Prove di Drammaturgia
ALTRI ANNI SETTANTA
LUOGHI E FIGURE DI UN TEATRO
IRREGOLARE
IL TEATRO DELLE
CANTINE ALLA SOGLIA DEGLI ANNI SETTANTA
di Nicola Viesti
Il fenomeno delle "cantine",
soprattutto romane, esplose negli anni Settanta,
precisamente dal 1972 in poi. Già negli anni Sessanta ci
furono avvisaglie di nuovi fermenti, importanti anche per
indicare alcuni precursori e per sfatare alcuni luoghi
comuni, come quello che voleva il nostro teatro di
ricerca a riporto delle esperienze straniere. Si
ripropose, infatti, ciò che tempo prima accadde con la
Pop Art, la più americana delle correnti artistiche, i
cui segni ed alcune tematiche erano scandagliati - e a
volte anticipati - da artisti italiani (Mario Schifano,
Franco Angeli, Mimmo Rotella, ecc.) a cui solo
recentemente è stata riconosciuta autonomia ed
importanza.
Per quanto riguarda il teatro, ci piace pensare che
"tutto abbia avuto inizio con" Carmelo Bene,
personalità cardine delle vicende degli anni Sessanta,
ma anche degli ultimi quaranta anni del nostro teatro,
non solo di ricerca. Personalità sicuramente non del
tutto compresa ed apprezzata nella sua grandezza anche a
livello internazionale, a parte la considerazione sempre
dimostratagli dai francesi. Carmelo Bene in quegli anni
sembra chiamarsi fuori da quello che poteva essere il
circuito ufficiale: fu il primo ad utilizzare spazi
insoliti ma in sintonia con una diversa spettacolarità.
Limportanza del lavoro di Bene (a parte la
straordinarietà ed unicità della sua esperienza,
immersa in una costante "sovversione" dei dati
scenici che fece scuola: basti pensare al lavoro di
scomposizione drammaturgica, allattenzione sulla
"visione" passata al vaglio anche di tecniche
cinematografiche e tanto altro) non si fermò allidentificazione
di nuove possibilità logistiche per il teatro, ma anche
mirò, non si sa quanto volontariamente, a coagulare
intorno a sé un insieme di giovani, teatranti vitali e
molto motivati poi diventati protagonisti di una specie
di circuito off, che ebbe risonanza nel "teatro
di cantina" romano, con Mario Ricci e Leo de
Berardinis in prima fila.
La figura di Mario Ricci è stata particolarmente
importante, perché fu il primo a rintanarsi in uno
spazio diverso dalla classica sala provvista di
palcoscenico allitaliana, che in Italia a quei
tempi era il palcoscenico del teatro. Fondò unassociazione,
le Orsoline 15, e cominciò a presentare spettacoli con
una comune caratteristica: erano perlopiù privi di testo
pur ispirandosi a fonti letterarie, dalle quali si
allontanava talmente che alla fine si poteva anche non
riuscire a trovare un nesso tra ciò a cui si assisteva e
lopera che comunque si voleva rappresentare.
Ovviamente il suo era un lavoro concentrato
prevalentemente su unimmagine che voleva riportare
in essenza il tema trattato, o partire da esso per
approdare ad altre diverse rive.
Già a metà degli anni Sessanta, Mario Ricci quindi si
esiliava in un posto poco consono, sconosciuto alla
scena, almeno secondo i comuni parametri del tempo. Anche
Leo de Berardinis, capì presto che nel nostro paese gli
spazi per la ricerca erano molto esigui e cercò di
trovare da subito dei riscontri allestero in
piccoli circuiti, alla lunga di scarsa praticabilità.
Nel frattempo i sommovimenti politici e sociali avevano
il loro corso: la guerra del Vietnam, il femminismo, le
rivendicazioni del mondo gay, lamore libero, la
libertà delle droghe, il trionfo delle ideologie, questo
e altro ancora contribuivano a creare una nuova atmosfera
combattiva e piena di energia che condizionava nuovi
contenuti e nuovi linguaggi del teatro.
