Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna
Prove di Drammaturgia ALTRI ANNI SETTANTA
COME IN UN DRAMMA "Noi siamo figli di
nessuno: devianti
Parlare degli anni Settanta! Sono
passati trentadue anni, ho diligentemente preparato una
scaletta che poi ho gettato. Perché? Negli anni Settanta avevo diciotto anni, e dopo una rapida fuga verso Parigi compiuta a diciassette anni, venni ad abitare a Firenze. Ero alla fine di unadolescenza piuttosto lacerata, la ricerca della mia identità si era misurata verso i quattordici anni in un incontro forse elettivo o forse casuale con altre tre persone, formando immediatamente un gruppo molto chiuso ma paradossalmente totalmente aperto ad ogni tipo desperienza artistica. Venivo da un paesetto minuscolo della Val di Chiana, di famiglia contadina. Dentro quel mondo e quella cultura si sono svolte le esperienze fondamentali della mia vita: affettive, estetiche, sociali. Quellincredibile preistoria da cui provenivo aveva ancora dentro di sé la forza per spingere (chi avesse dentro di sé un eccesso di vitalità) a infrangere un ordine arcaico apparentemente ancora immobile ed immutabile. Per chi lo strappo lo aveva consumato, si faceva avanti una libertà nuova che splendeva negli occhi e palpitava nelle vene. Oggi mi dico che erano i segni di unallegria senza speranza (proprio per questo intensamente profumata). Il gruppetto di persone con cui
adolescente venni in contatto partecipava anchesso
di quel mondo. Agivano, a monte di quella mia turbolenta
formazione, gli atti del Convegno dIvrea del 1967,
lincontro casuale una mattina in Arezzo con Judith
Malina e Julian Beck. La folgorazione a Urbino dove li
seguimmo: il gesto di Judith che copre di terra il corpo
di Polinice: un singulto le scuoteva il petto, un rivolo
di rimmel scendeva sul volto, quellattitudine mi si
è rivelata nel tempo come mitica, inarrivabile, è la
mia ragione segreta. A Firenze venimmo subito in contatto con il gruppo di poeti visivi: Eugenio Miccini, Lucia Marcucci, poi Giuseppe Chiari, e Maurizio Nannucci. Ma il grande punto di riferimento fu Ketty La Rocca. Ricordo un libretto fotografico: In principio erat, in cui indagava il linguaggio preverbale insito nei gesti delle mani, sostenendo che la gestualità viene prima del "verbo". Portava in giro per gallerie una bella performance in cui alcuni operatori recitavano un testo letterario partendo sfasati e annullandosi a vicenda, oppure veniva recitato da lei stessa cancellando alcune sillabe. Gli ultimi suoi lavori, dei trittici in cui proponeva alcune immagini fotografiche di opere darte, dove limmagine successiva veniva poi contornata e come divorata dalla scrittura. Legata a Ketty da un grande affetto era la fotografa Verita Monselles, e nella sua casa studio ho partecipato a lunghe sedute fotografiche. Non sono arrivata al teatro attraverso scuole, accademie o altro, ci sono arrivata col candore folle e anche arrogante degli accecati da passione. Lascio ad altri la decifrazione coerente delle ragioni estetiche, storiche e linguistiche che agivano in quegli anni. Per me era preponderante la necessità di essere calata insieme ad altri dentro una realtà che mi pareva potersi costruire giorno dopo giorno, mi pareva che lutopia fosse incredibilmente vicina, era unurgenza fisica di indagare i mutati presupposti materiali, tecnici ed economici che investivano la nostra realtà. Come non ricordare i grandi amori di
quel periodo: i fantocci gessati di Segal, i tubi al neon
di Dan Flavin, le opere concettuali di Joseph Kosuth che
costituirono lispirazione per lavori come: Vedute
di Porto Said (1979), Punto di Rottura (1978). Cera
la necessità di affondare materialmente le mani nella
pasta delle cose. La sperimentazione diventava
comportamento, divaricandosi rispetto a due frontiere:
corpo e mente. La necessità di individuazione del
linguaggio del corpo mi portò a riprodurre in Ombra
Diurna (1977) i dati di una performance di Marina
Abramovic e Ulay, che vedeva il lento scontrarsi dei loro
corpi nudi contro due colonne mobili che tentavano di
sospingere. Un altro loro lavoro di grande intensità (mi
pare avesse una durata di sedici ore) li vedeva spalla
contro spalla, legati per i capelli, immobili. In questa urgenza di identificazione del sacro si colloca la folgorazione per Hermann Nitsch e il suo "Orgien und Misterien Theater", che vidi a Bologna nella chiesa di S. Lucia nel 1977, in cui gli squartamenti, il sangue, le viscere, corrispondevano alle pulsioni sadiche presenti in ciascuno di noi, ma nellagirli lartista li oggettivava, producendo leffetto catartico della tragedia greca. Sembra così che i miei ricordi e la mia esperienza siano solo affini a certi percorsi della body art, ma ho passato interi pomeriggi con Alighiero Boetti a comporre paesaggi con animaletti di plastica, che fotografavamo secondo diverse illuminazioni e sfondi; e i tentativi illuminanti di un testo di numeri e parole per Crollo Nervoso (1980), i racconti infiniti sullAfganistan, che culminarono dopo un pauroso incidente in un viaggio in Marocco. Come dimenticare la vitalità di Mario Schifano e le foto che ci scambiavamo dei rispettivi pargoli.
|