Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna LA VICENDA DEL TESTO
LA VICENDA DEL TESTO
di Laura Curino

 

DEL TITOLO: ELEMENTI DI STRUTTURA DEL SENTIMENTO
"Affinità elettive" è l'antico termine chimico per indicare la tendenza di alcuni elementi a combinarsi insieme. Poteva diventare subito anche il titolo dello spettacolo, come di fatto si è verificato alla ripresa sette anni dopo, ma allora scegliemmo ---Elementi di struttura del sentimento" che somigliava un po' a quello del precedente Esercizi sulla tavola di Mendeleev e sicuramente conteneva una medesima speranza: che fosse possibile costruire uno spettacolo così come Mendeleev concepì la sua tavola periodica.
Dimitrij Ivanovic Mendeleev, constatando che non tutti gli elementi noti potevano inserirsi armonicamente all'interno del sistema che aveva predisposto, lasciò delle caselle vuote, nella fiducia che più tardi la scoperta di altri elementi avrebbe completato la sua tavola. Verso la fine del diciannovesimo secolo molti studiosi erano orientati a classificare gli elementi che compongono la materia in base al loro peso atomico. 1 metodi di quei tempi spingevano gli scienziati a rinunciare all'ipotesi quando questa non fosse immediatamente verificabile sperimentalmente. Dimitrij Ivanovie operò diversamente: l'elemento più leggero è l'idrogeno, l'idrogeno vale I. Segue l'elio, che vale 2, e poi il litio che vale 3 e così via. Ad ogni elemento una casella. Il problema nasceva quando il peso atomico saltava una o più caselle. Tutti gli altri ricercatori a questo punto si fermavano e scoraggiati si rassegnavano che l'ordine non funzionava, che era sbagliato.
Mendeleev no. Lui pensò che se restavano caselle vuote era perché non si erano ancora scoperti gli elementi corrispondenti, ma da qualche parte nell'infinito universo mondo essi dovevano esistere e qualcuno li avrebbe scovati. Il che avvenne puntualmente alla scoperta del radio e degli altri atomi radioattivi. Aveva ragione lui. Il metodo era buono, bisognava solo completarlo.
Un personaggio che in pieno positivismo, che all'inizio della modernità fonda la sua teoria scientifica su un atto di fede ci affascinava irresistibilmente. Voleva dire che scienza e fede non sono inconciliabili.
"Elementi di struttura del sentimento" è un titolo che cerca rigore dove sembra esserci solo passione, come se i due concetti, così distanti tra loro non fossero tuttavia inconciliabili.
 
PROLOGO
Un libro correva da qualche mese di mano in mano. Con circospezione.
Alcuni libri passano dallo scaffale della libreria al comodino, per poi finire allineati agli altri volumi della biblioteca. Altri cominciano a peregrinare, prima in giro per casa, anche in bagno, poi in borsa, sugli autobus, in treno, nelle sale d'aspetto; a volte rubano tempo al lavoro, poi, non paghi, passano ad altra mano e se anche lì non trovano quiete, allora inizia la peripezia.
Se si è attratti dalla possibilità di conciliare interessi letterari e prospettive scientifiche, prima o poi si arriva a Goethe.
Dal Doctor Faustus di Thomas Mann, il cui incontro risale a tre anni prima, il salto era stato al Faust di Goethe, e poi a La vocazione teatra1e di wilhelm Meister, ma anche a La metamorfosi delle piante e La teoria lei colori.
Quasi subito individuammo Affinità Elettive come il romanzo del progetto.
Poco importa che venisse letto avidamente dai suoi contemporanei come un romanzo sul matrimonio.
Quando uscì, il romanzo andava a ruba, si diceva, come il pane in tempo di carestia. In poco tempo ne furono divorate quattro edizioni.
Nei giorni in cui lo leggevamo noi, a Settimo Torinese, eravamo coinvolti in un lungo lavoro ai confini fra teatro, sociologia ed urbanistica, che aveva portato alla redazione di un vero piano regolatore per la cultura (il P.A.C. Piano per l'Ambiente Culturale). Tre anni di raccolta ed elaborazione di dati, parte contenuti nelle tesi di laurea in Architettura di Gabriele Vacis e Adriana Zamboni, parte in quella di Federico Negro, a Sociologia, parte provenienti da una ulteriore osservazione e schedatura sul campo, durante l'attività di progettazione culturale per la città.
Ci si interrogava allora sul senso e sugli strumenti della progettualità.
Vivevamo in una città di periferia, cresciuta a velocità vorticosa negli anni sessanta e diventata agglomerato disordinato di case e fabbriche, brutta, sconvolta, carica di tensione e di risentimento. La città era una fabbrica in cui lavoravano gomito a gomito migliaia di persone i cui pensieri erano rimasti al paese d'origine, una tavola a cui si dovevano mangiare a turno cibi scaldati, un letto su cui tutti si coricavano alle stesse ore. Una scuola dove anche i bambini facevano i turni. Un giardino che non c'era.
L'unica possibilità per vivere in luoghi così era fare progetti per trasformarli.
Ma quali progetti? Si chiamavano progettisti anche quelli che avevano firmato i casermoni delle case Gescal. Progetti disegnavano i miei compagni architetti negli studi professionali dove tiravano linee intanto che frequentavano l'università... progetti per villette fuori città, con vista sulla collina, che in neanche tre anni sarebbero state circondate dai palazzi dello sviluppo... e loro lì ad aprire le finestre del salone sul verde... Da un progetto politico ed economico era scaturito il nostro futuro presente. Progetti nascevano e morivano ad ogni elezione, progetti da realizzarsi velocemente, perché subito se ne vedessero gli esiti e subito si trasformassero in voti.
Chi avrebbe osato fare progetti a lunga scadenza?
Eppure per rimediare a quanto in pochi anni si era snaturato nelle nostre città, ci sarebbero voluti decenni di progettazione con segno diverso.
Ci vuole tempo, troppo tempo. Tempo.
Progettare richiede tempo, bisogna tener conto del tempo. E la progettazione tradizionale non ha tempo.
Sono due i grandi progetti delle Affinità elettive. Il primo è un progetto in senso stretto e tradizionale, e riguarda la costruzione di un parco ad opera dei protagonisti. Questo lavoro, minuziosamente descritto in tutte le sue fasi, impegna i personaggi lungo tutte le vicende. Comporta lo spianare colline, riportare la terra altrove, creare un lago, costruire nuovi edifici, ristrutturare i vecchi, piantare nuovi alberi creare argini, padiglioni, boschi. E un progetto di cui certo i fautori non vedranno la forma definitiva: quanti anni deve crescere un albero appena piantato, perché ombreggi la casa? Fra quanto tempo il lago, unione artificiale di tre piccoli stagni, avrà sponde morbide di vegetazione in luogo degli argini terrosi e squadrati appena costruiti? Fra quanto si potrà chiamare bosco il pezzo di terra sulla collina dove sono stati appena messi a dimora esili innesti?
Un parco è dote per le generazioni future che sole potranno godere della sua forma piena.
Anche un figlio è un dono alle generazioni future. I genitori progettano la sua nascita, immaginano il suo destino, coltivano le sue qualità, assistono alla sua crescita... anche nelle Affinità elettive nasce un bambino. Ma su di lui nessuno ha investito sogni. t quasi il negativo di un progetto: viene concepito per errore, mentre i suoi genitori stanno pensando ad un altro uomo e ad un'altra donna. Addirittura, per sorta di meraviglioso prodigio, il bambino non somiglia ai suoi genitori, ma ai loro rispettivi innamorati. Il piccolo nasce e muore in un arco di tempo breve e tormentato. Nessuno pare si interessi veramente a lui, e lui, breve meteora, metafora dei travagliati rapporti che intercorrono fra i protagonisti del romanzo, esce di scena. Annega in quello stesso lago la cui costruzione aveva richiesto invece tanti progetti, tante energie creative ai suoi genitori ed ai loro amanti.
Un parco o un bambino crescono con i loro ritmi naturali, sono progetti in cui il tempo ha Uii ruolo importante, è una valenza che non si può ignorare, né ridurre. Il tempo trasforma, incide, modella, cambia le prospettive e le inclinazioni. Cambiano i parchi, cambiai-io i bambini. Non possiamo sapere che sarà di loro, così, per quanti progetti noi elaboriamo non possiamo pensare realmente di poter governare il futuro, pena grandi frustrazioni.
L'inizio fu dunque un incerto aggirarsi attorno a questi temi. Un desiderio di farne Uno spettacolo, senza sapere bene perché. Del resto si fa lo spettacolo proprio per scoprire le ragioni per cui lo si è fatto.
E non sono per tutti le stesse.
CONTARE LA STORIA
Il romanzo comincia così: "Edoardo - chiamiamo così tiri ricco barone, nel meglio dell'età virile - aveva trascorso fra gli alberi del suo vivaio l'ora più bella d'un pomeriggio d'aprile ...". Goethe dà inizio all'esperimento cominciando dall'osservazione.
E noi?
Un metodo per cominciare a lavorare su un nuovo spettacolo ce l'avevamo già. Consisteva nel prendere costumi, attrezzi, musiche, luci utilizzati per lo spettacolo precedente, e indossarli, disporli nello spazio, con nuovi testi lì vicino, da cui estrarre una frase, una suggestione, un ambiente, e cominciare.
Un approccio essenzialmente fisico, materico, concreto.
Nell'inverno appena trascorso, quello del 1983, avevamo allestito a Torino una lettura di poesie di giovani autori torinesi. I poeti avevano scelto come titolo Amoroso paesaggio. La lettura si svolgeva nel Teatro degli Infernotti. Infernotti si chiamano, a Torino i seminterrati dei palazzi del centro, cantine in effetti, poco amorose e soprattutto poco paesaggio. Ci inventiamo che ad ogni poesia gli
attori trascineranno in sala grosse piante in vaso. Cento poesie, cento alberi, cento vasi assai pesanti, disposti in tutta la sala, a formare un paesaggio.
Le due parole del titolo, da sole, avevano generato un'immagine. La loro traduzione alla lettera, espediente semplicissimo, aveva prodotto un risultato formalmente denso, affascinante, pertinente. L'esattezza elementare del procedimento aveva moltiplicato geometrica in ente l'effetto.
Come fare lo stesso con le parole di un romanzo?
Cominciammo a contare.
Quali e quanti colori, quali e quanti suoni, quanti sapori, quanti odori, quante sensazioni sulla pelle.
E poi quali acque, quali terre, quali alberi, quanti alberi, quanti mestieri, quali oggetti, quali strumenti, quali azioni fisiche, quali pensieri, quali presagi erano presenti nel testo. E solo alla fine: quali personaggi, quali episodi, quanti episodi? E così per pagine e pagine di quaderno, in lunghi elenchi ordinati, ognuno un compito, ognuno una traccia da seguire: poi ci si incontrava per leggere, scambiare questi elenchi, specie di dizionari goethiani da cui trarre solo indicazioni numeriche.
In realtà il testo così smembrato diventa corpo, le parole decontestualizzate si reificano, le costanti diventano suggerimenti, le ricorrenze tracce, spesso alla lettera.
Di che colore sarà lo spettacolo?
È verde, è bianco, è nero. 1 tre colori citati più spesso.
Quali oggetti raccoglieremo? Attrezzi agricoli, strumenti di misurazione, stoviglie e vettovaglie da cucina, bauli da viaggio, libri, candele, piante.
Quali materiali? Il vetro soprattutto.
E le musiche? Nel testo si fa molta musica, se ne parla spesso, ricorrono flauto, pianoforte, corni e violini, spartiti e scrittura musicale.
Cercheremo musiche d'acqua. Musiche di terra. Luci da serra. Quelle che ingannatio le piante e permettono la funzione clorofilliana anche di notte. La lampada a prisma che riproduce l'arcobaleno... Quali film portiamo con noi? Quelli che parlano di giardini, di parchi, di bambini, di presagi.
Libri sull'arte di progettare i giardini accanto alle opere di Diderot e a quelle critiche su Goethe, ma anche Il sogno della camera rossa, romanzo cinese dove il protagonista bambino vive in un giardino, circondato da sole donne.
Sole donne... Solo attrici nello spettacolo.
Numerosissime sono le azioni nel romanzo, tante le incombenze, i mestieri, il lavoro quotidiano per la casa, per il parco, per la cura del bambino, ma non sono quasi mai i protagonisti a svolgerli, loro si occupano d'altro. Discorrono, perlepiù, finemente, sottilmente, magari fanno un po' di lettura, suonano, viaggiano, vanno alla guerra, si divertono, si disperano. Ma tutto è detto, l'azione concreta, che dà sviluppo alla vicenda non pertiene la loro sfera. Sono discorso senza corpo.
Eppure perché l'argine crolli ci vuole qualcuno che lo edifichi. Perché possano sedersi nella capanna di muschio, qualcuno deve averla costruita, perché il piccolo cresca qualcuno lo deve accudire. E proprio la sorte di quel bambino, che invece di somigliare ai propri genitori somiglia ai loro rispettivi amanti, di quel bambino che nessuno ama davvero' la sua sorte quotidiana, (chi lo lava? chi lo nutre? chi lo addormenta?) ci fece pensare alle donne, alle serve, a chi davvero si prende cura del parco e della creatura.
In francese la prova dello spettacolo si dice répétition. Si ripete qualcosa che si è già imparato. In italiano, invece, la parola prova racchiude limpidamente l'articolarsi di differenti processi creativi. "Provare" è cercare soluzioni materiali attraverso la sperimentazione, è tastare, vagliare, tentare, cimentarsi, dimostrare, cercare qualcosa che va fatto. Ma che cosa?
Contare, ad esempio. Il lavoro di contare il testo non lo fa qualcun altro: è quello il lavoro degli attori, delle attrici nel nostro caso, il loro allenamento. Non si discorre finemente, facendo magari, un po' di buone letture. Il lavoro sul testo è materialmente, fisicamente lavoro. E una funzione di servizio come costruire gli argini o la capanna di muschio. E fare le serve.
L'assunzione del loro punto di vista, è il momento cruciale nello sviluppo del lavoro. Quando lo decidemmo?
Non posso ricordare una vera sequenza di causa effetto. Esistono, tra tante altre soluzioni legate da relazioni visibili e criteri di necessità, delle idee che, una volta pensate si impongono di per sé e oscurano con la loro evidenza tutto quello che per vie traverse ha contribuito a produrle. Sono chiare a tutti e, coli serenità, introducono nel lavoro un nuovo principio d'ordine, che è poi il rispetto per la loro esistenza. A volte succede.
Fortunatamente. Perché da quando a leggere, a contare, a scrivere non sono più sei attrici, Gabriella Bordin, Laura Curino, Mariella Fabbris, Rosalba Legato, Cristina Torriti, Adriana Zamboni, ma le sei serve, tutto assume una fluidità inattesa: finalmente si può guardare alla storia liberati dalla sua costruzione letteraria.
RACCONTARE LA STORIA
Gli episodi del romanzo si fanno materia.
Ne scegliamo quattro per l'allestimento degli "Studi" al castello di Rivoli, che saranno poi i quattro che presenteremo al Festival di Santarcangelo di Romagna, sempre sotto forma di studio. Quattro ambienti ancora molto legati a interi brani stralciati dal romanzo: l'arrivo al castello degli ospiti, la nascita del bambino, la sua morte, l'abbandono del parco.
Alcune interpolazioni nel testo sono affidate alla lettura di parti de La vita delle api di Maeterlink: le serve sono come api laboriose.
Non esiste una distribuzione delle parti, all'inizio. Perché non ci sono parti. Solo i corpi delle attrici che si calano nell'ambiente del romanzo. E così i primi testi che pronunciamo ad alta voce sono appunto "pretesti", descrizioni d'ambiente, per tre quadri su quattro.
E come se, per cominciare, si dovessero definire prima il luogo, la tenuta, la casa, il lago, il parco, ed il tempo, l'inverno, la primavera, l'estate e l'autunno. Poi verranno i personaggi, che per ora sono ancora persone. Di quelle prime prove resterà integralmente nello spettacolo la scena della notte in cui viene concepito il bambino, l'unica che comportasse dialoghi veri e propri.
Provata realmente di notte, da mezzanotte alle quattro del mattino, nel silenzio e nell'atmosfera di remissione che succede alle giornate più calde di luglio, prendeva vita quel recitare fatto di chiacchiericcio fluido, intrecciato, di suono che significa anche senza parole, come una lallazione materna e rassicurante, di testo che si scioglie e si rafforza in un sottotesto fatto di ripetizioni, di amplificazioni, sospensioni, allitterazioni.
Nessuna responsabilità veniva affidata alla singola parola, era manifesta invece la fiducia nel discorso, all'afasia si opponeva un generoso, avvolto, felice, piacere del suono delle parole, dei colore della conversazione, della confidenza. A officiare la cerimonia Lucilla Giagnoni, fresca di scuola di teatro, con la voce ben impostata cominciava a raccontare alle altre che cos'era successo la notte prima nella stanza della padrona e le altre via a far domande, commenti, risate, illazioni, allusioni, rimproveri, scherzi, sbadigli, sospiri...
Le attrici avevano contato, nominato, numerato, memorizzato parole, aree di parole. Distraendosi dalla rigidità del testo avevano creato un vocabolario goethiano che permetteva ora di improvvisare e raccontare la storia dal loro specifico punto di vista, senza però allontanarsi dagli elementi costitutivi del testo.
Il testo dello spettacolo era la casa da costruire, l'analisi quantitativa somigliava al capitolato d'appalto. Questi gli infissi, queste le tavole di legno, queste le quote dei soffitti. Oppure: queste le tessere del mosaico, questa la forma, la tinta, lo spessore.
Visto così il testo dello spettacolo non è fatto solo di parole ma anche di tessuti, lampade, voci, musiche, attrezzeria, vasi, ogni cosa schedata, vagliata, cercata, comprata, provata da Adriana Zamboni, da Mariella Fabbris, da Lucio Diana ' da Roberto Tarasco. Così il 19 ottobre del 1985 arrivammo a Santarcangelo di Romàgna per iniziare le prove.
" ... Arrivarono dapprima camerieri e serve, vetture cariche di bauli e casse, pareva che di padroni, in casa, ce ne fosse già il doppio o il triplo, ma infine ecco apparire loro, gli ospiti: la prozia con Luciana e alcune amiche, il fidanzato, anche liti col sito seguito. Ecco il vestibolo pieno di valigie, di sacche e di altro, custodie di cuoio, con gran tribolazionc si smistarono le varic cassette, Ie borse; reggere, strascicare, non era mai finita. E intanto una pioggia violenta causa non poco disagio ... "
Questo era il frammento che avevamo usato più spesso nel corso degli studi. Il testo diventava chiave interpretativa della realtà, rimando scherzoso, ma pertinente, non leggevamo più il romanzo alla luce della nostra esperienza, ma l'esperienza alla luce del romanzo.
Il fidanzato era quello di una delle attrici, che per seguirla si era fatto tecnico del suono e arrivava sempre con il suo seguito di strumenti elettronici, il resto era la descrizione esatta del nostro arrivo a Santarcangelo. Compresa la pioggia. Il testo ci dava possibilità infinite di interpretazione.
" ... Tutti q questo punto si sarebbero volentieri goduto un po' di riposo dopo gli strapazzi del viaggio ma ... "
Ma per il momento c'era da scaricare il furgone stracolmo.
Sul battuto di cemento del capannone adibito a sala prove si ammucchiò l'intero spettacolo.
Assolutamente condivisa fu la sensazione che fosse già tutto lì e che si trattasse ora di osservare ancora un po' quel mucchio con circospezione e poi, dopo una pausa, che non è pausa, ma tempo per raccogliere il respiro, gettarsi febbrilmente al lavoro.
Lavorare di sottrazione, come scolpire un blocco di materia fortemente aggregata. Non è come disegnare fare uno spettacolo, è più come scolpire. Continuare a girare intorno alla forma, assecondando la materia, ma anche opporlesi ed imprimerle linee originali per poi, magari, tornare ad assecondare, senza lasciarsi troppo influenzare da un disegno utopico, creato in precedenza ma cercare in direzioni diverse. Come se la forma definitiva non stesse né nella materia né nel bozzetto né nell'azione che realizza il disegno, ma nel dialogo fitto tra questi ed altri elementi: l'opera è da un'altra parte, il progetto è l'innesco di processi per arrivare da un'altra parte, è un progetto eterotopico. Per voler operare li questo modo " ... La compagnia attraversò di conseguenza, non poche situazioni critiche, ma soprattutto le cameriere, che non avevano mai finito di lavare, di stirare, di scucire e ricucire..."