Di solito si tende a ritenere in crisi la scena
predominante di quegli anni. Niente di più falso: il
teatro ufficiale della fine degli anni Sessanta e
dellinizio degli anni Settanta era in straordinaria
salute. Basti pensare agli inizi di Luca Ronconi e
Massimo Castri, alla presenza di Franco Enriquez,
Giancarlo Cobelli, Luchino Visconti, Paolo Poli, Aldo
Trionfo e tanti altri. Una spettacolarità di altissimo
livello, che utilizzava la scena allitaliana e il
circuito " normale" con proposte sempre
estremamente interessanti. Quindi, se battaglia doveva
esserci, il suo bersaglio non poteva essere tanto la
qualità artistica della "tradizione", ma listituzione
teatro stessa, un sistema nel complesso ormai inadeguato,
obsoleto, che imponeva comunque anche agli straordinari
artisti che ne usufruivano una specie di arcaica
struttura capocomicale (oggi ancora in vita), una
politica delle sovvenzioni che premiava solo le
cosiddette "compagnie primarie" e quindi certe
specifiche modalità produttive, al di fuori delle quali
non esisteva la possibilità di un diverso riconoscimento
e di una diversa visibilità. Il teatro di cantina nacque
dal rifiuto non tanto di ciò che si faceva nei teatri
ufficiali quanto del "sistema" teatro. Molti
artisti delle cantine arrivavano dallAccademia dArte
Drammatica, che tuttavia veniva spesso abbandonata perché
proponeva un sistema dinsegnamento ormai superato;
molti avevano fatto esperienza negli stabili, e ne erano
usciti, perché la rigidità che vi imperava non era loro
consona. Di certo tantissimi hanno utilizzato il teatro
di cantina per coniugare due esigenze: laffermazione
di unidentità artistica e quella di unidentità
personale.
Larte si modellava sulle proprie esigenze di vita,
secondo i dettami del celebre motto "il personale è
politico", e ciò influiva anche sulla composizione
delle compagnie, tese, almeno a parole o comunque con
molta buona volontà, più a fare "gruppo" che
ad imporre singole personalità. Il teatro ufficiale da
parte sua tentava in alcuni casi di darsi una
rimodernata, organizzandosi in cooperative, cercando una
diversa forma di aggregazione che sembrava fermarsi a metà
strada riconfermando in fondo i vecchi ruoli, mentre la
cosiddetta "avanguardia" intendeva mettere in
discussione tutto questo (il termine "avanguardia"
veniva utilizzato in maniera abbastanza impropria: a
voler essere precisi le avanguardie riguardano e si
fermano a quelle storiche del primo Novecento; forse
sarebbe più corretto parlare sempre e solo di "sperimentazione"
o di "ricerca"). I nuovi gruppi, pur avendo
sempre un leader, solitamente rifiutavano al loro interno
mansioni ben definite. E questo derivava in parte non
solo da una libera e consapevole scelta, ma anche dalle
scarse possibilità economiche, che faceva sì che tutti,
contribuendo secondo le proprie possibilità, potessero
avere voce in capitolo; senza contare che un approccio
sperimentale prevedeva un impegno ed uno scambio
artistico costante. Così, anche se lo spettacolo era
siglato dal nome del regista, veniva considerato - solo
agli inizi e per alcuni, poiché dopo, quando un minimo
di successo arrivò, ogni proposta venne identificata con
il suo effettivo creatore - unelaborazione
collettiva. Daltronde veniva anche a mancare la
specificità di certe figure. Rimasero quella del
regista, che comunque doveva considerare il contributo
degli altri, e quella dellattore anche se
poi alcune esperienze, specialmente al Beat 72 con Simone
Carella, annullavano proprio la presenza umana dal "palcoscenico",
creando ambienti in cui immergere lo spettatore
per il resto tutti facevano tutto. Nel momento in cui si
ha come spazio creativo la provvisorietà di una cantina,
è naturale occuparsi delle scenografie, delle luci,
della fonica
Inoltre, i gruppi erano formati
perlopiù da amici, amanti, sorelle, fratelli e molto
raramente da scritturati
un po un clan che si
raccoglieva intorno a unidentità di vedute e a un
desiderio di esprimersi tramite il teatro.
E veniamo a Roma. Roma era una città strana, perché i
primi anni Settanta politicamente furono particolarmente
instabili: il terrorismo iniziava a creare un certo
clima, una cappa pesante, cera uno scontro frontale
tra opposti schieramenti, con fascisti e comunisti a
darsela di santa ragione, iniziavano anche gli anni delle
leggi speciali e si sentivano minacciati gli spazi di
libertà
Era una città dura e dolce, molto
affascinante e viva, era il centro dove esplodevano molte
contraddizioni. Ricordo che per la strada lodore
dellhashish e della marijuana era cosa normale! Si
aprivano i primi negozi di magia, cera unapertura
alle filosofie indiane...
Una delle prime cantine fu La Fede di Giancarlo Nanni e
Manuela Kustermann, inaugurata nel 1968 dalla parti del
mercato di Porta Portese. Il successo più grande del
1972 fu Risveglio di primavera di Wedekind, una
messinscena tutto sommato abbastanza fedele al testo,
sebbene stravolta nella caratterizzazione dei personaggi.
Una particolarità del primo lavoro di Giancarlo Nanni,
sempre rimasto per certi versi molto rispettoso della
drammaturgia utilizzata, a differenza - ad esempio - di
Mario Ricci. Lo spettacolo fu molto apprezzato per la
giovinezza degli interpreti, per un allestimento
estremamente mosso e sintetico, sconcertante per limpressione
data di essere agito da un gruppo di ragazzi segnato da
uninquietudine tutta contemporanea, erotismo
compreso. Negli anni a venire il teatro di Nanni cominciò
a legarsi a proposte sempre più convenzionali,
funzionali al ruolo di star assoluta della Kustermann.
La continuità con le esperienze di "rottura"
degli anni Sessanta ora veniva inoltre ad arricchirsi di
molti riferimenti e confronti con il teatro
internazionale. Era possibile vedere in Italia le
esperienze più significative: il Living Theatre, il
Teatr Laboratorium di Jerzy Grotowski, Richard Foreman,
Bob Wilson. Tale continuità si può cercare appunto nel
lavoro di Mario Ricci e di Leo de Berardinis. Ricci
partiva dal presupposto che lattore è un oggetto
scenico della medesima importanza delle scene, delle luci
ecc. Così la drammaturgia testuale tendeva a scomparire
oppure veniva sottratta allattore ed affidata
preferibilmente ad un nastro magnetico, scelta che risultò
comune a parecchie compagnie. Secondo interpretazioni
malevole e pettegole poteva spiegarsi, salvo poche
eccezioni, col fatto che gli attori molto spesso non
sapevano recitare. I maligni non avevano poi visto tanto
male perché, nel momento in cui il teatro diventava
accessibile a tutti, molti lo affrontavano senza una
particolare preparazione, e in ogni caso lenergia
da mettere in gioco compensava le evidenti mancanze. Ciò
agevolò comunque la notorietà di alcuni spettacoli,
perché, liberi dal vincolo della lingua, potevano essere
fruiti ovunque.
Mario Ricci strutturava il suo lavoro come un gioco:
prendeva un testo, lo smontava, dopodiché poteva
utilizzarne anche solo delle immagini. Nel 1971 fece un Moby
Dick bellissimo: sembrava ambientato nellantro
delle streghe di un parco giostre, completamente
realizzato con scenografie di cartone dipinto. Nel
finale, lenorme bocca di Moby Dick ingoiava il
capitano Achab, intento per buona parte del tempo della
rappresentazione a giocare al solitario con dei grossi
mazzi di carte, o a scrutare lillusorio orizzonte
con un cannocchiale. In seguito si diede a questo teatro
la definizione di "analitico-esistenziale". Era
esatta perché effettivamente analizzava, scomponeva e si
irrobustiva con limmissione di una visione
personalissima del mondo: una caratteristica che troviamo
in tutta la sperimentazione romana. A volte le proposte
vacillavano per mancanza di adeguati supporti teorici,
però ciò che le caratterizzava era una grande forza
scenica e visionaria.
La prima cantina che ho visto è stata quella del Beat 72.
Si chiamava così perché "beat" era una parola
magica che coniugava cultura e stili di vita, e 72 perché
si trovava al numero 72 di via Gioacchino Belli. Aveva un
ingresso molto piccolo, con una stretta scala che andava
giù ripidissima. Oggi sarebbe assolutamente impensabile
fare teatro nelle cantine, perché le norme di sicurezza
dei luoghi di spettacolo sono estremamente rigide. Un
fenomeno così non potrebbe più ripetersi. Si scendeva e
cera una specie di piccolo antro che serviva da
biglietteria, un corridoio a fungere da foyer e poi tre
vani in successione, ad arcate. Unaltra stanza,
attigua allultimo di questi vani, serviva per
deposito e camerini. Lunica entrata, e quindi anche
lunica uscita, era la porticina in alto. Era il 16
novembre 1972, la sera del debutto di uno spettacolo che
immediatamente diventò celebre e fu tra quelli italiani
più visti anche allestero: Le 120 Giornate di
Sodoma di Giuliano Vasilicò. Il pubblico della prima
era molto irriverente, dava pacche sul sedere agli
attori, scatenandosi in commenti salaci, tanto erano
tutti amici. Però in seguito le "Giornate"
esplosero e solo a Roma restarono in cartellone per oltre
quattro mesi. Vasilicò, reduce lanno prima dal
buon successo di pubblico e critica di un suo Amleto,
scompose il testo di De Sade sintetizzandolo in ventuno
scene, immerse in un buio totale solcato da fasci
luminosi. Colpiva linterazione tra i frammenti
testuali, gli interventi musicali martellanti ed il ritmo
impresso, tutto scandito sul vorticoso movimento dato ai
carrelli che trasportavano gli attori, un po come
nellOrlando furioso di Ronconi. Qui limpatto
era però molto più violento, sia per lestrema
vicinanza della scena sia per laggressività e la
forza del testo, che trovava nel delirante rigore visivo
unideale esplicazione. Una sinfonia di fantasmi
lussuriosi che si materializzavano dal nero e giravano
vertiginosamente alla luce per poi ritornare ad essere
ingoiati dalle tenebre. Una rappresentazione che
indubbiamente colpiva per la centralità trionfale
accordata al corpo dellattore. Del corpo nudo
soprattutto, uno dei più importanti elementi alla base
del teatro sperimentale. Non cera rappresentazione
che non avesse la sua brava attrice o il suo bravo attore
sommariamente vestiti. Nelle 120 Giornate ciò era
chiaramente giustificato. Tanto lo spettacolo riuscì ad
essere forte a livello di immagine ed emozionale che
diventò una specie di icona. In un volume fotografico di
Christopher Makos, il fotografo preferito da Andy Warhol,
alcune pagine sono dedicate proprio alle "Giornate"
come esempio di icona punk. Il lavoro sulla visione di
Vasilicò risultò contemporaneo ed anche anticipatore
delluniverso segnico punk: per il trucco, per la
foggia dei capelli, per gli abiti, per la rabbia e la
violenza espressa, nel nostro caso ovviamente solo a
livello di finzione scenica. Fu una proposta che a vari
livelli poteva essere ben compresa allestero,
soprattutto da un pubblico giovane e negli ambienti più
attenti alle novità, ed infatti ebbe grosso successo a
Londra ed in Francia, addirittura fu preferita a Min
Fars Hus (La casa del padre) dellOdin
Teatret di Eugenio Barba. Proprio in quella stagione
teatrale, ossia nel 1972/73, al Beat 72 ci furono solo
debutti eccellenti. Lo spettacolo seguente (che debuttò
il 3 gennaio 1973) fu Pirandello, chi? di Memè
Perlini. Prendete i Sei personaggi, leggeteli,
chiudete il libro, vi addormentate e li sognate. Questo
era lo spettacolo. Dei Sei personaggi rimanevano
brandelli. Cera una grossa invenzione visiva, che
caratterizzerà sempre Memè Perlini: non a caso sarà
proprio lui, in seguito, ad affrontare meglio i
palcoscenici tradizionali, perché questa enorme carica
visionaria era immediatamente percepibile anche nella
fissità e lontananza del palcoscenico allitaliana.
Cera il personaggio-figlia sempre impegnato in
esercizi fisici molto difficili e complicati, attori
truccati vistosamente, suggestioni futuriste e
surrealiste, un sguardo privilegiato alle arti plastiche.
Ricercare i Sei personaggi era veramente arduo
quello che bisognava fare era lasciarsi andare al flusso
onirico che colpiva lo sguardo dello spettatore, e questo
lo spettacolo riusciva perfettamente a permetterlo.
La terza opera in programma era ancora differente da
quelle che lavevano preceduta. Diretta da Giorgio
Marini, un regista che oggi si dedica soprattutto allopera
lirica, era molto particolare e sofisticata: Langelo
custode, da Fleur Jaeggy. Metteva in scena il
rapporto di complicità, di odio-amore, tra due sorelle
gemelle mediato dal maggiordomo. La scena era una scatola
dalle pareti trasparenti e i tre personaggi erano
prigionieri in un perenne scontro filosofico. Un testo
estremamente impegnativo per un teatro che dava grande
importanza alle parole. Lo spettacolo aveva una durata
insolitamente lunga rispetto alla norma, infatti si
attestava sulle due ore e mezza invece della solita ora
di prammatica. Marini organizza il tempo in due atti dove
il secondo era identico e speculare al primo, di cui
costituiva il percorso inverso. Tutto è apparentemente
uguale e conosciuto, e tuttavia diverso. Lo spostamento,
il rovesciamento del testo come di fronte a uno specchio,
cambia il senso del rapporto tra i personaggi e dello
spettacolo stesso. Quindi, rispetto alla visionarietà di
Perlini ed al lavoro sullimmagine erotica e crudele
di Vasilicò, qui si va verso una deriva quasi
filosofica, in cui è il testo ad assumere un carattere
fantasmatico, teso ad una fascinazione ipnotica.
Quarto spettacolo: il Patagruppo, che debuttò con La
conquista del Messico il 15 marzo del 1972, tratto da
Al paese dei Tarahumara di Antonin Artaud. Per
Artaud la scrittura voleva rendere lesperienza
mistica della droga, mentre nella versione del Patagruppo
diviene il pretesto per un discorso sulla conquista del
Messico da parte degli Europei. Pur rimanendo fedeli allautore,
ad una delle probabili ipotesi, allora molto tentate,
dellaraba fenice di un teatro della crudeltà che
passava ancora una volta tramite la supremazia dellimmagine,
si tenta di introdurre un discorso in qualche misura
politico. In quegli anni tutto era politica, quindi il
teatro di cantina non ebbe vita facile da questo punto di
vista, perché la sua predilezione per una prospettiva
esistenziale, questo suo consumarsi nella visione non
poteva soddisfare urgenze e motivazioni di rigida
ortodossia allora preponderanti. Infatti, tra le
principali accuse che la critica del tempo muoveva a
questo teatro, al primo posto troviamo la constatazione
che non era politico ma solo unennesima variazione
del teatro "borghese". Anche i critici più
avveduti, a parte Giuseppe Bartolucci e Franco Quadri (fra
i pochi che si interessarono e riuscirono a comprendere
appieno il fenomeno), nel momento in cui apprezzavano le
qualità di uno spettacolo, alla fine avevano sempre una
riserva chiedendosi della sua effettiva utilità, di una
consistenza ideologica assente o difettosa.
Non fu solo il Beat 72 ad affermarsi. Immediatamente
cominciarono a nascere molti teatrini: da quelli di tre
metri per tre per quindici persone, a quelli enormi:
Perlini montò forse il suo spettacolo più bello, Locus
Solus (da Raymond Roussel: debutto 9 gennaio 1976),
in un garage che era stato sede di una galleria darte
romana molto importante, LAttico, un enorme
scantinato di duemila metri quadri. Luogo emblematico che
evidenzia lo stretto rapporto tra le arti sceniche e le
arti "in generale", e che troverà una sintesi
esemplare nella seconda metà del decennio con i lavori
del Carrozzone, poi Magazzini Criminali.
Quindi cera la cantina classica, sotterranea, con
le arcate, ma cerano anche i garage, le rimesse, i
tendoni da circo. Per alcuni anni funzionò, a Testaccio,
Spazio Zero, luogo questo estremamente politicizzato,
costituito da un tendone da circo, senza riscaldamento e
dove si soffriva, letteralmente, il freddo invernale. Si
creava una condivisione di intenti. Il pubblico era
composto da appassionati e curiosi, che seguivano tutte
le programmazioni delle cantine e parteggiavano per i
loro beniamini, creando delle vere tifoserie. Cera
il giro degli amici quello della prima de Le
120 Giornate di Sodoma, appunto e dopo gli
amici cominciavano a venire i critici (non tutti) e gli
spettatori un po più attenti
Però non si può
dire che sia stato un fenomeno tale da attrarre le masse.
Suscitò lattenzione delle istituzioni che
tentarono di appropriarsene. Il Teatro Stabile di Roma,
nella stagione 1974/75, chiamò Mario Ricci, Memè
Perlini ed altri e li presentò nel proprio cartellone
con risultati contrastanti, che non tolsero né
aggiunsero niente alla visibilità delle compagnie. Se ne
occupò anche lo Stato, e se ne accorse lETI, che
creò un circuito di serie B, e per quattro anni di
seguito sovvenzionò questo teatro con alcune rassegne
primaverili dislocate in varie città. Unattenzione
prevalentemente mirata alla distribuzione: per quanto
riguarda i contributi ministeriali, allinizio
furono irrisori e servivano giusto alla sopravvivenza.
Il teatro di cantina non espresse una omogeneità
artistica. Al contrario, era molto frammentato, ognuno
seguiva il proprio estro, e se si coniò la definizione
di "Scuola romana" essa servì solo ad indicare
i fermenti di quella particolare area geografica, uninsieme
di esperienze accomunate da una stessa capacità
produttiva. Tante diverse realtà importanti dal cui
confronto potevano trarsi nuove linee, assai
diversificate, di strategia e ricerca teatrale.
Pochi dei nomi celebri allora hanno dimostrato coerenza
di scelte artistiche. Il successo, come spesso accade,
crea da una parte i presupposti per compromessi, dallaltra
una coazione a ripetersi e ad esaurire qualsiasi vena
creativa, specie quando economicamente non fu più
possibile reggere e le sovvenzioni, sempre più
consistenti, diventarono, come oggi, indispensabili.
Perlini fece degli spettacoli bellissimi: Tarzan (Roma,
Spaziouno, 8 gennaio 1974), Otello (Venezia,
Biennale, 6 novembre 1974), con Nerina Montagnani, unattrice
strepitosa di quasi ottananni nei panni di
Desdemona, una vecchina molto ricercata dal teatro di
cantina, e non solo, disponibile e curiosa. Tutti
cercavano di entrare in un circuito almeno economicamente
più soddisfacente, ma il destino di chi vi riusciva non
fu poi diverso da quello di chi rimase fedele ad una
linea "alternativa". Vasilicò è praticamente
scomparso. Di tutti loro forse solo Leo de Berardinis ha
saputo affermarsi senza rinunciare alla complessità dei
presupposti creativi iniziali, ma non rimase legato alla
realtà romana. Preferì "emigrare" a
Marigliano, vicino Napoli, per affrontare "politicamente"
il problema dei linguaggi, mescolando tragedia a
sceneggiata. Mise in cantiere quattro spettacoli
memorabili intorno alla dissoluzione ed al dolore,
mescolando poesia e jazz, dialetti e somma letteratura
con la complicità di Perla Peragallo. Un teatro molto
colto, però a ragion veduta, rispetto ad altre
esperienze che pretendevano di essere culturalmente
elaboratissime e poi non si tenevano in piedi. Ma anche
una teatralità disperata, ambigua e conflittuale,
specchio del disagio esistenziale e sociale di ogni
autentico artista.
Chi è rimasto oggi ancora fedele alla linea? Due
personaggi: Pippo di Marca, sempre appartato, con ancora
una salda presa in ambiente romano, ed allattivo
nessun exploit vero e proprio. I suoi spettacoli erano
molto freddi, lavorava sul dato analitico della scena,
con il Teatro dei Meta-Virtuali. Vidi una Salomé
Abstraction, di non grande impatto (Roma, Meta-Teatro,
13 marzo 1974). E poi Giancarlo Sepe, che aprì una delle
cantine più note, La Comunità, lunica cantina,
insieme a Spazio Uno in Trastevere, che ancora continua
ad operare da più di trentanni. Sepe è una
personalità molto particolare, unica perché ad un certo
punto ha cercato contatti con il teatro ufficiale,
approcci che si sono risolti in grandi successi. Ha
diretto attrici come Mariangela Melato, ora cura le
ultime produzioni di Monica Guerritore, però ha
reinvestito quello che è riuscito ad ottenere nei grandi
circuiti nella Comunità, elaborando spettacoli
straordinari. Lultimo è Favole, ispirato
alle favole di Oscar Wilde, che, dati i tempi,
rappresenta un anacronismo, ma anche lincrollabile
fiducia in una scena diversa con una messinscena fruibile
da solo trenta spettatori, con un apparato assolutamente
incredibile: una pista girevole con tuttintorno
delle scenografie enormi. Il pubblico guarda attraverso
delle fenditure ed ha dello spettacolo sempre una visione
parcellizzata, assorbe solo schegge di rappresentazione.
Una proposta economicamente suicida ma Sepe è uno dei
pochi rimasti ancora a sperimentare facendosi forte,
appunto, del credito ottenuto sui palcoscenici
tradizionali. Penso sia proprio lunico che, in una
difficile conciliazione di equilibri, sia riuscito a non
tradire se stesso.
Questo
contributo rielabora un intervento svolto da
Nicola Viesti nellambito del Corso di
Organizzazione ed economia dello spettacolo,
tenuto da Cristina Valenti, DAMS, Bologna, a.a.
2001-02 |
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