Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia - 1/2002
Prove di Drammaturgia

ALTRI ANNI SETTANTA
LUOGHI E FIGURE DI UN TEATRO IRREGOLARE

 

IL TEATRO DELLE MOSTRE:
PER UNA STORIA OBLIQUA DELLO SPETTACOLO ITALIANO POSTBELLICO

di Luca Scarlini

 

Il Teatro delle Mostre è il titolo di un’esposizione, celebre al momento della sua realizzazione nel 1968, quanto in seguito un po’ obliata, nel panorama vorticoso della scuola romana (recentemente rivisitata con grazia da Paola Pitagora nel suo romanzo autobiografico Fiato d’artista, in cui compaiono tutti i protagonisti di quella stagione), che alla fine di un decennio convulso celebrava un percorso spesso accidentato di sperimentazione. Come già in una precedente collettiva in quell’estate a San Benedetto del Tronto, appariva ormai chiaro che si era nella stagione Al di là della pittura; la tela e le altre strutture formali ereditate sembravano restringere eccessivamente il campo ed era necessario superarne i limiti, verso la performance, il teatro comportamentista, la body art, il cinema (un capitolo fondamentale, a lungo latitante nella memoria collettiva e ora ricostruito nel libro di Angela Madesani Le icone fluttuanti). Artisti e scrittori si intersecavano negli spazi della galleria La Tartaruga e vale la pena di ripercorrerne il catalogo per intero (edito da Lerici lo stesso anno), che è effettivamente sbalorditivo: Giosetta Fioroni, Ciro Ciriacono, Giulio Paolini, Ettore Innocente, Emilio Prini e Paolo Icaro, Pier Paolo Calzolari, Franco Angeli, Enrico Castellani, Paolo Scheggi, Mario Ceroli, Gino Marotta, Renato Mambor, Laura Grisi, Sylvano Bussotti, Loreto Soro, Cesare Tacchi, Alighiero Boetti, Fabio Mauri, Nanni Balestrini e Fabio Mauri.

Ciò che colpisce di più è la sovrapposizione di esperienze molto diverse tra loro, che producono esiti estremamente vitali, destinati a svilupparsi spesso anche altrove. La vulgata della storia del teatro italiano del secondo Novecento prevede che i blocchi principali della sua concatenazione (i registi, il teatro-immagine, etc.) racchiudano e sistematizzino tutto; mentre mancano proprio quei luoghi della creazione, apparentemente più fragili ed effimeri, che pure si concretizzano come snodi fondamentali del pensiero scenico. Restando al panorama del Belpaese (il discorso si può allargare facilmente a molte altre situazioni europee: basti qui citare il caso macroscopico dell’azionismo viennese, che dialoga con alcuni esiti sperimentali della letteratura austriaca coeva in modi spesso urticanti e imprevedibili) seguono quindi quattro esempi, di altrettante "derive" apparenti dalla sistematicità conclamata, di straordinario impatto e notevole forza espressiva.

Mario Schifano o del Gesamkunstwerk L’ansia vitalistica di Mario Schifano è un dato evidente, che allo stesso tempo è banalità e quasi pettegolezzo, quando lo si voglia applicare come parametro critico a una produzione certamente debordante, ma comunque ricca di punte di straordinario valore. Due i suoi titoli della fine degli anni Sessanta su cui richiamare l’attenzione. In primo luogo Umano, non umano, straordinario film-happening del 1969, che racconta in presa diretta l’Italia di quell’anno molto particolare, montando interviste agli operai che stampano l’Unità insieme a dialoghi con scrittori (memorabile l’apparizione di Sandro Penna in una casa stipata di oggetti e quadri), ma anche con improvvise aperture a "paleoclip" musicali (un incredibile Mick Jagger che canta in playback lanciandosi in complicate figure coreografiche) e a scene teatrali di taglio behaviourista, come quella memorabile con Carmelo Bene che insieme ad Alexandra Stewart mette in scena una sequenza di amore impossibile, vincolato da un tedio non più superabile; il tutto scandito da un battito cardiaco che resta la colonna sonora di buona parte della rappresentazione. Secondo e ancor più straordinario episodio Le stelle di Mario Schifano, il gruppo beat di cui l’artista era il frontman, e in cui compariva anche Peter Hartman, pittore e fraterno amico di Elsa Morante. Nel momento in cui l’onda beat travolgeva la musica italiana con esiti talvolta involontariamente comici, l’artista decide di produrre un disco (che è ormai un raro articolo di antiquariato) che racchiude in modo preciso e senza compiacimenti di maniera l’aura di una stagione di meticciato artistico portato all’ennesima potenza.

Sylvano Bussotti o del Teatro Sylvano Bussotti, tra i massimi compositori del Novecento italiano, ha un ruolo importante anche nella storia dello spettacolo postbellico, secondo un intreccio di competenze che lo hanno portato di norma a firmare integralmente i suoi spettacoli e a connettere in modo inestricabile dimensione visiva e musicale. Da segnalare senz’altro, in primis, la collaborazione con Carmelo Bene, frequentato precocemente a Firenze, con cui realizza la prima versione del celebre Spettacolo Majakovski a Bologna, firmando in seguito, insieme a Vittorio Gelmetti, la colonna sonora del fondamentale Il rosa e il nero. Ma la consanguineità straordinaria con Carmelo non esaurisce il discorso; molteplici sono infatti gli incontri con il Living Theatre (con cui agisce, tra l’altro, in una memorabile performance a Bordeaux) e non poche le presenze sulla scena in altri ambiti, come nella rarissima proposta del visionario Concilio d’amore di Oskar Panizza, per la regia di Romano Degli Amidei. L’episodio maggiore resta forse quella Passion selon Sade, in cui l’immaginario del Divin Marchese irrompeva nel convegno palermitano del Gruppo 63, con una rappresentazione piagata d’erotismo (in cui il musicista era un kapellmeister con frusta e perfidie al seguito) che ebbe un vero e proprio trionfo in tutta Europa e negli Stati Uniti, anche per la memorabile interpretazione di Cathy Berberian. Da segnalare infine la produzione cinematografica, in cui i percorsi biografici si incrociano con una ricerca formale complessa. Valgano qui come esempi i due titoli maggiori: Rara (realizzato tra il 1967 e il 1970, e che attende un restauro assolutamente necessario, in cui compaiono letteralmente quasi tutti i protagonisti del mondo artistico romano del periodo) e Apology girato a Berlino nel 1972. Infine, last but not least, da segnalare la straordinaria macchina drammaturgica de I semi di Gramsci, spettacolarizzazione dell’orchestra che imprigiona un quartetto, per raccontare una struggente immagine dei Quaderni dal carcere..

Fabio Mauri o la Storia Fabio Mauri, artista figurativo e drammaturgo (di lui si ricorda L’isola e Il benessere, scritto in collaborazione con Franco Brusati), è uno dei personaggi più appartati del percorso qui disegnato, ma balza prepotentemente in primo piano per una scelta precisa: quella di connettere la dimensione della performance allo spazio della Storia. Resta in ciò indimenticabile l’utilizzo del corpo come schermo ne Il vangelo di/su Pier Paolo Pasolini, alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna poco prima dell’assassinio dello scrittore; ma ancor più centrale è Che cos’è il fascismo, straordinaria performance didattica presentata negli Stabilimenti Safa Palatino di Roma nel 1971, in coincidenza con un momento di grande tensione politica e sociale. La performance, ambientata lugubremente negli spazi che avevano visto i trionfi del cinema "romano" del Regime, ricostruisce il raduno a Firenze della Gioventù Italiana del Littorio e della Hitlerjugend (1939), a cui l’autore aveva partecipato con Pasolini discettando della centralità della poesia ermetica, e lo rivisita in una serie di tableaux terribili che ben illustrano la situazione di una generazione alienata a se stessa dalla retorica magniloquente del regime, tra acquiescenza e scatti di rivolta.

Alberto Arbasino o del Cabaret La stagione straordinaria del cabaret intellettuale degli Anni Sessanta, ogni tanto rievocata da alcuni dei protagonisti, resta però per lo più un ricordo vago, visto che mancano studi in merito e i testi stessi sono spesso di difficilissima reperibilità. Indubbiamente a capostipite del fenomeno ci fu l’esperienza mai sufficientemente lodata del Teatro dei Gobbi di Franca Valeri, Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci, con i loro sketch al vetriolo sulle idiozie del quotidiano. Ma qui il gioco, spesso ospitato al romano Teatro della Cometa dalla mecenatessa Mimì Pecci Blunt, coinvolgeva scrittori in vista (da Parise a Moravia, passando per Calvino), che di norma destinavano la loro attività a due straordinari interpreti: Laura Betti e Giancarlo Cobelli, mettendo a punto idee che poi puntualmente trovavano echi e riverberi altrove. In Potentissima signora, ad esempio, Parise lancia uno sketch che poi diventerà un film di Marco Ferreri, mentre Pasolini firma un lavoro breve straordinario, Italie Magique (finalmente edito lo scorso anno nel Meridiano dedicato al suo teatro) che cambia le carte in tavola sull’immagine della sua produzione per la scena, ormai legata esclusivamente alle sette tragedie platoniche e che invece qui rimanda senz’altro alla pungente grazia poetica de La terra vista dalla luna. Arbasino è uno degli autori più importanti di quella stagione e compare più volte sia con sketch incantevoli per Cobelli (La piccola vedette lombarda, un titolo memorabile) che con canzoni destinate a fare epoca per la Betti (Ossigenarsi a Taranto, che ogni tanto Paolo Poli ripropone come bis con immutato successo). Il suo testo più complesso in questo ambito, Amate sponde, un contromusical patriottico in risposta alla retorica debordante del Centenario dell’Unità d’Italia, avrebbe dovuto essere interpretato da Franca Valeri e Laura Betti; il progetto non si realizzò, ma la forza della contaminazione grottesca sarà poi quella che deflagrerà negli spettacoli più perfidi di Poli (e basti qui citare L’uomo nero e Femminilità, due gioielli degli anni Settanta).
Un percorso riassunto per sommi capi, ovviamente assai più complesso, che propone, rispetto a categorie storiche spesso usurate, un itinerario senz’altro diverso, agito per accumulazioni ed elisioni, più per moltiplicazioni di gesti (secondo una parola cara a quel tempo) quindi, che non per tramite di manifesti. In breve, una memoria teatrale in parte obliterata e da ricostruire in tutta la sua trionfale obliquità, per determinare con maggiore esattezza gli sviluppi di molti dei percorsi più interessanti degli ultimi sessant’anni.


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