RELAZIONI
E INTERVENTI
La letteratura
perfetta, ovvero il Teatro dei salti mortali
di Enrico Ianniello e Tony Laudadio (Onorevole Teatro Casertano)
La letteratura è
perfetta. Se ne sta lì, distesa sulla pagina, compiuta,
in attesa di qualcuno che ne raccolga quanto serve e che
la riponga dovera, sugli scaffali o sui comodini.
La lettura è intima e privata, non si sa come avviene
agli altri, si conosce solo la propria, il proprio modo,
le proprie condizioni ideali e il resto. La condivisione
della letteratura, della lettura, non esiste: se ne può
parlare, magari se ne può ricordare qualche passo o
anche citare interi brani, ma non la si può condividere
perché, sostanzialmente, rimane una fonte per la propria
immaginazione e non si può rappresentare limmaginazione,
se non tramite il teatro. Ora, quando si decide di
prendere questa perfezione, strapparla alla pagina per
portarla in scena, bisogna essere coscienti che si tratta
di unimpresa molto ardua perché da una perfezione
non si sa come crearne unaltra, ed è probabile che
non ci si riuscirà. Partendo da questo presupposto,
quello che ci si domanda è: perché cercare a tutti i
costi di andare incontro ad un fallimento? I motivi
naturalmente sono personali, ognuno ha i propri ma è
possibile cercare delle linee comuni. Lamore per lautore,
lemozione provata alla lettura di un romanzo, loccasionale
incrociarsi dei propri interessi artistici con le parole
trovate in un dato libro o in un dato scrittore.
Tralasciando motivi forse meno nobili ma ugualmente
presenti quali: la fama di uno scrittore utile alla
vendita dello spettacolo, una forma di narcisismo del
regista che vede nellaffrontare una determinata
letteratura una specie di traguardo personale, il
narcisismo dellattore nellinterpretare i
personaggi immortali dei grandi romanzi. Naturalmente
questi sono anche i nostri motivi i più e i meno
nobili e a questi se ne aggiunge un altro che
definiremmo ludico. Il piacere del gioco: la riscrittura
di una pagina per il teatro comincia da qui, da un nostro
gusto, forse infantile nel vedere i personaggi vivere
secondo la nostra volontà, muoverli, farli parlare,
prenderli in giro o sul serio, proprio come farebbe un
bambino con i suoi soldatini. Questo piacere dellinvenzione
è fondamentale. Distruggiamo la letteratura perfetta per
ricostruirla, ce ne riempiamo la testa per poi
dimenticarla. Il seme deve morire per dare frutti.
Da alcuni anni lavoriamo attorno a unidea di teatro
che ci corrisponda appieno, e che ci aiuti a
rappresentare, oltre che a comprendere meglio, la nostra
visione del mondo. Questa idea si è andata
concretizzando, nel corso del tempo, in una stringente
scelta stilistica: nellaver prediletto, cioè, la
comicità e il lavoro sulla recitazione. Nei nostri
ultimi spettacoli (La farsaccia, Rosencrantz e
Guildenstern sono morti) infatti, la scelta della
leggerezza ha vissuto un percorso a più livelli, sempre
saltellando però sul baratro dello spaesamento e dellinadeguatezza,
tra la farsa da torta in faccia e la battuta sagace e
consapevole. E gli attori noi per primi
hanno avuto il compito di regalarsi generosamente e senza
paure, mettendo in gioco la propria memoria e la propria
capacità di simpatia.
Il primo passaggio delle opere di Céline dalla pagina
alla scena è cominciato per noi nel 1998. In quellanno
lassociazione "Ricerche dEquilibri"
(trasformatasi poi in Onorevole Teatro Casertano) ha
prodotto un primo laboratorio su Viaggio al termine
della notte e Casse pipe, presentando poi un
frammento del lavoro nellambito del Premio
Torresani a Cremona.
Già in quella fase si evidenziò, con molta chiarezza,
un possibile rapporto tra lattore e i testi
celiniani; rapporto che richiedeva, però, forza e
presenza di attori che non rischiassero di rimanere
schiacciati da un testo così alto, ma che sapessero dare
vita a situazioni e personaggi "masticando" lo
stile di Céline, e facendolo proprio. Nel corso del
tempo abbiamo lavorato, quindi, alladattamento
drammaturgico e alla costruzione dello spettacolo,
cercando una frequentazione costante con lo spirito di
Bardamu e degli altri protagonisti che ce li rendesse più
vicini senza sminuirli, tanto da poter ardire un
confronto diretto con le nostre esistenze e le situazioni
che conosciamo meglio.
Poi ci siamo chiesti: quanto spazio può occupare, in
scena, la letteratura? Quanto è possibile renderla corpo
dellattore senza farne sentire la letterarietà?
Quanta azione teatrale si riesce a tirare fuori da un
libro conservandone le altezze poetiche? Dove finisce la
narrazione, e dove comincia il monologo? Quanto bisogna
distruggere e reinventare il testo per la scena? Quanti
salti mortali bisogna fare per non cadere nel vuoto? E
naturalmente non per unesercitazione; ci siamo
interrogati piuttosto su questi temi per via di unesigenza:
la letteratura del Novecento ci ha offerto, spesso,
spunti di riflessione che non abbiamo trovato nella
drammaturgia di questo secolo. O meglio, a parte i
capolavori della drammaturgia contemporanea, abbiamo
avuto in alcuni testi letterari la sensazione di unesattezza
nella descrizione di un mondo che maggiormente ci
corrisponde, e nel quale si muovono figure di cui
condividiamo angosce e voglie.
Siamo così arrivati a Louis Ferdinand Céline.
Lironia non cede mai il passo alla tragedia, ma
piuttosto la amplifica, scherzandoci con lo sguardo di un
giovane entusiasta. Questo è il primo aggancio col
nostro teatro. La lettura irretisce per una superba
capacità stilistica, per un lavoro sulla parola e sui
contenuti che affascina e diverte per poi mostrare tutto
lorrore del "secolo della velocità" che
stava per cominciare. Teatralmente, questa materia si
trasforma in un ventaglio di possibilità comiche: dalla
farsa allumorismo, dalla battuta fulminante e greve
allaforisma sottile. Il giovane Ferdinand/Bardamu
il protagonista dei romanzi pone,
sorridendo sfacciatamente, domande importantissime. Nei
romanzi di Céline la posizione preminente è sempre
occupata dallinquietudine, dalla fuga perenne come
salvacondotto per resistere, anche a costo di commettere
dannatissimi errori. E si fa largo, tra le righe dellavventura,
lorizzonte tragico del Novecento con tutto il suo
carico di disillusione; la tragedia celiniana non è,
infatti, una tragedia passionale: consiste bensì nella
tragica consapevolezza degli entusiasmi traditi, nella
situazione paradossale di chi sa di aver scoperto tutti i
trucchi della vita, e ancora meglio sa di non poterne più
fare a meno.
È il ponte che porta al vuoto, ai painting fields
di Mark Rothko e alle lande inabitate di Beckett (che
proprio in uno slancio dentusiasmo definì il Voyage
come "il più grande romanzo della letteratura
francese", solo "un gradino sotto Joyce...").
Alla fine di questo secolo ci siamo noi. E, proprio come
il giovane Bardamu, ci affacciamo su un altro secolo
nuovo e scintillante, pieno di invenzioni (novità!
progresso! moda!). Ma dovè finita la nostra
improntitudine, la nostra incoscienza? Dove sono i nostri
errori di gioventù? Dove si sono persi gli slanci dentusiasmo?
Siamo, come tanti altri, giovani avventurieri
prudentissimi. Purtroppo? O meno male? E perché questa
paralisi, questa inanità? Da cosa ci deriva?
Il dottor Destouches è passato dalle vette della poesia
agli abissi dellodio razziale e della viltà,
cucendo sulla sua pelle splendori e nefandezze del secolo
che ci fa da padre. Noi vogliamo confrontarci con quel
Bardamu che centanni fa si è arruolato sulle note
della fanfara per saperne sempre di più su se stesso e
sul mondo che lo circondava, e quindi saperne di più su
noi stessi.