Accadde dunque che alcuni dei processi innescati risultassero immediatamente efficienti, altri invece avrebbero prodotto scarti e riflessioni, che non si leggono più alla fine del lavoro.
Ad esempio, dopo aver visto il film Mon oncIe d'Amerique di Alain Resnais, ci avvicinammo alle teorie di Henry Laborit e tentammo di suddividere i comportamenti dei quattro protagonisti del romanzo nelle quattro categorie laboritiane di consumo, lotta, fuga e inibizione. Scoprimmo che si potevano tuttalpiù individuare dominanti, ed anche queste con una buona dose di arbitrarietà perché ciascuno di noi arrivava a risultati diversi. E pure anche le false piste diventavano preziosi momenti per percorrere il testo una ennesima volta, senza consunzione, senza ripetitività, poiché sempre si spostava la prospettiva di lettura.
Fondamentali nella costruzione dello spettacolo si rivelarono invece I misteri dei giardini di Conipton House di Greenawav, che ispirò la costruzione di alcuni dialoghi e suggerì importanti soluzioni formali, e Barril Lindon di Stanlev Kubrick, che influenzò il piano luci di Lucio Diana e Roberto Tarasco.
Il capannone in cui si lavorava era stato riparato da poco. Fuori, in un angolo erano ancora ammonticchiati numerosi mattoni.
Il soffitto era piuttosto basso e sarebbero occorsi alcuni giorni per risolvere tecnicamente l'impossibilità di avere tiri e americane su cui sistemare i proiettori, ma noi volevamo cominciare a provare subito: i fari furono sistemati ai lati dello spazio scenico su pile di quei mattoni a formare corridoi di luce e di buio. Si otteneva così profondità di campo per creare piani differenti per i diversi luoghi dell'azione ( il dentro e il fuori), quasi corridoi del tempo per rappresentare visivamente il "prirna", l' "adesso" e il "dopo".
Questi corridoi, che prima sfumavano l'uno nell'altro, vengono precisati e caratterizzeranno il piano luci definitivo.
Per le attrici è un continuo sporgersi in avanti da fondo palco a cercare la luce e poi ritrarsi nel buio, oppure, trovato il corridoio, percorrerne la striscia da un lato all'altro dello spazio scenico.
L'impressione è quella di essere dentro a un quadro di Caravaggio, sempre in un gioco alternato di chiarità e ombra, segreto e rivelazione.
La luce cela e svela
Questa proprietà è enfatizzata, alla lettera, dalle cortine di pizzo, tese su cavi d'acciaio fra un corridoio di luce e l'altro. Le tende, aperte e chiuse dalle attrici, si sovrappongono, creano quadri di ampiezza diversa, nell'alveo nudo del palcoscenico (che sarà sempre utilizzato senza quinte né fondale), velano e svelano la scena. Allo stesso modo i grandi teli, che ci sono usuali, perché leggeri, duttili, reattivi alla luminosità e al movimento, vengono issati dalle serve a formare soffitti, ammainati a creare pareti o pavimento, stesi come lenzuola di un gran letto comune, mossi come nuvole nei temporali, gonfiati come vele sul lago, fatti tremare come la stessa superficie iridescente del lago.
Le distanze sono falsate.
Ora possiamo parlare come stessimo vicine a far confidenze e invece ci sono otto metri a dividerci, oppure possiamo trovarci in ali diverse del castello pur restando vicinissime, possiamo muoverci naturalmente su uno schema innaturale.
Solcando lo spazio solo su ascisse e ordinate. Tramare sull'ordito.
Tessere la trama del racconto. Con lo stesso gesto preciso, deciso, utile, delle donne al telaio. Il testo non sarà un ricamo, ma la trama della tela. Ruvida.
ACCORDARE LA STORIA
L'immagine del telaio fluttuava già da alcuni mesi, ma si chiarì in quei primi approcci spaziali e influenzò fortemente anche le risoluzioni della scrittura del testo.
Diventa ora assai difficile decidere una consequenzialità in quello che accadde nei giorni di prova. Certo dopo aver raccolto i riassunti scritti dalle attrici, ne stabilimmo uno definitivo, poi decidemmo di raccontare ogni evento tre volte, perché diavolo proprio non lo so più. Credo dipendesse dal gran numero di presagi che il romanzo contiene.
Le premonizioni mettono nella condizione di dover descrivere il futuro già prima che accada. Poi avviene il fatto in sé e quindi la memoria.
Questa tripartizione, ci costrinse a non pochi espedienti farraginosi per trasformarla in teatro, la risolvemmo con le tecniche della diceria, della leggenda, della favola. In ogni caso le soluzioni venivano stabilite a priori un giorno, rivoluzionate in fase di messa in scena, stravolte il giorno appresso, dimenticate, poi rammentate al primo intoppo successivo, a volte riprese, a volte abbandonate per sempre senza rimpianti.
L'intreccio tra le attività era impressionante.
Il visitatore che entrava in sala e si cercava una sedia, silenziosamente, per non disturbare, se ne usciva altrettanto silenziosamente, con l'impressione di essere finito per un momento in una gran confusione, in cui ali era impossibile sceverare chi stesse facendo cosa e perché.
I suoi passi, timorosi e pieni di rispetto per la concentrazione creativa, avevano trovato un terreno su cui si stava scavando rumorosamente: tre attrici improvvisano, i tecnici si lanciano cavi e corde, un brano musicale viene diffuso per pochi secondi e poi via un altro, il rumore della macchina da cucire e quello del martello si sovrappongono alle indicazioni del regista, mentre un'attrice, in un angolo impara qualcos'altro a memoria e un'altra scrive.
Improvvisamente infine, capita che la scena si svuoti, le ragazze escono fuori al freddo e vanno a provare dietro le macerie, allora tace anche la macchina da cucire, perché era una delle attrici che la stava usando, e anche quella che scrive raccoglie i fogli e la sciarpa e se ne va con le altre.
In sala torna silenzio, perché adesso gli uomini stanno tutti attorno ai tessuti, a vedere se quella sfumatura di verde si può tenere oppure no e poi innaffiano le piante. Tutti meno uno, che è andato a cercare il minuto di musica che gli manca. Ognuna delle azioni descritte e le mille altre necessarie influenzano il testo.
Bisogna che chi scrive sia sempre attento a tutto quello che accade.
Spostare un telo o una luce provoca svolte nella storia, necessità di inventare altre frasi, o di tagliarne.
Spesso lavoriamo disposte in schiera: la schiera diventa un modulo indispensabile alla creazione, è il foglio bianco, il "bianco" che si fa in video prima di cominciare, somiglia agli abiti bianchi con cui iniziamo le prove, che si coprono poi eli colori mano a mano che lo spettacolo cresce.
I personaggi, disposti in fila di fronte al pubblico uno accanto all'altro, sono note musicali che si spostano sul ri-o, ora suonando movimenti, ora parole.
Le frasi del testo assumono cosi una necessità interna che non è solo di significato, ma anche di estensione e di durata: spesso abbiamo avuto bisogno di scrivere una frase che "duri otto battute, dodici, ecc.".
Più volte abbiamo provato tutto lo spettacolo in "oratorio", cioè cori la disposizione a cerchio, poi a semicerchio, sempre rivolte al pubblico, come in un concerto vocale, cercando di condensare il movimento in semplici rapporti prossemici fra le attrici, spostandoci di volta in volta a "cantare" la parte vicino alla compagna di scena, o alla voce cui bisognava accordarsi per creare l'ambiente sonoro di quel particolare momento per poi cambiare di posto sulla schiera alla scena successiva.
Durante queste prove si rafforzavano alcune relazioni e se ne scoprivano altre per le quali bisognava trovare nuovi testi. Quello che voglio dire è che, procedendo scrittura, messa in scena, allestimento e improvvisazione in modo parallelo, si creavano anche nella storia e nel testo velari, sovrapposizioni, trasparenze, intersezioni sorprendenti, e molto della fatica fisica consisteva nell'essere continuamente all'erta per coglierli, fissarli, sistematizzarli.
Il livello dell'attenzione, in quell'apparente caos, era molto alto, a volte la tensione diventava insopportabile e allora chiudevamo baracca e burattini e andavamo ... a farci una sauna.
Ci era finita in mano la pubblicità di una palestra aperta di recente, sulla strada tra il capannone e la nostra casa d'affitto. Divenne buona abitudine farci una tappa ogni tanto.
Nella sauna ci sono sei donne che ancora ridono degli scherzi e degli imbarazzi dei primi giorni, la doccia non è mai abbastanza calda per una e fredda per l'altra. Poi la stanzetta si riempie di vapore, allora le voci si abbassano, si illanguidiscono, si rarefanno fino al silenzio. Sogno moltissimo, in questi giorni. Immagini su immagini. Anche se si dorme poco.
Abitiamo in una casa ammobiliata appena fuori dal paese, una grande cucina sotto e tre stanze sopra, sul tavolo si avvicendano il cibo e i quaderni. In camera, sopra l'armadio abbiamo ammonticchiato i soprammobili e tutto quel che potevamo togliere per far spazio alle nostre cose e così lassù è finito un grosso vaso di coccio con dentro piume di pavone. Lo spettacolo sta prendendo quei colori ed è, nonostante la povertà dei materiali, attraversato (la un che di sontuoso, di languido, come i contorni sfiniti dei visi nella sauna.
Si crea, in questa nostra convivenza, una complicità di gesti quotidiani, un comune linguaggio dei movimenti, si accelera quel processo di comunicazione che in Lui normale ciclo di prove in teatro, a casa, con ognuno che si saluta finito di lavorare, sarebbe impossibile.
Comprendiamo qui che ogni spettacolo deve racchiudere un tempo, un ritmo, Un luogo a sé somigliante e che le condizioni per ottenerli si celano nel diverso uso del tempo e dello spazio durante tutta la giornata.
La fatica, i disagi del vivere un po' accampati trasmettono al lavoro concretezza. Il problema è mantenersi desti. E continuare a "vedere" dentro quel magma le storie.
Nella casa la sera sul video ripassano gli stessi film, sul tavolo riportiamo ogni scena su singoli fogli che vengono scambiati, allineati in maniera differente, giustapposti in gruppi per cercare la sintassi dello spettacolo, con gli stessi gesti con cui sul pavimento del capannone spostavamo pezze di stoffa, teli e passamanerie cercando abbinamenti e composizioni.
La prassi è la medesima. I costumi, da una semplicità iniziale di abito e grembiule, diventano un insieme di elementi sovrapposti, una gonna, una camicia, un grembiule, un gilet, e anche più maniche l'una sull'altra, di cotone, di lana, di pizzo, ma senza decorazioni superflue. Ci sono più strati soprattutto perché dall'estate delle prime prove si è giunti all'autunno e ora alle prime avvisaglie dell'inverno. Fa freddo. Ci si copre con panni che scaldino, ma non intralcino nessun movimento, conservino gli echi dei quadri Vernicer, del lusso dei padroni, ma siano al tempo stesso dimessi, un ricordo di un che di sontuoso, come l'abito smesso regalato alla serva.
Anche il testo, come fosse di lana e di pizzo, assume spessori e trasparenze: le parole delle serve sono la scia delle conversazioni dei signori, trattengono alcuni modi e termini, altri li rigettano per servirsi di un linguaggio più semplice.
Le sei serve non sono sempre lo specchio dei comportamenti dei signori. Nell'operosità quotidiana trovano occasioni di riflessione negate ai loro padroni. A volte si aprono ai loro occhi paesaggi di consapevolezza smisurata, che non sanno dire. Non conoscono le parole per dirli, o forse non sono ancora state inventate. Allora le donne restano mute, in un silenzio teso e sospeso, gli occhi lucidi, lo sguardo avanti, uno sguardo che vede, distingue, comprende, ma non sa nominare.
Di qui vengono le lunghe pause che ritmano lo spettacolo e sottolineano alcuni momenti di densità di significato così alta che pare impossibile decidere quale direzione imprimere ad un qualsiasi movimento. L'aria del lungo respiro preso per cominciare a parlare si ferma nel petto in una apnea stupefatta. Forze contrapposte tendono in tutte le direzioni e non resta che sospendere il giudizio, il tempo, l'azione.
Quando questa riprende è sottolineata da una espirazione che sgancia il freno del movimento e libera una forza centripeta da cui si staccano, di nuovo visibili, i gesti e finalmente pronunciabili, le parole del racconto.
La scrittura, che mi viene affidata in larga parte già dagli spettacoli precedenti, per mio piacere e scelta, ma in parte anche per esclusione (a nessun altro piace farlo), non è solo scrittura di appunti, rilevazione delle improvvisazioni, ma anche interpolazione di testi, citazione, preparazione di materiali per le improvvisazioni, a volte addirittura esercizio di scrittura "alla maniera di". Cerco cioè di pensare a come parlerebbero le altre, improvvisando su un dato tema e provo a scrivere le loro parole, vedendo se si possono così tagliare dei tempi. Oppure cerco di capire quali parole hanno colpito Gabriele, Lucio, Roberto, e utilizzarle, anche come forzature, stridori che più avanti potrebbero trovare luogo più armonico. A volte scriviamo a più mani, con Gabriele, con Cristina, con tutti a suggerire, ricordare, contraddire. A volte si tratta di ricavare battute di raccordo, ricucire scene apparentemente opposte, o non contigue.
Insomma, come spiegarmi? Partiamo da qui: mia madre è sarta. La metafora più vicina a questo lavorio sul testo è quello del suo lavoro di sartoria, dove l'abito cresce a partire dal modello trovato sul giornale, il tracciato ricavato sulla carta velina, le misure della cliente, il peso, il colore della stoffa,...di chi è l'abito? Di chi l'ha disegnato e poi pubblicato? Di mia madre che lo ha modificato? Delle lavoranti che lo hanno cucito? Della merciaia, che ha trovato rifiniture anche più belle dell'originale? In ogni caso l'abito, alla fine deve piacere anche alla cliente, che se lo porta via... da quel momento è suo.
 
STORIA DEL TESTO E DEL SOTTOTESTO
Le serve hanno gesti precisi, concreti, utili, i pochi elementi di cui la scena è composta richiedono continui spostamenti per ricombinarli, creando ambienti differenti.
Programmaticamente viene chiesto da Vacis di non ricorrere ad astrazioni, di non ricamare, appunto, ma semplicemente eseguire con calma tutto quello che è necessario, legare con cura, appoggiare saldamente, stendere esattamente, spostare con attenzione, col tempo che ci vuole, non meno e neppure di più. Fare davvero e non fingere di fare. Preoccupandosi del fatto che ogni movimento sia efficiente e non danzato.
E sul movimento si accordano le parole, fluidamente, senza smettere di agire per fermarsi a parlare, senza coprire le parti fondamentali del testo con interferenze e rumori di scena, eppure lasciandolo fluire anche, a volte, come musica, come puro suono, senza pensare di dover pronunciare ogni parola come fosse l'ultima prima di morire.
Vedevamo nel teatro della frammentazione un modello in crisi che non ci aveva mai veramente coinvolti e ne cercavamo uno in cui fosse possibile prendersi la responsabilità del funzionamento dell'intera macchina della scena, la responsabilità del discorso piuttosto che dei suoi singoli segmenti.
Gesto utile, parola fluida.
Quale parola? O meglio, quale lingua?
Il problema si era posto al passaggio dagli studi, in cui il testo era costituito da pagine stralciate dal romanzo e dette o addirittura lette integralmente, al racconto in prima persona e al dialogo.
Come parlano questi personaggi?
Tutta l'opera di Goethe è attraversata dal problema della lingua. Nella sua Germania, divisa da decine di dialetti, l'uomo del nord non capiva quello del sud. Questa difficoltà di comunicazione che pertiene la geografia, nelle Affinità elettive è invece relativa alle epoche. Le idee della rivoluzione stanno sconvolgendo quello che sembrava il naturale corso della storia e ciò provoca sconcerto e turbamento. Lo stesso turbamento che coglie Carlotta quando viene a sapere che il Capitano le rimprovera di disegnare i sentieri del parco senza uno schema preciso, scientifico, ma seguendo l'impulso, a caso, empiricamente. "A lei avviene come a tutti coloro che si occupano di cose del genere da dilettanti: le importa di fare qualcosa piuttosto che qualcosa sia fatto".
A Carlotta, cui erano i sentieri sembrati così ben riusciti, l'appunto dispiace, è risentita con il Capitano, eppure ne subirà il fascino e acconsentirà ai suoi progetti, che richiedono rilievi, misurazioni, nuovi strumenti, coraggiose demolizioni e ricostruzioni.
C'è un mondo vecchio che guarda il mondo nuovo. E non sa cosa pensarne, né come comunicare con lui.
Una lingua vecchia, il dialetto, ed una lingua giovane, l'italiano.
Abbiamo deciso che in scena ci saranno quattro serve giovani e due serve anziane, queste ultime sempre vissute al castello, custodi del vecchio parco anche quando i Signori non ci abitavano ancora. Sono le testimoni del mondo antico, delle sue forme e delle sue regole e parlano i suoi idiomi. L'una si esprime in dialetto stretto, l'altra la traduce, in una lingua che conserva pesanti inflessioni dialettali. Traduce gli ordini alle nuove arrivate, le giovani serve di Carlotta, Edoardo, Ottilia e del Capitano e dunque al pubblico.
Così, per estensione del procedimento, stabiliamo che la serva del Capitano, venuto a portare il vento delle nuove idee, parla la lingua di quelle, idee, il francese, mentre la serva di Ottilia è muta. Arriviamo al mutismo della serva partendo dalle caratteristiche della sua padrona. Ottilia è nel romanzo fanciulla schiva, silenziosa, incapace di comunicare apertamente col mondo, e al termine della sua disgraziata storia d'amore con Edoardo si chiuderà in un autismo profondo, rifiutando di mangiare, bere, parlare fino a morirne. La sua serva, specchio del personaggio, non può parlare.
Il destino separa Carlotta da Edoardo e per affinità elettiva si creano nuove coppie: Carlotta e il Capitano, Ottilia ed Edoardo. La stessa affinità legherà le serve, così che la serva di Carlotta, che ha imparato un po' di francese dalla padrona, preferisce lavorare con la serva del Capitano e la serva di Edoardo imparerà a capire i fonemi della muta e a tradurli alle compagne.
Davvero Adriana Zamboni - Vera - non capiva il mio dialetto. Fedele parla un idioma monferrino ricreato sull'onda del ricordo, pieno di barbarismi e di invenzioni per semplificarne la comprensione alle compagne, che lentamente si assuefanno e lo imparano. In dialetto, scopro, posso dire cose che in italiano non avrei mai il coraggio di dire. Posso parlare dei sentimenti senza leziosità. h, bocca ad una serva che conosce solo il suo dialetto, chiamare le emozioni col foro nome acquista autorevolezza e semplicità. Eppure devo superare continue resistenze. Resisto alla forma che ho trovato. Dentro al limite del dialetto la creatività, dopo un inizio di struggente consapevolezza, mi sembra tarpata, dimenticando che proprio nel limite, nella norma, la creatività diventa necessaria e si rivela.
A lungo fu difficile capire la "parlata" della Muta, poi battezzata Ondina, altro nome che Goethe attribuisce ad Ottilia. Cristina Torriti prima aveva studiato il linguaggio gestuale dei muti, poi aveva cercato un suono mettendosi in bocca gli impedimenti più strani, dal morso dei pugili, a una spugna, agli apparecchi per raddrizzare i denti, fino al sasso che diventò l'espediente col quale creava la sua lingua.
Quanto al francese, Gabriella, che pure lo conosceva abbastanza bene, dovette scontrarsi con l'afasia dell'improvvisare in una lingua straniera, finché smise di pensare in italiano e cominciò a parlar francese dal mattino alla sera.
In questa frequentazione della lingua si precisa la presenza scenica. Ogni lingua ha un ritmo che si trasferisce al corpo, al gesto, e intersecandosi con le caratteristiche del personaggio imprime caratteri genetici profondi. Non è un caso che sia stato più difficile per chi parlava in italiano, lingua con segni ancora troppo recenti, arrivare alla forma definitiva della propria presenza.
La difficoltà successiva stava nel concertato, nell'amalgama del suono, che deve "contenere" il testo, ma mai confonderlo, intorbidarlo.
Parlare in sei, improvvisare in sei, comportava un continuo alternarsi di affermazioni, traduzioni, fraintendimenti, correzioni, felice ripetersi di una frase una volta che era stata compresa da tutte, gioco a contraddirla o sottolinearla, gara a specificarla con metafore o paragoni per verificarne l'efficacia.
