Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia - 1/2002
Prove di Drammaturgia

ALTRI ANNI SETTANTA
LUOGHI E FIGURE DI UN TEATRO IRREGOLARE

 

COME IN UN DRAMMA
di Marion D’Amburgo

"Noi siamo figli di nessuno: devianti
e disperati. Travestiti, piccoli piccoli,
senza emozioni"
(dal programma di sala di Presagi del
Vampiro
, 1976)

 

Parlare degli anni Settanta! Sono passati trentadue anni, ho diligentemente preparato una scaletta che poi ho gettato. Perché?
Sono stata parte di quella generazione e in seguito, molte volte ho lamentato le rimozioni, le distorsioni legate a quel periodo. Che cosa potrei dare se non i lacerti dei miei ricordi, legati molto spesso a persone scomparse, persone che dentro di me vivono non solo spiritualmente ma sono parte del mio agire. Mi accorgo che i miei ricordi si rifiutano ad una fredda esposizione, sono terribilmente legati alla carne, al momento in cui hanno agito. Potrei tranquillamente collocare ogni artista nel corrispettivo di un contributo dato all’elaborazione di uno spettacolo, o la spinta che ha prodotto per trovare una nuova soluzione. Non sono in grado di dare un contributo critico, preferisco spostare l’attenzione su un clima che permetteva la circolazione d’energie, incontri, convergenze e divergenze. Riportare oggi un discorso su quegli anni è aprire una ferita legata al ricordo della propria giovinezza, e constatare ancora una volta il disagio per il presente.

Negli anni Settanta avevo diciotto anni, e dopo una rapida fuga verso Parigi compiuta a diciassette anni, venni ad abitare a Firenze. Ero alla fine di un’adolescenza piuttosto lacerata, la ricerca della mia identità si era misurata verso i quattordici anni in un incontro forse elettivo o forse casuale con altre tre persone, formando immediatamente un gruppo molto chiuso ma paradossalmente totalmente aperto ad ogni tipo d’esperienza artistica.

Venivo da un paesetto minuscolo della Val di Chiana, di famiglia contadina. Dentro quel mondo e quella cultura si sono svolte le esperienze fondamentali della mia vita: affettive, estetiche, sociali. Quell’incredibile preistoria da cui provenivo aveva ancora dentro di sé la forza per spingere (chi avesse dentro di sé un eccesso di vitalità) a infrangere un ordine arcaico apparentemente ancora immobile ed immutabile. Per chi lo strappo lo aveva consumato, si faceva avanti una libertà nuova che splendeva negli occhi e palpitava nelle vene. Oggi mi dico che erano i segni di un’allegria senza speranza (proprio per questo intensamente profumata).

Il gruppetto di persone con cui adolescente venni in contatto partecipava anch’esso di quel mondo. Agivano, a monte di quella mia turbolenta formazione, gli atti del Convegno d’Ivrea del 1967, l’incontro casuale una mattina in Arezzo con Judith Malina e Julian Beck. La folgorazione a Urbino dove li seguimmo: il gesto di Judith che copre di terra il corpo di Polinice: un singulto le scuoteva il petto, un rivolo di rimmel scendeva sul volto, quell’attitudine mi si è rivelata nel tempo come mitica, inarrivabile, è la mia ragione segreta.
Nell’infanzia si costruiscono ed elaborano i sistemi a cui per tutta la vita faremo riferimento, così con questo apparato sono piovuta negli anni Settanta dentro il teatro: era un’infanzia che si stratificava dentro un’altra infanzia di passioni e di apprendimenti.

A Firenze venimmo subito in contatto con il gruppo di poeti visivi: Eugenio Miccini, Lucia Marcucci, poi Giuseppe Chiari, e Maurizio Nannucci. Ma il grande punto di riferimento fu Ketty La Rocca. Ricordo un libretto fotografico: In principio erat, in cui indagava il linguaggio preverbale insito nei gesti delle mani, sostenendo che la gestualità viene prima del "verbo". Portava in giro per gallerie una bella performance in cui alcuni operatori recitavano un testo letterario partendo sfasati e annullandosi a vicenda, oppure veniva recitato da lei stessa cancellando alcune sillabe. Gli ultimi suoi lavori, dei trittici in cui proponeva alcune immagini fotografiche di opere d’arte, dove l’immagine successiva veniva poi contornata e come divorata dalla scrittura. Legata a Ketty da un grande affetto era la fotografa Verita Monselles, e nella sua casa studio ho partecipato a lunghe sedute fotografiche. Non sono arrivata al teatro attraverso scuole, accademie o altro, ci sono arrivata col candore folle e anche arrogante degli accecati da passione. Lascio ad altri la decifrazione coerente delle ragioni estetiche, storiche e linguistiche che agivano in quegli anni. Per me era preponderante la necessità di essere calata insieme ad altri dentro una realtà che mi pareva potersi costruire giorno dopo giorno, mi pareva che l’utopia fosse incredibilmente vicina, era un’urgenza fisica di indagare i mutati presupposti materiali, tecnici ed economici che investivano la nostra realtà.

Come non ricordare i grandi amori di quel periodo: i fantocci gessati di Segal, i tubi al neon di Dan Flavin, le opere concettuali di Joseph Kosuth che costituirono l’ispirazione per lavori come: Vedute di Porto Said (1979), Punto di Rottura (1978). C’era la necessità di affondare materialmente le mani nella pasta delle cose. La sperimentazione diventava comportamento, divaricandosi rispetto a due frontiere: corpo e mente. La necessità di individuazione del linguaggio del corpo mi portò a riprodurre in Ombra Diurna (1977) i dati di una performance di Marina Abramovic e Ulay, che vedeva il lento scontrarsi dei loro corpi nudi contro due colonne mobili che tentavano di sospingere. Un altro loro lavoro di grande intensità (mi pare avesse una durata di sedici ore) li vedeva spalla contro spalla, legati per i capelli, immobili.
La necessità è l’unico dato che non ho tradito del mio mondo di provenienza; attraverso la necessità ho esplorato il lavoro del teatro, provando, se non vi soggiacevo, un odioso stato di sofferenze mentali e fisiche. Ho cercato molto spesso di definire cosa fosse questa necessità, da cosa provenisse questa istanza inappellabile. Non nascondo che molto spesso ho pensato fosse una sorta di nevrosi o malattia, ma so anche che si tratta di decifrare un "non luogo", fisico e mentale, un intervallo vertiginoso che sovrintende la presenza dell’attore dentro la scena. Ed è in questa condizione particolare che la rappresentazione continua per me ad a manifestarsi come lo "spazio di un evento" unico, irripetibile. Ogni infanzia non può essere che mitica e sacra. Così è stata la mia infanzia teatrale: nella sua virulenza onnivora ha tentato di abbracciare quanto più possibile; è stata comica, sgangherata, impudica, solenne, narcisistica, infame, sacerdotale. In quegli anni ho afferrato l’idea che poi non mi ha più lasciato: il teatro ha a che fare con il sacro, con un rito a cui sono chiamati a partecipare intensamente attore e spettatore, istanza che oggi può risultare patetica e grottesca in tempi in cui si pensa al teatro come azienda, o intrattenimento elettivo per pochi palati fini.

In questa urgenza di identificazione del sacro si colloca la folgorazione per Hermann Nitsch e il suo "Orgien und Misterien Theater", che vidi a Bologna nella chiesa di S. Lucia nel 1977, in cui gli squartamenti, il sangue, le viscere, corrispondevano alle pulsioni sadiche presenti in ciascuno di noi, ma nell’agirli l’artista li oggettivava, producendo l’effetto catartico della tragedia greca. Sembra così che i miei ricordi e la mia esperienza siano solo affini a certi percorsi della body art, ma ho passato interi pomeriggi con Alighiero Boetti a comporre paesaggi con animaletti di plastica, che fotografavamo secondo diverse illuminazioni e sfondi; e i tentativi illuminanti di un testo di numeri e parole per Crollo Nervoso (1980), i racconti infiniti sull’Afganistan, che culminarono dopo un pauroso incidente in un viaggio in Marocco. Come dimenticare la vitalità di Mario Schifano e le foto che ci scambiavamo dei rispettivi pargoli.

Dagli anni Ottanta questo clima è andato lentamente naufragando, ognuno di noi si è scontrato con un mondo esterno che ha mostrato il suo volto; fatalmente ci siamo dovuti misurare con una condizione dell’esistere che spingeva verso i territori del privato, in un’intima riflessione della propria condizione umana, arrivando alla situazione pericolosa di essere privati del "rischio" degli affetti e delle emozioni. Ci è consentita solo una condizione fredda, che ci condanna all’incapacità di raccontare il presente.
La nostra condizione di anziani del gruppo della tribù del mondo impone una riflessione sul passato e una proiezione verso il futuro, il presente non può essere che un duro esercizio di resistenza.
"Così la nostra impressione della libertà e della necessità si abbassa e si eleva gradatamente, a seconda dei maggiori o minori legami col mondo esterno, a seconda della maggiore o minor distanza nel tempo e della maggiore o minor dipendenza dalle cause". (Lev Tolstoj, Guerra e pace).

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