La scrittura e la
memoria
di Enzo Alaimo
Mi ricordo, sì mi
ricordo. Era questo il titolo e la frase ritornante di un
film di/con Mastroianni. In quel caso la memoria era uninfanzia
e una giovinezza dolce, armoniosa. Andare a trovare
sapori e aromi di un paradiso che non tornerà mai più.
Anchio ne ho bisogno. Ma ogni qualvolta vado a
cercare la mia dolce memoria, mi imbatto nelle ferite,
nelle "vene aperte" di una memoria collettiva,
di una comunità, che non riesce ad allontanare da sé le
proprie radici, che a volte (sembra un paradosso)
diventano eccessive, zavorre o fantasmi come certi
personaggi familiari di sapore pirandelliano.
Mi sembra che ci sia lo sguardo a muovere le trame di ciò
che ho scritto. Sempre lo stesso. Uno sguardo rapito,
attonito, ingenuo, incredulo.
Lomino che racconta la sua vita in Petri, il
mio primo lavoro, ne parla con lo stupore di un bambino
al circo, quasi non riesce a credere che ciò che è
successo (la guerra, il suo perdere gli affetti, le
pietre che gli raccontano strani riti iniziatici) sia
successo davvero e soprattutto a lui.
Le piangitrici di Planctus guardano la morte e la
raccontano a loro stesse con gli occhi sgranati della
"ebetudine stuporosa", sguardo straniato, voce
che diventa canto disarmonico, lo stesso sguardo di Ecuba
davanti alle rovine di Troia, di Cassandra mentre viene
portata schiava, di Ismene che si rifiuta di aiutare
Antigone a seppellire il fratello.
E poi lo sguardo sognante, illuminato, di Rosalia
emigrante per caso in Villarosa che non riesce a
comprendere la tragedia in atto di migliaia di sfruttati
e morti nelle miniere europee, ma è catturata dalle
luci, dai colori di una grande città e si perde tra
vetrine sfavillanti e vestiti alla moda.
Ho bisogno di una rete narrativa, possibilmente a maglie
larghe, che mi permetta di uscire, di raccontare contorni
e contesti, di ragionare, di tirarmi fuori dal racconto,
come a commentarlo con unetica, come
un coro.
Per Petri e Villarosa è questo il
pentagramma, mentre non vale per Planctus, dove
non cè inizio e fine, dove lautore si
nasconde, il tempo è sospeso, la rete si stringe e i
personaggi non tollerano intrusioni altrui. Appunto:
maledetto maledetto Pirandello. Inseguo una lingua
magica, misterica, esoterica, teatrale. Questo è per me
il mondo dei dialetti: linguaggio cifrato del cuore e
della memoria. Mi ricordo, sì mi ricordo. Il dialetto è
orale, sonoro, sfugge alla universalità piatta delle
grammatiche. Il dialetto è sfumature impercettibili, è
partitura segreta di chi lo suona. Lo si ascolta e lo si
sente. Non chiedere traduzioni.
Sono cresciuto "meticcio". Tra tre culture, tra
tre dialetti. Quello della città di mare dove sono
cresciuto, veloce, cantilenante, allegro e nasale. Quello
materno, contadino, arcigno e acuto, e quello paterno,
montanaro, gutturale, a spirale su se stesso. Ho fatto
incursioni in questi mondi con la passione dellamante
perduto e la gioia di un amico ritovato. So di essere un
abusivo di queste lingue, so di possederle in modo
imperfetto, ma nessuno chiede una perizia profonda dello
strumento a un suonatore della banda del paese.
La memoria di uno, anche se non vuole, è la memoria di
tutti. Parlare di un popolo, di una comunità attraverso
i ricordi di uno. Di un sopravvissuto.
Se abbiamo cuore per ascoltarlo, ci farà vedere un mondo.
Quando le parole
non bastano
di Michele Sambin (TAM Teatromusica)
Quando le parole non
bastano, il titolo che ho voluto dare a questo mio
intervento, assume un significato in relazione al
concetto di "drammaturgia", termine che non
corrisponde precisamente al nostro teatro: "quando
le parole non bastano" intervengono la pittura e la
musica. È qualcosa che riguarda la dimensione del mio
parlare al mondo, che risale allinfanzia; è
proprio la difficoltà ad esprimermi con le parole che mi
spinge a cercare altri modi per "parlare".
Per trattare largomento "drammaturgia" e
il nostro lavoro nel teatro, vorrei accennare a un fatto
accaduto di recente in occasione della presentazione di Andrej
qui a Bologna, un regalo bellissimo e gratuito
donatoci da persone sconosciute: una recensione, un testo
breve, messo in rete da alcuni giovani in una rivista on-line.
Lo considero un regalo perché restituisce quello che,
come artista, ho sempre cercato e difficilmente trovato,
cioè una risposta, un "ritorno" da parte del
pubblico. Un atto che dà senso al lavoro dellartista,
al suo lanciare messaggi, che spesso ha limpressione
si perdano nel vuoto. Nel nostro caso non sono caduti nel
vuoto, perché la restituzione, pur molto semplice, è
stata puntualissima. Voglio partire proprio da questa
breve analisi del nostro lavoro. "La
rappresentazione colpisce per essere un tuttuno,
unitario e indissolubile, tra teatro, suono e pittura. Unamalgama
che il personaggio Andrej incarna perfettamente, poiché
in scena è attore, musicista di viole critici
professionisti hanno scambiato violoncelli per
clavicembali: è un violoncello, non una viola e
pittore di icone, commistione delle arti che si riflette
figurativamente sia nei monaci protagonisti (tre), sia
nelle tre tele bianche che occupano la scena".
È un tuttuno. Una definizione perfetta, perché la
costante ricerca del gruppo, fin dal mio lavoro prima del
teatro, è proprio questo "tuttuno", nel
desiderio di far convivere con il teatro i due grandi
amori: la pittura e la musica. TAM, infatti, significa
"teatro, arte, musica". Tre linguaggi per
parlare. Per parlare è necessario il tempo. Noi abbiamo
deciso di parlare con parole fatte di immagini, di gesto,
con parole fatte di "altro dalla parola",
proprio perché questa non corrispondeva alle nostre
necessità. Si tratta di forzare i termini. Cristina
Valenti diceva che il termine "drammaturgia" è
esploso. In effetti, noi consideriamo la drammaturgia
come lo svolgersi di accadimenti nel tempo. Lo svolgersi
dello spettacolo coincide col colorarsi dei quadri, il
quale a sua volta rappresenta il tormentato rapporto di
Andrej Rublëv con la sua arte, tra fede e spiritualità.
È lanimo inquieto dellartista teso verso la
verità che viene dipinto in ciascuna delle tre tele.
A me interessa che questo "fare", il farsi
della pittura, sia dramma, il dramma dellartista.
Ma non è un dramma descritto, quanto piuttosto la
risultante di un "fare", del nascere della
pittura. Infatti, il nostro lavoro è caratterizzato
dalla relazione tra pittura e tempo. Esistono almeno due
modi per cogliere questo rapporto: la pittura ha un
tempo, quello della sua realizzazione (quanti mesi o
giorni ha impiegato lartista per realizzare lopera).
Questo tempo è univoco, diversamente da quello variabile
in cui lo spettatore legge lopera. Cè,
dunque, una drammaturgia interna allautore e una
drammaturgia, sempre differente, per ogni spettatore.
Alle origini si trattava di fare coesistere la pittura e
le sue problematiche con la musica, con larte del
tempo per eccellenza. La musica esiste solo nellascolto,
nel tempo bloccato, immobile. Il teatro per noi è il
punto di congiunzione tra questi due tempi: dare tempo
alla visione, dare tempo alla pittura, in relazione con
la musica. E torno a Quando le parole non bastano.
"Dipingendo, Andrej scava in se stesso, nella sua
spiritualità dartista, e il farsi sotto i nostri
occhi di spettatori prima della crocifissione, poi della
Vergine Maria, non è altro che lespressione
visibile del percorso artistico vissuto in prima persona
dal monaco. Quando depone i colori e suona affidando alla
musica il compito di esprimere la tensione e la
drammaticità della propria introspezione fra arte e
fede, è come se manifestasse in note quel che con i
colori non si può spiegare".
Questa analisi è ancora una volta perfetta perché, al
di là della volontà di creare gerarchie intendo
le gerarchie tra i tre linguaggi qui si tratta di
un percorso personale.
Vi accennavo, allinizio, circa la mia infanzia. Per
anni ho parlato in maniera molto strana
larpavo
a vorescio oeic aggranammavo uttet le rapole
Avevo qualcosa, nei confronti del linguaggio, che non mi
tornava. Come vi ho detto poco fa, parlavo a rovescio
cioè anagrammavo tutte le parole. Questo segno di uninfanzia
può essere assolutamente determinante per il lavoro
futuro. Infatti, proprio per questa difficoltà a
parlare, ho cominciato fin da piccolissimo a dipingere e
a suonare, e queste due cose le volevo tenere unite,
indissolubili, fare di questi due mondi un linguaggio
unico.
Pur non volendo dare un ordine gerarchico agli elementi,
sicuramente nutro un amore diverso per ciascuna di queste
tre arti. Non sono tre figli che amo alla stessa maniera,
sono linguaggi differenti. La parola è quello con cui ho
maggiori difficoltà di relazione, con cui non mi sento
molto a mio agio; mentre mi sento perfettamente a mio
agio con la musica. Credo ci sia tra me, la musica e il
fare musica, un rapporto diretto, non mediato come nella
scrittura
un rapporto fisico, un modo per arrivare
irrazionalmente nella profondità interiore, cioè ad un
inconscio, andare nel profondo dei sentimenti in un modo
che nemmeno lascoltatore sa definire. Di fatto,
credo la musica sia difficilmente analizzabile nei suoi
effetti: è analizzabile nella sua composizione, ma non
nellemozione che produce. "In Auna
scena memorabile, per poesia e sensualità, lultima
icona è dipinta dallo strusciarsi sulla tela dei corpi
imbrattati di colori di due giovani innamorati. È il
punto di arrivo della ricerca interiore di Andrej, il
rendersi conto della necessità di unarte per il
popolo e del popolo. Il sogno di Andrej, quello che ogni
notte gli sfuggiva e lo tormentava, svelato grazie allamore".
Qui è centrale il corpo, un corpo di giovani. In Andrej
cè proprio un affidare loro il futuro, quasi
una voglia di ritirarsi. In Tarkovskij, nel film Andrej
Rublëv, la conclusione è lincontro tra lormai
vecchio pittore e il giovane costruttore di campane, che
insieme dicono: "Andremo tu a costruire campane, io
a dipingere monasteri". Lunione tra il maestro
che ha vissuto e il giovane che si affaccia alla vita.
Queste note scritte da alcuni giovani mi piacciono, perché
sento che si sta passando qualche cosa alle nuove
generazioni.
Il corpo è centrale, così come nel nostro fare. Allinizio
esisteva la forte tensione utopica a volte
realizzata che il corpo dellattore (il corpo
del performer, preferisco dire) fosse portatore di segni
diversi, sia della musica sia dellimmagine. Questi
linguaggi si manifestano attraverso il corpo.
Questo dicevo in una prima fase. Più avanti, il TAM ha
avuto a che fare con "altri" corpi, che
chiamerei "corpi che esprimono". Ho una certa
difficoltà, che forse ormai dovrei superare, a definirci
"attori", o a definire i corpi in scena "attori",
perché abbiamo sempre cercato di lavorare con corpi che
esprimono, senza per questo essere necessariamente
allenati ad esprimere. Sono corpi che "fanno delle
cose in scena", più che interpretarle. Questi
corpi, con cui abbiamo condiviso e vissuto insieme, sono,
per chi conosce il nostro percorso, quelli degli attori
detenuti, del nostro lavoro in carcere. E ancora le
parole non bastano. Non è coretto utilizzare il termine
"attori" per definire i corpi dei detenuti in
scena: è un prestito del teatro. Sarebbe necessario
trovare altre parole per definire le loro presenze in
scena.
Vorrei concludere con dei brevi pensieri sulla scrittura.
Nel primo periodo, il lavoro del TAM aveva una formula
laboratoriale, una pratica di scena. La scrittura
arrivava alla fine. Ciò che abbiamo sempre cercato di
ottenere è una scrittura comprensiva delle parole
appartenenti ai diversi linguaggi, del visivo e delluditivo.
La parola era trattata allo stesso modo di un altro
materiale scenico. Recentemente, in virtù di una pratica
costante nel corso degli anni, possiamo anche scrivere
prima di arrivare alla scena, proprio perché ormai
possediamo un nostro linguaggio, per cui molte cose
possono essere scritte in anticipo a tavolino, prima di
affrontare la scena.
Nel momento scenico è fondamentale la sincronia degli
accadimenti. È inimmaginabile, per noi, affrontare prima
laspetto musicale, associando poi laspetto
visivo. Lobiettivo è far nascere simultaneamente
nella scena tutti gli elementi. È completamente diverso
immaginare un suono con una certa luce piuttosto che con
unaltra. Lintervento della luce non può
essere sfasato nel tempo. È necessario cominciare, in
maniera anche incompleta, tenendo sotto controllo tutti
gli elementi.
Trama concettuale
del Baldus
di Marco Martinelli (Teatro delle Albe)
Vi parlerò del Baldus.
È lultimo testo-spettacolo realizzato con le Albe.
Dico "testo-spettacolo" perché non ho mai
scritto testi che non fossero già allorigine parti
integranti e "vive" di spettacoli in formazione.
Non ho mai avuto un "testo nel cassetto". Non
è una possibilità contemplata dal nostro modo di fare
teatro. In ventanni di pratica drammaturgica, ogni
testo è nato direttamente dal lavoro in palcoscenico e
con gli attori.
Dirò del Baldus come lavoro concettuale, proprio
nellaccezione del termine che, nel 1967, dava Sol
Le Witt allorché scriveva, parlando di arte concettuale:
"Lidea in se stessa, anche se non realizzata
visualmente, è unopera darte, tanto quanto
il prodotto finito". La definizione di Sol Le Witt
vale per tutti i lavori delle Albe, non solo per il Baldus.
Tuttavia, in questo nostro incontro, mi piace parlarne
proprio in riferimento al Baldus, perché in
questo spettacolo cè una sorta di dissimulazione
delle fondamenta concettuali che stanno sotto ogni lavoro
delle Albe. NellAlcina queste fondamenta
sono chiarissime; nel Baldus può invece accadere
che lo spettatore si confonda e scambi lo spettacolo per
unesplosione di pura energia giovanile, bello,
"fresco", divertente: "Ma guarda questi
ragazzi come sono vivi!... Sono proprio presi dalla
strada!
Ma come sono carini!
Ma come sono
simpatici!
"
Il Baldus è un lavoro concettuale, pesantemente
concettuale, proprio nel senso di Sol Le Witt e di
Duchamp. Il Baldus è la riscrittura di un poema
cinquecentesco in ventinove libri di Teofilo Folengo
scritto in latino maccheronico, ovvero in una lingua
completamente ricostruita, reinventata, che mescola alle
reminiscenze classiche i dialetti lombardi di Mantova e
Cremona. Inizia a Parigi, con un torneo alla corte del re
di Francia. Guidone, discendente del grande Rinaldo,
vince il torneo e Baldovina, la figlia del re, si
innamora perdutamente di lui. I due si guardano e,
durante il banchetto, si toccano sotto la tavola. Nella
notte avviene la fuga damore. Guidone scappa con
Baldovina, i due amanti sfuggono a tutti gli inseguitori
sguinzagliati dal re. Guidone sa che sta rinnegando il
suo onore cavaliere e sta facendo un grosso torto al re
di Francia, ma lamore travolge ogni cosa. I due si
allontanano da Parigi fuggendo in groppa a un cavallo.