Spesso si producevano confusione, scoramento, tensione al silenzio. Avevo a volte l'impressione che non ci sarebbe mai stata una fine alla babele in cui l'entusiasmo creativo di ognuna finiva per scontrarsi nella esuberanza delle altre e produrre una cacofonia isterizzante.
Basti: si va a fare la sauna, o, se è tardi, a dormire. Ad imparare dalle morbide conversazioni tra i vapori profumati, dal sommesso chiacchiericcio che precede il sonno, soffice cuscino di parole su cui a volte si levano frasi pronunciate a voce più profonda, o più chiara.
Fuori dalla porta chiusa della camera da letto arrivano solo le frasi a volume più alto, eppure nel "cuscino" di parole è pur possibile cogliere l'umore, il tono della conversazione, se di la si stiano confidando segreti, scambiando impressioni, tramando scherzi o sfogando malesseri.
Allo stesso modo un piccolino forse non capisce le parole della madre, ma ne coglie il tono, l'intenzione, il significato al di là delle parole, che spesso neppure ci sono, sostituite da una lallazione gioiosa, burbera o rassicurante.
La costruzione del testo avvenne così su due livelli.
Quello appena descritto, il più profondo lo chiamiamo sottotesto. È denso di umori, echi, ambienti, è l'aura che circonda i personaggi, li lambisce come la nebbia bassa delle mattine estive. E il rumore del mondo, il respiro delle cose, che non si trovano mai nello stato di silenzio totale del vuoto assoluto.
Ci sono pettegolezzi d'ambito francese che portano a credere che Stanislawskij considerasse il sottotesto, così come lo intendeva lui, una specie di sotterfugio col quale risarcire una assenza di ambienti sovranamente suggestivi - castelli, abbazie, giardini invasi dall'edera e suscitare nell'anima, artificiosamente dunque, stati emotivi consoni alla creatività attorica.* Se è così, aggiungiamo che per noi si tratta di suscitare il medesimo effetto per quel che riguarda la creatività del pubblico.
(*) Scrive Gcorgettc Leblanc, l'eclettica e mondana attrice e cantante che aveva sposato Maeterlinck: "je me souvenais des paroles de Stanis1awskj, le directeur du théatre artistique de Moscou, 1orsqu'i1 était venu nous voir à Saint-Wandrille: - Les cours, les leçon rèpétitions ne puvent apporter aux artistes ce que donne une continuité d'atmosphère, la vie de l'esprit dans un cadre de beauté. Je vous envie cette Abbaye". (Georgette Leblanc, Souvenirs (1895-1918), s.l., Grosset, 1931, p. 244).
In assenza della cosa, indurre ad immaginarla, percepirla sensualmente attraverso un processo analogico, immergendolo in un viluppo di sonorità che sono lo spessore dell'aria attorno ai personaggi, ma anche le tracce della vita dell'attore sotto a quella del personaggio.
Il sottotesto è il segno che resta visibile del continuo sforzo creativo dell'attore, che si mette in relazione con gli altri attori ora e adesso e con loro cerca relazioni con la storia, con la scena. Nel sottotesto, quotidiano ed extraquotidiano, vita dell'attore e vita del personaggio, non sono sempre distinguibili, né vogliono esserlo. La natura di questa relazione è qualcosa di simile alla traduzione dell'esperienza in poesia. È a volte trasparente come una battuta di spirito o un'espressione di disappunto o risentimento, a volte misteriosa come un sospiro, una risata trattenuta, un pianto nascosto.
Accanto a questo, si costruisce il testo che racconta, che traccia la storia nei dialoghi e dallo sfondo spicca il salto verso il pubblico, a volte in parabola, dall'attore allo spettatore, a volte di sponda, da una voce a un'altra che la traduce, al pubblico.
Soprattutto in questa seconda fase intende la scrittura.
Ogni improvvisazione, il cui tema è stabilito dall'esterno a seconda del punto della vicenda che stiamo affrontando, viene trascritta subito a più mani.
Poi ne vengono fissate le coordinate più utili e precise e su quelle si improvvisa di nuovo, fino al risultato definitivo. A freddo, la sera, o anche qualche giorno dopo, vengono poi inseriti brani di testo creati a tavolino, per i quali e stato necessario rileggere parti del romanzo o cercare altre fonti.
A freddo, oppure " ... al freddo " ...
Vale la pena di soffermarsi su com'è stata costruita la scena che chiamiamo "delle canne", dalle due canne di giunco che ogni attrice tiene in mano. Sono canne lunghissime formate ciascuna dall'incastro a telescopio di tre giunchi diversi.
Il tema della giornata di prove era il momento in cui la serva del Capitano, irritata per la lentezza e Fignavia delle altre, le sollecita a lavorare, insegnando loro come usare i nuovi strumenti portati al castello dal suo padrone. "Oggi si può misurare tutto", dice alle compagne scettiche, che diffidano delle novità e la sfidano chiedendole se anche i sentimenti si possono misurare....
Nello stesso dialogo bisognava anche comunicare al pubblico il nascente scambio delle passioni fra i padroni e mostrare come un analogo rapporto di comprensione stesse formandosi tra le serve.
Un pomeriggio di lavoro fornì materiale per una scena lunga un'ora che invece doveva durare al massimo sette, otto minuti.
C'erano riflessioni sulla possibilità di contare l'universo (e quanto legate anche giocosamente, alla fatica che era costata l'analisi quantitativa del romanzo ... ). Con le canne allineate veniva suggerita l'immagine dell'abaco e inventati curiosi espedienti per contare tutti i pesci del mare, i granelli di sabbia, le stelle, i semi e la frutta.
Intanto si inframmezzavano dialoghi in cui la serva di Edoardo si prendeva cura della Muta e la difendeva dalle derisioni delle altre, o ancora battibecchi tra le anziane e le giovani, tra Vera e Fedele.
Da qui avevamo tentato la strada dei proverbi ed iniziato una sequenza di botta e risposta a suon di modi di dire, passandoci le canne come si fa col testimone nei giochi a staffetta.
Più facile dirlo che farlo.
Uno scatto di disappunto fece cadere malamente il fascio di segmenti di canna, che si sparpagliarono a terra, ammonticchiati. Prendemmo a disfare quel mucchio con cura, liberando un'asta alla volta, giocando al gioco che qui si chiama Shangai, altrove Mikado.
Durante il gioco nominavamo ad ogni mossa un sentimento, seguendo il procedimento con cui Ts'ao Hsúeh Ch'in, l'autore de Il sogno della carnera rossa intitola ogni camera del suo palazzo cinese: la Camera della Follia Amorosa, la Camera della Gelosia, la Camera delle Lacrime Mattutine, la Carnera dei Sospiri Notturi, la Camera dell'Affanno di Primavera, la Camera dell'Afflizione Autunnale, ... e poi a qualcuno venne in mente che potevano essere invece titoli dei libri di Edoardo ... il Libro dell'Amore Folle, il Libro del Risentimento, il Libro della Gelosia, il Libro dell'Amore che comincia, il Libro dell'Arnore che finisce, il Libro delle Lacrime mattutine, il Libro dei Sospiri Notturni...
Se cercavamo di trovare un filo, ognuna delle strade prendeva così tante diramazioni (la trasformarsi in altrettante scene, mentre a noi occorreva un unico passaggio, un ponte verso il quadro successivo, dove, nella capanna di muschio, la serva di Carlottà e la serva del Capitano svelano apertamente il gioco delle coppie che si scontrano su due diverse visioni del mondo antico e moderno, oriente e occidente.
Vacis ci spedì fuori in cortile, con la scusa che in sala c'era troppo rumore, in realtà sperava che il freddo ci avrebbe sollecitate a tagli decisi senza troppe discussioni. Il che avvenne puntualmente in modo assai rapido, pur trattandosi di una delle scene che comportano maggiori incastri di testo, sottotesto, traduzione. Nel copione definitivo, sarà quella dove più chiaramente il progetto appare irrimediabilmente legato alle vicende umane. Esse, occupand o il tempo e lo spazio, influenzano il progetto a volte sino a stravolgerlo.
Per rifarci di giornate particolarmente faticose mangiavamo al ristorante Zaghini. Ci serviva a tavola un cameriere anziano, gentile, un po' allegro, un po' malinconico. Tutte e due le cose insieme. Angelo si preoccupava quando non mangiavamo abbastanza e se c'era malumore ci tirava su con qualche battuta in quel suo dialetto dolce dove l'agnello diventava "l'agneulo". Lo tenevamo al corrente del lavoro e cominciò a diventare una sorta di confidente, sempre più coinvolto dai nostri racconti.
Nel finale dello spettacolo, dopo aver messo al riparo le piante nella serra, e cioè coperto il palcoscenico di grandi piante in vaso, le giovani serve ripartono dal castello e anche le anziane lasciano il parco che tutti hanno abbandonato, resta in scena soltanto un vecchio giardiniere a innaffiare con cura, parlando ormai da solo, o con le piante, sottovoce.
Al debutto il giardiniere non poteva essere che Angelo. Non era stato difficile convincerlo. Correva da noi la sera, appena finito il servizio al ristorante, al posto della sua giacca bianca indossava il grembiule eli cuoio ed entrava tranquillo in scena, chiamava qualche volta le piante per nome, ma piano, che sentivamo solo noi. Ogni sera nomi diversi, ma Rita ... c'era sempre. Chissà chi era quella Rita... non glielo abbiamo mai chiesto...
Su ogni piazza da quella prima sera, Mariella si sarebbe preoccupata innanzitutto di trovare il giardiniere, facendo uscire allo scoperto un anziano custode del teatro, oppure tirando fuori dalle bocciofile e dalle case del popolo un signore canuto ed emozionato che la sera avrebbe recitato il finale con noi. Anche le loro voci andrebbero incrociate oggi, perché ognuna delle persone che ha partecipato alla creazione, anche uno dei giardinieri, potrebbe raccontare fasi preziose del lavoro. Per esempio, ci vorrebbero pagine per descrivere le numerose soluzioni, alcune molto spettacolari, con cui è stata risolta l'entrata in scena del giardiniere.
Lo spettacolo non è mai finito. Ma debutta.
Così come, qui di seguito, ora debutta il testo.
Vale la pena ricordare che il copione è stato riveduto nelle repliche registrando le variazioni suggerite dal contatto col pubblico, e che altre modificazioni ha comportato, otto anni dopo, il riallestimento dello spettacolo col titolo Affinità. La ripresa, con Anna Coppola (la serva del capitano), Laura Curino (Fedele), Mariella Fabbris (la serva di Edoardo), Benedetta Francardo (Ondina), Lucilla Giagnonì (la serva di Carlotta) e Paola Rota (la serva del Capitano), ha messo in atto relazioni e conflitti fra memorie generando ulteriori occasioni di ricerca e nuove opportunità culturali. Non ultima, quella che mi ha consentito di ricostruire e narrare le vicende del testo.
 
 
ELENCHI
ELEMENTI COSTITUTIVI DEL PARCO E DELLA PROPRIETA'
Vivaio. Capanna di muschio. Terrazza. Ciruitero. Valletta. Rocce. Boschetti, Macchie. Dossifertili. Gruppi isolati di alberi. Cespugli. Folto di pioppi. Folto diplatani. Sentiero. Strada. Serre. Aiuole. Ponticelli. Scale. Piattaforine. Capanna. Spigolo roccioso. Sassi, Muretti. Parco. Gradini. Sentierucoli. Stagni. Acque. Canali. Monte. Balza. Torrente. Macigni. Palizzate. Travi. Assi. Muro. Greggio. Padiglionc. Terrapieno. Giardino. Angolino. Panorama. Montagnola. Rupi. Macigni muschiosi. Ripide guglíe. Alberi altissimi. Pietraia. Apprezzamenti frazionati. Viottoli. Viste. Soste. Alture. Campagna. Monti. Prima pietra. Fondamenta. Scavo, Tagliapietre. Scultore. Muratore. Fattoria. Colli boscosi. Tre stagni. Lago. Collina. Fiume. Vigneti. Quercie. Barca. Piazzola d'approdo. Canne. Terre. Sedili. Argine. Lago unico. Dispositivo per fuochi d'artificio. Fuochi galleggianti. Erba. Spianata cinta di piante Per il ballo. Prato. Guardaroba per i giardinieri. Dioisa. Attrezzi:falcetti, raschiatoi, rastrelli, vanghettine, zappe, larghe scope, canestro, rullo di ferro. Fragole. Ciliege. Frutti. Innesti. Qualità pregiate. Recinti.Fiori di tarda fioritura. Corolle. Nella -fattoria di Edoardo csulc: torrente, declivi dolci, fertili campi, frutteti. Trifoglio. Tigli. Chiesadistile tedesco. Girasoli. Aster. Germogli. Rami. Foglie. Palme. Verzure. Cinte. Vasi. Agrumi. Bulbi. Garofani. Primule. Piante esotiche. Platani. Passerella. Virgulti. Caverna. Rupi ammassate a mo'di torri. Eremo. Giacimento di carbone.
MESTIERI
Chirurgo militare. Scrivano. Mugnaio. Mugnaia. Fittavolo, Muratore. Tagliapietre. Scultore. Postigliorri. Maggiordomo. Servitori. Sovran i. Dama di compagnia. Sentinella. Guardie. Cameriere. Carpentieri. Giardinieri. Architetto. Avvocato. Cacciatori. Pescatori. Negozianti. Mercante. Ufficiale di guarnigione. Poeta. Assistente di collegio. Direttrice. Prete. Mediatore. Guardiacaccia. Falegname. Tappezzierc. Pittore. Locandiera. Mendicante. Studentesse. Fotografo.
Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna