Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna
Lettera di accompagnamento
- Lettera di accompagnamento
- L'OREFICE DEL "FRA", lettera a Ciuliano
Scabia
-
- Giuliano carissimo,
- perché mai non hai trovato l'incentivo a scrivere quel
che raccontasti a Modena una sera di dieci anni fa, fine
gennaio '87? Parlasti dei tuoi ricordi primordiali di
teatro, a metà fra l'imprinting e l'emblematica.
- Te ne scriverò io, non tanto per ricordartelo, ma per
spingerti a reagire e a farlo meglio tu. Come dovresti.
- Modena voleva dire, allora, il Centro Sangeminiano:
Pietro, Fabrizio, Biccio, Massimo, Lorenza, Luciano,
Cosetta, Magda...
- Parlai di San Genesio protettore ambiguo dei comici.
Invece del solito palco o tavolo da conferenze avevano
inventato un angolino, uno spicchio di salotto buono, con
tavolinetto, divanetto e poltrone, che permetteva al
conferenziere di sentirsi fuori contesto.
- Parlasti dei tuoi emblemi (non li chiamasti così), e
leggesti qualche tua pagina. Si capiva come la tua
scrittura fosse tutta basata sulla metrica del fiato, non
solo quella obbligatoria dell'alternanza fra inspirazione
ed espirazione, ma anche quella del fiato filato, che
elimina gli incisi e le giravolte della voce e rende il
periodare limpido, sicché sembra "normale"
parlato per l'arte quasi invisibile e difficile di
togliere le cesure e gli intoppi inorganici che alla
lettura muta possono travestirsi nelle correttezze della
punteggiatura sintattica.
- C'era molta gente. Venne anche la sorella di Giovanni
Pellegrino. Non la conoscevo. Portava saluti del
fratello. Lavorava lì a Modena o in un paese vicino,
credo come insegnante. Veniva da Zollino, Salento. Al
Sangeminiano - disse - poteva respirare un po'.
- Giovanni Pellegrino l'avevo conosciuto a Lecce. Una
grande barba che si tagliò quando incontrò la donna del
cuore. Gioioso ed incontentabile, calmissimo. 0 così
sembrava. Era un tecnico specializzato, con un titolo di
studio, ma preferiva identificarsi con gli operai ed i
contadini. Uno della sinistra senza partito. Tentava modi
alternativi per guadagnare. Inventò anche una stufa che
scaldava benissimo usando come combustibile a bassissimo
prezzo il nocciolato delle olive. Ma soprattutto
inventava scosse per rompere l'accerchiamento
dell'economia e della sottomissione contadina. Si
lanciava in tutte le iniziative culturali, considerandole
una liberazione. A causa sua, Zollino - 2.000 abitanti,
compresi gli immigrati - era diventata una meta per
conferenze e presenze teatrali. Fu lui ad organizzare una
grande festa popolare per il varo di una barca a vela in
cemento armato costruita da due fratelli solitari e
taciturni del paese per veleggiare verso l'Australia. Fu
una festa di spostamento. Zollino non è sul mare e la
barca in cemento armato fu trasportata fino a Taranto
come un trionfo. Era il segno d'una vittoria, perché
quando il maggiore dei due fratelli aveva detto che si
sarebbe fatta una barca così, e nel campo davanti casa
aveva costruito lo scheletro dello scafo con i tondini
d'acciaio che servono ad armare il cemento, tutto il
paese s'era messo sapientemente a sghignazzare: la
sicurezza di sapere che certe cose sono irrealizzabili.
- Quella festa, per esempio, sarebbe stata adatta a te,
Giuliano: ghirlande, cibo, vino casalingo eppure buono,
per celebrare l'intelligenza e l'imprevisto, mentre la
barca di cemento navigava bellamente il mare. Barca
perfetta: per omologarla s'era dovuto muovere un
ingeniere navale dal porto di Genova, non essendocene
altri esperti nel giudizio su tecniche tanto diverse.
- La sorella mi disse che ora Giovanni aveva abbandonato il
paese e se n'era andato a lavorare in Etiopia. Zollino,
dài e dài, non s'era lasciata scuotere.
- Potremmo dire che le Zollino che stanno dappertutto non
si lasciano scuotere da gente come noi. Ma sarebbe un
pessimismo di maniera: noi in realtà non vogliamo
affatto scuotere paesi o paesini ma persone. Lavorare per
il Disordine - in un paese o in un'università -
affinché le persone che sanno lasciarsi scuotere vengano
fuori. Tutto questo è politica.
- Ma non è far politica. Per ciò a volte sbanda. E molte
altre volte nel giudicarla viene sminuita confrontandola
con qualcosa di molto più grande. Che però non è quel
che si realizza, ma ciò di cui si parla.
- Forse Giovanni voleva cambiare direttamente il paese, le
strutture, la mentalità generale, così era costretto a
vedere la pochezza dei risultati o a chiudere gli occhi.
Forse questo lo deludeva. Era spesso deluso. Spessissimo
era solo. A me pareva un santo. Ora il santo se n'era
andato in Etiopia.
- Quando un santo se ne va, non è un fallimento, ma un
giudizio. E allora ci costringe a riflettere: fino a che
punto ha ragione?
- Il paese non può essere il fine, checché ne pensino i
cittadini praticanti. Le ingiustizie del paese sono
intollerabili. Ma questo non significa che altrimenti il
paese potrebbe essere tollerato.
- Scuotersi può voler dire molte cose. Ma ho l'impressione
che innanzi tutto voglia dire scuotersi di dosso il
paese. Raccontasti, a Modena - gennaio'87; un mercoledì,
il 28 - sette emblemi teatrali distillati dai tuoi
ricordi di spettatore. Insisto a dire emblemi perché non
si trattò di aneddoti o di esempi, ma di quelle immagini
che essendosi radicate nella memoria - annodate come vere
e proprie immagini e non più come semplici
ricordi diventano indicazioni del senso e del valore e
trasformano l'autobiografia in icone.
- L'ultimo dei ricordi riguardava la serata veneziana del
'61 in cui fu eseguito Intolleranza 60 di Luigi
Nono. I fascisti organizzarono una gazzarra che soffocava
ogni musica. Bruno Maderna - il direttore -
- fa allora azzittire l'orchestra e la tiene sospesa.
Coglie il momento buono nel frastuono circostante, una
piega di silenzio, per piazzare l'intervento forte della
musica - e prende così il sopravvento.
- L'astuzia come la giustezza stessa dell'arte.
- Per te il teatro non è un cerchio - mi pare - ma un
taglio sulla tela, come un volo di Mercurio o
dell'Arcangelo, che rigano il tempo e lo spazio, creano
per un attimo un nuovo sistema di orientamento, una scia
che sembra dividere il mondo, si insinua fra la realtà
cognita e sùbito si perde e passa nella fantasia e nel
pensiero. O sulla pagina. È un teatro dell'Annuncio.
- Insomma: lo spazio-tempo del tuo teatro è il FRA.
- In fondo, per te, non è neppure tanto pertinente la
distinzione fra la prospettiva dell'attore e quella dello
spettatore, ma il sentiero labile che li unisce per un
attimo separandoli dal continuum della vita ordinaria.
Ancora una volta: sentieri di mare. 0 tracce. 0 fili e
ragnatele d'oro.
- Il filo fra te e un Arlecchino burattino, che dalla sua
ribalta saluta proprio te bambino; ecco - raccontasti
ancora - un gigante trampoliere che dal fondo di una
strada ti si fa incontro a Padova. O ancora eccoti
bambino a tentare di suonare il violoncello, con tuo
padre che ti insegna e sottolinea con una bacchettata le
stonature. Ed eccoti poi al saggio finale, in un teatro,
tuo padre che t'accompagna al pianoforte, e tu che non
stoni mai, quella volta, e ricevi gli applausi.
- Ricordo con quale precisione, con quale passione
rievocasti gli applausi, al Sangeminiano di Modena: non
il consenso al quale ci si inchina, ma qualcosa di caldo
che saliva verso di te, "come perdersi in una
donna", dicesti. La tribù teatrale cui appartengo
fa pochissimo conto degli applausi. Alcuni sembrarono
persino disprezzarli, o li videro come il sintomo più
futile del teatro mortale. Comunque non è dagli applausi
che si giudica il teatro. Né è per gli applausi che si
può farlo degnamente. Ma d'altra parte, alcune delle
immagini più intense di teatro sono per me e per altri -
legate al movimento in cui l'attore, l'attrice, da soli o
insieme ai compagni, vengono alla ribalta a ricevere gli
applausi, stanchi, un po' finti, fors'anche un po' vinti,
vinti persino dal loro trionfo, quando c'è, un po'
commossi, a quel guado fra la recita e le ore senza
teatro. A volte, quel guado, è stato il solo momento
dignitoso della serata. Lo spettacolo era meglio
dimenticarlo, ma quasi valeva la pena averlo sopportato
per vedere l'attore o l'attrice a quel punto in cui
riceve i battimani e magari s'illude che siano davvero
per sé, e non per il semplice fatto che lo spettacolo è
finito.
- L'applauso è un altro emblema del teatro come FRA.
- Tuo padre, dunque, era violoncellista e suonava
nell'orchestra dell'Opera a Padova. A volte ti portava
con sé. Questo, dei 7 emblemi teatrali che ci regalasti
a Modena, è quello che più mi è restato nella memoria.
Raccontasti che cosa significava, per te bambino, stare
seduto nella buca fra gli orchestrali. Sentivi attorno le
chiacchere della vita tranquilla e un po' pigra, che
continuava goccia a goccia. Parlavano di minestre e
stipendi, di orari, di ferie, di screzi e di famiglie.
Ogni tanto accordavano gli strumenti. Poi arrivava il
direttore. E da quell'insieme di vite di tutti i giorni
veniva su la musica. Là sopra, sul tavolato del
palcoscenico, i cantanti d'un altro mondo cominciavano a
cantare. Vivevi proprio fra due mondi.
- La compresenza dei due mondi era come nell'iconografia
rinascimentale o tridentina, il sacro e il profano visti
come un sottopalco ed un palco. Com'erano belli quei
canti. Ma com'erano divertenti, caldi, anche quei
racconti di minestre appena mangiate!
- Esagerando un po' si potrebbe dire che tutto il tuo
lavoro teatrale è consistito nel cercare di ricrearti un
valico simile a quello: spettatore degli orchestrali
casalinghi e delle immagini del mondo dilatato e fiabesco
dell'Opera. Per ritrovarlo, hai dovuto scrivere, fare il
regista, l'attore, inventarti il teatro viaggiante e il
teatro nello spazio degli scontri, essere Dramaturg e
professore. Hai scritto a Dorothea e mangiato le
castagne.
- Ha ragione Gerardo quando dice che la tua presenza al
DAMS è quella d'un "teatro stabile": stabile
perché muta ogni anno. E Teatro perché ogni volta
traccia un FRA, come il pittore traccia una linea sul
foglio e già gli dà volume e valore. Fra studio e
spettacolo, fra autorappresentazione e presentazione, fra
poesia nelle parole e poesia nello spazio.
- Anche la tua scrittura sta lì FRA. È un annuncio di
recitazione quand'è sulla pagina. E quando la si
annuncia recitata o letta da te è un annuncio della
stabilità e del nitore della linea scritta: fra la
lettura muta e la voce, fra lo spostamento e lo
spettacolo.
- Questo vale non solo per le Lettere a Dorothea, ma anche
per Nane Oca e per Teatro con bosco e animali.
- Per capire come la tua scrittura e le tue azioni teatrali
siano un FRA, questo FRA bisogna pensarlo non come una
linea di confine, una linea d'ombra, un'intercapedine,
un'alba o un tramonto all'orizzonte, o un discrimine fra
un "non più" e un "non ancora".
Bisogna pensarlo come un difficile lavoro di orificeria.
- Il FRA di per sé non c'è, bisogna fabbricarlo, come un
manufatto sottile che riesce ad annunziare l'una
all'altra parte, l'una all'altra dimensione. Tu sei
questo orefice. Così sembri sempre fare una cosa per
l'altra. E per questo diventa così difficile parlarne,
del tuo teatro, perché essendo un filo fatto a mano, un
filo di FRA, sembra meno visibile delle regioni che
taglia nel suo volo. Non te ne devi dispiacere. Questa
distrazione che giustamente ti irrita è anche la
reazione ingiusta ed appropriata al tuo artigianato
teatrale: sei tu che hai scelto di modellare fili
sottilissimi d'oro, parole sottili - e viviamo tra il
silenzio dei walkman ed il frastuono disseminato degli
stereo.
- Lasciami andare indietro con la mente a Parigi, al Centre
National de la Recherche Scientifique dove nell'aprile
'82 c'è un seminario sulla maschera (teatrale e non).
Sono lì a parlare di Commedia dell'Arte e a dire che
quando si racconta di quel teatro si dà troppa
importanza alla presenza materiale della maschera. Una
mattina, carico di diapositive, arriva Jean Pierre
Vernant. Si toglie la giacca, si rimbocca le maniche.
Parla di Dioniso. Dei cavalli con la schiuma alle labbra,
simili per questo alle baccanti. Delle tazze per il vino,
che mano a mano che le bevi e ti inebri vedi affiorare
dal fondo l'immagine di Medusa.
- Dice, quasi en passant, una frase per me stupefacente:
che il teatro è quello strano momento in cui qualcosa
accade come se fosse finta.
- Qui è condensata la rivolta del teatro, la sua
commozione e il suo riso. Anche la sua politica (e questo
non vale solo per l'oggi, finché le televisioni son
piene di merde e le piazze piene di berlusconi).
- L'oreficeria che tratta la realtà dandole l'apparenza
della finzione è un atto di disobbedienza civile.
L'obbedienza civile, infatti, è la volgarità.
- È evidente che essendo tu un orefice del FRA, ti si
potrebbe tranquillamente dire un brechtiano. Vale la pena
ricordarlo oggi, sul limitare della seconda era Brecht,
quando ancora sembra che l'eclissi duri.
- Così eri la prima volta che t'ho visto. Fabrizio
Cruciani ed io silenziosamente in platea, tu alla
tribuna, durante il convegno "Brecht perché",
a Firenze, nell'aprile del '72. Brandivi il volume
tedesco del Brecht-Dialog del '68, settantesimo
anniversario della nascita. Ti chiedevi, reagendo alle
innumerevoli corbellerie ed ai luoghi comuni di quel
povero convegno, come mai la gente parlasse tanto avendo
letto tanto poco, e citavi lo scritto innovatore di
Manfred Wekwert. Eri impetuoso e sarcastico. Arrabbiato.
Sotto sotto si vedeva che ti divertivi un mondo.
- Un caro abbraccio. Sono contento di scrivere per questo
numero dedicato a te,
- Ferdinando Taviani. Università dell'Aquila
Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna