di Scabia, una collana di carta, ogni anello o pagina contiene una parola segreta; è una partitura. Proviamo ad eseguirla da seduti, dev'essere come un concerto di suoni, ogni parola deve avere una sua musica, il ritmo è dato dalla successione, dal montaggio. Proviamo ad eseguire la partitura in scena. Si ripete la sequenza improvvisata la prima volta, si giunge alle didascalie, comincia la partitura sonora: il dialogo tra i "personaggi": si cercano, si guardano, si parlano attraverso il dialogo di suoni.
Fin qui direi che si può trovare più di un parallelismo con la struttura di Zip. In Zip i personaggi esplorano lo spazio e nominano le cose che vi si trovano; al termine di questa operazione si articola un concertato di suoni che sono anche i nomi dei personaggi (Zip, Lap, Lip ecc ... ). In Zip i personaggi parlano una lingua comprensibile, l'italiano, i nomi che danno agli oggetti che stanno in scena sono i nomi familiari della nostra lingua, anche se a un certo punto cominciano a deformarsi come sotto l'impeto di una furia conoscitiva simile a quella che spinge un bambino a rompere il giocattolo che ha in mano. I personaggi di Ottetto invece, dopo le "didascalie", cominciano a parlare una lingua incomprensibile.
Si era partiti ancora dalle "parole segrete". Scabia ci aveva chiesto di creare un lessico del personaggio per "clonazione" della propria parola segreta: così per esempio Giargianese, aveva generato argese; narct; argia; nesergia ecc... Con questo repertorio di una decina di parole a testa ogni personaggio doveva parlare agli altri. Era tutto il corpo a dover parlare in realtà, perché il significato di quanto si sarebbe detto non sarebbe stato ovviamente nelle parole, ma nell'atteggiamento fisico e nell'intenzione del dire.
Io per esempio mi trascinavo da un compagno ad un altro tenendo inerti le gambe sul pavimento e sorreggendomi solo con le braccia: biascicavo le mie parole, ogni tanto uscivo con un urlo un po' strozzato data l'immaturità della mia voce: ai miei compagni era chiaro il succo della mia comunicazione; uno che biascica ed urla, e che per giunta si trascina sul pavimento, genera precise reazioni; disgusto, pietà, scherno, perplessità; e fu da lì, da quelle reazioni, che cominciò la storia del "personaggio": uno convinto di essere bello e di poter trasmettere bellezza e canto che si scopre un "mostro", ma candido, quasi innocente, che cerca di superare la fase del ritratto, o dello specchio deformante, per entrare in quella più solida del sé.
Così ognuno di noi aveva la sua storia; c'era Pteto preso da malinconie aristocratiche in contrasto con l'amore concreto per Píttí uu; c'era Mago che parlava poco, si muoveva poco, ma siccome era alto e magro e col vocione era diventato una presenza forte, una specie di re, forse suo malgrado e così via.
Per alcuni di noi quei personaggi costituirono un corto circuito fecondo tra quello che eravamo e quello che potevamo essere; l'intuizione delle possibilità nella passione di ciò che rischiavamo di rimanere. E questa intuizione si liberava sotto la spinta di qualcosa che chiamavamo teatro, pur senza ancora sapere bene che cosa fosse. La mia sensazione di allora era che mi sgorgasse qualcosa attraverso, qualcosa di irrefrenabile, io la paragonavo a una ferita aperta. Cominciai a pensare, confusamente, che il teatro fosse un modo per rinnovare l'esperienza, proprio l'esperienza del mondo; rinnovare la percezione delle cose, ritrovare una "meraviglia" perduta. Allo stesso tempo mi sembrava che la scrittura dovesse essere la principale beneficiaria di questa indagine del teatro sull'apparenza della realtà.
E pensavo che tutto questo potesse tornare utile al poeta, aprirgli i sensi, farlo aderire di più alle cose; ero stregato - e tuttora lo sono - dalla poesia: tensione verbale dell'uomo verso il cuore non verbale del mondo; umanissima e minerale insieme.
V. Mi sembra che la parola "raccontare" contenga due azioni: una è il "contare", cioè l'atto con il quale si indicano e si impongono all'attenzione persone o cose; l'altro è il "rac-cordare", cioè cucire insieme queste presenze secondo una logica rigorosa. "Rac-contare" è, dunque, anche un cucire insieme gli oggetti di una conta. In Ottetto gli oggetti della conta erano i personaggi/ attori che in quel momento, dopo il concerto delle parole segrete, attendevano sul palco. Tutto Ottetto, in fondo, fu un "racconto" in questo senso. Ma bisogna tener presente il fatto che la parola "raccordare" contiene anche "accordare": il cucire insieme oggetti designati secondo una certa logica può non dare alcun frutto se tutto quanto il "contato" e il "cucito", nell'atto stesso del suo intrecciarsi, non tende a un "accordo" - in senso musicale e non - che lo trasfigura. In Ottetto l'accordatura fu possibile - oltre che per l'influsso di Scabia-Hinkfuss - perché avevamo un forte "paratesto": le relazioni, dunque le storie che accadevano sul palco, si stabilirono, in una certa parte, per contiguità con il tracciato biografico delle nostre reciproche relazioni personali (quasi tutti, più o meno, ci conoscevamo già; e alcuni di noi erano amici di fresca data). Alla vicinanza tra personaggio e persona era, in molti casi, da attribuirsi l'intensità e la necessità, o anche l'urgenza, del racconto: "Sopra le persone vedo emergere (dal profondo) le figure personaggio. Una forma cresce intorno alla persona. E costruzione di una storia oggettiva, non psicodramma. 1 personaggi sono vicini alle persone, interni. Sto bene attento a tenere distanti storia personale e storia del personaggio ( ... ).[C. Scabia, Ottetto, cit., p. 3]
Ma accadde anche che la dinamica delle relazioni, a un certo punto, si è evoluta nella direzione dei materiali già elaborati, e che dalla "storia personale" si è virato dunque verso la "storia del personaggio". Alla fine quella di Ottetto era diventata anche la storia del nostro gruppo.
L'atto della "conta", dopo le "parole segrete", veniva materialmente compiuto da un personaggio che interveniva a spezzare l'attesa. Pítti uu (Roberta Ghidossi), si alzava in piedi e recitava una vecchia "conta" della Svizzera italiana, indicando uno ad uno tutti gli altri compagni immobili sul palco. La conta eleggeva un solo personaggio alla volta, che doveva, a quel punto, proporre agli altri un "gioco"; cioè una proposta di relazione a responsabilità individuale per così dire. Questa fase inizialmente fu chiamata Giochi in tavola. Col procedere del lavoro si capì che quei giochi avevano in realtà a che fare con l'idea che ogni personaggio/ attore aveva di sé in rapporto agli altri, all'interno di quella particolare situazione. Questa parte dell'azione fu così ribattezzata La visione delle cose.
Mi sembra che il punto di partenza vero di Ottetto fosse quello, omologo alla passerella di Zip: lì i personaggi cominciano a rivelarsi. La conta e la sfilata sono in fondo due forme di uno stesso procedimento drammaturgico, che consente ai personaggi di balzare fuori con un ordine motivato, di natura assolutamente non naturalistica. La sfilata o passerella è mutuata dal teatro di Varietà, o dal Circo, con echi più forti provenienti dall'ambito sperimentale delle avanguardie storiche, dove questi procedimenti erano già in uso; la conta viene dalla dimensione sociale del gioco - una delle prime ricerche di Scabia al DAMS era intitolata Giocario (1972). In essa gli studenti schedarono e descrissero un certo numero di filastrocche, conte e giochi di gruppo della tradizione popolare italiana.
Ogni personaggio dunque improvvisa il suo gioco, o mostra la sua visione delle cose.
Un personaggio si lancia in una serie di capriole, un altro cerca di riunire le donne. Io provo a fare l'iguana, mi muovo come un rettile, strisciando, ecc. La cosa interessante è che da questo momento in poi ognuno fa qualcosa che è rivolto agli altri personaggi. La risposta di ognuno di essi va poi a condizionare le azioni future di tutti. Tra i personaggi cominciano a essere visibili delle relazioni.
Per quanto mi riguarda ho cominciato ad elaborare la storia di Giargianese fin dalla prima scrittura; fantasticando per esempio sull'aspetto che poteva avere; è però a partire dal momento in cui i primi elementi di questa storia privata, oggettivati in scena, entrano in contatto con gli altri personaggi, che si produce una specie di shock narrativo per così dire, per cui Giargianese comincia a raccontare quasi suo malgrado.
Shock narrativo è scoprire che il proprio compagno, con la sua reazione, fa come da sponda alla storia rilanciandola in un altra direzione, e/o provocando reazioni di ritorno nel suo primo interlocutore che ne fissano un tratto comportamentale, o contribuiscono a orientare in altro modo la relazione tra i due.
Voglio raccontare a questo proposito un episodio abbastanza significativo. Ad un certo punto della fase chiamata Visione delle cose il personaggio di Meherreni (Marcela Perez Silva, unica esperta di cose teatrali nel gruppo, cantante e attrice peruviana che aveva già partecipato al corso su Pentesilea di Kleist), chiama a sé le altre ragazze del gruppo, compone un cerchio, parla con loro sottovoce, risolini, guardano i maschi. Poi mostra le mani unite a coppa e avvicinandole al corpo di ognuna passa loro qualcosa: adesso tutte hanno le mani unite a coppa. Qui Giargianese si avvicina, cerca di capire che succede, non ci riesce e decide di risolvere la cosa unendo anche lui le mani a coppa. Poi va dai maschi, mostra loro le mani, non capiscono, le apre e le agita bene nell'aria. Pteto si comporta improvvisamente come se vedesse qualcosa fuggire dalle mani di Giargíanese, lo insegue con un salto, fa un tuffo nell'aria e ripiomba a terra.
Per me il senso di questa semplice sequenza di azioni era chiarissimo. Le ragazze hanno un segreto tra le mani, questo era chiaro a tutti, ce l'eravamo anche detto, un segreto tra donne. Gli uomini ne sono attratti e respinti, e anche questo era chiaro nella dinamica dell'azione. Poi Gíargianese fa uno scherzo, finge di conoscere anche lui lo stesso segreto, stringe le mani a coppa, poichè il segreto delle donne, secondo lui, si identificava con quella forma, con quel mudra. Le donne ridono, lo scherzo sembra chiaro. Quando però Giargianese si avvicina agli altri e mostra le mani a coppa, mostra, secondo lui, la "forina" del segreto, di cui si è impadronito; per farsi meglio capire apre le mani, le sventola, non c'è niente, il segreto era una pura forma vuota. Pteto invece vede un uccello che scappa e si lancia per prenderlo.
In questo caso la mia storia è stata presa - da Pteto - e portata su un altro piano, a me completamente sconosciuto. Non è detto che la mia storia fosse condivisa anche dagli altri personaggi - benché
dai testi che descrivono Ottetto scritti dalle ragazze appare chiaro come loro condividano la mia "storia", o interpretazione di quell'azione; ma i maschi del gruppo, e in particolar modo Pteto, non la colgono. La cosa interessante è proprio questa: il salto interpretativo che fa trasformare la storia mentre passa da un personaggio a un altro, come una palla lanciata in una direzione precisa, ma poi deviata dal vento. La sorpresa, il mio shock di fronte a questa peripezia è un atteggiamento che Giargianese ha nei confronti di Pteto in diversi altri momenti. Il cambio di senso che la mia storia subisce per effetto dell'azione di Pteto produce una reazione che si ripete, e finisce per connotare la relazione tra i due personaggi.
VI. Per quasi tutta la durata del lavoro Scabia chiamò "la commedia" ciò che si stava facendo, solo a un certo punto venne con un titolo: un giorno, prima di cominciare la lezione, ce lo annunciò; mi pareva più una sigla, un sigillo a ceralacca, che un titolo. Era muto, o meglio, risuonava su se stesso, non rimandava, riteneva. E questa mia sensazione la trovai ben resa nel logo che Tommaso Correale (Pteto) ideò per il manifesto che annunciava la presentazione pubblica del lavoro: la "o" iniziale e la "o" finale della parola erano unite tra loro da un tratto orizzontale, che passava sopra tutte le lettere rimanenti (una "e" centrale, due "t" tra la "O" e la "e"; due 'T' tra la "e" e la "o" finale) e ne andava a completare la parte superiore. La parola diventava un'oggetto; questo logo mi ha sempre ricordato un capitello di colonna ionica; una parola che diventa geroglifico, che rimanda a un elemento architettonico. Come una forma pura forse lo stesso Scabia vedeva lo "spettacolo"; non realistico, senza dialoghi in lingua italiana, "danzato" e "cantato" più che recitato: così come le parole erano suoni articolabili senza vincoli di significato, i gesti erano modellabili in danza senza vincoli di rappresentazione realistica. Forse Ottetto fu visto dallo stesso Scabia come un "concerto" - da lì dunque il titolo.
Ma prima che arrivasse il titolo il lavoro veniva chiamato 1a commedia", non il "concerto". Qualche anno dopo - per Questa sala (1987) - Scabia scrive: "Questa sala è un modello (in senso tecnico) di dramma costruito in laboratorio a partire da un racconto (mito) prodotto artificialmente all'inizio dell'esperienza ( ... ).`l Forse anche Ottetto era un modello di commedia, costruito tenendo conto di Zip.
Il testo di questa commedia esiste, la scrittura ha seguito passo passo tutto l'evolversi dell'esperienza. Non solo l'ha registrata, ma l'ha immaginata; forse, in alcuni casi, anche prefigurata. Ognuno di noi ha registrato, immaginato e forse prefigurato la sua commedia, la sua azione, in un racconto, comprendendo in esso anche le azioni degli altri.
Sono dunque otto racconti della medesima azione. In alcuni è visibilissimo il tracciato delle azioni sceniche, sono descrizioni dei fatti, cronache. In altre la struttura della "commedia" scompare quasi, c'è un personaggio che in prima persona racconta la sua storia all'interno di quella comunità.
In un'altra, della struttura non rimane pressoché nulla, tutto è estremamente soggettivo, lirico, l'esigenza del racconto si trasforma nel bisogno di trasformarlo in suoni elementari, emotivi, quelli che probabilmente l'accadere in scena suggeriva al momento; oppure il racconto, all'opposto, è sostituito da citazioni libresche montate per associazione con i fatti narrati.
Può essere interessante riportare la definizione che Scabia ha dato di queste scritture: esse sono nel medesimo tempo: "Descrizione dello spettacolo, interpretazione (dell'attore) e scrittura d'autore."[G. Scabia, Ottetto, cit., p. 5.]
Il testo della "commedia" alla fine risulta essere un testo a più voci, polifonico. Ogni voce/testo accentua, lega, stacca punti differenti della struttura della storia. In questo senso si tratta di un'interpretazione d'attore perché essa traccia il percorso soggettivo del personaggio all'interno di quell'evento e quindi risulta essere anche un pro-memoria d'attore, per così dire. Ogni testo contiene
diversamente accentuati - tutti e tre i livelli di lettura evidenziati da Scabia.
Così come nel corso dei momenti più delicati delle improvvisazioni o delle letture aperte, dentro al cerchio dei lettori/attori, ognuno dei partecipanti attraversava simultaneamente tre ruoli - lo studente, l'attore, la persona privata - anche i testi sono attraversati da livelli di lettura che corrispondono ai ruoli suddetti, e tali livelli rispettivamente sono: descrizione dello spettacolo, interpretazione dell'attore, scrittura d'autore.
 
Gli incipit di OTTETTO: canto a canone per otto voci
"Una piattaforma, al centro di questa...
C'è Marcela che sta raccontando una storia
"Whaoo! che bello!"
cinque attori; sul lato destro...
"Seduta, in silenzio."
altri tre attori...
Uno di essi inizia a parlare
"Tommaso aveva cercato di non ascoltare i suoni"
Dall'immobilità, dalla fissità statuaria, ecco che...
Una voce di donna racconta
"Yo llego tarde y encuentro esto belo grupo de actores...
"poi facciamo un gioco...
che per la prima volta scoprono sensazioni...
"Whaoo! che bello...
sul fiume...
una voce
…il tempio...
di donna
…i volti dipinti ...
..fumo...
... Don Chisciotte ...
"e in otto abbiamo voluto iniziare un viaggio"

L'ANIMAZIONE
Intorno al 68 non è solo il teatro a risentire del clima di rivolgimento che investe la società italiana. Qualcosa accade anche nella scuola. Fin dalla metà degli anni 50, in realtà, l'immobilismo che caratterizzava la vita della scuola pubblica italiana aveva spinto vari insegnanti, aperti a nuove ipotesi pedagogiche, a costituirsi in associazione: il Movimento di Cooperazione Educativa (M.C.E.), il cui intento era di sperimentare nuove forme di didattica in cui lo scolaro potesse diventare parte attiva nel processo pedagogico; non più polo passivo di una trasmissione del sapere imposta dall'insegnante e legittimata dal sistema scolastico. A questo scopo si utilizzavano - oltre alle tecniche del metodo Freinet, di cui il gruppo era seguace - anche le acquisizioni che la ricerca dell'M.C.E. maturava nel campo delle tecniche espressive. Due dei nomi più noti che agiscono in quegli anni di pionerismo: Fiorenzo Alfieri e Mario Lodi.
Le istanze di rottura che si affermano col 68, stimolano una nuova disponibilità a mettere in discussione tutta una serie di ruoli fin'allora indiscutibili. Anche il ruolo dell'insegnante, tradizionalmente fissato in un rapporto di tipo autoritario con l'allievo. Accade così che insegnanti insoddisfatti e desiderosi di aprirsi a nuovi stimoli, incontrino teatranti ugualmente insoddisfatti dalla pratica del teatro ufficiale, animati dall'esigenza di rifondare la loro motivazione al teatro aprendo contatti con un pubblico meno indifferenziato, con cui stabilire rapporti di maggior reciprocità.
Secondo quest'ottica Franco Passatore e Marco De Stefanis, entrambi attori provenienti dal teatro ufficiale, decidono di indirizzare la loro attività al pubblico dei ragazzi delle scuole. D'altra parte il lavoro degli insegnanti portava, come scrive Eugenia Casini Ropa: A risultati per molti versi affini a quelli raggiunti da molti operatori teatrali ( ... ). Il risultato di questo confuso lavorio non poteva più essere definito scuola, nel senso tradizionale del termine, e neppure teatro, nel senso corrente. Non era d'altra parte pura e semplice mescolanza delle due cose. Si ebbe quindi la sensazione che fosse una cosa nuova. Da questa sensazione deriv_ il folgorante successo della parola animazione.

 
Cronologia dei corsi tenuti da Giuliano Scabia all'Università di Bologna
Corso di laurea Dams, insegnamento di Drammaturgia 2
a partire dall'anno accademico 1972-73.
 
1972-1973 Teatro Giornale. Esperienza di contro-informazione per le strade di Bologna
1973-1974 Il Gorilla Quadrumùno 1974-1975 Il Brigante Musolino 1975-1976 1 burattini della casa gialla
1976-1977 In Mongolfiera è un burattino che vola in cielo, azioni per le vie di Bologna
1977-1978 Giocaríó Leoncee Lena di Georg Búchner
1978-1979 Adesso vi racconter_, esperimenti di narrazione ora~ le dentro e fuori l'Università fin sulle colline e nel bosco;
1981-1982 Il sangue e le rose, laboratorio su "Pentesilea" dì Heinrich von Kleist
1982-1983 L'orologíodíFaust ovPero la tensione del tempo, sopra il "Doctor Faustus" di Phílip Marlowe;
1983-1984 Bee ovvero farsa di Maistre Pierre Pathelin
1984-1985 Ottetto
1985-1986 Le jeu de lafeuillée di Adam De La Halle
1986-1987 Questa sala, dramma dei Fiorentini
1987-198811 refaràgranfesta qui stanotte, studio sopra gli atti 1 e Il di "Sogno di una notte di mezza estate" di William Shakespeare
1988-1989 Il teatro delle meraviglie di Cervantes
1989-1990 La notte di Watpurga di Goethe
1991-1992 Rassegna di moderni don Giovanni
1992-1993 Cavalli e cavalieri
1993-1994 Glistivalidelgatto ela voce della poesia
1994-1995 Da bosco a bosco, camminando; due sequenze corporee per "Midsummer night's dream" e "Asyou like ìt" di Willíam Shakespeare
1995-1996 Ecco, io,figlio di Dio, son giunto alla terra tebana; avvicinamento a Dioniso: voce, ballo, passo (studio sui versi 1-167 delle Baccanti di Euripide).
Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna