Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia - 1/2002
Prove di Drammaturgia

SANDRO LOMBARDI: IL MIO TESTORI

a cura di Gerardo Guccini

Premessa

L’incontro di Sandro Lombardi col teatro di Testori è forse il momento più denso e significativo d’un multiforme rapporto con la scrittura d’autore (sia questa teatrale oppure no), che affonda le radici nella preistoria dei Magazzini - la storica formazione fondata da Lombardi, Tiezzi e Marion D’Amburgo - per evidenziarsi quale centrale materia scenica negli spettacoli della Compagnia Lombardi-Tiezzi, nata nel 2001. Lombardi e Tiezzi hanno affrontato Beckett e Müller, attraversato la cantiche dantesche con la scorta dei poeti Sanguineti, Luzi e Giovanni Giudici, e ricostruito con precisione il delicato meccanismo teatrale delle battute di Cechov e Bernhard; eppure, è soprattutto in Testori – l’autore che hanno più frequentato e ripreso – che i nostri si sono come imbattuti in una meta corrispondente alle pulsioni e agli intenti della loro stessa ricerca. E cioè in una poesia verbale del teatro, che contamina, potenzia e sovrappone le funzioni essenziali della narrazione scenica – il personaggio, l’autore, l’attore cui questi pensa e quello che sta realmente in scena – risolvendole in flussi di parole pervasi da un immaginario italiano (che non si riscontra in altri campioni dell’espressione metateatrale, da Genet a Müller, particolarmente cari ai Magazzini). L’immaginario italiano di Testori è manzoniano, gaddiano, fatto di soubrette, d’avanspettacolo, di comici scarrozzanti, di signore bene, d’amori beceri e di passioni totali, di spericolate oscillazioni linguistiche, di carni spasimanti e cattolicità, di figure secentesche dove il senso mistico dell’Agnello si scioglie in un’abbondanza sacrificale di corporeità bovina. Il tutto, pulsioni, etica, gusto, racconti, rivelazioni e paradigmi, visto come attraverso un frutto nostrano: ad esempio, il melone del quale Bruno Barilli riconosceva i caserecci sentori nell’Egitto dell’Aida. Questo teatro ha consegnato a Lombardi una polifonia di voci talmente articolata ed estesa da implicare e racchiudere, quale supporto d’una tecnica esecutiva necessariamente abnorme, la biografia stessa dell’interprete: la sua attitudine a pensare e ad essere dentro e fuori l’autore, dentro e fuori il personaggio, dentro e fuori se stesso.

La conversazione che segue si è svolta nell’ambito della stagione del Centro Teatrale La Soffitta il 14 febbraio 2002, ed ha avuto per oggetto la presentazione del cofanetto con doppio CD e libro TESTORI. La pietà e la rivolta. Il teatro di Giovanni Testori negli spettacoli di Sandro Lombardi e Federico Tiezzi (a cura di Giovanni Agosti). Il discorso, come si vedrà, oscilla fra Testori e L’apparenza inganna di Thomas Bernhard, rappresentato la sera prima e, quindi, particolarmente presente a convenuti e relatori. Ora, però, vorrei introdurre le fondamentali osservazioni di Lombardi sul rapporto fra l’attore e il testo, esponendo – com’è tratto caratteristico della nostra rivista – le fasi storiche che hanno portato i Magazzini da una teatralità d’immagine all’espressione della poesia verbale del teatro. Tra fasi e momenti di svolta mi sembra di poter individuare quattro distinti segmenti, che descrivono come in Lombardi e in Federico Tiezzi siano gradualmente riemersi, pur attraverso il vissuto spessore dell’avanguardia teatrale, strati d’immaginario originariamente forgiati dalla scrittura dei grandi Autori – "maestri" assimilati e, pure, impossibili da seguire per l’artista di teatro immerso fra i conflitti e i pungenti valori del tempo presente (mi riferisco agli agitati anni Settanta) e, per di più, alle prese con l’esigenza di scoprire il proprio peculiare linguaggio.

Negli anni Settanta, i Magazzini (allora Carrozzone, poi Magazzini Criminali, poi Magazzini) sono una delle formazioni d’avanguardia più imitate e seguite. Le loro provocazioni, le loro invenzioni terminologiche, le immagini dei loro spettacoli – che si incidono sprigionando tenaci valenze simboliche – e il particolare tipo d’artista teatrale cui danno vita (impegnato ed elitario, attento all’immagine e alle necessità profonde, capace di promuovere il ‘senso’ dell’opera come di difenderne i segreti) incontrano i gusti dei pubblici di nicchia e, più generalmente, la sensibilità dell’ultima generazione. Ben poco, negli eventi scenici, divisi tra gelida notomizzazione analitica ed estroversione dinamica attinente alla body art, fa trasparire l’immanente lezione dei signori della scrittura, che, invece, risulta nelle dichiarazioni di poetica, nelle note, nelle indicazioni, nelle descrizioni progettuali di Tiezzi, di Lombardi, di Marion D’Amburgo: un mondo di bruciante intensità letteraria che brilla negli apparati esplicativi e d’accompagnamento. È certo che se i Magazzini hanno deciso di esistere nello spessore della visione, sanno anche motivare le loro scelte impugnando la penna del letterato. Scrive Tiezzi nei Frammenti del carrozzone: i presagi (1972-1976): "Ci siamo conosciuti quando ci siamo travestiti". E poi: "Costruire un costume è come percorrere un viaggio, ripassare attraverso le tappe di un sogno, è un’operazione volontaria e inconscia; è come tessere una tela in cui sia contenuta idealmente tutta la traccia d’uno spettacolo; in esso vi sono tutte le possibili indicazioni per una lettura". "Il costume crea la prima magia, nell’occhio dello spettatore"1.

Secondo segmento. Nei primi anni Ottanta i Magazzini (allora anche Criminali) compiono con la trilogia Perdita di memoria un percorso che li porta a "reintegrare il testo letterario nel tessuto spettacolare, risolvendo in modo nuovo la complessa sperimentazione visiva e musicale da cui [il loro teatro] era nato" (Pier Vittorio Tondelli). Quadri, sempre attentissimo alle evoluzioni dei gruppi storici e ai movimenti genetici di quelli di nuova formazione, riconosce in questo ‘percorso’ un "viaggio verso un’altra conquista nel territorio della letteratura", dove gli artisti degli anni Settanta "ritrovan[o] tutt’insieme la parola, il testo e il gusto del racconto".

Il terzo segmento consiste in un episodio di straordinaria intensità. Nell’estate del 1985, in occasione del Festival di Santarcangelo, i Magazzini rappresentano il loro Genet a Tangeri in un macello comunale, facendo coincidere il brano sull’eccidio dei palestinesi di Sabra e Chatila con l’abbattimento (del resto, già programmato) di un cavallo per mano degli operai del macello. Lo scandalo è immenso. Pier Vittorio Tondelli, in un testo poco noto e recentemente ricordato da Massimo Marino sulle pagine di questa rivista (2/2001, p. 26), segnala il significato culturale e politico della polemica: "Come fu chiaro dai molti, e deliranti interventi che si susseguirono nell’estate del 1985, colpendo [i Magazzini], ostracizzandoli, insultandoli senza cercare minimamente di capire, in realtà si tagliavano le gambe a tutto il nuovo teatro italiano, alle formazioni della cosiddetta ‘postavanguardia’ o ‘teatro della nuova spettacolarità’"2. Tondelli commenta i fatti con piena cognizione di causa. Nell’85, aveva infatti partecipato al dibattito con un lungo articolo sulla terza pagina del "Corriere della Sera". In questa specie di intervista, Tiezzi, per la prima volta, enuncia Testori fra i suoi punti di riferimento. Era una provocazione ulteriore, che s’inseriva nel grande scandalo suscitato da Genet a Tangeri, punzecchiando proprio il fronte degli amici, dei sostenitori, fra i quali era forte l’ostilità per l’autore lombardo, la cui ricerca, in quegli anni, "correva parallela e apparentemente organica al movimento di Comunione e Liberazione" (Giovanni Agosti). Si ha l’impressione che i Magazzini, in quel frangente, abbiano deciso di reagire all’ondata di critiche al limite del linciaggio, suscitando, eccitando, provocando intorno a loro la massima estensione di rifiuto possibile. Un modo radicale per costringersi a cambiare pelle e trovare nuove strade.

Sandro Lombardi ama citare questo passo di Forster: "Le nostre foreste finirono catastroficamente e inevitabilmente. […] Oggi non ci sono selve o brughiere dove fuggire, […] o valli abbandonate per coloro che non vogliono né riformare né corrompere la società, ma semplicemente essere lasciati in pace". Credo che, accentuando l’integrazione fra tessitura spettacolare e testo, i Magazzini abbiano più o meno consciamente perseguito il disegno di piantare sul suolo arido della terra disboscata la selva protettiva ed infera delle opere letterarie e dei loro personaggi. Veniamo così al quarto, vitalissimo segmento, che coincide per l’appunto con tale operazione. Il 1988 è l’anno di due spettacoli del drammaturgo tedesco orientale Heiner Müller: Hamletmachine (indimenticabile la scena in cui Lombardi/Ofelia ruota su se stesso mentre i compagni spalano una terra umida e scura sul suo bianco abito nuziale) e Medeamatirial. Nel 1989 inizia il progetto sulla Divina Commedia che affida la riscrittura delle cantiche a tre poeti contemporanei. Poi viene Testori.

I Magazzini riprendono il lussureggiante repertorio testoriano senza seguirne l’ordine di composizione. Testori scrive L’Ambleto nel 1972, trovando in Franco Parenti un interprete meravigliosamente organico al suo linguaggio, che - come scrive Lombardi - reinventava in chiave barocca il "mondo tragico, grottesco e disperato di un’accolita di guitti plebei". La collaborazione prosegue con il Macbetto (1974) e l’Edipus (1977), il terzo testo della trilogia, dove, di tutta la compagnia dei guitti è restato solo il capocomico; il dramma –

avverte l’autore – "è scritto in versi, in un italiano un po’ da palinsesto, un po’ più indietro e insieme un po’ più avanti del linguaggio quotidiano". Infine, Testori compone i Tre lai (Cleopatràs, Erodiàs, Mater Strangosciàs) nell’anno 1992, l’ultimo della sua vita. Nella sua stanza di ricoverato all’ospedale San Raffaele di Milano, l’autore si congeda valutando i poteri della parola, magmatica, sonora, grondante umanità e teatro, eppure così evanescente e duttile da poter essere assieme tutto ciò e poesia pura. Testori pensa come interprete ad Adriana Asti.

I Magazzini, ripercorrendo questo tratto di repertorio, incominciano da Edipus (1994), e cioè dalla solitudine del capocomico, che celebra la morte di un teatro facendolo rinascere, si spingono fino all’affabulazione estrema dei Tre lai, affrontati in due distinti momenti: Cleopatràs nel 1996, Erodiàs e Mater Strangosciàs nel 1998, e chiudono il cerchio con il ritorno all’Ambleto (2001), che rappresenta l’approdo di Tiezzi e Lombardi al lavoro in cui venne forgiata una delle lingue più teatrali che esistano.

Anche Bernhard è una delle forze che ha fatto riemergere la parola nel percorso dei Magazzini. Tiezzi desiderava mettere in scena un suo testo fin dagli ultimi anni Ottanta. E già in Ritratto dell’attore da giovane (1985) figuravano, in una fantasmagoria di riferimenti, da Tessa e Pasolini alla mitologia privata del Marocco, omaggi all’autore di Minetti, il testo che Bernhard ha dedicato al grande attore Minetti. La realizzazione di Lapparenza inganna (2000) corrisponde dunque ad un immaginario coltivato nel tempo, e riporta i Magazzini negli spazi fuori dal teatro, abbandonati già alla fine degli anni Settanta con l’eccezione del Genet a Tangeri di Santarcangelo, recitato, come s’è detto, in un macello comunale; lo spettacolo, infatti, si svolge in appartamenti veri e distinti l’uno dall’altro, che, attraversati dalle parole dell’attore, rinascono teatro.

La conversazione che segue (Bologna, 14 febbraio 2002) era iniziata con l’ascolto di alcuni brani della Cleopatràs, dove la voce dell’attore oscilla fra parlato e canto. Durante il colloquio sono stati ascoltati e commentati altri brani dei Tre lai; per rimediare il più possibile alla loro mancanza, e consentire al lettore di seguire il filo del discorso, ho qui riprodotto il corrispondente testo letterario nella versione recitata, con le indicazioni dei tagli e delle parti aggiunte, riportate tra parentesi quadre.

Gerardo Guccini

NOTE

1 - Cito da Franco Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia. Materiali 1960-1976, II, Torino, Einaudi, 1977, p. 501.
2 - Pier Vittorio Tondelli, Un weekend postmoderno, Milano, Bompiani, 1998, p. 236.

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Sandro Lombardi: Cleopatràs fa parte del trittico che Testori ha scritto negli ultimi mesi di vita, proprio, fino agli ultimi giorni. L’ultima datazione, annotata di sua mano, è del 16 marzo 1993, il giorno in cui è morto. Si chiama Tre Lai ed è composto da tre lamenti funebri immaginati per tre personaggi storici che sono Cleopatra, Erodiade e la Madonna. Adottando questa lingua lombardobrianzola che avete sentito, Testori si fa trasportare in una realtà diversa da quella dei personaggi, per cui Cleopatra è una soubrette brianzola che ricorda i bagni nel lago, che ricorda i pasticcini. Sono canti di morte che diventano straordinari inni alla vita; insomma, c’è una vitalità, un amore per la concretezza materiale della vita proprio in tutti i suoi aspetti più concreti: il sesso, i cibi, le vacanze, i bei vestiti... L’idea d’una Cleopatra che si paragona a Marlene Dietrich e a Greta Garbo, mi sembra veramente molto bella. È stato, per me, uno dei principali motivi di attrazione verso questi Tre lai. Facendoli, non mi sono posto neanche lontanamente il problema del travestimento o del sesso – i personaggi sono femminili – perché attraverso queste tre maschere, queste tre figure parla in realtà l’autore, parla proprio Testori, l’io dell’autore, Testori in prima persona, quindi ho deciso di farli senza travestimento alcuno, vestiti da uomo. Federico era affezionato a quella figura di guitto lunare che avevo creato per l’Ebdòmero di Giorgio De Chirico e che avevamo ripreso già per l’Edipus: frac, bombetta, valigia consunta, volto bistrato, andatura lievemente claudicante. Una maschera che avevo voluto spettrale e lunare, ma con venature sbracate e plebee, ispirate al Vernacchio di Fanfulla nel Fellini-Satyricon. I Lai sono anche tre modi diversi di raccontare l’amore, tre modi diversi di rapportarsi al mistero dell’amore. Il mondo di Cleopatràs è, anche linguisticamente, tutt’altra cosa di quello di Maria. E fra le due c’è Erodiàs, che è la mia preferita.

Ascoltiamone la fine: Erodiàs continua nel delirio a invocare la testa mozza di Giovanni Battista, è completamente scoppiata e quindi ho sentito il bisogno di immergere le parole del testo in un magma vocale da cui affiorano frammenti di memoria, borbottii... canti…

Questo momento è il passaggio tra la fine di Erodiàs e l’inizio di Mater Strangosciàs. Dai Tre lai abbiamo tratto due spettacoli: il primo era dedicato esclusivamente a Cleopatràs; il secondo riuniva i due rimanenti per tutta una serie di motivi drammaturgici e narrativi: l’unico ambiente, la Palestina... Maria Vergine, Giovanni Battista, Gesù... All’interno d’una formula drammaturgica comune, i Tre Lai presentano uno iato tra l’Egitto shakespeariano della Cleopatrassa e la Palestina biblica dell’Erodiassa e della Mater strangosciada. Qui è comune il riferimento neotestamentario, e lo sfondo d’una Palestina che, come già l’Egitto di Cleopatra, prende vita tra i laghi alpini e gli orizzonti milanesi. Comune è inoltre la presenza del dialogo. Questo fa sì che l’estrema, monolitica solitudine di Cleopatra si apra alle voci che affollano il delirio di Erodiade che, seppur non ancora in grado di comprendere un punto di vista diverso dal proprio, tuttavia resta turbata dal suo stesso manifestarsi nelle parole di Giovanni. Questo movimento d’apertura si completa nella disponibilità di Maria a dire di sì alle richieste, anche le più difficili e apparentemente incomprensibili, che la vita le impone. Fra le due parti abbiamo inserito, come ponte e momento di passaggio, lo smarrimento di Erodiàs. I borbottii, i canti e le frasi smozzicate che dice, non sono nel testo; Testori conclude il lamento con Erodiàs che dice le parole che, nel delirio, le sembra di sentire dalla testa mozza del Battista: folle di dolore, pentita, ma ancora selvaggiamente rancorosa nei confronti di Giovanni, nel delirio lo sente suggerirle che l’unica sua salvezza consiste nell’aspettare "la lamentada della mater strangosciada". Dovevo quindi risolvere in qualche modo questo passaggio, questa trasformazione a vista di Erodiàs nella Madonna: ho immaginato un delirio pre-verbale o comunque regressivo in cui le parole si smozzicano diventando un borbottio incomprensibile e poi da questa realtà destrutturata emergono dei frammenti di memorie. E sono, prima, la canzone Haba Naguila che avevamo utilizzato in precedenza per la danza dei sette veli, e che iscrive quindi nel delirio un ricordo legato alla memoria recente di quello che è successo; e poi La prima stella che è una canzone popolare lombarda. Neanche questa è indicata dal testo, è solo una canzone che piaceva molto a Giovanni Testori, una vecchia canzone popolare della fine dell’Ottocento che mi sembrava potesse evocare una dimensione infantile, la dimensione di un ricordo molto più lontano e che in qualche modo serve a trasformare in scena l’identità dell’attore, che fino a quel momento è stato Erodiàs e che diventa la Madonna. Infatti, la situazione si svolge senza soluzione di continuità e l’attore comincia il lamento di Maria Vergine "O mio creato" eccetera... [El mon amur
el dise
de specciar:
l’udite voi
de giù?
E io speccio…]
[Hava naguila
v’nism’cha.
Hava n’ran’na
v’nism’cha.
Uru uru ach’im
b’lev saméach…]
[ Quando vedrai brillar la prima stella,
ricordati di me, bambina bella.
Mi sembrerà di stringerti sul cuore
come facevo allora, amore amore…]

Gerardo Guccini: Circa l’unione dei due lai, fra lo spettacolo e la spiegazione che si può leggere nel libro annesso al CD, c’è una piccola contraddizione. La motivazione drammaturgica spiega l’abbinamento dicendo che Erodiàs e il lamento della Vergine esprimono due modi completamente opposti di concepire l’amore e anche il suono della lingua: uno completamente barocco, ricco, musicale e l’altro, quello della Vergine, più umile e più umano. E, in effetti, questa contrapposizione, oltre che al livello sonoro, era evidente anche al livello visivo nello spettacolo; non però nel finale, dove la Vergine che prima avevamo visto come donna umile e voce lamentante, viene, fuor di metafora, rimessa sugli altari: addobbata, illuminata, circondata da fiori, una Santa dall’anima barocca.

Lombardi: Sì, sì, ma il teatro è il luogo delle contraddizioni e della logica dei contrari, come diceva Grotowski. In teatro non è vero che due più due fa quattro: è un territorio strano in cui a volte funzionano delle logiche imperscrutabili che sembrano sovvertire misteriosamente le leggi della natura... Ad esempio, in Edipus, in tensione vibrante con aspetti di patetica comicità, ribolle il cuore oscuro della visionarietà testoriana, dove incesto, anarchia, pulsioni regressive, voluttà del sangue e della morte, anelito a una sessualità incontaminata delle origini ne costituiscono il polo tragico. Tuttavia, proprio ciò che appare massimamente improbabile (l’incesto, l’anarchia, il primitivo e l’incontaminato, la mistica della carne e del sesso), mi ha spinto, quando ho intepretato Edipus e poi Ambleto, a una condizione di grande concretezza, da perseguire non con la rappresentazione diretta di quegli aspetti, ma con un loro allontanamento, cui facesse riscontro la pienezza dell’elaborazione interiore. A volte, in presenza d’una realtà espressiva che rompe gli argini della norma, è nella più evidente falsità che s’insinua una scheggia di vita vera. Non ho cercato di rappresentare l’incesto o la violenza sul padre presenti in Edipus, né, in Ambleto, la regressione al ventre materno e poi al seme paterno. Ho invece cercato di incarnare la realtà d’un attore che ne racconta il ricordo, come si trattasse di vecchie ferite, di passioni sopite che, alle luci della ribalta, si riaccendono come in una lanterna magica e restano in bilico sull’abisso: da un lato pare stiano per riaprirsi in tutta la loro virulenza, dall’altro sono già consegnate al nulla.

Guccini: Mi sembrava essenziale allo spettacolo questo sovvertimento… soprattutto per il sentimento che suscita. E, visto che hai citato Grotowski, ti vorrei porre una questione, che introduce un ulteriore elemento di riflessione. Diceva Grotowski, a proposito delle esercitazioni fisiche sui testi cantati, che, a guidare la performance, poteva essere o la canzone o la tramatura delle azioni fisiche che l’attore impostava a partire dal canto. Se a guidare è la canzone, l’azione deve terminare assieme al canto, se a guidare è invece la tessitura delle azioni fisiche dell’attore, ecco che il termine del canto non è determinante per l’azione, che può proseguire al di là del suo arresto. Io penso che, in un certo senso, la transizione fra la fine di Erodiàs e Mater Strangosciàs sia proprio questo: il proseguimento del lavoro dell’attore sulle sue tensioni fisiche al di là dell’arresto del testo.

Lombardi: Sì, e più esattamente su una tensione emotiva interiore che in qualche modo cambia di segno, ma resta emozionalmente la stessa, voglio dire: io iniziavo in quel canto. Per me, i Due Lai sono stati forse lo spettacolo più forte della mia vita, importante anche come esperienza professionale oltre che umana. Io, lì, sul finire del momento di passaggio, iniziavo a recitare il pezzo di Maria Vergine con una temperatura emotiva che era già scaldata, già portata a quel grado estremo di emozione, quasi di commozione dalla fine di Erodiàs. Quindi non c’era nessuno stacco dal punto di vista emotivo, mentre dal punto di vista del racconto c’era un capovolgimento assoluto perché cambiava il personaggio. Però, nel momento in cui Maria Vergine inizia implorando il figlio - e le prime cose che gli dice, pregandolo di avere dolcezza e pietà per "le dame due / che m’han qui / su quest’istesso palco, / preceduta", dichiarano anche la realtà del teatro – il sentimento, ma più che sentimento io direi, veramente, la temperatura emotiva interiore, era quella che avevo preparato con l’altro pezzo; quindi c’erano uno sfasamento e un ricompattamento curioso, in cui una dimensione passava nell’altra, e però era presente anche lo stacco, il cambiamento. Non so se sono riuscito a spiegarmi: sono aspetti del lavoro dell’attore molto soggettivi e molto al confine tra un piano razionale e una realtà psichicamente oscura, a volte inafferrabile e indefinibile anche a me stesso. Potremmo chiamarli, riprendendo la definizione di Talma, la mente e il cuore, che però non sono mai separati e funzionano solo se continuamente tenuti in corto circuito l’uno con l’altro. Per cui davvero non so se mi sono spiegato.

Guccini: Straordinariamente. E ora, com’è la prassi, chiederei se vi sono delle domande.

Domanda: Tu hai recitato testi di Testori e di Dante confrontandoti alla musicalità della loro lingua, ma hai anche recitato testi tradotti, ad esempio, di Cechov e di Bernhard. Che differenza riscontri fra l’affrontare un’opera originale e un’opera tradotta in una lingua che non è la sua?

Lombardi: Generalmente preferisco lavorare su testi non tradotti perché così ho a che fare con qualcosa di sicuro, qualcosa il cui significato e la sua forma non possono essere messi in dubbio. Lavorando su testi tradotti bisogna da un lato accettare una perdita di qualcosa; poi bisogna sempre tenere presente l’originale: quando è possibile io studio il testo prima nella sua lingua (col francese, l’inglese e lo spagnolo la cosa è relativamente semplice, col tedesco un po’ più ardua, col russo certamente mi è impossibile…). Infine si tratta di prendere atto che il testo tradotto è comunque un testo: ha una sua individualità, delle sue caratteristiche specifiche… Ci sono delle traduzioni a volte bellissime, a volte più belle dell’originale, però si tratta comunque di un altro testo, nel senso che una realtà linguistica è comunque intraducibile, la traduzione crea un altro testo... Anche il lavoro dell’attore in un certo senso è un lavoro di traduttore: si tratta di trasportare un codice convenzionale - perché comunque la scrittura è convenzionale - in un altro codice altrettanto convenzionale, perché è convenzionale anche quello della comunicazione parlata.

Guccini: Finora abbiamo parlato di problemi attinenti alla musicalità del verso e al dialetto, abbiamo parlato della temperatura emozionale e di sonorità semanticamente disincarnate. Però, nello spettacolo che abbiamo visto ieri sera, L’apparenza inganna di Thomas Bernhard, abbiamo potuto appurare e quasi toccare con mano come l’identità psicologica del personaggio possa essere l’effettivo contenitore del lavoro attoriale, e cioè l’elemento in funzione e a misura del quale vengono distribuiti e amministrati i valori ritmici e fonici, fisici e mentali. E però il personaggio non presenta in Testori questa dimensione strutturante; qui è tutto mediato dalla parola, tutto nasce dalla parola. Ti vorrei allora chiedere come si insinua, sprofonda o riemerge il personaggio in questo lavoro così denso di suoni e anche di elementi legati al carattere, che però, per l’appunto, affiorano e si inabissano in una situazione che non è da loro stessi incorniciata e contenuta.

Lombardi: Certo, la situazione è molto diversa; a differenza di quelli di Bernhard, i personaggi di Testori sono personaggi tra virgolette – infatti una delle prime domande che mi facevo quando cominciai a lavorare su Cleopatràs e poi sugli altri lai era: "ma chi è che dice io?", "chi è il personaggio?", perché c’è Cleopatra, d’accordo, ma poi c’è Cleopatràs che è una sorta soubrettona brianzola in disarmo... e poi c’è l’autore... E infine c’è l’attore, quindi c’è una situazione in cui è difficile parlare di personaggio. E questo, in qualche modo, veniva incontro proprio ad un mio modo di concepire il teatro al di fuori del problema del personaggio. Io ragiono poco in termini di personaggio e ho sempre provato un certo sospetto nei confronti di chi cerca di definire la dimensione psicologica del personaggio. Credo che il personaggio stia dentro alle parole che dice e dentro al modo in cui un attore gliele fa dire. Naturalmente per arrivare al come fargliele dire bisogna riflettere un po’ anche su chi è che dice queste parole. La situazione drammatica di Bernhard è molto diversa da quella di Testori: in Testori è tutto come rivoltato sopra, e, da un punto di vista sia emotivo che drammaturgico, si verifica un ingombro pazzesco, per cui abbiamo contemporaneamente Cleopatra e la sua dimensione dialettale lombarda, l’autore, l’attore che è in scena e quello iscritto nei personaggi. Tutte e tre, Cleopatra, Erodiade, la Vergine, a un certo punto dicono infatti "io sono qui, un attore", la Vergine, addirittura, inizia chiedendo scusa al pubblico di essere "del recitar poco praticata", è quindi dichiarato che si tratta di attori che stanno recitando. Il problema centrale che la drammaturgia testoriana pone all’attore è quello di gestire una torrenzialità emotiva creatrice di continui ingorghi espressivi. Questa materia ribollente va raffreddata, ma prestando attenzione a non disinnescarne il detonatore lirico. Bisogna, in altre parole, accogliere in sé la virulenza e la visceralità sostanziale e linguistica del testo, e però guidarla, nella restituzione espressiva, entro i canali di una griglia di controllo. Alle prove, Federico mi ricordava sempre di evitare l’illustrazione dei sentimenti o delle pulsioni per puntare, al contrario, a una loro continua reinvenzione, partendo preferibilmente da una situazione contraria e opposta. Nel caso di Bernhard la situazione è completamente diversa. Da un certo punto di vista, si tratta di una drammaturgia apparentemente più tradizionale, ci sono dei personaggi che hanno un nome, c’è un Karl, c’è un Robert, fanno determinate azioni e così via... a complicare ulteriormente la cosa c’è poi il fatto che io, come dicevo prima, sono convinto che un personaggio stia principalmente nelle parole che dice. E, nel caso di Bernhard, succede questo fatto curioso che Karl e Robert, per la maggior parte del tempo, non dicono le parole che veramente pensano, parlano d’altro. È stato quindi inevitabile arrivare alla definizione dei due personaggi. Qui c’è anche Massimo Verdastro, il mio compagno di scena nello spettacolo di ieri sera, che magari ci può dire come ha lavorato sul suo personaggio. Per quanto mi riguarda ho continuato a lavorare su quello che il personaggio dice, su quelle che sono le sue parole, con in più la consapevolezza che gran parte del testo di Bernhard, soprattutto nelle situazioni di dialogo – il testo è costruito specularmente: ci sono i monologhi iniziali dei due fratelli, poi i fratelli si incontrano e quindi ci sono due dialoghi –, dunque, soprattutto nei dialoghi io ero consapevole del fatto che Karl, il mio personaggio, parla sempre d’altro, quindi c’è tutto un non-detto che costituisce la sua dimensione psicologica, la sua realtà anche storica, ed è quasi più importante del detto. Quindi ho dovuto cercare di capire cosa c’è sotto alle parole che i due fratelli si dicono. Quando Karl fa la sparata contro i cani è chiaro che, al fratello, sta dicendo tutt’altro, gli sta dicendo:"la vuoi smettere di parlarmi di Matilde, non posso più sopportare che tu mi ricordi le vacanze in Baviera, io detestavo la Baviera!...". Il lavoro su Karl non è stato per me troppo diverso da quello sui personaggi/attori di Testori, solo che, a differenza che in Testori, dove tutto è detto, stradetto e ridetto, ho dovuto immaginare le parole mentali. In Bernhard c’è qualcosa che non è detto, ma che va tenuto presente come se fosse scritto. E poi c’è il pensiero... ecco, ora torna una cosa che mi era venuta in mente proprio all’inizio della conversazione e che poi mi sono dimenticato di dire. Marcel Proust, che sto rileggendo in questi giorni, fa un’osservazione a proposito di un personaggio che il Narratore incontra in società e di cui lo stupisce il particolare modo di parlare, che deforma certe vocali e allunga certi dittonghi. A un certo punto, nell’ascoltarlo, il Narratore si rende conto che quello che sta succedendo è causato semplicemente dal fatto che niente deforma il modo di parlare quanto il pensiero che sta dietro a quello che si dice. Allora, lui si rende conto che la persona che gli parla sta cercando con il pensiero determinate cose, sta correndo, e quindi il suo modo di parlare si cambia e si deforma. Ma questa è una cosa che gli attori sanno bene perché quando si è alla ricerca di un determinato tono di voce, quando si è alla ricerca di determinati effetti da fare con la voce, ci si rende conto che questi effetti sembrano e sono molto difficili finché non si ha ben chiaro in testa un pensiero che li possa dirigere, che li possa incarnare. Quando il pensiero è chiaro la voce esegue, diventa veramente uno strumento che si può usare, che si può modulare; se il pensiero non è chiaro la voce si rompe, la voce si rifiuta... la voce è veramente l’espressione del nostro pensiero.

Guccini: Questo spiega anche l’annoso problema delle traduzioni, che anche oggi è affiorato. E cioè spiega come mai parole tradotte, che vengono dall’inglese o dal russo e che hanno assunto una sonorità completamente diversa dall’originale, possano essere più dicibili e vicine all’attore che non parole nata in italiano e, magari, scritte da letterati di valore. Forse, la qualità sonora del pensiero, che è qualità distinta da quella che s’incarna nel segno linguistico, si trasmette anche attraverso le traduzioni.

Lombardi: Evidentemente, certi testi di particolare intensità riescono a contenere, pur attraverso la traduzione - non certo per sminuire la traduzione, noi ne avevamo una bellissima per Zio Vanja fatta da Fausto Malcoveti; e poi come dimenticare la bellezza di certi Shakespeare tradotti da Mario Luzi o da Patrizia Valduga? –, la particolare sonorità del pensiero, che è una sonorità che va al di là di quella della parola. Poi, l’attore deve ricrearla come sonorità concreta, reale, hic et nunc, qui e ora. Ascoltiamo l’inizio di Erodiàs.

Guccini: In questa tua Erodiàs si sente enormemente la parola di Testori, si sente l’attore, si sentono i personaggi. Ci sono anche altri attori? Cioè, ascoltando queste tue realizzazioni si ha l’impressione di un modo di procedere completamente originale però anche segnato da schegge, sonorità e riferimenti, che provengono dal magma del mondo teatrale.

Lombardi: Sì, ci sono anche ricordi di altri attori. Quando ho cominciato a preparare Edipus, il mio primo testo testoriano, ho volutamente evitato di ascoltare l’edizione di Franco Parenti perché era l’unica che era stata fatta, poi lui era lombardo... volevo fare un percorso mio e quindi me ne tenni lontano. E poi, solo dopo, a cose fatte, mi è stato detto che c’erano delle strane consonanze, delle somiglianze e così via. Ho fatto un percorso mio, però, addentrandomi in Testori, ogni tanto mi spuntavano delle intonazioni, dei ricordi: frammenti di memoria. Sicuramente Franca Valeri, che è stata un’attrice per cui Testori ha scritto molto, e il cui spirito dissacrante e comico è, in qualche modo, affine a quello delle eroine testoriane. Ogni tanto spuntavano anche memorie cinematografiche. A volte il cinema, potendo essere visto più e più volte, incide memorie che diventano inconsce, e che, quando l’attore lavora, rispuntano nei momenti più inaspettati. Nello spettacolo di Bernhard che stiamo facendo in questi giorni, a un certo momento Karl, mentre parla al canarino, dice: "Nella mia giovinezza ho fatto spettacoli dappertutto" e lì mi resi improvvisamente conto che m’affiorava alla memoria, alla voce, alla bocca la memoria di Giulietta Masina nelle Notti di Cabiria; lei ha appena deciso di sposarsi - poi in realtà verrà ingannata per l’ennesima volta – e va dalla sua amica che fa la puttana come lei. Cabiria possiede una specie di baracca che considera la sua casa, e dice all’amica: " C’ho tutto, la casa..., la casa... vendo tutto, Vanda, me ne vado, vendo tutto, la casa... La casa!".

Jokanslàan!
Slanjokaàn
Oi […]
Giuàn.
Oh, me por nan!
………………..

Testa che piango,
testa che repiango,
testa del demenzial tango,
del tango del neotestamentario,
[…]tango e poi anca slou,
sluo e poi anca rock,
te me disevi sempre:
Erodiàs,
parla quand pissen i och!
E quand?
Eh? quand? […]
o profetarum menagram?


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Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna