Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Colloquio con Vanda Monaco Westerstàhl

 

Colloquio con Vanda Monaco Westerstàhl

 

Incontro Vanda durante un suo soggiorno in Italia nel maggio del 1994. Il colloquio avviene fra noi e Gerardo Cuccini, che, come me, ha seguito la nascita del Tensta TeaterEnsemble.

Questo spiega il taglio partecipe delle nostre domande.

G. Appartieni ad una generazione di studiosi che ha segnato il rinnovamento della storiografia teatrale. Hai fatto parte del ristretto gruppo di Giovanni Macchia: Claudio Meldolesi, Ferdinando Taviani, Fabrizio Cruciani, Ferruccio Marotti.

A distanza di anni, ti sei ritrovata a svolgere un'attività di dramaturg e di autrice in Svezia, a Stoccolma. Incominciamo con l'esaminare un po' questo tuo primo passaggio biografico: dalla ricerca all'attività drammaturgica. C'è stato, nel tuo caso, una specie di continuità, oppure una rottura? Quali sono state, insomma, le relazioni fra questi due momenti evidenti della tua storia?

V. Direi che c'è stata una rottura e poi un recupero. Il mio percorso ha le radici proprio nella particolarità di quel gruppo di storici del teatro, essenzialmente Cruciani, Meldolesi e Taviani, che aveva dato vita ad una storiografia diversa. L'argomento della ricerca non era mai visto come un oggetto passivo da analizzare, come un evento del passato e come tale esaurito, ma era richiamato in vita attraverso il nostro immaginario.

Nei libri sulla commedia dell'arte di Taviani, nei libri sulle feste romane di Cruciani, nei libri sui Comici Sticotti di Meldolesi, per parlare solo delle prime opere, c'era una tensione fortissima tra la capacità, propria delle funzioni immaginative, di chiamare in vita il passato e l'analisi storiografica. Credo che si tratti di un'esperienza unica nel panorama della cultura italiana.

Questo rapporto, naturalmente, mi ha segnata anche come persona. Per esempio, quando scrivevo La Repubblica del teatro, un libro sul teatro italiano dal 1799 al 1861, la ricerca non si traduceva, per me, soltanto in un'esperienza storiografica, e cioè nell'organizzazione e nella conoscenza dei fatti del passato, ma diventava un viaggio che si compiva anche grazie alle mie esperienze personali e alla capacità di intuire immaginari, di stabilire un livello fantastico.

E così, dentro all'originale e feconda anomalia, che la storiografia teatrale italiana stava allora costruendo, si andavano maturando anche i miei percorsi personali, la mia anomalia, senza, però, che io ne avessi piena coscienza. Infatti, la visione di tale intreccio di percorsi mi si è chiarita solo anni dopo. A poco, a poco, in me, il livello proprio della riflessione storiografica venne divorato dall'immaginario teatrale che si andava formando proprio all'interno della ricerca e degli studi.

Dopo alcuni anni di insegnamento universitario, mi accorsi che le mie parole didattiche, quelle che servivano al mio lavoro di docente, si andavano svuotando, mentre diventavano sempre più piene le parole suscitate dalle azioni necessarie alla vita materiale del teatro. A ciò si aggiunga che, già nei primissimi anni della mia attività di assistente a Roma, praticavo il teatro à cóté; infatti avevo, con Gian Maria Volontè, un gruppo teatrale militante e frequentavo gli artisti dell'avanguardia romana degli anni sessanta: c'erano Leo De Berardinis, che è napoletano come me, ma in quegli anni operava a Roma, Quartucci che allora metteva in scena Beckett e poi altri gruppi di sperimentazione. Era su questo terreno che la mia parola teatrale si andava riempiendo, mentre quella didattica si svuotava progressivarnente.

Quando lo svuotamento è avvenuto del tutto ho lasciato l'Università e, passata a vivere in Svezia, ho cominciato a lavorare come dramaturg.

Negli anni che ho dedicato alla ricerca storica, accanto all'immaginario teatrale, avevo sviluppato anche un forte interesse per il testo teatrale.

Questo dipendeva anche dal fatto che gli storici del particolarissimo gruppo in cui mi sono formata, erano storici che amavano il testo e che lo investivano di domande, esperienze e tensioni personali, sia che fosse il canovaccio della Commedia dell'Arte, la tragedia alfieriana, il dramma ottocentesco.

Quindi, nel momento in cui lasciai il teatro e mi ritrovai, anche per ragioni private, a vivere in Svezia, fu per me una cosa affatto organica e naturale incominciare a lavorare sul testo, incentivata in questo anche dalla curiosità per la lingua svedese, una lingua che ho rapidamente amato, scoprendone subito la straordinaria bellezza teatrale. E così, in Svezia, ho lavorato come dramaturg per dieci anni, sia nel teatro di prosa che nel teatro d'opera.

G. Potresti dire in cosa consiste il lavoro di dramaturg nei teatri istituzionali in

Svezia?

V. Abbiamo il dramaturg che si occupa dei rapporti col pubblico e prepara l'immagine pubblicitaria dello spettacolo, il dramaturg che lavora sul repertorio e quindi seleziona i testi da mettere in scena.

Il ventaglio è veramente molto ampio e non si limita ai soli ambiti istituzionali. Qui, penso che sarebbe bene sottolineare che il dramaturg svedese ha molto poco a che fare con il dramaturg tedesco. Il dramaturg svedesi, nella generalità dei casi, sono infatti caratterizzati da una professionalità più dinamica. Direi che si inventano la professione volta per volta. Questo anche quando lavorano nelle istituzioni. Comunque, in tutte le aree a nord delle Alpi il regista si appoggia molto di più al dramaturg di quanto non avvenga in Italia o in Francia. E questo perché, a mio parere, il processo di creazione del teatro ha assimilato i caratteri della cultura industriale, che si basa sugli specialismi, sulle segmentazioni del sapere e dei modi di produzione. Anche a teatro.

In Scandinavia è certamente così e probabilmente anche in Germania. In questa situazione, si sono formate generazioni di registi, assuefatte alla segmentazione del sapere e all'"efica degli specialismi"; ragion per cui un regista, per potersi rapportare al testo, per poterlo interpretare, ha bisogno del dramaturg in quanto esperto di letteratura, ma non più come interlocutore,

Il dramaturg, nella fase industriale del teatro, diventa l'interprete del testo: è lui che offre quasi sempre l'interpretazione del testo al regista. E questo lo dico avendo vissuto sedici anni in Svezia ed anche avendo lavorato per dieci anni come dramaturg.

Spesso ho lavorato anche nei teatri istituzionali, come lo Stadsteater (Teatro Comunale) di Stoccolma, ma sempre come dramaturg free-lance, perché non ho mai voluto legarmi a una singola istituzione, dato che, nel mio caso, il lavoro di dramaturg si è sempre modulato attraverso un rapporto molto stretto con il regista. Fatto che ha comportato, per me, l'impossibilità a collaborare con qualsiasi regista; disponibilità che viene invece richiesta ai dramaturg dei teatri istituzionali.

Nella storia delle mie esperienze, la collaborazione con un regista non è mai nata a partire da un criterio di valore, ma di affinità. Se anche avessi avuto a che fare con un regista bravissimo, ma del quale non potevo condividere certe prospettive, o al quale, viceversa, potevano dare fastidio alcune mie posizioni, non avrei potuto sviluppare una reale collaborazione con lui, fatto per me indispensabile. Quindi, sono stata 'dramaturg del regista' e non 'dramaturg del teatro'. E perciò, devo dire, ho acquisito una fisionomia molto atipica anche per il teatro svedese. Fisionomia che, certo, risente delle mie passate esperienze storiografiche.

Come ho detto, ho lavorato come dramaturg per quasi dieci anni, dal 1981 al 1989. Da una parte capivo che il dramaturg è colui che assume su di sé il livello analitico del lavoro sul testo (perché se il regista presenta una tendenza all'analisi preponderante, non fa più il regista); dall'altra, avvertivo con sempre mag~ giore chiarezza che, per fare "levitare" il testo dalla pagina scritta nello spazio scenico e stimolare il regista con visioni e immagini, dovevo destrutturare il mio sapere storiografico, perché mi spingeva a ricollocare l'opera scritta nel suo contesto originario e mi rendeva difficile farla slittare nel tempo. Dovevo trasformare quanto avevo appreso in magma e farlo riemergere dentro linee interpretative dinamiche. Linee interpretative dettate dal lavoro che svolgevo all'interno del processo creativo e, quindi, influenzate dal rapporto con gli attori. Inizialmente, questo rapporto mi è stato facilitato e consentito da tre registi coi quali ho lavorato: Peter Oskarsson, Peer Erik Ohrn, Ragnar Lyth. Questi artisti mi hanno coinvolta in tutto il processo di formazione dello spettacolo e, per scelta o per rispondere a situazioni di emergenza, si sono fatti sostituire da me in alcuni momenti del lavoro con gli attori.

In questi dieci anni, passati al fianco di vari registi, si è andata affinando dentro di me la conoscenza sul lavoro dell'attore. Conoscenza che era nata anni prima, a Roma.

A parte l'esperienza con Gian Maria Volontè, nella quale io ero coinvolta anche come attrice, devo dire che la mia percezione del lavoro d'attore si è andata definendo dal basso. Nel senso che, quando praticavo i gruppi romani, andavo a comperare il caffè, i panini e le birre per gli attori, controllavo i dettagli dei costumi, della scena, dell'organizzazione, della scenotecnica e della scenografia. E queste, come ho scoperto decenni dopo, sono state esperienze importantissime per il formarsi di una sensibilità capace di capire non soltanto a livello razionale il problema dell'attore in scena.

C. Come dicevi, ti sei trovata nella necessità di destrutturare la tua cultura storica per poterla poi ristrutturare in diverse prospettive operative; ti volevo chiedere, se è possibile, di farci qualche esempio di questo modo di procedere.

V. Posso fare qualche esempio, ma non so se riusciranno particolarmente illuminanti, perché molti di questi processi sono subliminali, inconsci e così, forse, devono restare. Per esempio, quando lavorai alla messa in scena di Mahagonny (la riduzione a cabaret fatta dallo stesso Weill), l'incontro con Brecht scatenò, dentro di me, il sapere e le strutture di pensiero modellate dalla ricerca storica. Ma finché andavo rapportandomi ai testi perseguendo fini di analisi e conoscenza, questi non si aprivano, e cioè non si traducevano in linguaggi che potessero poi essere utilizzati dal regista. Allora, inconsapevolmente, cominciai ad accapigliarmi col testo. Il mio modo di leggerlo, era quasi un maltrattamento: non lo leggevo dalla prima all'ultima scena, ma "trasversalmente", come dice Barthes. La lettura del testo si svolgeva senza linee coerenti e continue, ma, per così dire,

mirava alle viscere. Afferravo la parte centrale, per poi lasciarla e prendere un'altra scena. Oppure inseguivo soltanto la vicenda di un personaggio. Oppure, essendomi rimasta in testa una battuta, ripartivo da quella battuta, indipendentemente dal fatto che si trovasse all'inizio, alla fine o al centro del testo, e andavo a vedere come il personaggio era arrivato a dirla.

Attraverso questo caotico processo di rapporto con il testo riuscivo, capisco adesso, ad allentare la morsa delle strutture storiografiche che avevo dentro di me. Era un processo di manipolazione, che mi portava, come attraverso un'immersione, al cuore del testo.

Sono convinta che in ogni testo c'è un cuore pulsante; più il testo è grande, più questo cuore è forte. Talmente forte da tollerare una manipolazione totale del dettato testuale: puoi tagliare, puoi spostare intere, e l'opera scritta regge. Se il testo invece è soltanto un buon testo, non lo puoi maltrattare, perché il cuore pulsante è debole e allora il testo si sfalda.

Questa è la storia del mio esordio. Poi, attraverso la pratica drammaturgica, le strutture storiografiche di cui ero impregnata, si sono sempre più interiorizzate, si sono trasformate in un substrato di conoscenza.

Però, in qualche modo ritornano, ma in forma di fantasia, non come riflessione. Questa sorta di magma, che è diventato il mio sapere accumulato, manda impulsi che entrano ed escono dall'immaginario; e m'invia dei brandelli di immagini che attendono dal teatro le loro nuove organicità.

G. Hai cominciato a scrivere testi in una lingua che non era la tua e, per di più, che avevi imparato solo recentemente.

Quali strategie di assimilazione hai attuato nei riguardi di questa lingua lontana nel momento in cui te ne appropriavi come autrice?

V. Più che attuare una strategia, ho seguito il piacere che suscita la scrittura teatrale. A mio parere lo svedese è una lingua che funziona benissimo per il teatro, o meglio, per ciò che per me è fare teatro. Lo svedese consente una concisione incredibile ed è musicale; ha delle consonanti bellissime, mentre le vocali sono in una posizione debole rispetto alle consonanti, il che conferisce alla lingua una presenza di tipo teatrale. Dico questo perchè ritengo che l'attore, anche se italiano, possa costruire una parte della sua energia attraverso la consonantizzazione del testo, del quale questo processo consente inoltre di percepire la particolare musicalità.

Direi che la concisione, la musicalità del sistema fonetico, il ritmo del testo, sono i tre livelli intorno ai quali mi muovo quando scrivo dei testi in svedese. E questo implica che anche il mio lavoro di regia sull'attore si muova intorno a questi assi, ai quali, nel contesto del lavoro scenico, corrispondono energia, ritmicità e artificialità della lingua. Ritengo che la lingua, per diventare linguaggio teatrale, debba essere usata dall'attore come un mezzo artificiale e questo anche da parte dell'attore che lavora con la propria lingua madre.

Nella compagnia multietnica che dirigo in Svezia, il Tensta TeaterEnsemble, ci sono alcuni attori svedesi e anche loro si esercitano al fine di utilizzare la lingua in maniera artificiale. Si tratta di rompere le strutture fonetiche usuali, di destrutturarle sia al livello dell'emissione, che a quello della loro assimilazione. Allorché si rompono queste strutture, si mettono in moto nell'attore delle dina~ miche che fanno emergere un'emotività diversa, un'emotività come dettata da un "secondo fiato", un secondo respiro. Così l'attore trasforma la propria lingua in un linguaggio teatrale.

t la stessa operazione che fa il poeta quando compone una poesia: non usa la lingua come lingua della quotidianità. Ora, per il poeta, si tratta di agire al livello della scrittura, e quindi della grammatica, della sintassi, delle allitterazioni, eccetera. Per l'attore, che lavora sul suono della lingua, il problema è modificare le strutture fonetiche.

Ho verificato che quando si lavora con attori che non sono abituati a queste modalità e si comincia a scomporre le strutture fonetiche, viene loro un'ansia incredibile. Poi, dopo questo passaggio emotivo, si sentono più ricchi. Questo l'ho potuto verificare lavorando sia con gli svedesi sulla lingua svedese, sia con gli stranieri, anche non europei, che però avevano ormai assimilato lo svedese e per i quali tale lingua, con le sue strutture fonetiche, era ormai un fattore di certezza e di sicurezza, uno strumento d'inserimento. Quindi, anche a loro, la destrutturazione dello svedese faceva subire momenti di ansia e di angoscia.

Penso che ora, sia in Svezia che in Italia, ci troviamo in una fase in cui è palpabile il bisogno del testo, il bisogno della parola. Si tratta però di un bisogno diverso da quello che si aveva negli anni '50, prima che s'imponesse il teatro del corpo.

Noi adesso abbiamo bisogno del testo avendo dentro, ancor viva l'esperienza del teatro del corpo. E questo ci porta ad una riflessione: il teatro del corpo, che è stato importantissimo perché ha operato rivoluzioni profonde e ci ha indicato nuovi percorsi, è ancora veramente tale anche senza la parola? Parto dal presupposto che la parola non è soltanto il livello verbale dello spettacolo, la parola è presente anche al livello del corpo, perché, se dico "passeggiata", questo dire "passeggiata", dal punto di vista fonetico, è anche un lavoro del corpo e io non ho le stesse vibrazioni dentro di me se lo dico in modo rallentato o accelerato.

Sulla base della mia esperienza, posso dire che se metto un attore di fronte ad un testo, un personaggio, una situazione scenica, e non gli dico precisamente cosa deve, pensare, cosa prova il personaggio, cosa indica una data parola, eccetera, (non faccio mai questo tipo di lavoro), ma comincio a farlo lavorare sulle consonanti e sulle pause, per cui, ad esempio, gli faccio capire (non intellettualmente, ma attraverso l'esperienza corporea) che dire 1a mamma di quel ragazzo" non è la stessa cosa che dire 1a mamma di quel ragazzo", (mettendo tra "di" e "quel" un mezzo respiro) e poi concordo con lui i ritmi e dove accelerare o decelerare, questo attore finirà per esprimere l'emozione giusta. Infatti le scelte delle pause, di decelerare o accelerare, o di lavorare sul forte o sul piano, fanno vibrare e mettono in moto l'emotività e la fisiologia dell'attore.

Questo tipo di lavoro, solo apparentemente tecnico, aziona un processo di coinvolgimento, a partire dal quale l'attore può definire la partitura globale del personaggio (sia fisica che emotiva). Il che non implica affatto una volontà di immedesimazione.

C. Dopo aver svolto per anni l'attività di dramaturg in diversi contesti teatrali, sei passata alla regia e per te il passaggio alla regia ha anche coinciso con il passaggio a una scrittura più autonoma, più complessa, ad essere autrice. Quali motivazioni si intrecciano in questo doppio mutamento?

V. Questo non saprei dirtelo, però posso raccontarti alcuni fatti e sensazioni personali. Incominciamo con il passaggio alla regia. Il dramaturg, all'interno del processo teatrale, ha una posizione molto protetta, non si espone; io invece sentivo il bisogno di spostarmi in prima linea. Questa è stata la motivazione interna del passaggio alla regia. Prese le redini del processo spettacolare, mi si impose il bisogno di raccontare un evento. Naturalmente raccontare è una parola logora, compromessa, difficile e, nel mio caso, implicava la produzione di linguaggi teatrali.

Il primo lavoro che ho fatto è stato originato dal ricordo di una frase de I Cenci di Artaud. La dice Francesco Cenci rivolgendosi alla figlia Beatrice: "Tuo padre ha sete, dà un bicchiere d'acqua a tuo padre". Da questa frase è nato il bisogno di raccontare la storia dei Cenci, cioè di produrre linguaggi teatrali intorno alla loro vicenda.

Prima di scrivere il testo iniziai a cercare gli attori, allora in ambito professionale. Osservavo il loro viso e i movimenti, parlavamo, prendevamo insieme il caffè, eccetera. Gli attori, mentre scrivevo il testo, diventavano dunque una presenza concreta. E così è sempre stato anche dopo.

Quello di Artaud è un testo che racconta la storia dei Cenci, io l'ho riscritto completamente e in svedese, si intitola Palatzet (Il Palazzo).

Per me, la scrittura è sempre collegata agli attori: ai corpi, alle voci, al loro insieme.

Adesso sto lavorando ad una rielaborazione della tetralogia di Shakespeare: le tre parti dell'Enrico VI e il Riccardo III. t una rielaborazione molto complessa, che comunque ha per riferimento degli attori precisi. Queste presenze che già nella scrittura si muovono come ombre e che sono gli attori del Tensta TeaterEnsemble. Per loro sto rielaborando la tetralogia shakespeariana, che metterò in scena insieme a loro.

E. Come è nato il Tensta TeaterEnsemble e perché un teatro multietnico?

V. Incomincio dalla seconda parte della domanda: "Perché un teatro multietnico?". In Svezia il consumo della diversità è soddisfatto da forme d'importazione culturale, ma non risponde ad una necessità di trasformazione reale. Ora, se il teatro è il luogo della trasformazione, allora deve aprire nuovi orizzonti e costruire, al proprio interno, una prospettiva di mutamento. Per questo ho deciso di fondare un gruppo multietnico che trasformasse in teatro le dinamiche e i diversi linguaggi dell'esistente. Così, parlo di quanto è accaduto durante il nostro lavo~ ro, molti nessi logici sono saltati, il frammento ha acquistato uno spessore tutto

da indagare - e che non ha molto a che fare con il frammento o la citazione di tipo post modernistico - e il linguaggio è risultato da un'alchimia fra i linguaggi che affondano le proprie radici nelle culture e nell'immaginario di ciascuno di noi. In scena, la diversità fra gli attori è una necessità espressiva.

Quando decisi di fondare il Tensta TeaterEnsemble, andai a cercare i miei attori nei quartieri suburbani di Stoccolma, avventurandomi di proposito nella metropolitana, nei caffè, nelle associazioni dei gruppi etnici, nei luoghi ricreativi di quelle zone. Avevo anche bisogno di uscire dall'ambito istituzionalizzato del teatro.

Così, fra osservazione e intuizione, individuavo, tra la gente dei quartieri Rinkeby e Tensta (da cui la compagnia ha preso il nome nel 1992), qualcuno che potesse essere in grado di condividere l'esperienza che mi interessava. Lo contattavo, gli chiedevo se voleva partecipare come attore alla formazione di un gruppo. Avremmo messo in scena Le Baccanti di Euripide.

E. Nella fase attuale della tua esperienza che ruolo ha la formazione dell'attore?

V. La formazione dell'attore è una struttura portante del mio lavoro teatrale. Credo di poter dire, sulla base delle mie esperienze, che l'attore non debba attraversare processi formativi indipendenti dalla realizzazione di uno spettacolo. L'attore si forma di spettacolo in spettacolo e il suo sapere si condensa e sedimenta attraverso l'esperienza della creazione scenica. L'attore, nella mia prospettiva, è un soggetto che desidera compiere l'evento scenico di fronte ad un altro occhio che lo guarda.

t su questo presupposto che svolgiamo un'infinità di atelier. Si tratta di momenti di lavoro che riguardano il corpo, la voce, e tutto ciò che concerne l'arte dell'attore. Sono momenti che non voglio sistematizzare, anche perché si motivano nell'immaginario e nella nostra coscienza, in rapporto all'evento teatrale che vogliamo costruire.

Spesso in Svezia mi si chiede di tenere dei seminari didattici sul modo in cui lavoro. Ma io rifiuto e non per nutrire un'aura di mistero intorno a questo (anche se c'è qualche cosa di esoterico nel teatro). La ragione per cui non posso tenere un seminario sul modo nel quale lavoro è che il modo nel quale lavoro con gli attori è dettato di volta in volta dall'evento scenico che voglio costruire e non da una pratica che lo precede.

E. Potresti spiegarci più precisamente cosa sono gli atelier?

V. Come ho detto, sono momenti di lavoro teatrale sulla voce, sul corpo, su tutto ciò che riguarda l'attore. Ma sono anche momenti che servono a stimolare l'immaginario, mio e degli attori. Ad esempio, se si deve lavorare sul dolore, l'attore ed io non ci riferiamo al nostro dolore personale, quotidiano, privato, né andiamo a casa a osservare il dolore del vicino, ma lavoriamo guardando i quadri di Francis Bacon, o ascoltando una musica, poniamo lo Stabat Mater di Pergolesi. A partire da queste percezioni si svolgono poi delle improvvisazioni di movimenti, di voci, anche di parole. Così, partendo dalle forme dell'immaginario, produciamo altri linguaggi dell'immaginario. Agli atelier dedichiamo un periodo preciso; cioè, in concreto, se la prima dello Shakespeare a cui stiamo lavorando è prevista in primavera, organizzeremo un paio di settimane di atelier in agosto, poi a settembre avremo ogni settimana tre, quattro giorni di atelier e soltanto verso la metà di ottobre si comincerà a provare il testo vero e proprio. Ma anche quando proviamo il testo, sempre per portare esempi concreti, su quattro ore di lavoro teatrale, due sono di atelier e due sono di prove nel senso comunemente detto.

Quello che cerco di fare con gli atelier è costituire "la società degli attori sulla scena". Gli attori in scena devono avere una complicità che li pone in una situazione conflittuale nei confronti del regista. Sono infatti convinta che attraverso questa situazione di tensione, che nel nostro caso avviene soltanto e unicamente nello spazio scenico, l'attore compie un percorso che lo porta ad appropriarsi dell'evento teatrale al quale lavora.

Fuori del teatro le relazioni sono quotidiane, ma dentro il teatro, dentro lo spazio scenico, il rapporto di conflittualità nei confronti del regista è necessario.

Molto spesso è il gruppo degli attori a lavorare su se stesso' cioè se un attore ha un problema di interpretazione, di coordinamento o ritmo, eccetera, più che sottoporlo io stessa ad un certo tipo di esercizio, lavoro teatralmente sul gruppo, in modo che questo agisca sul singolo attore. Questo processo contribuisce a costituire la "società degli attori sulla scena".

Il Tensta TeaterEnsemble è una "società degli attori" quando è in scena, poi fuori scena non lo è affatto. Gli attori non si frequentano molto.

C. Il Tensta TeaterEnsemble è una formazione particolare perché ha carattere multietnico, si compone di attori di diversa provenienza. Come incide questa diversità sulla "società degli attori" e come contribuisce a formarla?

V. t una domanda complicata alla quale non posso dare risposte precise, anche perché si tratta di dinamiche tuttora in atto. Intanto, noi diciamo che siamo "una terza cosa". Quando lasci la tua cultura e ti trasferisci in un altro luogo, dopo qualche anno non sei più quello che eri nel tuo luogo di provenienza e non diventerai mai, al cento per cento, una persona del luogo in cui ti sei trasferito, quindi sei una terza cosa.

Essere "una terza cosa" significa coltivare dinamiche in continuo movimento, perché non sei né là, né qui, sei all'interno di una transizione che coinvolge tutta la dimensione quotidiana e che è molto più forte e sensibile all'interno di te stesso che non all'esterno. Anche gli svedesi presenti nel gruppo, dopo tre anni di lavoro comune, sono diventati "una terza cosa". Lo dicono loro stessi.

L'effetto di questa condizione sul piano dei linguaggi teatrali, è veramente difficile da descrivere. Almeno io sento che se lo volessi descrivere con nettezza ingabbierei una situazione che invece è estremamente dinamica. Si tratta d'un pulviscolo di contaminazioni fra gesti, codici, tonalità e sonorità delle voci.

La particolare sonorità di una attrice libanese o iraniana, dopo tre anni di lavoro comune, la trovi come riflessa anche nella voce di un'attrice svedese. E poi, giorno per giorno, si determinano situazioni interessanti e varie. Ad esempio, ho notato che spesso nel corpo delle donne iraniane manca lo "staccato", mentre ci sono tutti i movimenti che possono eseguire quello che in musica si chiama il legato".

Un'attrice del Tensta TeaterEnsemble, proveniente da quelle culture e che vive in Svezia da ormai sette anni, un giorno, è venuta spontaneamente a chiedermi di lavorare sullo "staccato", perché avvertiva che le mancava qualcosa di necessario alla produzione del linguaggio teatrale. Queste cose accadono ogni giorno, creando dinamiche continuamente nuove. E, parlando di gruppo multietnico, vorrei sottolineare che la nostra compagnia non lavora facendo utilizzare ai singoli attori elementi tratti dalle loro culture d'origine (canti, danze, ecc.). Le radici etniche vengono innestate e intrecciate all'interno di un processo di produzione che si basa su un testo preciso. Così abbiamo fatto per Le Baccanti di Euripide e così faremo per Shakespeare.

Noi non facciamo un collage delle culture teatrali o musicali delle quali gli elementi del gruppo sono portatori. Non sono le forme in sé che vengono utilizzate. Per noi le culture di provenienza e le modificazioni che queste subiscono, dopo anni trascorsi in paesi stranieri, costituiscono un materiale magmatico col quale costruire una nuova forma teatrale.

C. Tu hai fatto regie per il teatro d'opera e scritto due libretti (Il viaggio di Fortunato e La tempesta, da Shakespeare). Che differenza riscontri fra l'attore drammatico e l'attore lirico, il cantante?

V. Il cantante d'opera è più esposto dell'attore, ma solo ad un livello superficiale. In realtà, lo è molto meno perché ha una base di partenza solidissima, la sua tecnica di canto; mentre l'attore (specie se lavora con me) deve sempre ricominciare daccapo il suo percorso, dato che, per me, il palcoscenico ha sotto un terremoto e sopra un soffitto che sta per crollare.

Però devo dire che, avendo lavorato per lo più con cantanti giovani, molto professionali, ma non ancora irrigiditi da tutti i terribili tic dell'opera, ho Potuto allontanarli dall'aura di protezione della musica. Oggi, inoltre, nelle scuole musicali svedesi, ci sono corsi di recitazione che contribuiscono a slegare il corpo del cantante dal processo di fonazione, per cui, ad esempio, il gesto non si presenta più come un riflesso condizionato dell'acuto. Anche nel teatro d'opera, si tratta di sorprendere in qualche modo il cantante, facendogli percepire con un occhio e un orecchio nuovi il ruolo che deve interpretare.

C. Vorrei sapere quali sono, secondo te, le qualità che consentono di dire "questo è un attore, questo non è un attore".

V. t una domanda molto importante alla quale non posso rispondere, o forse, alla quale non voglio rispondere.

C. Potresti approfondire il discorso sul rapporto col pubblico? E in particolar modo con lo spettatore virtuale; quello spettatore che è già presente all'interno della rappresentazione e al cui cospetto lo spettacolo va formandosi.

V. Penso che, in qualche modo, lo si voglia o no, il teatro è in rapporto con il mondo che lo circonda, e anche con quello che non lo circonda. Voglio dire che è in rapporto diretto con il tempo e, con tempo, intendo la fascia cronologica in cui viviamo. Le sue vibrazioni contribuiscono a produrre, in colui che fa teatro, linguaggi e scelte spettacolari. Questo non ha nulla a che vedere con un teatro di tipo militante. Quando parlo di teatro in presa diretta col tempo, intendo dire che l'attore e il regista, vivendo, percepiscono fatti che accendono il loro immaginario, il loro piacere, l'orrore, la pietà. Gli accadimenti sono infiniti. Nel mio modo di lavorare, il pubblico è uno di questi accadimenti, uno dei fili che s'intrecciano nella vita di quella che chiamo la "società degli attori sulla scena". Non si tratta di dare al pubblico qualcosa in più di quanto non abbia già, ma di formalizzare le vibrazioni che il tempo, in cui tutti viviamo, ci trasmette. Noi diamo al pubblico, la nostra esperienza dentro questo tempo. E, in fondo, la nostra esperienza altro non è che il nostro divenire teatro. È un punto focale per me e per il Tensta TeaterEnsemble: nessuno di noi fa teatro per nessun'altra ragione che non sia necessità di produrre linguaggi teatrali. Noi siamo nel nostro tempo e una parte del tempo che viviamo, dentro di noi, diventa teatro e, divenendo teatro, ci obbliga a tenere gli occhi bene aperti, a essere vigili. Di per sé il tempo non produce linguaggi teatrali; ma il bisogno di teatro che è dentro di noi, ci fa tenere gli occhi aperti sul tempo.

C. Mi sembra che le cose che hai detto sul pubblico, siano indicative del tuo modo di lavorare con l'attore, che, in questo quadro di rapporti, non deve dare né delle verità personali, né delle verità teatrali (e cioè dei modelli), ma deve essere messo nella condizione di utilizzare il proprio fare teatro come strumento di relazione col tempo e, quindi, di conoscenza del tempo stesso.

V. Mi riconosco nella tua osservazione. Perché, come dicevo, quando fai teatro, da un certo punto in poi, guardi il mondo con l'occhio del teatro ed è guardando il mondo con l'occhio del teatro che incontri lo sguardo dello spettatore.

G. Per ultima cosa, vorrei chiederti se, secondo te, è possibile svolgere un'attività di formazione del drammaturgo.

V. Non so se sono in grado di dare una risposta esauriente; posso provare a riflettere a mente aperta. Credo che la formazione del drammaturgo possa avvenire soltanto all'interno di una dimensione laboratoriale, dove i rapporti con gli attori e il regista collocano immediatamente la scrittura all'interno della produzione teatrale. Questo, secondo me, è necessario perché il linguaggio drammaturgico ha un proprio respiro e questo respiro, che non si può cogliere soltanto attraverso la lettura dei testi, dove i ritmi, le dinamiche e i conflitti della vita teatrale sono presenti solo in forma di traccia, e lo spettacolo figura come definito una volta per tutte. Colui che vuole diventare autore drammatico deve acquisire il respiro del testo sulla scena. Lì, si capisce la necessità della sinteticità, della secchezza, l'importanza del non detto. lo leggo moltissimi testi teatrali, ma in quasi tutti i contemporanei, a parte Beckett, Thomas Bernhard e pochi altri, trovo un eccesso di parole, soprattutto evidente nei rapporti fra le battute. Fra due battute deve esserci sempre una cosa non detta, allora si crea una tensione, che è la tensione della scena.

Inoltre, chi vuole diventare autore drammatico, dovrebbe leggere una quantità enorme di testi teatrali senza analizzarli. E cioè, dovrebbe leggere Shakespeare, Molière e Goldoni, come se fossero romanzi di Agatha Christie, e fare il possibile perché il livello dell'analisi non prenda il sopravvento, formando delle sedimentazioni teoriche troppo pesanti e inutili al teatro.

Bisogna lasciarsi attraversare dalle forme più incompatibili e lontane. Non si può nemmeno immaginare una differenza maggiore di quella che separa i linguaggi e le strutture drammatiche di Shakespeare da quelli di Beckett. Eppure una lettura spregiudicata permette di passare dagli uni agli altri con leggerezza. Ecco, raccomanderei ad un aspirante autore di leggere i testi con leggerezza. Allora ci si libera anche della paura che incutono i testi dei grandi autori. Paura che ci portiamo tutti dentro dagli anni della scuola.

La levità consente al testo di aprirsi e di lasciare emergere tracce infinite, che si segmentano e sedimentano nella mente. La lettura, diciamo così, di tipo lieve,

abbinata a pratiche compositive che si svolgano all'interno di un contesto teatrale, può costituire una base per la formazione dell'autore. Naturalmente non esiste nessuna garanzia, perché la scrittura dei testi teatrali è come la costruzione di uno spettacolo: non c'è nessuna ricetta che garantisca il risultato. E questa poi è l'ansia del teatro!

E. Un'ultimissima domanda. Molti tuoi testi sono riscritture: Palatzet da I Cenci di Artaud, La tempesta, Le Baccanti e, ora, la tetralogia di Shakespeare. Come ti rapporti alle opere già scritte?

V. Un testo mi può attrarre a volte senza averlo letto, perché mi affascina il titolo, che scatena dentro di me immagini e associazioni mentali. Poi leggo la pièce. E la leggo parecchie volte, per lo più senza capirla. Bisogna, perché mi possa ricordare di un testo, che abbia chiaro che cosa succede nel primo atto, nel secondo atto, nel terzo atto e così via. Però non prendo appunti per fissare la successione dei fatti, cioè non cerco mai di fare una scaletta. Lascio così, che questo non ricordare, questo non capire le strutture e i personaggi, fermentino la conoscenza del testo. Poi, quando sento che scene, battute o frammenti, mi ritornano in testa, allora capisco che la pièce ha incominciato ad entrare nei miei ingranaggi mentali e io nell'ingranaggio della pièce. Allora incomincio ad affrontare gli argomenti che mi vengono suggeriti dal testo. Per esempio, per quanto riguarda Le Baccanti, ho letto la saggistica su Dioniso, sulla musica greca antica, sulla danza. Ciò non significa che nello spettacolo ci saranno riferimenti alla danza o alla musica greca antica. Tutto questo serve per creare un magma dal quale escono le immagini.

Poi abbandono le ricognizioni documentarie. Non posso dire quando. Sento che è giunto il momento del ritorno al testo. E allora scrivo appunti, sulla scena prima, seconda, terza e così via. A poco, a poco incomincio a vedere la struttura generale. Poi il testo si apre.

Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna