Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia - 1/2002
Prove di Drammaturgia

ÁRPÁD SCHILLING: UN TEATRO
SULLA DIFFICOLTÀ DI ESISTERE

a cura di Ilona Fried

 

Árpád Schilling è uno dei personaggi di spicco del teatro ungherese. Giovanissimo, nato nel 1974, con già alle spalle un gruppo che dirige dal 1995 e diventato una compagnia stabile nella stagione 2000-2001, ha al suo attivo quattro regie al prestigiosissimo Teatro Katona. Ha richiamato l’attenzione del pubblico e dei critici sia con l’originalità e l’impegno del suo lavoro, sia con la molteplicità delle sue proposte: a partire da un microrealismo scioccante, fino al linguaggio metaforico e stilizzato, ridotto all’essenziale ma non meno passionale della Casa di Bernarda Alba di Lorca, o con la regia dell’elaborazione di Kleist La domenica delle palme di un sensale di cavalli, lavoro del giovane drammaturgo István Tasnádi dal titolo Il nemico pubblico, storia rivisitata dal punto di vista dei due cavalli di Michele Kolhaas.
Fra gli spettacoli attuali, W. ovvero circo di operai (basato sul Woyzeck di Büchner e sulle poesie del grande poeta del Novecento ungherese Attila József) è un vero teatro fisico, le cui scene oltrepassano nettamente il modello circense. La nudità dell’attore si innesta in una rigorosa pratica del corpo che richiama il cinema di Jancsó degli anni Sessanta e Settanta, come pure anche un certo nuovo teatro europeo o americano. Le scene si susseguono come sketches sui personaggi, sulle loro modo di essere, sui loro rapporti. Il tutto si svolge in una sorta di gabbia in mezzo alla sala, con un uso incisivo di elementi naturali: la sabbia, l’acqua, il fuoco.
Pur nella loro diversità, spettacoli come Liliom, Gli indemoniati o l’ultimo Leonce e Lena sempre di Büchner (che si svolge su un tappeto), o ancora Next (presentato anche al festival di Avignone) hanno suscitato nella critica accese discussioni. Oramai credo siano tutti concordi nel riconoscere a Schilling l’alto valore del suo teatro, ancora disperatamente alla ricerca di uno spazio di lavoro definitivo. Nelle pagine seguenti riproduco la mia intervista fatta al regista.

Vedendo il suo teatro mi viene in mente un periodo del teatro "alternativo" ungherese che lei naturalmente, essendo molto giovane, non può aver conosciuto: gli anni Settanta segnarono una ricerca formale e allo stesso tempo un forte impegno sociale.
Il mio teatro lo chiamerei "teatro d’arte". Non si ferma a determinate forme, ma è alla ricerca continua di un proprio linguaggio formale e di un rapporto con il pubblico. Questi sono elementi che in realtà mancano nel teatro professionista. Siccome esiste una divisione netta tra le due strutture, quella professionista e quella alternativa, siamo sempre costretti a interrogarci ininterrottamente su una specie di autodefinizione. Io sono poi uscito dall’associazione dei teatri alternativi due anni dopo la sua formazione, perché avevo la sensazione fosse formata da persone ormai svuotate, che lavoravano accanto al grande fuoco dei risultati precedenti, ormai in una struttura artisticamente marginale. Io nel frattempo sono stato ammesso nella sezione "regia" dell’Accademia d’Arte Drammatica, e contemporaneamente lavoravo sul Cerchio di gesso. Ritenevo molto importante creare una compagnia propria, perché credo molto nel lavoro di gruppo. Per me l’essenza del teatro è una comunità che elabora una sua forma d’espressione.

Qual è il ruolo del regista in questo tipo di teatro?
È una figura determinante. È sempre così, anche nei grandi teatri in cui ho lavorato. Ci vogliono molte sofferenze, molti tormenti, ma qualcuno deve prenderseli.

I vostri spettacoli sono veramente multiformi, avete approcci e linguaggi molto diversi.
Sto ancora studiando, di nessuna rappresentazione direi che è finita, completata. Il teatro sta ancora cercando il suo posto in me. Spero arrivi il momento in cui potrò dire: "ecco, una creazione pronta", altrimenti la mia vita tratterà di questa ricerca continua. D’altra parte, tutti gli spettacoli in questo teatro hanno qualcosa in comune: vengono prodotti su ciò che ritengo stimolante nella mia vita e così sono collegati all’arco del mio sviluppo interiore personale.

Sembra comunque sempre interessato a questioni di potere, di sottomissione.
Sì, ma c’è di più: in realtà mi occupo dell’impossibilità dell’esistenza umana, dell’assoggettamento inevitabile al destino, dell’annichilimento dei rapporti umani. È per questo che mi hanno sempre incuriosito il senso dell’umorismo e l’ironia, altrimenti senza questi non potremmo confrontarci con problematiche di tale portata. L’uomo, dalla nascita alla morte, conduce una danza macabra ironica e le nostre storie sono essenzialmente incentrate su questa danza macabra: potere, amore, rapporti umani, gioventù, vecchiaia, ecc. La grande domanda di cui non conosciamo la risposta è perché dobbiamo restare in vita, perché sopravviviamo.

Il suo teatro ha un impatto molto forte sul pubblico, crea una simbiosi fra parola, visione e suono.
Il teatro dev’essere agitante, crudele, proprio nel senso di Artaud, struggente, di grande impatto visivo. Questo è più importante di tutto: dev’essere creativo. Stranamente oggi il cinema ha un’influenza molto più forte sul pubblico che non il teatro. Anche se il teatro agisce dal vivo, è immediato e crea un’occasione unica. L’attore teatrale può esercitare una magia con un bicchiere, con un secchio, con la sabbia, è capace di rovesciare il mondo: si meriterebbe un successo più grande, dovrebbe toccare di più il pubblico.

Gli attori della sua compagnia a volte producono cose veramente sovrumane.
Secondo un parere spesso citato, ci vuole un certo masochismo per fare l’attore. Se pensa bene alla sofferenza che comporta immedesimarsi in Masa, nelle Tre sorelle di Cechov: lì in mezzo al nulla incontra l’amore che poi la abbandonerà, e sa che ciò che l’aspetta è la vecchiaia e la demenza. Quale donna può viverlo con piacere? Nessuna. Qui la scelta della forma artistica è secondaria. È l’attore a decidere se vuole partecipare a questo tormento di se stesso perché si sente artista e perché ne ha il talento. D’altra parte si tratta di una comunità ben profonda che lo aiuta, di persone impegnate, fanatiche della professione, e ciò naturalmente comporta anche piaceri immensi, un arricchimento non solo artistico ma anche personale, quando sentono le reazioni positive da parte del pubblico, che gli permette un ampliamento dei propri confini. Per fare degli esempi: gli attori possono imparare a suonare la musica e dopo tre mesi la suonano nello spettacolo Leonce e Lena; o viaggiano molto e studiano le lingue, e nel prossimo spettacolo includeranno anche le lingue straniere. Diventano esseri più liberi, più ricchi, più interessanti a costo della crudeltà nei confronti di se stessi. Ne sono consapevoli e sono scelte loro. Fanno sempre ed esclusivamente scelte che io condivido.

Non si potrebbe fare diversamente, altrimenti non conviverebbero con la loro autenticità. Attualmente portate Liliom in Italia. Molnár è stato un drammaturgo conosciutissimo e apprezzatissimo fra le due guerre anche in Italia. Un noto critico italiano, a proposito di una rappresentazione di Liliom qualche anno fa, l’ha trovato ormai improponibile. Forse ha visto uno spettacolo poco riuscito. Voi adesso producete un Liliom durissimo, di grande attualità.
A giugno saremo al Piccolo, a luglio al Mittelfest di Cividale e probabilmente a dicembre a Roma. Siamo contenti di poter presentare tutti e tre i nostri spettacoli attuali, che del resto sono molto diversi tra di loro: W. è un classico tedesco, Liliom è di un autore ungherese. Molti credono che Liliom sia una bella fiaba leggermente datata, mentre se esisteva una persona cinica, profondo conoscitore delle difficoltà della vita, era proprio lui. L’interpretazione che diamo del dramma è uno smascheramento della storia d’amore, come anche dell’ideale uomo-eroe. È un quadro triste, misero, pur essendo molto generico sulla sorte di una donna che si sceglie un uomo che vuole salvare: "me lo salvo e me lo tengo e poi vivo con lui tutta la mia vita perché riesco ad offrirgli delle alternative contro le sue sfide". Si arriva poi al suo fallimento completo. In più si tratta anche della lotta accanita tra le donne, come tra la Sig.ra Muskát, l’amante vecchia, e Juli, quella giovane. Sono tutte cose molto dure, e se le prendiamo come una favola non facciamo altro che evitarle. Potremmo considerarle dolciastre solo perché il tutto si svolge all’inizio del Novecento, con nomi dell’epoca, nello spazio del parco della città, con linguaggi specifici, ma tutto ciò non ha minimamente gli ingredienti della favola, bensì gli aspetti pesantissimi della vita, raffigurazioni (tranche de vie?) sulla scia di Ödön von Horváth. Laddove Molnár ha esagerato, abbiamo tagliato, ma devo dire che abbiamo ritoccato pochissimo il testo, perché il buon vecchio Molnár ha capito perfettamente l’amarezza delle cose.

Che cosa sarà il prossimo spettacolo e quando?
In autunno inizieremo con alcune tournée. Presenteremo il nostro prossimo spettacolo prima a Bobigny a Parigi, poi il 23 ottobre, ricorrenza della rivoluzione del ’56, a Budapest: ci sarà uno spettacolo sugli ultimi tredici anni dell’Ungheria.

All’inizio le ho domandato sul teatro alternativo degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Molti, anche in Italia, conoscono bene i cineasti ungheresi dell’epoca. Li sente in qualche modo vicini?
Nessun artista può trascurarli, sono apparsi dei veri capolavori in quegli anni. Sento tutti quanti vicini, non uno di loro, ma quelli che hanno cercato la verità e si sono tormentati. Hanno creato opere stimolanti, interessanti. E accetto le loro varie espressioni artistiche. Non devo seguire nessuno, ma tutti quanti contemporaneamente, questo è l’essenziale.


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