Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna
- All'inizio è un colore,
un'inquietudine. Dice Peter Brook: è il momento
- del da: dell'origine.
- Poi inizia il percorso Perso la
definizione di quel colore, verso la decifrazione
- dell'inquietudine che ti ha turbato
nella lettura di quell'autore.
- Come stabilire progressivamente
- una complicità cori qualcuno che è
riuscito
- a dire qualcosa che sai da sempre.
- E poi un regalo si fa a...
- A GOETHE
- Storie di Laboratorio Teatro Settimo
-
-
- IL DISEGNO E LA CASA
- di Gabriele Vacis
-
- Elementi di struttura del
sentimento, ripreso otto anni dopo col titolo Affinità,
è uno spettacolo molto importante per il Laboratorio
Teatro Settimo. È importante per due ragioni: la prima
è che in quel lavoro confluivano tutte le scoperte, le
esperienze di formazione e i percorsi extra-teatrali del
gruppo. Elementi debuttò a Rimini il 21 novembre del
1985. Da allora ci ha accompagnati come un amico
viaggiatore, uno di quelli che hanno la loro vita e guai
a chi gliela tocca, però quando ti incontrano hanno
un sacco di cose da raccontarti. E tu altrettanto: Questo
rimanerci accanto, questo accompagnarci, è la seconda
ragione per cui Elementi di struttura del
sentimento è così importante. Era presente nella nostra
vita prima di nascere e ha continuato ad esserlo negli
ultimi dieci anni: raccontare la sua storia è un po'
raccontare la storia del Laboratorio Teatro Settimo.
- Prima di Elementi avevamo fatto uno
spettacolo che si intitolava Esercizi sulla tavola di
Mendeleev. I due lavori erano molto diversi, a cominciare
dal luogo in cui si mettevano in scena: Mendeleev si
faceva in spazi aperti, grandi cortili o piazze.
- Più che al teatro quei luoghi facevano
pensare ad un set cinematografico. Il pubblico, come la
macchina da presa sul set, occupava uno spazio minimo,
tutto il resto era a disposizione dell'azione. Elementi
invece era pensato per lo spazio tradizionale, per il
teatro all'italiana, anche se poi cercava continuamente
di sfondarne le pareti.
- Esercizi sulla tavola di Mendeleev,
parlava di uno scienziato, quello che aveva compilato la
tavola periodica degli elementi... Parlava di cose
scientifiche. Elementi denunciava già nel sottotitolo la
sua derivazione romantica: il romanzo di Johann Wolfgang
Goethe '1e affinità elettive".
- In Mendeleev non c'era storia, non c'erano
personaggi, e gli attori non si muovevano in scena
secondo criteri drammatici, seguivano un disegno
coreografico: più che attori erano danzatori, figuranti.
Su Elementi i ti ricordo l'espressione stupita di
un amico, un regista che venne a trovarci a Santarcangelo
di Romagna durante le prove: -...Accidenti! - disse -Ma
qui fate proprio gli "attoroni"... - Avrebbe
dovuto dire... Le attorone, dal momento che in scena non
c'erano uomini ma sei attrici; però aveva ragione: in
Elementi si recitava, c'erano i personaggi, c'era la
storia, c'erano le attrici.
- I due spettacoli erano assai differenti
l'uno dall'altro ma molti di coloro che li hanno visti
tendono a pensarli come un insieme. Infatti fanno parte
di una trilogia dedicata a Goethe. Una trilogia che si
conclude con Riso amaro.
- Ecco: sulle differenze tra i primi due
spettacoli ed il terzo, in compenso, nessuno ha il i
minimo dubbio.
- Riso amaro rubava
il titolo ad un famoso film neo-realista di Giuseppe de
Santis, quello con Silvana Mangano, bellissima, che
faceva la mondina.
- Tutto quello che in Mendeleev e in
Elementi era chiaro, luminoso, leggero, in Riso amaro
diventava scuro, torbido, pesante. Però il primo
spettacolo richiamava una "sensibilità
ecologica" che si ritrovava soltanto nel terzo. La
presenza degli attori di Riso amaro,
poi, era assai più simile a quella delle
"attorone" di Affinità che a quella dei
figuranti di Mendeleev,... Insomma, fra i tre spettacoli
potevano esserci differenze e similitudini, vicinanze e
distanze, ma quello che importa è che tutti e tre erano
percorsi da una certa percezione del mondo, da un unico
sentimento.
- Elementi di struttura del sentimento era
lo spettacolo centrale, il più compiuto, il cuore della
trilogia. In sostanza quello spettacolo è quel
sentimento. Qualcosa che c'entra col ricercare, non un
ricercare qualunque ma quella particolare ricerca,
appassionata, per la conquista di qualcosa che si sente
giusto. Elementi parlava del fu turo ma anche del
rimpianto, parlava di progetti ma anche di nostalgia.
Lavorando allo spettacolo ci rendevamo conto che quel
sentimento era lo stesso che, magari inconsapevolmente,
muoveva anche i nostri spettacoli precedenti alla
trilogia goethiana.
- Signorine, per esempio già
conteneva l'aspirazione verso quel particolare modo di
sentire.
- Signorine, che debuttò nel 1982,
era il nostro primo spettacolo "adulto". Prima
e' erano stati alcuni spettacoli per ragazzi che
cominciarono a far conoscere noi al mondo del teatro ma,
soprattutto, fecero conoscere il mondo del teatro a noi:
Citrosodina, per esempio, che ci aiutò a capire certi
meccanismi economici e strutturali... Che cosa vuol dire
girare il mondo facendo spettacoli. E grazie a quel
piccolo spettacolo replicato più di cinquecento volte
che cominciammo a pensare al teatro come professione. E
poi il teatro di strada. Anche il teatro di strada fu
importantissimo: realizzavamo interventi su piazze e aree
urbane che trasformavamo con grandi teli, nastri di
plastica colorata e musica, teatro d'ambiente lo
chiamavamo. Finché abbiamo voluto fare uno spettacolo
vero e proprio, così nacque Signorine.
- Signorine voleva ricostruire la
memoria della città dove siamo nati e in cui continuiamo
a vivere. Impresa disperata: Settimo Torinese la memoria
non ce l'ha. O perlomeno è andata frantumandosi in
milioni di schegge infinitesimali, misteriose, difficili
da riconoscere. Passammo momenti d'angoscia nel tentativo
di ricostruire tracciati che continuamente si perdevano
in traiettorie divergenti. Volevamo ridurre ad unità
qualcosa che poteva essere percepito solo nella
molteplicità.
- Finalmente ci rassegnammo a fare uno
spettacolo che non avrebbe sintetizzato le storie che la
città ci raccontava ma le avrebbe esposte così,
frammentarie come si presentavano. Perché era evidente
che le città in cui viviamo, tutte, non solo la
disperata Settimo', raccontano un'infinità di storie, ma
tutte separate. Non ci sono più caratteri così forti da
unificare, non c'è più un'unica storia collettiva, non
si producono più sintesi di memoria.
- A meno che la sintesi non sia proprio
l'esplosione, la moltiplicazione della memoria nelle
infinite schegge a cui il nostro gesto di fare uno
spettacolo poteva solo aggiungersi, agire da ulteriore
agente moltiplicatore.
- Ma allora le infinite azioni della città,
se non rispondono più ad un unico ordine superiore, non
hanno relazioni tra loro?
- Il nostro gesto di fare uno spettacolo
riusciva ad agire come agente ulteriore della
moltiplicazione proprio perché trovava relazioni. Non
quelle abituali, non quelle che facevano seguire una
reazione ad ogni azione, niente di narrativo, cose
diverse, magari molto piccole... Qualcosa come la
fotografia ingiallita di una sposa sotto la pioggia, lei
sola, senza lo sposo, e questo ti richiama una musica...
Solo me ne vò per la città ... t una città d'inverno,
operai che entrano in fabbrica col giornale sotto braccio
... Un ritaglio di giornale: l'ondata di piena ha
raggiunto le regioni sul delta del fiume... Partivamo a
fare uno spettacolo sulla storia di una cittadina di
periferia e arrivavamo a parlare dell'assetto
idro-geologico della nazione, dei grandi eventi che
coinvolsero l'Italia del dopoguerra, delle migrazioni
bibliche che seguivano la ricostruzione ... Il piano
Marshall... Una bandiera americana come un quadro di
Jasper Jones ... Le scelte strategiche dei blocchi
contrapposti d'oriente e d'occidente...
- Volevamo fare uno spettacolo di memorie
particolari, qualcosa di crepuscolare e veniva fuori una
cosa epica, un'epopea.
- Quello che però ci sorprendeva era che il
racconto epico non si contrapponeva all'intimismo della
piccola memoria personale ma conviveva tranquilla niente,
anzi gagliardamente, grazie alla fitta rete di relazioni
che noi intessevamo.
- Ecco: l'azione possibile era leggere
relazioni, costruire rapporti tra i frammenti che
ritrovavamo: questo produceva storie che ti facevano
viaggiare tra le pagine di Hemingway e di Fitzgerald, tra
le immagini di Burri e di Fontana, attraverso le epoche,
dentro al tempo. Però leggere le relazioni a volte era
difficile. Nel panorama desolato della periferia urbana,
nel paesaggio industriale, erano più le volte in cui da
leggere non c'era proprio niente.
- Che fare? Inventare. Se le relazioni tra i
fatti, tra le persone, tra le architetture, non si
trovavano già fatte, dovevamo inventarle. Se non
inventavi ti fermavi, perché era proprio quel seguire
tracce inventandone i rapporti che costruiva sentieri, e
storie, e memorie.
- Era che la memoria andava inventata.
- Se questa città dove eravamo capitati non
aveva memoria, noi gliel'avremmo procurata. Non una
memoria qualunque. Gli avremmo inventato proprio la sua,
e avrebbe dovuto essere verosimile, credibile, perché
partiva precisamente da lì, da quella terra. E da
qualche parte bisogna pur partire...
- Inventare la memoria: costruire il
plausibile anche se non è mai avvenuto.
- È nato allora, mentre provavamo Signorine,
quel sentimento che ancora oggi ci spinge a costruire
tradizione, a progettare il passato. Viene di là quella
strana, bellicosa e risoluta rassegnazione che ci procura
una grande nostalgia per il futuro.
- Quei tre spettacoli avevano in comune un
sentimento del tempo.
- Insieme a loro abbiamo iniziato il nostro
viaggio di comprensione del tempo.
- Elementi di struttura del sentimento è
il momento della partenza consapevole, del rendersi
conto che ti stai occupando di quella cosa, esattamente.
È il momento del costruire.
- Mend1eev era venuto così, a poco a
poco, per contrasto, per negazione. Sentivamo il bisogno
di costruire un nostro linguaggio, naturalmente; ma più
che altro eravamo insofferenti nei confronti di tutto
ciò che avevamo intorno.
- Però quella sensibilità all'immagine che
veniva dall'America, quella capacità meravigliosa di
raccontare con la luce, di rendere umane le tecnologie
più sofisticate... Quelle cose lì ci affascinavano
irresistibilmente. Anche l'attenzione alla presenza
dell'attore, la sua preparazione, e poi l'idea
grotowskiana di "teatro povero" è qualcosa con
cui deve fare i conti chiunque oggigiorno faccia
teatro... A noi sembrava ragionevole, e anche stimolante,
criticare e nello stesso tempo pescare indicazioni da
tutte le cose che vedevamo, no?
- Una cosa però non sopportavamo in molte
delle espressioni artistiche di quegli anni. Era qualcosa
che le percorreva come residuo novecentesco, come canto
del cigno dell'avanguardia. Era una volontà
irresistibile di annullare il senso. A volte era
dichiarata, sfacciatamente o languidamente esibita, altre
volte era occultata sotto una coltre spessa di segni.
Poteva succedere che la storia si frantumasse in continui
miraggi luminosi che finivano per riflettere il nulla;
oppure ogni segmento che la componeva veniva
sovraccaricato di significati finché la soffocava. In
ogni caso la storia veniva negata.
- Negare la storia era negare il tempo.
- Cogliere l'attimo, vivere il presente, era
l'imperativo categorico degli anni ottanta. Bisognava
annullare il tempo: farla finita con il passato e con il
futuro.
- Niente passato, niente memoria. Niente
futuro, niente desideri, niente progetti.
- Era un atteggiamento diffusissimo nella
cultura dell'epoca, era in perfetta continuità con lo
stile dei maestri dell'avanguardia che non perdevano
occasione per dichiarare la loro volontà distruttiva e
ad ogni uscita lanciavano strali e minacce su mondi che
stanno per finire, su speranze calpestate e deluse, su
aspirazioni tradite.
- Erano gli anni in cui uno storico
americano di origine giapponese decreto la fine della
storia.
- Mendeleev nacque in opposizione a
questo senso della fine.
- Signorine ci aveva insegnato
che il luogo in cui vivevamo aveva perso la memoria, e
poi ci aveva allargato la visuale sul fatto che gran
parte del mondo era nelle stesse condizioni. E fin qui
tutto bene, eravamo in linea con le visioni correnti.
Però la nostra era stata una constatazione concreta e
dolorosa. Non era stata una scoperta astratta, teorica,
era stata piuttosto una conquista, una costruzione fatta
di cantieri con le pance aperte e di nebbie che li
ricoprivano, di calcestruzzo ed erba, di corpi e di
terra. Questo processo materiale ci permetteva di
realizzare la perdita della memoria, ma ci preservava
dall'estenderne automaticamente, astrattamente e
gratuitamente gli effetti.
- Certo che tutto il mondo è un'immensa
periferia senza centro, senza memoria e senza storia, ma
questo non significa che la storia sia finita. perché
finisca la storia dovrebbe esaurirsi il tempo. Ma il
tempo non risponde alle categorie del nostro pensare, il
tempo se ne infischia del fatto che noi possiamo o non
possiamo pensarlo, lui esiste e basta, fluisce e così
sia.
- Il tempo ha una sua autonomia d'esercizio,
trascende dalle applicazioni indistinte perché non è un
elemento qualsiasi: in qualche modo è l'elemento.
- Non è il tempo in sé che si estingue,
che scompare: sono i modi che abbiamo per comprenderlo.
Perché è comprenderlo quello che ci serve. Comprenderlo
e non assoggettarlo. Comprenderlo e non ignorarlo.
- Vivevamo un tempo che pretendeva di
ignorare o assoggettare il tempo.
- Erano pretese utopiche, presunzioni che si
portavano dietro la fine della storia, l'ignoranza del
tempo, la sospensione della realtà.
- Noi guardavamo l'impossibilità di
comunicare, la fine dell'espressione, l'agonia della
storia con partecipazione. Però ci sentivamo addosso la
forza per fare qualcosa che potesse lenire il dolore,
dare sollievo... La compassione era un sentimento
possibile. Qualcosa che permetteva di partecipare a
quest'agonia potendola però, nello stesso istante,
osservare ed eventualmente alleviare.
- La compassione era un punto di vista, un
osservatorio che ci permetteva di guardare queste
espressioni che si perdevano centrifugamente verso il
nulla, consumandosi nel senso della fine perché non
riuscivano a vedere un centro.
- Era vero, avevano ragione, il centro non
c'era più. O perlomeno non era più qualcosa di statico,
fermo e definito per sempre. Noi potevamo osservare tutto
questo perché un centro, noi ce l'avevamo! O perlomeno
ce lo stavamo costruendo... Per carità, non era niente
di trascendente... niente più che un inizio... Non era
altro che uno sgangheratissimo inizio, ma era qualcosa...
E non era qualcosa che sarebbe arrivato, ma era l'azione
stessa del costruirlo.
- Il Centro poteva essere l'azione di
costruirselo, il centro. Non un'idea, un concetto, ma
un'azione guidata da una passione: un, sentimento.
- La compassione, la comprensione sono un
osservatorio che ti permette di percepire i malesseri, di
vivere le inquietudini che attraversano la società e la
cultura. Ma nello stesso tempo l'osservatorio una base
deve avercela, (leve stare con i piedi da qualche parte
per poter spaziare nell'infinito. Deve stare con i piedi
per terra. Signorine, quello spettacolo con Cui
avevamo cominciato a costruire la memoria della città
adesso diventava la terra. Perché era chiaro che
costruire la memoria era costruire la terra e adesso che
avevamo cominciato a costruircela potevamo rimanerci
attaccati.
- Rimanere attaccati alla terra.
- Proprio noi... Noi urbanizzati,
industrializzati... Proprio noi che per trovare un
contadino devi andare indietro generazioni e generazioni.
Era strano ma era così: spettacolo dopo spettacolo
quello che stavamo facendo era costruirci le ragioni per
vivere nel luogo dov'eravamo capitati. Piano piano
capivamo che costruire le ragioni per vivere in un luogo
era costruire il luogo.
- Settimo Torinese, città assurda eppure
così spietatamente reale, andava costruendosi come
centro, come osservatorio e come oggetto da osservare. In
qualche modo la stavamo costruendo noi, la città, e in
questo modo, costruendo il nostro spazio vitale,
costruivamo noi stessi.
- Costruire spazio è costruire tempo,
produrlo anziché consumarlo. Inventarlo attraverso le
storie. Così l'ansia narrativa che ci colse
successivamente e che sfogammo in spettacoli come Nel tempo
tra le guerre, Stabat Mater, fino a La storia
di Romeo e Giulietta e ai monologhi degli attori,
altro non è che affermazione insopprimibile
dell'esistenza del tempo. Tutti questi nostri spettacoli
vogliono dire soltanto che il tempo esiste... La realtà
esiste... lo esisto... Tu esisti...
- Elementi di struttura del sentimento è
la consapevolezza del viaggiare, la comprensione del
tempo. Lavorando a quello spettacolo imparammo che il
progetto non è il disegno, la prefigurazione di
qualcosa che sarà. Il progetto è sì l'idea, il
desiderio, ma è, insieme, la sua realizzazione.
- Non è il disegno della casa ma il
disegno e la casa.
- Progettare non è ridurre al minimo
il tempo tra il desiderio che ci si forma in mente e la
sua messa in opera: non è ridurre il tempo: è
abitarlo, impiegarlo.
- Progettare è produrre tempo anziché
consumarlo.
- Progetto è tempo: il tempo che si passa
insieme ad un desiderio.
- Anzi, più precisamente il tempo in cui
quel desiderio prende forma. E mano a mano che la prende
tu ti accorgi che prima non c'era e che domani o dopo ne
avrà, un'altra, avrà una forma che oggi non c'è.
Eppure il progetto non è la forma che aveva assunto ieri
o quella che assumerà domani: è ieri e domani insieme.
Non è una definizione statica, è un procedere
dinamico insieme al quale tu devi viaggiare.
- Ma dentro a questa nave che è il progetto
tu che cosa vuol dire? Chi sei, anzi: chi è tu?
Chi è l'agente del progetto?
- È l'autore del progetto stesso.
- Sono io che scrivo dieci anni dopo che lo
spettacolo del quale scrivo è andato in scena la
prima volta. Sei tu che leggi, chissà dove e chissà
quando, quello che adesso io scrivo... Sono tutte le
persone che hanno partecipato alla messinscena, le
attrici che si sono succedute nel tempo e nelle varie
edizioni dello spettacolo e che hanno modificato,
trasformato lo spettacolo. Ma sono anche le
trasformazioni che lo spettacolo ha operato sulla loro
vita... Sono i teatri che lo hanno accolto e che si sono
fatti modellare da lui... E il pubblico, le persone che
ancora oggi dicono che hanno deciso di mettersi a fare
teatro quando hanno visto Elementi di struttura del
sentimento... Ma anche quel signore che è venuto a
vederlo perché stava costruendo un parco e da allora lo
stiamo costruendo insieme il parco...
- Una vertigine! Una spirale che ti avvicina
ad un infinito in cui non si può mai dire che la forma
di oggi ieri non c'era, perché forse c'è sempre stata,
solo che tu volessi o potessi vederla. Allora chi è
questo tu, l'autore del progetto?
- L'autore del progetto non è una
persona e non sono neanche tutte quelle persone e quei
luoghi che a pensarli ti danno una vertigine. L'autore
non sono le persone. Non sono persone ma relazioni. Le
relazioni tra le persone.
- Qualcosa di leggero, rapido, esatto ma
molteplice, comunque visibile. Qualcosa che ci accompagni
fuori dalle secche della contrapposizione tra
razionalità e irrazionalità, tra la realtà e la
visione, la forma e il contenuto, il pensiero e l'azione.
Qualcosa di difficilmente descrivibile, disegnabile,
comprensibile con un disegno.
- Il progetto non è il disegno. Non è
soltanto il disegno perché il disegno è una parte, una
componente del progetto, non il progetto. Un progetto è
una tale molteplicità di componenti che di volta in
volta va cercato il linguaggio, la forma che lo
definisca.
- L'autore del progetto è un
ambiente, un osservatorio e una casa.
- Eppure anche il progetto è nello
stesso modo l'ambiente, l'osservatorio e la casa. E la
possibilità di identificare il progetto e il suo autore,
riuscire a comprendere lo sguardo sull'oggetto e
l'oggetto. Guardare ed essere visti nello stesso istante.
Guardare ed essere guardati... Come fa l'attore, ogni
sera sul palcoscenico.
- Essere contemporaneamente il disegno e la
casa.
Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna