Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Editoriale

Editoriale

Perché una nuova rivista di teatro? E perché una rivista che pur proponendosi di trattare di volta in volta diverse realtà teatrali attraverso interviste, testimonianze e documenti, metta in evidenza fin dalla propria denominazione il lato drammaturgico, l'organizzazione inventiva degli eventi?

La risposta a queste domande, qualora non rientri in un sistema di artifici retorici, si traduce necessariamente in una visione di teatro, che presentiamo come tale, senza curarci di decantarne in forme di conoscenza storica la carica intuitiva e le impressioni, gli elementi personali e di speranza.

Crediamo che questo sia un momento felice del teatro italiano. E non tanto e non solo felice a causa degli spettacoli, delle iniziative, dei percorsi artistici che svolgendosi acquistano spessore di cifra, di realtà mentale da conservare in se, lieti e quasi sorpresi d'averla saputa riconoscere mentre accadeva. La felicità a cui facciamo riferimento riguarda piuttosto la natura delle cose, il loro ordinamento organico. È come se, dopo gli anni grandi delle avanguardie e della ricerca, delle tendenze e delle contrapposizioni, quel tipo di teatrante che si è andato lentamente configurando intorno ai valori, per certi versi coesistenti, del nuovo e della sperimentazione, abbia abbracciato senza limiti e preclusioni di sorta tutte le possibilità del teatrale, riconoscendo quindi nel 'teatro', inteso come entità molteplice e sottratta alla finitezza dei tempi storici, il proprio contesto di decantazione esistenziale. Si è trattato di un gesto semplice, ma ricco di implicazioni antropologiche, poiché ha costituito un'area di accettazione e vita teatrale, in cui i maestri del '900, la filera delle esperienze pedagogiche, i brandelli trattenuti dalla memoria personale, e la voce dei grandi drammaturghi, quella voce che, come diceva Copeau, è il contenuto più alto della drammaturgia scritta, interagiscono liberamente, aggregandosi o distanziandosi fino a lasciare un vuoto fecondo che consente il riprodursi dei loro modi genetici. Ci sembra, insomma, che il teatro, accettandosi in quanto arte antica e primaria che vive nel presente, abbia acquisito un'inattesa giovinezza, quasi un diritto di extraterritorialità rispetto al mondo contemporaneo, segnato da ritornanti vecchiezze come dal riemergere di istinti e di energie affatto estranei alla primarietà del teatro, che si produce laddove il mondo delle pulsioni diviene oggetto osservabile e, quindi, forma, indice di civiltà e di disciplina.

Oggi, il teatro si rapporta alla sfera del contemporaneo festeggiando la propria alterità e autonomia. E lo fa dispiegando una così fitta selva di riviviscenze o 'rinascite', da mostrare, al di là delle opinioni personali e dei criteri estetici, come il teatro non sia in primo luogo uno specchio del vivere, ma una sua parte circoscritta dove i meccanismi generali del pensiero e del sociale risultano come miniaturizzati, in modo che quanto può apparirvi un riflesso dell'esterno, una sua "rappresentazione", è in realtà frutto di analogie fra due diversi ordini dell'esistente.

Per lunghi tratti della sua storia, il teatro si è strutturato come doppio del sistema sociale e dei tipi antropologici esistenti. Pensiamo alle Compagnie dell'Arte, i cui ruoli sostanziavano i rapporti fra le generazioni e le caste (i vecchi e i giovani; i padroni e i servi; e poi, con la mediazione goldoniana, i mercanti e i nobili); oppure alle compagnie ottocentesche che duplicavano al proprio interno le possibilità inventive della natura poiché, come ricordava l'attore Giovanni Angelo Canova, ai melancolici corrispondevano le parti di primo attore e padre nobile, ai collerici quelle di tiranno. ai sanguigni i mezzi caratteri e ai puroflemmatici il ruolo di generico.

I1 teatro del presente, invece, coi suoi vari organici e i suoi sincretismi, sembra particolarmente attrezzato a svolgere funzioni che, se paragonate alle tradizioni storiche, risultano al contempo originali e originarie. E cioè: coniuga l'oggettività drammatica dell'evento ai contenuti lirici dell'attore; traduce in forme sceniche le dinamiche sociali e di pensiero degli organismi produttivi; riprende l'atto del narrare enucleandolo dalla propria fisiologia e non dalle tradizioni narrative; assimila al proprio sistema relazionale le realtà del passato, ragione per cui Shakespeare e Goldoni, la drammaturgia performativa dei Comici delI'Arte e la poesia dell'attore ottocentesco, trovano in teatranti nati su un'altra sponda del tempo storico, degli interlocutori attenti, sensibili e capaci, quindi, di trasmettere il senso di tali incontri, il suono d'un dialogo impossibile.

Teatralmente, il passato non è, in questo momento, il polo d'una dialettica in atto, ma, più statisticamente, la parte maggiore di una ritrovata unità morale che verte sul presente facendovi defluire i suoi succhi.

Tale situazione si presenta ancora fluida, incerta e quasi timorosa di apparire, forse perché inibita dalle particolarità che la separarono dai grandi esempi del teatro del '900; tuttavia, proprio l'evidente estraneità dei suoi meccanismi e delle sue tensioni rispetto alle dinamiche del divenire storico, imperniate alla contrapposizione fra tradizionale e nuovo, antico e moderno, consente di allacciare una prima rete di connessioni e confronti.

L'immissione di questi nuovi aspetti nella civiltà teatrale del XX secolo, individua infatti due aree di ricerca reciprocamente distinte da un diverso ritmo di respiro culturale.

La prima vede nel teatro una pratica da rifondare e scoprire, realizzando al di fuori dei luoghi istituzionali nuove strutture e possibilità, forme d'arte e modi di rapporto. Veste mentale, questa, che implica l'individuazione di princìpi etici o di valore, pragmatici o creativi, ma comunque necessari all'atto della rifondazione, il quale non può riconoscersi in una fortuita concatenazione di eventi e coincide, per quanti vi mettano mano, con l'apertura di nuovi spiragli esistenziali.

I Maestri del '900 hanno dunque distinto dalle prassi sceniche la conoscenza del teatrale, e tratto da quest'ultima saperi, lampi d'espressione, quasi generi. A causa loro, il piccolo mondo del teatro ha subito, attraverso fasi di tumulto e l'annodarsi di sottili tradizioni, una mutazione per certi versi simile a quella del grande mondo naturale, dove, piaccia o meno, i frutti della conoscenza fanno ormai parte dell'ambiente globale ed hanno mutato l'aria che respiriamo, l'acqua piovana, il ritmo delle stagioni.

Ma la natura del teatro è meno oggettiva della Natura o, per meglio dire, lo è al modo dei fatti morali, che continuano a vivere e a morire sotto l'immutabile guaina dei loro documenti. Così, in questi ultimi anni, assistiamo a una specie di riunificazione o ripiegamento, per cui la tensione alla ricerca, dopo aver fondato nuovi e molteplici teatri, riproduce gli antichi caratteri della teatralità occidentale (teatralità instabile, eclettica e impura) e riconosce, quindi, il caos che s'apre all'interno delle singole funzioni spettacolari e delle loro relazioni reciproche. Laddove, per caos, non s'intenda però assenza di sistemi e princìpi, ma coabitazione di modi contrapposti.

Da sempre, i teatri occidentali sono stati sottoposti al pungolo del mutamento; per questo hanno dissipato le proprie tecniche e prodotto drammaturgie, nella doppia accezione di testi drammatici e modi preposti all'invenzione degli eventi scenici. La drammaturgia ha mantenuto il delicato equilibrio entropico fra le culture dell'attore e l'istanza al mutamento, fra l'interno e l'esterno degli organismi di produzione, ed ora veicola i rapporti fra il nuovo e le diverse facce dei teatri esistiti.

Di qui, le nostre scelte con le quali intendiamo segnalare lo svolgersi d'una fase di vita teatrale felice, confusa e, forse, transitoria.

Claudio Meldolesi
Gerardo Guccini


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