Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna
PERCHÉ ANCHE NUMERI MONOGRAFICI?
La recente storiografia teatrale ha portato a capire, coli limpida consapevolezza e straordinaria ricchezza ci esiti, che l'orizzonte conoscitivo sotteso alle sue intersezioni disciplinari più ardite, non si fonda sull'atto teatrale in sé né sulla rosa delle arti che vi s'intrecciano né sulla dimensione sociale del teatro, ma sulla persona dei teatrante colta attraverso la sua esistenza e le sue diverse abilità (di attore. autore, dramaturg, regista). Nel caso della storiografia più sensibile, le metodologie, le scritture irte di termini specialistici, le intersc/ioni fra storia del teatro e sociologia, psicoanalisi, antropologia ecc., non sono che l'indice d'una tensione al teatro e al rapporto diretto coi teatranti. Tensione che la nostra rivista prodotta nell'ambito del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell'Università di Bologna, ha tradotto, invece che in linee di ricerca, nell'organizzazione d'uno spazio destinato a suscitare e ad accogliere le risposte del teatrale alle istanze della storiografia. Dai teatranti, insomma, ci attendiamo di veder presto assestato un sistema di dati e conoscenze che consenta di conservare assieme alla memoria dei fatti anche quella delle dinamiche etiche, poetiche e pragmatiche che li hanno originati e li alimentano. Neri è una minaccia; ma una sfida. sì. "Prove di drammaturgia" offre le sue pagine agli artisti e alle formazioni teatrali, ai giovani studiosi e intellettuali che fianno seguito la storia d'un gruppo o lo svolgimento d'un progetto e in cambio richiede documentazioni a più voci, l'esposizione di diversi punti di vista, indicazioni e dati che consentano di percepire quasi in presa diretta l'argomento trattato, con valenze aperte a diversi modi di approccio. Per questa ragione, alcuni dei nostri numeri saranno monografici. È un modo per sollecitare il teatro a dirsi e a esporsi. Non temiamo di produrre numeri che, sembrando un quasi\libro, vengano giudicati una non\rivista. Il rischio che la ricchezza di pensiero del teatro presente ristagni per la disattenzione dei mezzi di informazione o si trasformi senza lasciare memoria dei propri tracciati (a tutt'oggi non esiste un solo studio monografico sui 'gruppi storici') ci fa porre al primo posto l'obiettivo di sollecitare e, veicolare una conoscenza in sintonia col pratico fare, che, contribuendo a definire un diverso panorama teatrale, porti la storiografia a reagire coli nuove contromosse.
Claudio Meldolesi, Gerardo Guccini
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Lettera a Laboratorio Teatro Settimo sull'esplorazione e le carte
Carissimi amici, ricominciamo dall'inizio. La prima volta che sono venuto a trovarvi a Settimo mi avete mostrato il vostro magazzino, che dava direttamente sulla strada e faceva pensare a una rimessa di famiglia, il circolo Arci dove provavate, il vostro spazio, porta a porta con la sala del biliardo, e poi - ero venuto apposta - lo spettacolo che stavate finendo di montare. Il soggetto era un intarsio di piccole storie private che ora chiedendo ora raccogliendo dati di soppiatto avevate ricavato dalle persone del paese: il transessuale, la segretaria e il direttore, e austeri, la sposa sfollata dal Polesine dove la piena l'aveva separata per sempre dal manto. H tema era la nostalgia. Forse del racconto - che il teatro di ricerca, in quegli anni, guardava con sospetto -, forse di non poter essere, al di là dei personaggi, le persone, forse di età trascorse, ma avvertite come ancora possibili. Non era importante dirlo. La nostalgia illuminava da dentro lo spettacolo chiarendo il senso dei montaggi intrecciati e dei bui spazi inframmessi alla narrazione, dove un enorme viso m bianco e nero sillabava parole mute dallo schermo. Gli effetti erano economici e fantasiosi. Una palla di schegge di vetro, cinque ombrelli neri che s'aprivano all'improvviso diventando bianchi, due accendini scarichi alle cui scintille gli attori sembravano muoversi a scatti come sotto una costosissima luce stroboscopica. Era evidente che volevate avvicinare il pubblico, narrargli storie e mostrargli il più possibile del narratore - il suo gusto, il suo punto di vista, il suo carattere, il suo senso dell'umorismo - stabilendo così una situazione d'intesa in cui piacersi. D'una tecnica - o &una follia - che suscitasse gradimento e piacere a senso unico non avreste saputo che fare. miravate a suscitare reazioni con cui dialogare. E ciò in anni in coi, per i gruppi di ricerca, lo spettacolo non era che una decantazione dei processi di sperimentazione, formazione e conoscenza, nei quali si riconosceva il senso del teatro. Capovolgendo questo equilibrio, il vostro lavoro invece individuava nello spettacolo - e quindi nel rapporto col pubblico, nell'atto di piacersi - il criterio orientativo di tali processualità.
Ricordo m particolare un momento di Signorine Era questo il titolo dello spettacolo. Musica straziante, e voi tutti accovacciati per terra, stretti gli uni agli altri, sguardi timidi, interrogativi, sgomenti, gli occhi persi in un lontano misterioso Era come se vi trovaste su una nave che si stacca dal molo. E solo cinque ombrelli aperti e poggiati al suolo, per difendervi e proteggervi dal viaggio.
Eravate, voi stessi, allora, la generazione sacrificata e attonita che, parecchi anni dopo, nella Storia di Romeo e Gíulietta, sarebbe stata affidata a giovani attori senza parole. E anche l'effetto 'contemplativo' di quegli sguardi concertati sarebbe tornato molte altre volte, suscitato da nuove invenzioni oppure da un'azione ricorrente, quasi un tic di gruppo: un'inspirazione collettiva, un trattenimerito di fiato che sospende il tempo, ed indica il trasformasi d'una reazione in atto nella contemplazione della propria causa, che appare perciò indicibile, enorme. Mi soffermo su questo momento perché evidenzia il carattere di vivaio, contenente, gene, che le successive produzioni avrebbero assegnato al vostro primo spettacolo di ricerca.
C'era già tutto.
La narratività che vi avrebbe portato a confrontarvi con Goethe, Shakespeare e le saghe degli scrittori latino-americani, e poi, passando dalla ricomposizione del racconto al dramma scritto, a rappresentare Goldoni, Molière. L'autonomia rispetto alle scuole, alle tendenze. Permeabilità ed eclettismo (qua e là spezzoni di training terzoteatrista). Il dialogo intenzionale col pubblico che, col successivo Stabat Mater, si sarebbe oggettivato in visite, in incontri, nella richiesta di storie e narrazioni. Una solida poetica di gruppo fondata su quattro pilastri. 1) L'accettazione - e, anche, l'utilizzo in senso fabbrile - delle continue peripezie degli argomenti e delle idee (Signorine derivava da un'attivitá di animazione per il centro anziani). 2) Il rigore della confezione formale. 3) L'inquadramento delle singole funzioni operative (la drammaturgia, la regia, il recitare) in un'informale rete di relazioni che attraversa, la dimensione quotidiana, quella sociale, le memorie culturali e il fare teatro. 4) L'adesione al principio di finzione - per cui un attore rappresenta l'altro da sé -accompagnata però dalla ripulsa a praticarlo in modo indifferenziato e generico. Atteggiamento che, da un lato, vi ha trattenuto nella cultura della ricerca impedendovi di coniugare la vocazione a narrare coli le forme convenzionali del dramma, e dall'altro si è tradotto nel dissociamento di nuove zone di pertinenza. Ricordo il restauro per via sperimentale dei ruoli ottocenteschi (repertori di gesti, inflessioni e comportamenti che gli attori trasferivano di spettacolo in spettacolo) e, con Stabat Mater, l'evolversi dei personaggi in avvolgenti condizioni d'esistenza. li vostro teatro, come una pianta o tiri corpo, è cresciuto sviluppando in creazioni le proprie potenzialità interne. Anche per questo avete potuto rispecchiare i vostri percorsi nelle dinamiche evolutive e combinatorie che Goethe tratta nelle Affinità elettive il romanzo della natura artista. Nel caso dei teatri, però, l'organismo compiuto, allorché si delinea, non esiste già più: divenuto storia da narrare, è rifluito nell'ambito delle potenzialità. Il che vi pone ora di fronte una scelta decisiva. O sprezzate l'organicità del cammino compiuto accettando il suo naturale dissolversi nel tempo oppure, per stringere il senso del discorso in una metafora, sospendete - almeno per un po'- le missioni esplorative e vi mettete nei panni del cartografo, che connette i dati raccolti ricavandone una carta, una mappa, che potrà essere letta oppure utilizzata per compiere nuovi viaggi.
Inquadrati in questa prospettiva, i testi che avete dedicato alla trasposizione spettacolare delle Affinità elettive si possono leggere come parti d'una storia ancora incompleta, che, nel venire narrata, rimette in gioco il passato, mostrando, come auspica Seragnoli, "che cosa reagisce nella zona intermedia che conduce allo 'spettacolo'".
Permettetemi di estrarne alcuni connotati operativi.
La quotidianità è una dimensione dell'attore. Come nelle prassi storiche del teatro occidentale, la formazione dell'attore e l'allenamento delle sue facoltà creative avvengono anche attraverso operazioni che si compiono in una sfera strettamente personale e inscindibile dal vivere quotidiano: le letture, l'osservazione e la riproduzione dei comportamenti, l'ascolto, la visione di tutto quel che può essere visto (realtà, finzione, televisione, cinema o teatro), la traduzione performativa dei modelli figurali, la percezione critica dei propri moti emotivi e d'attenzione.
Innestandosi alle dinamiche collettive d'una realtà di gruppo, la quotidianità dell'attore sostanzia un processo compositivo che non pratica partizioni categoriche fra ciò che è interno e ciò che è esterno al fare teatro, e, anzi, spiana la dicotomia romantica fra arte e vita in una sorta di continuità artigiana.
La leggerezza è necessaria al processo creativo. Al suo interno rappresenta la reazione del quotidiano al peso della composizione collettiva. Eppure, liberando la mente, le consente di raccogliere con rinnovata freschezza immagini e visioni da immettere poi nell'opera. E quasi un inganno di cui il teatro si serve per radicarsi nelle pieghe d'una quotidianità sguarnita dall'illusione d'aver ripreso il sopravvento.
Gli elementi che confluiscono nella composizione, essendo stati individuati da un gesto di natura personale ed affettiva e poi scelti in virtù del loro rapporto di necessità o simpatia rispetto agli obiettivi che ci si prefigge di raggiungere, non sono mai presenti in quanto materiali della composizione. E cioè non esistono in funzione dell'opera, non sono una sua fase, ma un frammento dell'esistente che immesso nel processo creativo suscita intorno a sé nuovi assestamenti e combinazioni. Vi sono spettacoli che sono come il risultato d'una fusione metallica - forme che contengono la propria materia senza esserne contenute , altri che - sinergia di forme ed esistenze -assomigliano a un fantastico gioiello in cui possiamo riconoscere le perle, le pietre, il fine disegno delle montature, e (-leve anche le imperfezioni dei singoli preziosi valorizzano l'effetto dell'insieme. La poetica di Settimo si riconosce in questo secondo gruppo.
Il luogo del lavoro teatrale viene percepito quale spazio d'una diegesi neri predeterminata dove ogni accadimento (oggetto, luce, voce, suono, parola) è segno, e l'accostamento dei segni produce una storia di ritmi e percezioni.
Il ruolo del regista non si differenzia da quelli degli attori o degli altri componenti il gruppo sotto il profilo della composizione drammaturgica. Per individuarlo dobbiamo allargare l'attenzione dalla composizione in sé al suo contesto, alle sue condizioni, alle sue connessioni coli la teatralità del gruppo. Spazi, questi, quasi interamente occupati dal ruolo del regista che incarna la necessità del processo rispetto al teatro, e quella della forma rispetto al processo, ma non compendia le dinamiche di creazione, nè la creazione.
"L'autore - ripeto con le parole di Vacis - non sono le persone. Non sono persone ma relazioni. Le relazioni tra le persone".
E a quest'autore impersonale e molteplice, di cui è necessario progettare il lavoro mentre è impossibile predeterminare le opere, corrisponde forse, sul versante della creatività individuale, la fase degli appunti e delle raccolte preliminari, nella quale la niente, non ancora vincolata dagli obblighi espressi dell'intreccio, si abbandona alla percezione dell'accadere, all'ascolto dei suoni e delle voci, al felice silenzio dell'io. Penso in particolar modo agli "Appunti e ricordi" stesi da Leopardi in vista di un rornanzo autobiografico mai compiuto. Cari amici, se anche la mappa teatrale di Cui ho indicato la necessità restasse un progetto o Lui bel sogno, credo che qualcosa dei vostri spettacoli - la loro ombra - sarebbe comunque rintracciabile fra quelle pagine che, ben più delle recensioni, ne trasmettono il sapore, l'atmosfera, l'umanità e anche gli artifici. Ve ne consegno queste poche righe come un emblema del teatro che siete diventati: "giardino presso alla casa del guardiano, io ero malinconicissimo e mi posi a una finestra che metteva nella piazzetta ec. due giovanotti sulla gradinata della chiesa abbandonata ec. erbosa ec. cedevano scherzando sotto al lanternone ec. si sballottavano ec. sento una dolce voce di donna che non conoscea né vedea ec. [...] sentivo un bambino che certo dovea essere in fasce e in braccio alla donna e suo figlio ciangottare coli una voce di latte Suoni inarticolati e ridenti e tutto di tratto in tratto e da sé [...] cresce la baldoria ec. C'è più vino da Girolamo? Passava uno a cui ne domandarono ec. non c'era ec. la donna venia ridendo e di quando in quando ripetea pazientemente e ridendo l'invito di andarsene e invano cc. finalmente una voce di loro oh ecco che piove era un leggera pioggerella di primavera ec. e tutti si ritirarono e s'udiva il suono delle porte e i catenacci cc. e questa scena mi rallegrò (12 Maggio 1819)".
Gerardo Cuccini. Università di Bologna
Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna