Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Lettera a Vanda Monaco WersterstdhI sull'esperienza teatrale

 

Lettera a Vanda Monaco WersterstdhI sull'esperienza teatrale

 

Cara Vanda, parlando del tuo lavoro con gli attori del Tensta TeaterEnsemble sottolinerei l'importanza del processo di formazione e degli atelier come momento di eser~ cizio non puramente tecnico, ma sull'immaginario tuo e dei tuoi compagni. Non posso fare a meno di cogliere un ricordo, nelle tue parole, di quell'Atelier che nel 1921 Charles Dullin aprì come école nouvelle dell'attore, e non come compagnia di teatro dando vitalità a quei percorsi pedagogici che aveva già imboccato con il suo incontro con Jacques Copeau. Ricordo anche le discussioni con Fabrizio Cruciani che in stagioni diverse è stato nostro compagno di viaggio e che, attraverso la forte dimensione pedagogica che ha caratterizzato i suoi interessi di studioso e la sua storiografia, definiva Dullin un vero maestro del teatro perché, prima di tutto, aveva avuto l'umiltà di essere grande allievo di un grande maestro: Copeau, appunto. Ritrovo dunque nella tua testimonianza ~ ma anche nelle dimostrazioni di lavoro del tuo teatro alle quali mi hai fatto assistere lo scorso anno a Ferrara - la persistenza di un problema che mi ha sempre avvinto, prima come studioso e oggi come ideatore di un centro di teatro universitario: la formazione dell'esperienza teatrale e le possibilità della sua trasmissione non come bagaglio di tecniche, ma nella dimensione etica del lavoro e come costruzione dell'immaginario dell'attore. Forse perché, sia pure in maniera meno diretta, sono stato partecipe di quella "feconda anomalia" della storiografia italiana che tu hai vissuto in prima persona nel gruppo degli allievi di Giovanni Macchia. Anche questo fa parte, sull'altro versante del teatro quello della ricerca dei percorsi pedagogici e delle diramazioni in cui ci identifichiamo e ritroviamo noi stessi.

Quando circa due anni fa ho dato vita al centro del Teatro Universitario di Ferrara non pensavo certo di allestire una filodrammatica di studenti lasciati liberi di esplorare improbabili sentieri teatrali, né tanto meno una scuola di teatro, ma cercavo di individuare le possibilità di un laboratorio di prova attraverso le relazioni tra dimensione pratica della ricerca teatrale e università. Non in chiave didattica, certamente, ma ~ forse indistintamente ~ anche io fuori da quell'inquinamento degli studi da cui tu sei originariamente uscita sfruttandone proprio la qualità dell'agire come funzione immaginativa forte. Per questo ho affidato la conduzione del laboratorio universitario di Ferrara ad Horacio Czertok del Teatro Nucleo che, come sai, non è un regista nel senso stretto del termine, ma un pedagogo, come la sua attività di teatrante ha sempre mostrato e come emerge dalla formazione dei suoi compagni di lavoro. Oggi non ho ancora le idee chiare su tutte le possibilità di questi progetti. Né vorrei averle. So però che gli studenti che ci seguono non pensano - se non nei reconditi anfratti delle loro anime, forse ~ di diventare attori, ma di lavorare sulle molteplicità dell'immaginario, indagando se stessi e la propria fantasia, e rintracciando le proprie capacità di relazione, piuttosto che le ipotetiche potenzialità sceniche di un testo da rappresentare, come nella peggiore tradizione del teatro universitario. Per fortuna non si impongono, né ci chiedono, di essere così banali. Potrei anche dire che insegnamo l'umiltà e la fatica dell'impegno teatrale, e non il volgare protagonismo o l'apparire' a tutti i costi. Non so se quando parli degli atelier tu hai in mente l'esperienza di Dullin e dei piccoli teatri francesi. Credo di no, e la coincidenza è ancora più bella. Perché anche Charles Dullin ce l'aveva con le tecniche. Non le ignorava certamente, anzi giudicava il ritmo, la respirazione, la dizione, ecc. elementi fondamentali del teatro, come è naturale. Ma semplicemente le faceva uscire dall'energia del lavoro dell'attore e non viceversa. Non credeva nello sterile insegnamento di una specie di "grammatica" del teatro separata dal sentire e dalla conoscenza di se stessi. Infatti educa a essere attori creatori e non semplici mestieranti addestrati secondo le regole del mercato teatrale, come è naturale nelle scuole ordinarie.

D'altra parte non poteva essere altrimenti per un attore che prima di conoscere Copeau aveva imparato il teatro nelle sale della foire e nei quartieri periferici dove si recitava il mélodrame, e dove soltanto l'esercizio quotidiano sulle tavole polverose del palcoscenico, attraverso la conoscenza di piccoli trucchi e il tra~ mandarsi dei segreti, poteva garantire l'acquisizione delle buone "regole" dell'esperienza teatrale.

C'è un bellissimo capitolo in apertura dei suoi Souvenirs che egli, ormai anziano e ammalato, pubblicò nel 1946 a testimonianza non tanto del consolidamento di un sapere dottrinario, ma di una concezione etica del teatro e dell'onestà intellettuale di chi lo esercita. Il capitolo s'intitola Vocation. In esso Dullin racconta come invariabilmente, in un quarto di secolo, ogni nuovo aspirante allievo della sua scuola alla domanda "perché vuoi fare l'attore?" avesse risposto "per~ che sento la vocazione, fin dall'infanzia". S'interroga perciò sul significato della parola, ripensando alla propria esperienza personale di montanaro savoiardo che fino all'adolescenza non aveva mai visto un teatro. E ripercorre molti e molti episodi della vita quotidiana nel piccolo villaggio dove era nato, nel 1885, ultimo di una ventina di figli (l'amicizia con un vecchio zio misogino che viveva con la sola compagnia dei propri libri, i venditori ambulanti, l'arrivo degli spazzacamini, le difficoltà economiche della famiglia, le avventure dei contrabbandieri, il passaggio di un polacco che gli fabbricò un mulino a vento di legno in miniatura, ecc.). Storie ed esperienze di vita quotidiana, normali e comuni, che si sedimentano nella memoria emotiva e che costituiscono la sua vera voca

zione: il serbatoio del sentire immaginativo, della fantasia attraverso cui l'attore - in una dimensione non più quotidiana - esercita la propria creatività non nel costruire la parte, ma nel costruire se stesso in rapporto al teatro.

Un altro tema che mi ha sempre affascinato in queste esperienze di lavoro è l'individuazione del punto di equilibrio (e della sua eventuale successiva rottura) tra la sensibilità e la necessità di condurla nei livelli razionali dell'attore, per evitare il rischio dell'emotività. Gli attori del mélo, ricorda Dullin, non erano certamente dei grandi artisti, però riuscivano a individuare quel punto di equi~ librio. Vi riusciva anche il loro pubblico di operai e artigiani con scarsa cultura, (nel senso accademico del termine) ma ricchi di un sapere teatrale ricavato dall'esperienza e da un'impalpabile ed energica relazione con l'emozione profonda dell'attore. Enfants du paradis?

Ma ci sono chiaramente molti altri problemi non secondari. La trasformazione del sentire personale, delle immagini e della fantasia, in lavoro che educa l'attore e, in fin dei conti, in interpretazione teatrale. E, soprattutto, la possibilità che una simile esperienza possa essere oggetto di relazione pedagogica tra maestro e allievo. Che possa cioè realmente e concretamente essere, come si dice, trasmessa. Anche in questo caso mi auguro di non trovare mai una risposta che mi soddisfi completamente.

C'è una bellissima frase di Copeau, che in una delle sue pagine scrive: 'Ia scuola. Applicazione più pura delle idee. Formazione degli spiriti, delle sensibilità, dei caratteri. Ricostruire dei metodi di lavoro, un insegnamento, innescare una nuova tradizione. Ci si crede nemici della tradizione. Ogni rivoluzione è un ritorno alla tradizione vera. L'ambizione del creatore è che la sua creazione gli sopravviva. Creare un ordine nuovo. E che in questo nuovo ordine che avremo iniziato ci superino". È una delle possibili risposte alla questione della pedago~ gia teatrale e della trasmissibilità dell'esperienza. Ogni rivoluzione è veramente un ritorno alla tradizione vera se non si rinuncia a se stessi, alla propria nascita; se si affrontano le esperienze con onestà e umiltà. E se si è veri maestri, nella concretezza dell'agire, non nella superficialità del pensiero, se realmente si crede che l'ordine nuovo possa essere superato. Si è veri allievi probabilmente, quando si rinuncia alla fiducia e alla sicurezza delle parole, quando si cerca di 'rubare' i segreti del maestro senza darlo a vedere e senza rifugiarsi nella piatta imitazione, come raccontano spesso molti artisti. Come Emma Gramatica che spiava in silenzio, dietro le quinte, il lavoro della Duse. O Eugenio Barba quando incontrò Grotowski, assistendo in silenzio al suo lavoro. O come fanno i figli dei maestri giapponesi del Nó. t una regola indispensabile in molte esperienze di laboratorio o di scuola, questa del silenzio, lo sappiamo. Ancora Dullin amava ripetere ai suoi allievi che Van Gogh fu veramente Van Gogh solo quando smise di imitare Millet individuando, attraverso l'osservazione del suo lavoro, la zona di superamento e scoprendo le proprie personali capacità espressive.

Del nostro comune compagno di viaggio, Fabrizio Cruciani, mi sono sempre considerato allievo, anche se eravamo quasi coetanei. Sappiamo che cosa hanno significato i suoi studi, sia per tensione etica che per contenuti. Sappiamo come abbia rinnovato la storiografia teatrale sul Rinascimento e sul Novecento. Credo che in molti sensi a lui si debba l'inizio di un "ordine nuovo". Molte volte l'ho sentito dire agli studenti, nelle sue esortazioni a studiare in maniera problematica, che nel campo della storiografia valgono più le insicurezze e le instabilità delle verità acquisite, e che anche la 'novità' dei suoi studi e dei suoi metodi sarebbe risultata inefficace e destinata a fallire se qualcuno, prima o poi, non lo avesse superato nel nuovo ordine. Era molto copeauiano, come sappiamo bene. Riconosco dunque nelle tue esperienze di teatro agito molti dei percorsi che ho seguito dal punto di vista strettamente storiografico. Forse proprio perché, come ti dicevo all'inizio, siamo entrambi 'figli' della stessa matrice di studi, sia pure in maniera diversa. Trovo perciò straordinario, quando parli di rottura e di recupero nel passaggio dalla ricerca all'attività drammaturgica, che anche la tua 'vocazione' sia fatta di immagini forti, di strutture storiografiche - come le definisci - che si sono sempre più interiorizzate fino a trasformarsi in un substrato di conoscenza. Il sapere accumulato, sono ancora tue parole, che ritorna in forma di fantasia e non di riflessione. Proprio perché, e anch'io ne sono perfettamente convinto, la tua (la nostra) esperienza storiografica è stata unica e ha tratto forza dalla sua funzione immaginativa e dalla mediazione tra la storia, la memoria e il livello fantastico di chi le esercita.

Anche questa è una traccia dell'esperienza e della sua possibilità di essere non tanto direttamente trasmessa, perché è chiaro che non di questo si tratta, quanto orientata e controllata, resa visibile e riconoscibile nei nuovi ordini che nella tradizione si radicano per guardare il presente e progettare il futuro. Cercando

ogni volta individui che scelgano deliberatamente di lavorare su se stessi più che su motivazioni esterne che inevitabilmente denunciano il loro stato di oggetti inerti e passivi. Forse in ciò c'è la traccia più evidente della comunicazione dell'esperienza. Tu lo fai, ora, nel tuo lavoro quotidiano con gli attori del Tensta TeaterEnsemble. lo mi sforzo di farlo continuando a restare nei territori della storiografia, anche se a mia volta un poco fuori dall"'inquinamento" degli studi. Ma in fondo non c'è molta differenza, se continuiamo a nutrire fiducia nelle diramazioni segrete dell'immaginazione e della fantasia, individuali e collettive. Ne abbiamo sempre più bisogno.

Daníele Seragnoli. Università di Ferrara

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