Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna
lOsservatorio Critico a cura di Fabio Acca Conversazione con Laminarie LAMINARIE nasce nel 1994 dal lavoro teatrale di Bruna Gambarelli e Febo Del Zozzo. Il suo linguaggio secco, particolarmente sensibile alla consistenza fisica della scena e dellattore, si impone sorprendentemente allattenzione della comunità teatrale nel 1996 con Tu misura assoluta di tutte le cose, vincitore del Premio Iceberg di Bologna. Dopo Poema della forza (1997), il gruppo si segnala ancora per Eudemonica (1998-2000), progetto triennale "di ricerca della felicità" diviso in altrettante tappe o Stratagemmi che trovano sede rispettivamente a Bologna, Palermo e Plovdiv (Bulgaria). Un lavoro, questultimo, ardito e rigoroso, in cui coincidono sperimentazione teatrale e coinvolgimento etico, filosofia e pratica attoriale, allinsegna di alcune impegnative tracce testuali di Schopenhauer, Simon Weil, Louis Jouvet e Jordan Radickov. Agli spettacoli maggiori, il gruppo alterna alcune fortunate produzioni di teatro per ragazzi, come Il principe stregato (1999) e La guardiana delle oche (1999). Infine, se i successivi Esagera (2000) e Bisce (2001) confermano la maturità di una ricerca in atto, gli ultimi lavori sembrano portare LAMINARIE da un lato verso un inedito ricoinvolgimento delle qualità polifoniche della parola teatrale (Serpenti e Bisce, 2002), dallaltro sulla soglia di unattitudine teatrale reattiva alle più recenti verifiche sul piano della produzione visiva, come dimostra il recentissimo video L. Fabio Acca: Ho apprezzato molto in Esagera questa vostra qualità artigianale, il senso della ricerca fisica delloggetto. Un retaggio se vogliamo antico, ma che per la centralità drammaturgica delegata ad esso fa pensare alla Raffaello Sanzio. In entrambi i casi, loggetto si illumina di una vitalità perversa, luciferina, che spiazza completamente lattesa sulla sua funzione. Il corpo dellattore ritorna, ma semmai come simulacro oppure anche come fisicità estrema, raddoppiata dalla celebrazione dellatto funzionale alloggetto e dalla sua visione scenica. Nel valzer delle definizioni che come sempre annebbiano la mente di noi studiosi, chiamerei il vostro lavoro "minimalismo plastico". Il gesto più sottile ha come unampiezza titanica, una sovraesposizione che ne centra la bellezza. E questa bellezza è spesso colta nel suo sottrarsi, mai nella sua invadente evidenza Bruna Gambarelli: Mi incuriosisce molto il tuo discorso sulla bellezza. Lo deduci dallo spettacolo o avevi già letto dei materiali sul nostro lavoro? Fabio: È un tema che mi pare torni spesso nellintero arco della vostra produzione. Bruna: Ritorna sempre. Entrambi gli "stratagemmi" Stratagemma n. 1, realizzato a Bologna nel 1998; Stratagemma n. 2, realizzato ai Cantieri Culturali della Zisa di Palermo nel 1999 con attori palermitani; e infine lo Stratagemma n. 3, elaborato in Bulgaria nel 2000 con attori del teatro statale di Plovdiv erano spettacoli veramente ostici, molto rigorosi e complessi, a partire dalla scelta dei testi (Louis Jouvet, Simone Weil, Jordan Radièkov). Anche lo spazio scenico, per quanto ampio e profondo, non concedeva allo spettatore la possibilita di codificare facilmente il senso preciso dello spettacolo. Maria Concetta Sala, pur conoscendo pochissimo il nostro percorso artistico, scrisse per lo Stratagemma n. 2 delle parole che ci colpirono per la loro precisione: " una sospensione materializzata in un corpo di attrice distesa su un asse mette in relazione lalto e il basso e sposta anche in senso fisico la prospettiva traducendo la ricerca di vuoto in "stato di bellezza"". Ha colto lobiettivo senza aver parlato con noi, senza aver visto i nostri spettacoli precedenti, dopo avere assistito ad uno dei nostri lavori in cui si cercava veramente di porre lo spettatore in uno stato di vuoto. Fabio: Credo che il problema della bellezza sia, in maniera più o meno esplicita, uno dei motivi ricorrenti delle ultime generazioni teatrali. In Esagera la bellezza appare nel momento della sua sospensione, e non nella sua evidente, arrogante e macabra esplicitazione. Questo è molto coraggioso: andando a teatro, assistiamo spesso a spettacoli in cui, nel solco di una tradizione neo barocca, la bellezza si impone come volontaria ricerca di una evidenza estetica "architettonica". E non dimentichiamoci dunque la controscena politica di questo andamento, alla possibilità e il dovere etico di considerare la bellezza come strumento di potere, ai livelli bassi come a quelli più alti della significazione. Il vostro caso mi ha incuriosito per la relazione originale intrattenuta con questa categoria, perché è un lavoro di sottrazione: il confronto con essa rimane, non viene rimosso, piuttosto è sospeso, lasciato liberamente alla percezione dello spettatore, che lo può cogliere, nonostante la macchina teatrale, nei segni più minuti dellattore e della scrittura scenica. Bruna: Una macchina teatrale potente finalizzata però ad un lavoro di sottrazione. In Esagera, il testo dei Racconti della Kolima di alamov si riduceva a sole due righe e mezzo. Le altre parole non erano neanche tratte dai Racconti della Kolima, bensì dagli appunti di Irina Sirotinskaja. Un testo di cinquecento pagine messo in scena con venti quintali di ferro ! Fabio: Esiste dunque una continuità, negli spettacoli precedenti, rispetto a questa idea di bellezza. Bruna: Pur con modalità diverse, questo fatto della sottrazione è sempre stato presente, fino al punto di lasciare accadere nello Stratagemma n. 1 qualcosa di temibile: il non senso. Pur in maniera non del tutto consapevole, ci siamo abbandonati a ciò che capitava in quel momento e realizzava in pieno il nostro interesse, radicalizzandolo e portandolo alle estreme conseguenze; abbiamo creato una scenografia concettualmente "perfetta": sei stanze blu, e ogni blu aveva una gradazione diversa; in mezzora di spettacolo unattrice, da sola, recitava un lungo pensiero di Schopenhauer. Il corpo dellattore in scena manteneva un rigore ineccepibile, sottolineato da movimenti perfettamente simmetrici. Un lavoro teatrale come ricerca di uno stato di vuoto, che ci permettesse di incontrare quella bellezza "pura" che non ha niente a che fare con la figura. È stato lincontro con Simone Weil a suggerirci questa direzione: lattenzione come stato di grazia, la bellezza come stato di vuoto. Eravamo arrivati quasi a un punto di non ritorno Fabio: Se la ricerca della bellezza è generalmente intesa come un atto propositivo, la vostra sottrazione non riguarda unicamente i termini estetici in cui essa si dispiega, ma anche e soprattutto il suo immediato verificarsi. Daltra parte, lavorate sullo spettacolo inteso come macchin-azione, anche ad un livello microscopico, in cui è concesso al pubblico di cogliere la bellezza nel piccolo gesto, nel particolare di un volto. Nel vostro video L, che condensa efficacemente in pochi minuti unattitudine poetica, ho notato molti segnali di questo genere: lattore che appare e scompare, le azioni rubate Bruna: Soprattutto nel Poema della forza, la macchina era molto complessa: una grande calamita, con cui si potevano spostare oggetti attraverso le pareti, come nei cartoni animati. Ebbene, in questa enorme macchina, illuminata con una luce bianca in modo da fare risaltare il rosso acceso e lucido della scenografia, così lucente da potersi specchiare, lattore doveva semplicemente aprire una mano con le spalle rivolte al pubblico: unimmagine ferma, con un significato implicito. Perciò, la grandezza della macchina amplificava ogni gesto semplice, facendolo diventare enorme, anche attraverso la dilatazione del tempo. Ognuno era libero di entrare in questo tempo dello spettacolo. Fabio: Infatti, un altro elemento molto interessante nel vostro teatro è proprio la dilatazione del tempo e perciò dello sguardo; lasciare il tempo allo sguardo, affinché si possa appoggiare sui fenomeni indicati dallo spettacolo. Lo spettatore organizza ciò che gli permette la propria qualità percettiva. Febo Del Zozzo: Personalmente, non ho alcun interesse a dare allo spettatore una codificazione esatta dello spettacolo, dargli la chiave della sua comprensione. È un problema di linguaggio. Il mio modo di lavorare non aderisce ad una "volontà" di esprimere, non contestualizza una data situazione espressiva o il suo specifico funzionamento. Un po egoisticamente, lascio allo spettatore la possibilità se è disposto di cogliere un mondo. Se vogliamo, è anche un discorso elitario Bruna: Come hai visto in L, tutte le nostre scenografie sono stanze, ambienti, spazi con limiti molto precisi, illuminati altrettanto precisamente. Nulla è lasciato al caso: dal punto di vista visivo, tutto è piuttosto rigoroso, geometrico. Diversa e opposta è, invece, la prospettiva data al linguaggio di ciò che accade dentro lo spazio. Fabio: Pensando ad L, questo in qualche modo esplicita la tensione interna del vostro lavoro ad organizzarsi in immagini, perché dà la possibilità a ciascuno dei vostri spettacoli di creare delle intensità forti su singoli frames. Anche nel video, dunque, si produce quellapertura di senso di cui si parlava prima, determinata forse anche dal montaggio, dalla casualità? Bruna: Certo, nel momento in cui metto in relazione due cose che apparentemente non possiedono alcun senso comune, come il testo e le immagini. Fabio: Come sono state scelte le immagini? Bruna: Le frasi non hanno un diretto legame con le immagini che si vedono. Ci sono momenti in cui emergono delle similitudini basate su altre cose. Per esempio, il fatto che ci sia una signora anziana che parla delle mele, crea unassonanza con il lavoro sulla signora anziana di Esagera. È un "metodo" in parte casuale. Abbiamo scelto di montare le immagini del nostro lavoro in modo tale che lopera finale avesse un senso compiuto, aldilà di Laminarie, oltre il fatto che le immagini fossero state prodotte e appartenessero alla nostra storia. Il video doveva essere un oggetto artistico "in sé". Una delle idee iniziali fu di selezionare lo stesso "oggetto" nella serie dei diversi spettacoli una mano, un viso qualcosa che passasse trasversalmente sulla superficie dello schermo. Ciò nasceva dalla particolarità espressiva delle persone che appaiono nei nostri spettacoli. Poi, durante la lavorazione, abbiamo scelto direi quasi casualmente, senza dargli troppa importanza il film di Lars Von Trier Lelemento del crimine come elemento di raccordo. Non esiste un legame specifico tra la storia del film e quella di Laminarie. Febo: È un metodo che riconduco agli incontri avuti durante la realizzazione dei nostri spettacoli. Tu misura assoluta di tutte le cose aveva al suo interno un testo di Kafka. Lo spettacolo però non è partito dalla lettura della sua Lettera al padre: abbiamo creato prima una situazione teatrale di oppressione, di gravitazione, di schiacciamento, di peso su due figure. Siamo partiti, cioè, da un principio fisico. Poi, nei due mesi successivi, abbiamo lavorato anche sulla voce, dalla gravitazione fisica alloppressione metaforica, politica. Il testo era lì, è stata la disponibilità ad una coincidenza, così come lincontro con Lino Greco per la realizzazione del video. Bruna: In realtà, nel nostro lavoro teatrale usiamo il video con molta cautela: tranne una sola volta e per motivi documentari, non è mai intervenuto allinterno di un nostro spettacolo. Penso che il video sia unopera darte a sé, un linguaggio che non deve invadere il lavoro teatrale. Va usato con molta attenzione. Lino Greco, che ha curato insieme a noi le immagini di L, è una persona che conosciamo dal 1997, ci ha seguito per molti anni. Il merito di questo video è in gran parte suo. Febo: Ha saputo cogliere e coniugare il nostro lavoro. È faticoso, per noi, trovare la chiave di volta per racchiudere la nostra storia si rischia di cadere nella trappola autocelebrativa del "raccontarsi". Per noi era un problema Bruna: Per me era anche divertente un giallo! Fabio: Nel frattempo, mi sono venuti in mente due percorsi. Se il percorso tra le suggestioni letterarie e lo spettacolo spesso non è immediato, sempre depistante e depistato, sarebbe importante descrivere il momento della coincidenza. Poi, ragionando ancora sulla bellezza, mi pare che nei vostri spettacoli loggetto soverchi lo sguardo, acquisti una specie di autonomia malata, che svela in qualche modo la radice "raffaellesca" del vostro lavoro. Loggetto in scena non è mai neutro o conciliante. In questo senso vedo una volontà schopenaueriana, una sorta di corrente autonomizzante delloggetto. Riguarda la capacità delloggetto di rappresentarsi Bruna: Su questa qualità delloggetto
non posso che risponderti affermativamente, è abbastanza
evidente. Gli spettacoli hanno tutti genesi molto diverse
e tuttavia comuni. Solitamente, la genesi parte da Febo e
dallimmagine che Febo ha di un oggetto. A parte
rari casi Serpenti e Bisce, a cui stiamo
lavorando, ha una direzione testuale inedita a noi
sconosciuta succede come in Tu misura assoluta
di tutte le cose: si parte da una dimensione fisica
per poi incontrare un testo. Esagera, invece, è
nato diversamente, abbiamo letto il romanzo di alamov e
poi abbiamo creato lo spettacolo. Però, sia avvenga
prima lincontro con un testo, sia con uno stato danimo
o unimmagine, alla radice dellatto creativo cè
sempre loggetto. Fabio: Come distinguete i ruoli allinterno della creazione degli spettacoli? Bruna: Sono stata più attrice di Febo quando lui stava più fuori dalla scena. Quando Febo è in scena, io intervengo maggiormente nella regia, senza però decidere, per esempio, sulla scenografia. Dipende dal lavoro. Sono sicuramente legata più di Febo alla scelta dei testi, mentre per lui è più importante laspetto visivo e artigianale. Febo: Il mio impegno registico sta procedendo ora verso un diverso modo di lavorare con le attrici. Sto esplorando il concetto di "unisono", la dizione del testo in una forma gestuale "corale". Bruna: È una questione direi più visiva e tecnica. Febo: Per me, tutto deve avvenire di getto sullo spazio. Il testo viene modulato dagli attori senza organizzarne preventivamente la modalità di dizione. Li spingo a reagire immediatamente e velocemente sulla scena, dando loro stimoli, codificando le loro risposte, facendo in modo che le intuizioni aderiscano bene a loro stessi. Bruna, invece, lavora diversamente, è più metodica. Bruna: E stiamo lavorando allo stesso spettacolo, con le stesse persone, ma con una tecnica completamente diversa ! Secondo me, Febo ha una tensione forte, determinata e coraggiosa da un punto di vista tecnico e realizzativo. Non sarei in grado di fare lo stesso, e non solo per una questione tecnica: non ho la sensibilità giusta. Febo riesce a ricreare per la scena una stanza vista in una figura, con venti quintali di ferro, come per Esagera. Ha in mente con estrema precisione il risultato finale. Così come per me è più facile agganciare una scena ad unintuizione letteraria, come per lo Stratagemma palermitano. Fabio: È unidea di montaggio Bruna: Sì, appunto. Febo lavora più per immagini emotive e visive, che poi hanno bisogno di una messa a punto. Fabio: La definizione di "attore" non corrisponde precisamente alle necessità del vostro lavoro. Non sarebbe opportuno neanche chiamarlo "performer" Alle volte rientra in maniera visibile nel terreno della pura funzione, altre diviene puro strumento. Febo: Questo è molto importante. Le volte in cui ho fatto lattore, io non mi sentivo tale. Mi sentivo piuttosto uno strumento essenziale alla codificazione di una dimensione rappresentativa. Agisco in scena per modulare, per dare ritmo. Questo è per me lattore: dare ritmo allazione. Bruna: Da qui la necessità di togliere. Lintensità del camminare, o di un volto, sono fatti reali e importanti nel nostro universo teatrale. Nel momento in cui lattore si pone come interprete, e quindi entra nel palcoscenico con questa idea di interpretazione, non si abbandona allidea del vuoto, non è più uno strumento. Non nel senso di interpretare il vuoto, ma in quello di rimanere a disposizione della necessità del progetto. In una dimensione di vuoto, lattore elimina tutta una serie di strutture che precedono lazione. Qui entra in gioco quel concetto che non sappiamo mai come definire di "energia". Febo: La tensione oratoria di un testo è in stretta relazione con la sua controparte corporea. È lattore che deve innervare fisicamente questa tensione con qualcosa di proprio. Il gesto in sé non ha alcun valore. Bruna: Quando recitavo in Tu misura di tutte le cose, per rendere lidea del testo senza volerlo interpretare mi disponevo in una posizione per la quale la respirazione era fisicamente pressoché impossibile. Si arrivava ad una tensione emotiva attraverso una tensione fisica. Ero in una posizione tale che le parole faticavano ad uscire. Fabio: Ma la latente privazione a priori di uno stile non genera comunque un altro stile? Bruna: Però questaltro stile non è generato dal desiderio edonistico dellattore. È un attore che esprime la propria presenza, la propria forza, la propria energia attraverso le cose che fa, che non sono di tipo declamatorio, che non sono di tipo convenzionalmente tragico. Febo: Sono di tipo tragico "non esplicitato". La tragedia passa senza che questa si espliciti in un testo. Fabio: Però così non si corre il rischio di avere come termine di confronto solo la convenzione? Bruna: Non so se sia la convenzione. Comunque provo sempre un forte fastidio di fronte a quello che io chiamo "lattore che recita". È una sensibilità fisica. Fabio: Tutto il discorso sulla sottrazione che abbiamo affrontato fino a questo momento, mi pare porti vicino a vostri "padri", allidea di "soma", allindividuo oggettivato che si esprime nel suo mostrarsi Bruna: Tutto quello che stiamo dicendo adesso è totalmente messo in crisi nello spettacolo nuovo. Credo non andremo contro lo spettatore così come avevamo fatto in Eudemonica, che raccoglieva i tre "stratagemmi". Ciò non significa che non ci sia da parte nostra un grande affetto e una grande stima nei confronti degli attori quando questi uniscono al talento lessere "operai", il sapere costruire lo spettacolo. Purtroppo sono pochissimi: la maggior parte degli attori desidera mostrarsi al di sopra dello spettacolo, e in questo mostrarsi trasmettono principalmente la propria figura. Credo invece che chi fa teatro oggi abbia bisogno di nutrirsi di altro dal teatro. Da un lato, sento la necessità di parlare e avere un confronto con chi si occupa di teatro, quasi rispondesse ad un desidero innato di comprendersi attraverso lo sguardo del proprio simile; dallaltra però sento il bisogno di allontanarmi fortemente dal teatro, perché questa visione costante mi farebbe ammalare. Spesso laspetto visivo di uno spettacolo deriva direttamente da esperienze nel campo delle arti visive. Il nostro lavoro, per esempio, ha molto a che fare con lopera di Malevic. Fabio: Lidea drammaturgica che sostiene i vostri spettacoli non ha paura di confrontarsi apertamente con il silenzio. Che valore ha per voi la noia? È una ricerca? Mi riferisco alla noia "adorniana": di fronte al vuoto, alla piccola morte del silenzio, questa ti dà anche la possibilità di percepire con nettezza lesperienza del trascorrere del tempo. Bruna: Il sonoro, così come il silenzio, sono diventati per la creazione teatrale elementi fondamentali. In Esagera ci sono pochissime e brevissime parti di silenzio, e lunico minuto di vero silenzio precede la parola "esagera". In realtà, io mi annoio in quegli spettacoli in cui in ogni momento succede qualcosa. Mentre il mio ideale di noia è quello che sopraggiunge dopo avere oltrepassato una certa soglia. Quando in scena hai davanti una persona che sta in silenzio: il primo minuto sei incuriosito, il secondo dici "aspetterà qualcosa", il terzo ti preoccupi, il quarto pensi "perché fa così?", il quinto sei in una dimensione straordinaria. Se insieme stiamo in silenzio per cinque minuti, in questo tempo creiamo unalta qualità di esperienza luno dellaltra. Fabio: Ma cè in voi una volontà provocatoria? Bruna: Non so se sia provocatoria. Fabio: È dunque una dimensione poetica? Bruna: Non partiamo dalla volontà di provocare. È però certo che quando lo spettacolo è finito, quando si vedono gli spettatori, si è totalmente consapevoli di ciò che si è fatto. Febo: In Stratagemma n. 1 ero consapevole del rigore con cui avevamo costruito lo spettacolo. Bruna era terrorizzata: ero dentro questa dimensione in maniera totale e aderiva completamente al mio desiderio di quel momento. Fabio: Comunque siete consapevoli della risposta del pubblico. Quanto agisce questa presenza sulle vostre scelte artistiche? Febo: Niente, ma non nel senso di una mancanza di considerazione. Al contrario, il nostro è una speranza francescana di generosità un dono. Bruna: La consapevolezza del pubblico entra in gioco quando questa presenza ti dà il punto della tua maturità. Quando senti lesigenza di avere qualcuno davanti a ciò che stai facendo, vuol dire che lo spettacolo ha raggiunto la sua maturità, e te ne devi liberare. Però in Esagera cè una cosa che non avevamo mai fatto negli spettacoli precedenti, direttamente legata al pubblico: la didascalia iniziale. Buio: "Signore e signori, vedrete alcuni momenti della vita di Varlam alamov ". È un liberarsi la coscienza! Fabio: Si pensa sempre che il pubblico, prima di tutto, conservi nellaspettativa dello spettacolo una traccia narrativa. Questo elemento entra nella vostra riflessione sulla consapevolezza del pubblico? Oppure date per scontato che sia abituato ad un certo tipo di modalità espressiva, per la quale è "normale" rompere la catena narrativa e scomporre lo spettacolo per ricostruirlo attraverso priorità più immediatamente visive, per immagini forti? Bruna: Questo è un punto non secondario, anzi, fondamentale. Noi siamo un teatro senza spazio, non per scelta ma per impossibilità economica. E questo determina profondamente la nostra attività produttiva. Non possiamo permetterci di pagare un capannone. Esagera è uno spettacolo nato in un momento di gloria, in cui ci potevamo permettere di pagare il noleggio di un capannone amplissimo, dove siamo stati il tempo che ritenevamo necessario, lavorando in completa autonomia. Questa condizione ci ha permesso di realizzare quel tipo di lavoro. Ogni spettacolo, e dunque il suo pubblico, risponde alle necessità e ai luoghi concreti di ciascuna realizzazione e committenza: Palermo per lo Stratagemma n. 2, un particolare giardino per La guardiana delle oche, la Bulgaria per Eudemonica Febo: Se hai a disposizione dei mezzi economici, puoi provare un materiale, e magari buttarlo se non corrisponde alla tua idea creativa. Noi invece dobbiamo sapere fin dallinizio ciò che ci serve. Fabio: Però può diventare una risorsa se sai rilanciarne il senso in modo originale. Bruna: Nel nostro caso è diventato una risorsa per vivere. O smetti di occuparti di teatro, oppure trovi una soluzione alternativa che ti permetta di salvaguardare ciò che ti interessa maggiormente. Quindi questo diventa precisamente un modo di lavorare. Fabio: La prima volta che ho visto un vostro spettacolo, ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte ad un processo artistico molto definito, con unidentità scolpita e una pregevole maturità di linguaggio. Mi avevano poi colpito alcune vostre dichiarazioni di poetica intorno ad Eudemonica, per la nettezza delle affermazioni. Bruna: Quando abbiamo scritto quelle parole, volevamo fare piazza pulita del passato cercavamo, in un certo senso, dopo quella sorta di dichiarazione didentità che era stata Tu misura di tutte le cose e lincontro con Simone Weil, di ricominciare da capo. Ma nel momento in cui desideri gettare via tutto, devi salvare le cose più significative, altrimenti non ti rimane niente. Quindi la nostra ricerca è ripartita dal gesto semplice, dalla punteggiatura. Abbiamo lavorato su piccole cose, utilizzando i testi senza che questi sembrassero avere alcun significato. Insomma, crediamo di avere avuto il coraggio di denudarci, per tentare la scoperta di un nuovo linguaggio che ci appartenesse in modo esclusivo. Febo: Allora eravamo in una condizione di cambiamento fisiologico. Lo svuotamento di cui parlano Schopenhauer o Jouvet coincideva con una nostra situazione personale, come compagnia teatrale, di completo disagio. Quando sei letteralmente "in mezzo a una strada", la rabbia ti porta neanche troppo coscientemente a eliminare tutto ciò che non è strettamente necessario, rimanendo però nel terreno del teatro. Questo aspetto quotidiano e concreto ha generato una condizione di lavoro.
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