Poi il cavallo muore e rimangono a piedi. Laceri, stanchi
e affamati giungono a Cipada, un piccolo villaggio citra
padum, "oltre il Po". Da Parigi si trovano
così scaraventati in un villaggetto come ce ne sono
migliaia in questo mondo; partiti da una capitale
arrivano nel "buco del culo del diavolo", come
dice Folengo. Questo "passaggio" è di
fondamentale importanza: è il primo tassello della
nostra costruzione concettuale.
A Cipada chiedono ospitalità a un contadino, Berto
Panada, che, subito, apre loro la propria casa e offre il
suo cibo: le sue cipolle, le sue fave, le sue zucche.
"Se fossi re o papa, non avrei la pace che ho nel
zappare la mia terra", dice orgoglioso Berto Panada.
Dalla corte raffinata del re di Francia i potenti sono
catapultati in un desco contadino. Berto invita gli
ospiti a restare e a dividere con lui la vita contadina
dei campi. Guidone ha un sussulto: "Ma come! La mia
Baldovina è in avanzato stato di gravidanza hanno
fatto le cose molto in fretta
e io non posso
stare qui, in questo paesello, e afferrare la zappa al
posto della spada! Io devo fare il mio lavoro di
cavaliere. Me ne andrò di nuovo per il mondo a cercare
di guadagnare, con la pace o con la guerra, un regno per
me e per il figliolo che le sta per nascere".
Detto, fatto. Guidone se ne va e abbandona Baldovina, che
rimane lì, ospite di quel buon contadino, e mette al
mondo il protagonista della storia, Baldus, che nasce così
a Cipada, ma è figlio di re. Baldus cresce a Cipada come
"il figlio della Baldovina", che nessuno sa
essere figlia del re di Francia. Cresce nella casa di
Berto, è un "mariuolo" come i ragazzi con cui
gioca e si azzuffa. E come tutti i figli di contadini
anche Baldus e compagni vanno a Mantova, a tirare i sassi
contro i figli dei nobili. Le guerre tra paladini dei
poemi di Boiardo e Ariosto diventano in Folengo sfide a
sassate tra bande di ragazzi.
Col passare del tempo, gli amici di Baldus diventano
sempre più malandrini. Si beve, si ruba. Per i figli di
poveri la vita è dura, bisogna impossessarsi in qualche
modo del mondo, non può restare solo ai re e ai nobili.
I ragazzi diventano dei ladri matricolati. Non vogliono
lavorare, rifiutano la fatica. Baldus fa lavorare per lui
Zambello, il figlio che Berto ha avuto nel frattempo da
una contadina, una sorta di fratellastro. Fa lavorare
lui, gli frega i soldi e se li beve allosteria con
i compagni. Una banda di briganti, di maledetti.
I nobili di Mantova si interrogano su come estirpare la
mala pianta di Cipada, covo di ladri e assassini. Il
potere comincia la sua repressione poliziesca, ma i
briganti rispondono con violenza ancora maggiore:
ammazzano Tognazzo, il "saggio" di Cipada, e
Gaioffo, il dittatore di Mantova. Inseguiti dagli sbirri,
nel decimo libro, fuggono da Cipada. Baldus e compagni,
ovvero Cingar, che è la prima rappresentazione di uno
zingaro nella letteratura italiana, Fracasso, Falchetto
salgono su una nave, la prima che trovano, e fuggono.
Durante il viaggio si scatena una grande tempesta, che
sembra sprofondarli allinferno, tanto è violenta.
A quel punto approdano invece in una isoletta deserta,
rocciosa. Non cè un filo derba, non un
albero, non un cespuglio: nessun segno di vita. Si
guardano intorno e trovano un pertugio che li porta in un
antro sotterraneo. Allinizio è tutto buio,
tenebra, poi, invece, cominciano a sentire dei rumori, a
intravedere delle luci, ed entrano in un antro
meraviglioso, tutto oro, argento e pietre preziose: è lantro
degli alchimisti, in cui il metallo viene trasformato in
oro.
Siamo nellundicesimo libro del Baldus, il
libro che fa da cesura fra le due parti del poema. Qui
Folengo dichiara la sua fede alchemica. Si domanda:
"Ma chi sono questi alchimisti? Non sono gli
imbroglioni, quelli che smerciano intrugli sulle piazze
rinascimentali, ma gli alchimisti dellimmaginario,
quelli che stanno agli inferi, quelli che trasformano
veramente il metallo in oro, perché hanno scoperto il
segreto dellAlfa, ovvero la pietra filosofale, la
sostanza della vita infinita". I Greci antichi
definivano zoê quella "vita infinita"
che scorre attraverso ognuno di noi, negli alberi, negli
animali, che fa sì che ogni morte biologica non possa
interrompere il decorso del mistero trascendente e nello
stesso tempo immanente che ci sovrasta e ci attraversa.
La zoê, sostanza invisibile e ideale, materia visibile e
concreta.
Da una parte Folengo chiama Baldus "stronzus
Cipadae"; dallaltra, attinge allAlfa,
la chiave metafisica che ci permette di toccare i "genitalia
rerum". Per questo duplice sguardo, Folengo è
un autore, come Jarry, amato e venerato dalle Albe; fanno
parte della stessa famiglia, pesantemente concettuali e
pesantemente materici. Sono insieme sublime e basso
osceno, corporale. È questo che ci affascina. Cosa
succede nellantro degli alchimisti? Perché è così
fondamentale questa cesura? Perché da quel momento i
malandrini si trasformano in cavalieri e scenderanno allinferno
a combattere i diavoli. Lenergia vitale che, prima,
si impastava indifferentemente di bene e di male, di alto
e di basso, impara a discriminare le sue componenti, si
fa consapevole e dà adito a nuove identità, frutto di
unopera di radicale trasformazione.
Ho concluso il mio Baldus con la fuga da Cipada,
non ho messo nello spettacolo la caverna degli alchimisti
e le conseguenti avventure, né la guerra allinferno
con i demoni, eppure proprio di questo si tratta. Il
processo teatrale realizza concretamente svolte,
cambiamenti, transizioni: prende la vita dove pulsa, la
porta in scena e lì la trasforma, sulla scena alchemica.
Folengo, che lavorava con le parole ed era, come
letterato, un grande narratore, per parlarci del grande
tema-idea della trasformazione ci mostra un prima e un
poi: il malandrino e il cavaliere, lo "stronzus
Cipadae" e luomo nuovo che sboccia al
tocco dellAlfa. Noi, che siamo uomini di teatro e
lavoriamo con le creature viventi, questa trasformazione
alchemica labbiamo vissuta giorno per giorno nelle
prove, labbiamo "vista" nella carne dei
nostri Baldus, Cingar, Fracasso, Falchetto cresciuti
sulla Statale 16 e nelle periferie romagnole: le
impressioni di felice energia e assoluta spontaneità che
vengono suscitate dai nostri giovani attori, fino a ieri
adolescenti ravennati privi di conoscenze teatrali,
barbari, "briganti", sono in realtà frutto di
lavoro rigoroso e di disciplina.
Lidea guida dellopera di Folengo la
trasformazione alchemica è invisibile e presente
nel tessuto del lavoro che ha reso possibile questo Baldus,
presente "in se stessa", come direbbe Sol Le
Witt, "unopera darte, tanto quanto il
prodotto finito". Lo spettatore che non percepisce lAlfa,
trama invisibile e sovrana, dietro il lavoro di
riscrittura, può sì divertirsi (che non è poco
),
ma non coglie la sostanza concettuale su cui poggiano non
solo il Baldus, ma il percorso ormai ventennale
del Teatro delle Albe. La scena delle Albe è da sempre lantro
degli alchimisti: dapprima ha trasformato in teatro la
Campiano anarchica e asinina di Ermanna e la romagnolità
arteriosa di Gigio, poi lAfrica di Mandiaye e Mor
apparsa sulle spiagge di Marina di Ravenna, infine la
selvatichezza di tanti adolescenti ravennati. Perché non
si tratta solo di "recitare", la recita è lesito
di un processo che coinvolge e trasforma la Vita.
Lautore in
scena
di Giancarlo Biffi (Cada Die Teatro)
Con sempre maggiore
frequenza ci troviamo di fronte ad autori/registi o ad
attori/autori. Lesigenza di esprimere le proprie
urgenze, le proprie visioni, porta il teatrante, sia
attore o regista, a muoversi nel teatro senza mediazioni.
I linguaggi sincrociano, si sovrappongono: il
soggetto, la scena, la drammaturgia, il lavoro dellattore
diventano matrice unitaria dellatto creativo. Il
bisogno di raccontare o di dare visioni si assorbe in un
unico progetto.
Si parte per un viaggio, per una esplorazione ogni volta
differente. Quasi sempre si tratta di penetrare tra le
fessure di una "vicenda" per trovare le
ragioni, lurgenza del suo divenire teatro. Il
"soggetto" viene preso in esame per aiutare a
capire, a comprendere sempre meglio la nostra natura e
tutto quello che si muove attorno ad essa. La vicenda
viene assaggiata, assaporata, riconosciuta per poi essere
sciolta nel teatro e così divenire unaltra vicenda...
la nostra vicenda.
Il teatro in funzione di un attore creativo, che sappia
essere non solo strumento ma anche creatore ed esecutore
della stessa partitura; un attore consapevole, che vive
il teatro come necessità, "ha qualcosa da dire"
e la scrittura scenica è lo strumento naturale per dare
voce a questa intima necessità.
La danza dellattore è fatta di parole, movimenti,
suoni, rumori, azioni, sentimenti e necessità. La
necessità di "dire" quando si è al centro
della scena, di dire qualcosa che abbia a che fare col
vivere oggi sulla terra. Il teatro come territorio "giusto"
per esistere, come luogo per una possibile risposta alla
barbarie imperante, alla continua violenza che ci blocca
il respiro.
Quasi mai sento il bisogno di cercare un testo da mettere
in scena; sono i problemi, le questioni che bruciano lesistenza
che vengono a me. È allora che le parole e le visioni si
fanno concrete e iniziano a prendere forma.
Operare per una scrittura teatrale, in grado di
trasferire in scena tensioni e passioni che bruciano la
carne dellesistenza, per riuscire a coniugare la
drammaturgia dellattore alla drammaturgia più
complessa della vita, per realizzare il bisogno di
sciogliere in poesia la quotidianità.
Si va in scena se si ha qualcosa da dire, altrimenti è
meglio tacere e lasciare perdere; è la forte urgenza che
ci spinge allallestimento, è proprio quando non se
ne può fare meno che la necessità diventa forza.
Magnifico trovarsi in scena non solo per se stessi, ma
perché spinti da un bisogno di dire, perché si è
ambasciatori di qualcosa che va oltre la propria singola
esistenza.
Il teatro è un mezzo per arrivare alla gente con altre
parole, con altre danze. Se fossi un muratore andrei nei
luoghi del bisogno a tirare su pareti, ma visto che sono
un teatrante non posso fare altro che costruire storie e
tessere percorsi. Percorsi e storie "vere" che
vibrino nel loro farsi teatro.
Dal silenzio al
silenzio
di Mauro Maggioni
Vorrei partire con un
ringraziamento al professor Meldolesi, che mi ha
finalmente chiarito un mio comportamento ricorrente. Io
ho una caratteristica: quando scrivo "il testo",
mi siedo davanti a un computer. Non scrivo quasi mai da
solo, scrivo insieme a unaltra persona che si
chiama Claudio Tomati. Quando mi siedo davanti a un
computer, ho la sensazione di indossare il vestito di un
fantasma; mi sento come se vestissi degli abiti che non
mi appartengono, che non hanno nessuna funzione: inutili,
socialmente inutili. Una grande solitudine. A quel punto
mi faccio sempre una domanda: "Perché siedo qua, in
questo deserto, cercando di scrivere un testo?". La
mia collaborazione con qualcuno nasce da lì: almeno
siamo in due davanti al computer, e possiamo
chiacchierare. Ma la domanda è sempre la stessa: "Come
si può scrivere un testo a tavolino, stando seduti?".
In due cè già un dialogo, un po di vita che
scorre. Da soli si rischia di osservare solo il proprio
ombelico.
Questo succede quando incarno la parte dellautore
che "va per premi" (io lo chiamo così). Lautore
che va per premi vive nella sua beata solitudine, scrive
unopera e non va da nessuna parte, se non in quel
tragitto compiuto dalla busta. Dieci copioni arrivano a
Riccione, vengono aperte le buste, vengono lette
se
ti va bene arriva una telefonata che dice: "Lei è
stato segnalato per questo premio
lei ha vinto
questaltro premio
" E tutto giace nel
cassetto.
Giace nel cassetto non per incuria o disamore dei
registi, ma perché nasce già nel cassetto, perché
è come una terra desolata. Per fortuna inconsciamente ho
anche un alter ego: lautore che costruisce sulla
scena. Lì non mi sento più né solo (perché siamo
alcuni a lavorare) e né soprattutto inutile, perché
vado a lavorare concretamente su qualcosa. Quello che
diceva Marco Martinelli, rimasticare le parole e poi
rivomitarle trasformate, questo andare a scuola dallattore
è fondamentale per essere vivi e per creare cose vive.
Ciò non significa che le cose che scrivo insieme a
Claudio non siano vive. Però hanno già un piede nella
fossa, hanno un odore debbo dire la verità
di deperimento organico. Lunico punto in cui riesco
ancora a sentire una vita in quella parte ancora
casualmente: dico sempre "sono un uomo fortunato",
sono un po figlio di Zeno, un personaggio a cui
accadono le cose e non può fare altro che seguirle
è la ricerca sulla lingua, che stiamo svolgendo
da qualche tempo. È la lingua natia, la lingua dei padri
o dei nonni: il milanese. Infatti nasco e vivo a Milano,
per poi decidere di fuggire, di emigrare a sud e finire a
Taranto. Quando uso questa lingua, quando la modifico, è
lunico momento in cui sento che scrivendo, in beata
solitudo o in compagnia, compio un gesto vitale.
Io e Claudio ultimamente stiamo scrivendo un altro testo,
un monologo
La nostra ricerca ha un padre altissimo
Giovanni Testori a cui non arriveremo mai,
anche se credo che ognuno nella propria vita debba
tentare di fare almeno un capolavoro. Quindi noi ci
proviamo.
I due spettacoli che presentiamo nella rassegna della
Soffitta, in occasione del progetto Laboratorio Sud,
sono una parte considerevole della mia storia. La
mattanza è un testo di sei anni fa, scritto per
indigenza in una settimana, vomitato fuori. Una prima
stesura, a cui è stata apportata solo una modifica,
eliminando lerrore più evidente: linserimento
del cattivo in scena, che era veramente straziante. Allinizio
i personaggi erano tre, ne abbiamo tolto uno. Il testo è
stato scritto di getto, in una condizione di totale
solitudine. Anche allora affiorava sempre la stessa
domanda, quella di una canzone dei Talking Heads: "My
God, what have I done?!" (Dio, che cosa ho fatto?!).
Però il demone mi aveva posseduto, e il testo è uscito
senza alcuno ostacolo. Ho detto: "Va bene, questo è
uscito, lasciamolo andare".
La mia formazione e qui arrivo al titolo della
relazione si è svolta a scuola dagli attori, nel
senso che ho lavorato per tre anni con Remondi e
Caporossi, due figure storiche dellavanguardia
romana degli anni Sessanta: dei post beckettiani. Dopo
Beckett la parola è inutile, e così hanno annullato la
parola. Ho fatto tre spettacoli con loro, nel silenzio.
Sono i miei numi tutelari dal punto di vista dellapprendistato
teatrale. Nei loro lavori, lattore è sempre
schiacciato da una macchina, è un produttore di energia,
è un criceto dentro un labirinto o dentro piccole ruote
che girano freneticamente. In uno spettacolo tipico di
Remondi e Caporossi cè sempre una grande macchina
scenica che imprigiona, intrappola. Non cè più
nemmeno la parola, non cè niente. Probabilmente,
dopo questo silenzio lo do come giustificazione
ho vomitato tutte quelle parole che sono La
mattanza.
Da lì parte un altro percorso, lincontro con il
CREST di Taranto, con alcuni ragazzi vitali, entusiasti,
e che ormai non esistono più, irreversibilmente
contaminati dal "fare lattore", una
trasformazione a cui non cè rimedio: purtroppo,
poco a poco, oltre al sapere si acquisiscono tutti i
vezzi del mestiere. Non sono più "quella cosa".
Con il CREST è nato dunque un lavoro di gruppo, con cui
ho prodotto molti spettacoli. Per arrivare allanno
scorso, e al precedente incontro con Liberamente di
Napoli. Con Davide Iodice decidiamo di fare una
coproduzione, che nel corso del lavoro si sarebbe
dimostrata piuttosto travagliata per la molteplicità
delle idee. In primis avevo cercato di proporre
uno di quei famosi testi che vincevano i premi, ma
nonostante facessi parte della produzione venne rifiutato.
Alla fine siamo arrivati a iniziare il lavoro con
niente. Ci siamo trovati e abbiamo detto: "Bene,
lavoriamo!", passando da Amleto a Ubu.
In realtà, quello significava già lavorare, partendo
però dagli attori: cerano delle proposte e gli
attori, su quelle proposte, creavano materiale. Una
proposta era "la sfilata di moda". La sfilata
di moda non prevede parole, contiene musiche e persone
che passano. Poi costruimmo cinquanta, sessanta minuti di
sfilata di moda delirante, dove passava veramente di
tutto. Ricordo che avevo dato agli attori degli stracci,
spazzatura che ero riuscito a raccogliere nel posto dove
provavamo. Con questa hanno creato dei mondi! Da questi
materiali creammo una sfilata di moda non formalizzata,
della durata di unora. Davide aveva partecipato ad
un funerale nel sud: lavorare con dentro quellesperienza
fu molto forte. Così, decidemmo di trasformare la
struttura circolare della sfilata di moda entrare,
uscire e scomparire dentro un telo in un funerale.
Anche un funerale rituale del sud ha la stessa struttura
circolare: usciti dalla funzione funebre, coloro i quali
hanno subito il lutto si siedono su delle sedie, e tutta
la gente che ha partecipato in chiesa al rito passa loro
davanti facendo le condoglianze. Che non è semplicemente
"condoglianze", con la mano stretta. È più
uno rito per spurgare il dolore, perché può protrarsi
per ore, in rapporto a quanta gente ha partecipato al
funerale. Ogni persona che passa davanti a chi ha subito
il lutto costituisce sicuramente un ricordo: è unimmagine,
un modo per rivedere in chi hai di fronte un frammento di
vita della persona mancata. Quindi, Io non mi ricordo
niente ha acquisito la forma di un funerale.
Sono passato dal periodo della formazione in cui non cerano
le parole, alleccesso verbale che può essere La
mattanza e da questo a un nuovo silenzio quasi
rituale. Cane nero è il mio ultimo spettacolo, vi
si possono riscontrare fortissime tracce di Io non mi
ricordo niente. Tuttavia, la parola è tornata ad
essere presente, sebbene modificata e un po
annientata dal lavoro degli attori e soprattutto
dalla musica. In Io non mi ricordo niente
era presente una costante partitura sonora che
accompagnava tutto lo spettacolo, e anche in Cane nero
la musica è stata la componente fondamentale nella
costruzione del lavoro scenico. È un percorso circolare
e aperto. Però, la parola scritta, la bella parola per
me ha comunque cessato di esistere.
Poetiche antiche,
nuove estetiche
di Gerardo Guccini
Il mio intervento si
articola in quattro punti: 1) il primo propone la nozione
di attore testuale, come particolarmente
rispondente al ruolo del drammaturgo nelle forme
rigenerate della scrittura teatrale; 2) il secondo
azzarda una scansione tipologica dei "significanti"
o "veicoli segnici" teatrali che caratterizzano
le esperienze del nuovo teatro; 3) il terzo tratta le
modalità discrizione della parola allinterno
di questo panorama segnico; 4) nel quarto vedremo se e
come sia possibile percorrere con i propri mezzi della
scrittura vie analoghe a quelle designate dai differenti
tipi di "significante" teatrale.
1 - Perché cercare una nuova espressione per indicare
chi partecipa alla creazione dello spettacolo lavorando
sui testi e le parole, quando abbiamo già a disposizioni
nozioni collaudate e duttili come "autore" e
"dramaturg"? Vediamo di individuarne le
inadempienze e i limiti rispetto a certe emergenze della
situazione attuale. Lautore, per definizione,
produce forme la cui oggettività estetica è
paradossalmente garantita, non tanto dallavvolgente
anonimato che riscontriamo nelle tradizioni popolari o in
quelle orientali (anonimato che indica la più sovrana
indifferenza verso tutto ciò che non sia la forma stessa),
ma dalla soggettività di chi le firma. A partire dalle
impostazioni del primo romanticismo, si è abituati a
considerare la forma una confessione esteticamente
mediata dellautore, e lautore un artefice che
declina la sua identità essenziale nel seguito delle
forme composte. Questo sistema di correlazioni che lega
"autore" e "forma", oggettività
estetica e soggettività psichica, è però estraneo alle
pratiche del nuovo teatro. Chi scrive per alimentare la
crescita degli eventi scenici (e segue quindi dallinterno
i movimenti del divenire teatrale) connette, infatti, la
scrittura agli attori, agli oggetti, alle azioni e ai
luoghi, e cioè ad entità e soggettività molteplici,
sperimentando associazioni, rispondenze e modalità
relazionali che, siano esse fondate sulla compenetrazione
o sullo straniamento, contraddicono comunque i principali
valori implicati dalla nozione di "autore": la
centralità della forma e il primato della soggettività
creatrice.
A differenza di quella di "autore", la nozione
di "dramaturg" procede direttamente dai
processi teatrali, e non oppone contraddizioni e attriti
alle culture del nuovo teatro. Il "dramaturg"
agisce di sponda fra autore e attore, fra testo e
spettacolo; fa nascere idee, proiezioni, rispecchiamenti;
rafforza lattoralità del testo e lautoralità
dellattore; dove è forte il ruolo del regista, è
lo straniero che dà consigli, che propone soluzioni
inopinate, e, al contempo, il collaboratore che dirama le
concezioni registiche nei territori del testo e della
sensibilità interpretativa. Tuttavia, proprio il fatto
che il "dramaturg" incarni le modalità
relazionali del processo teatrale anziché servirsene ai
fini duna creatività ulteriore e propria,
dissocia il suo profilo artistico dalle attuali proposte
di nuova drammaturgia, che esprimono esiti testuali
largamente significativi, spesso editi e fruiti anche
autonomamente. Non per questo, il nuovo teatro è
approdato ad una spettacolarità di repertorio o di pura
rappresentazione, anzi, i testi prodotti dalle attività
teatrali sembrano ignorare anche quando pubblicati
ed accessibili la via del ritorno alla scena. È
piuttosto accaduto che lattività di scrittura che
sintreccia al lavoro e alla vita del teatrante
abbia cambiato il panorama delle culture teatrali,
intersecando con modalità diverse da quelle del teatro
di pura rappresentazione il livello dellevento e
quello delle drammaturgie scritte: loralità dei
narratori è anche racconto; gli spettacoli delle
Albe sono anche drammi; la Valdoca è anche poesia
e scrittura; le performance di Moscato sono anche letteratura;
la riviviscenza delle origini è anche reinvenzione
testuale del dialetto. Per queste ragioni, mi sembra
pertinente vedere in chi scrive una sorta dattore
testuale; e cioè un artista che è presente ed agisce
nellevento scenico attraverso i testi che ha
assemblato, modificato o composto; le sue parole nascono
come teatro, sono elementi concreti e attivi dun
processo creativo che le suscita e se ne alimenta
trascinandole in scena. La nozione dattore
testuale non include (come quella di "autore")
la necessità di forme autonome e compiute, ma nemmeno
limita (come quella di "dramaturg") listinto
dialettico di autoaffermazione che porta a comporle, e
che, manifestandosi nella nostra storia recente, ha fatto
contestualmente rinascere dal teatro le finalità e le
strutture degli antichi generi letterari: lepico (Paolini,
Baliani, Curino), il drammatico (Martinelli, Scimone), il
lirico (Moscato, Gualtieri).
Lattore testuale agisce ai giorni nostri in
un sistema di culture, e, più generalmente, in una
civiltà dove la parola ha perduto la capacità di
modellare in senso "logocentrico" gli spazi del
sociale scuola e università compresi. Quindi,
poiché lattore testuale partecipa allevento
scenico col mezzo della parola, la sua posizione appare
oggi difficile, contraddittoria e paradossalmente felice.
La composizione del testo si nutre, infatti, delle
difficoltà che affronta; e mai la parola scritta è
apparsa così compiutamente teatrale come quando ha
dovuto lottare per conquistare al dramma concreti spazi desistenza.
Non è insomma un caso che i drammaturghi che ricordiamo
siano stati artisti fondatori, che hanno costruito
architetture di teatralità profonda frequentate nel
corso dei secoli tanto dal lavoro creativo degli artisti
che dallimmaginazione dei lettori (sono per
intenderci queste "architetture"
impalpabili eppure indistruttibili, che hanno fatto di
Seneca il maestro dei tragici rinascimentali, di
Shakespeare lautore più importante del XIX secolo,
dellAntigone sofoclea e del soldato Woyzeck due
emblemi dellumanità novecentesca).
Ora, con alle spalle oltre cento anni davanguardia
e modernità, si torna diffusamente a parlare di testo e
di drammaturgia, e ciò non perché le pratiche sceniche
(quanto meno in Italia) siano state rinvigorite dal
ritorno dellAutore. Il fatto è che il "nuovo
teatro" nato negli anni 60, abitato,
rimasticato e rivissuto dagli artisti venuti dopo,
ha incontrato e diffusamente frequentato la parola senza
perciò smarrire le proprie qualità essenziali: la
centralità del processo; la metabolizzazione operativa
ed estetica delle circostanze materiali e degli accidenti
biografici; la percezione del teatro in quanto luogo dei
possibili; listinto della ricerca; il valore della
necessità (personale, collettiva, storica). Quindi, per
meglio capire le drammaturgie del nostro presente
teatrale, conviene confrontarle ai modi relazionali fra
parola, attore e pubblico, che si sono prodotti e
intersecati gli uni agli altri a partire dalla svolta
degli anni 60. Per farlo in modo sintetico e
schematico, ho tentato di individuare i principali tipi
di "significante" o "veicolo segnico"
del "nuovo teatro".
2 - Gli spettatori del "nuovo teatro", giunti
ormai alla terza generazione, hanno evoluto antenne
sensibili alle emanazioni dellorganismo teatrale, i
cui segni intenzionali (simboli, riferimenti, enunciati
verbali) vengono così ad innestarsi su percezioni
determinate da altri fattori. Nel "nuovo teatro",
i processi comunicativi che scontano la crisi dei
modelli logocentrici si diluiscono in una
situazione intensamente relazionale, dove le impressioni
si trasmettono da organismo a organismo, da presenza a
presenza. Il "significante" al quale faccio
riferimento non si concatena dunque ad altri significanti
secondo codici prestabiliti, ma come indicava la
semiotica del teatro ai suoi albori è lopera
stessa, che indirizza la ricezione delle sue tracce, dei
suoi corrugamenti, delle sue sporgenze. Sono stato
indeciso se utilizzare come criterio guida, invece di
"significante" o "veicolo segnico",
la nozione di "sintomo" nellaccezione di
Ludwik Flaszen, che chiariva levolversi del
percorso di Grotowski con una distinzione semiologica fra
"segno" e "simbolo": "Possiamo
dire che nella prima fase di lavoro [
] i sintomi di
vita alimentassero i segni, la costruzione. In seguito,
la pensammo in modo opposto e le cause furono il pretesto
per manifestare i sintomi"1. Daltra parte, il
principale sintomo che annuncia la presenza dellattore
è proprio la qualità segnica del rapporto fra il mondo
della performance e lidentità di chi vi agisce.
Nel "nuovo teatro" si evidenziano tre tipi di
"significante" o "veicolo segnico",
rispettivamente rispondenti al teatro dei Maestri, alla
cultura delle avanguardie e a quei teatri che, praticando
i presupposti della ricerca, sono organicamente sfociati
in soluzioni largamente fruibili e capaci di stabilire
col pubblico un comune sentire. Recentemente si è
discusso del fenomeno denominandolo "teatro popolare
di ricerca"2. Per comodità dintesa, possiamo
chiamarli: "veicoli segnici" agglutinati,
"veicoli segnici" puri, "veicoli segnici"
mondo.
I "veicoli segnici" agglutinati non distinguono
il livello del significato dalla concreta presenza dellemittente
scenico, e, quindi, includono la rivelazione dellidentità
artistica ed umana dellattore, che riporta le
singole articolazioni dellagire fonico e corporeo
alle qualità generali del proprio essere forma vivente,
organismo luminoso, traboccante presenza. Campana,
Pascoli o Majakovskij filtrati da Carmelo Bene sono
altrettante possibilità di Carmelo Bene, manifestazioni
della sua identità dartista. È unesperienza
che tutti abbiamo provato. La voce e la presenza di Bene
impregnano il testo come il timbro del violino impregna
la musica suonata, con lincommensurabile
distinzione segnica che Bene, a differenza del violino,
non è uno strumento, ma una persona, ha un corpo,
sensazioni, pensieri, memoria, sensi, elementi tutti che
il "veicolo segnico" agglutinato richiama e
contiene sbilanciando a tutto favore dei secondi ogni
educato equilibrio fra lo scritto e il detto, fra il
progetto e latto. Un altro esempio: guardando il
video del Principe costante di Grotowski si resta
stupiti dal flusso di parole che percorre questo
spettacolo, che più dogni altro ha contribuito a
fondare il mito del teatro del corpo, e nello stesso
tempo si capisce che le parole, qui, sono iscritte in un
sistema extra-linguistico in cui la persona dellattore
è al contempo veicolo e contenuto: una rivelazione in
atto che, ancor più che comunicare, si comunica3.
Il "veicolo segnico" puro separa, isola,
rendendo le entità che entrano nella sua sfera dinfluenza
assolute e irresponsabili: affatto autoreferenziali. In
questa teatralità, le cose e le persone che appaiono in
scena non rappresentano laltro da sé, né sono se
stesse poiché rescisse dalla propria identità
pregressa, e lattore, non perseguendo lobiettivo
di ricreare scenicamente lorganica unità di corpo
e mente, si rende disponibile a venire fruito come
figura, frammento o tessera dun insieme valutabile
in base alle correlazioni formali fra le sue parti, non
certo in quanto enunciato né in quanto espressione.
Penso, fra le avanguardie romane degli anni 70,
alla spettacolarità di Memè Perlini, irta di presenze e
atti performativi ostentatamente inconciliabili; al
successivo azzeramento del testo e della scrittura
scenica a favore dellattraversamento tecnico-stilistico
dei media e della centralità dellimmagine (i primi
Magazzini, Falso Movimento, Barberio Corsetti); e,
infine, alla generazione degli anni 90 (Motus,
Masque, Teatrino Clandestino, Fanny & Alexander)
nella quale lautoreferenzialità dei movimenti davanguardia
sembra essersi trasformata da contingenza sperimentale e
mezzo di rivendicazione (anche politica), in struttura
profonda del pensiero4.
Il "significante" puro cancella lidentità
anteriore delle presenze teatrali instaurando in questo
vuoto di significati lautoreferenzialità scenica
delle persone e delle cose. Eugenia Casini Ropa ha
osservato che le avanguardie dellultima generazione
hanno ristabilito la quarta parete; limmagine è
efficace, vorrei però aggiungere che, in questi casi, la
quarta parete non si colloca idealmente fra il pubblico e
lo spettacolo, ma è lo spettacolo stesso; non separa le
presenze sceniche ma viene da queste costituita e, per
così dire, innalzata. Mentre il "veicolo segnico"
agglutinato si traduce in forme performative attraverso
le quali traspare la luminosità dellattore, il
"veicolo segnico" puro rende il teatro astratto:
e lo fa, ancor più che deformandone visivamente gli
elementi, recidendo i legami con il mondo dei significati.
Cose e persone appaiono sulla scena "significanti"
puri, sono la materia estetica di unopera che li
ridefinisce inglobandoli: zone del campo visivo,
fotogrammi, immagini di qualcosa che è lì, presente,
accessibile, ma non esiste in altri tempi e luoghi.
Il "veicolo segnico" mondo trasporta nello
spazio scenico identità fortemente caratterizzate del
reale, che continuano a significare e ad essere loggettiva
porzione di mondo che sincarna in loro. Il nuovo
teatro ha aggirato la crisi del modello mimetico
rappresentativo sostituendo allimitazione linclusione
diretta del reale. Attori reclusi, portatori di handicap
o segnati dal disagio psichico mettono lo spettatore
nella speciale condizione di osservare la vita quotidiana
che canta la propria volontà di trasformarsi. Parlando
di "veicolo" mondo viene naturale pensare a
Pippo Delbono e al suo "teatro degli esseri",
alla "danza verità" di Platel, a Punzo e ai
reclusi della Compagnia della Fortezza, agli adolescenti
del Baldus di Marco Martinelli; tuttavia, la
ricontestualizzazione del reale nello spazio scenico è
anche alla base delle soluzioni, oggettivamente
diversissime, del teatro di narrazione, in cui il
racconto procede dalla persona del narratore, che si
dichiara e rappresenta sia come testimone del racconto
che come personaggio. Il "significante"
agglutinato assimila le identità del reale,
risucchiandone lenergia, la globalità, la storia;
il "significante" puro le separa dalla loro
vita pregressa; il "significante" mondo le
conserva e ricontestualizza teatralmente, estraendone i
risvolti poetici, le tensioni transformazionali e, per
quanto riguarda il teatro di narrazione, i contenuti
mitici.
3 - La parola sintreccia con modalità diverse a
ciascuno di questi tipi segnici. Il segno agglutinato si
confronta in genere con la densità espressiva e laltezza
formale della grande letteratura. Tale "veicolo",
per potere assumere la persona dellattore e rifarla
in quanto forma, richiede, infatti, che la parola
predisponga unatmosfera di eccezionalità e, per
così dire, sigli il distacco dalle convenzioni
quotidiane. Alla dialettica fra i tempi storici e allo
scorrimento lineare del tempo materiale, si sovrappone
qui un orizzonte di valori antropologici permanenti, unimmagine
di uomo che resiste ai cambiamenti della condizione
umana, e che, riflettendosi nelle opere letterarie,
estrae quei testi e quelle affermazioni di pensiero che
presentano qualità di concentrazione, essenzialità
e durata affatto analoghe alle proprie. Il Principe
costante si sviluppa a partire dal testo di Calderón
nel rifacimento del poeta romantico Juliusz Slowacki; Apocalypsis
cum figuris, lultimo spettacolo di Grotowski,
monta brani biblici ed evangelici con scritti di
Dostoevskij (I fratelli Karamazov), T. S. Eliot e
Simone Weil; Carmelo Bene riunisce nel suo percorso di
artista le vette della lirica italiana (Dante, Leopardi,
Campana); Leo de Berardinis estende il florilegio dei
classici alle opere di tutte le arti, e, col suo
spettacolo per attore solo: past Eve and Adams
(1999), compone quello che possiamo forse considerare il
più esplicito manifesto circa le disposizioni letterarie
del "veicolo segnico" agglutinato. Scrive nel
programma di sala: "Nessun senso cronologico, ma unenorme
onda al di là della suddivisione artificiosa della
storia; unonda armonica dove [
] La Gloria
di Colui che tutto move per luniverso penetra e
risplende sul mare viola di Omero e si frange
nei nodi quasi stelle della Ginestra leopardiana"5.
Il "significante" puro esibisce la separazione
delle espressioni letterarie dal loro contesto
originario, dichiarandone la natura di citazioni
infinitamente cedevoli, leggere e disponibili tanto alla
sostituzione che ai giochi del montaggio.
Infine, il "significante" mondo vede nel
parlato una proprietà del parlante: dettagliato,
fluente, espressivo se questi è un narratore; assorbito
dalla grana della voce, che impone le sue cadenze, il suo
timbro e il suo ambiente, nel caso degli attori del
disagio; oppure ridotto a fonemi e suoni, ad una musica
di rumori umani, se questo, per lappunto, è il
linguaggio di chi parla.
4 - Vediamo ora in che modo e con quali esiti lattore
testuale può assimilare le proprietà di questi tre
differenti tipi di "significante".
Il "veicolo segnico" agglutinato
essendo, di fatto, una modalità della presenza dellattore
non rientra fra le possibilità dassimilazione
del linguaggio verbale. Mentre questultimo (sia
nella narrativa che nel dramma) definisce i propri
oggetti descrivendone lesistenza virtuale, il segno
agglutinato include e connota in senso formale la persona
che lagisce. Tuttavia, proprio nellambito di
questa teatralità, lespressione letteraria svolge
un ruolo essenziale: allena lattore a confrontarsi
dialetticamente con opere "altre"; allarga gli
orizzonti di coscienza; formalmente, agisce come il
chiaroscuro nei quadri dei caravaggeschi, e cioè dà
energia, plasticità e slancio a espressioni mimiche e ad
anatomie corporee che, considerate in sé, esistono
indipendentemente dai giochi di luce ed ombra. Insomma, lespressione
letteraria, se anche non costituisce in questi casi loggetto
dellevento drammatico, collabora potentemente alla
sua definizione, formando di spettacolo in spettacolo una
sorta di repertorio ombra la cui unitarietà
dipende dalla particolare identità dellartista
scenico cui è dedicato o intorno al quale si aggrega.
Esemplare a questo proposito la serie di scritti che ha
accompagnato il percorso di Ermanna Montanari: dapprima
Marco Martinelli, autore e regista del Teatro delle Albe,
ha tratto dalla sua presenza scenica un personaggio di
madre popolare e primigenia, romagnola e infera: la Daura
di Bonifica e Refrattari. Poi, sempre sotto
la guida di Martinelli regista non solo degli
spettacoli, ma anche del processo creativo ,
Ermanna si è confrontata, attraverso la poesia di Nevio
Spadoni, con altre trasformazioni della stessa identità
fisica e linguistica, fonica e morale. Ed è stata "la
Bêlda,/la fiôla dla pôra Armida" in Lus;
Varia, ulteriore avatar di Daura, nella prima e
nella terza anta del Perhindérion; Alcina nel
recente Lisola di Alcina. Il "veicolo
segnico" agglutinato, riportando gli enunciati
verbali allidentità artistica e umana dellattore,
mette in luce larchetipo umano dei singoli
personaggi, che, come un fiume carsico, affiora nelle
diverse interpretazioni precipitando il ruolo degli
autori dei quali, pure, conosciamo benissimo i
nomi, i percorsi, lopera in unoriginaria
e feconda condizione danonimato, dove ad enunciare
le parole è, come dice Hugo, una "bocca dombra"
che parla per tutti e, nellascoltarla, ci rende
coro muto plausibili fonti dei suoi enunciati,
testimoni e portatori di quel magmatico patrimonio di
pensieri e movimenti della sensibilità dal quale lartista
trae il filo e talvolta il disegno delle sue tessiture.
Il "veicolo segnico" puro non è uninvenzione
del teatro, ma discende dalle punte della sperimentazione
letteraria che ha sondato lautoreferenzialità del
linguaggio con netto anticipo rispetto alla scena. Dice
Foucault, autore assai ascoltato dalle avanguardie
teatrali degli anni 70 e 80: "La
letteratura (e questo senza dubbio a partire da Mallarmé)
si sta lentamente trasformando [
] in un linguaggio
la cui parola enuncia, nello stesso tempo in cui dice e
nello stesso movimento, la lingua che la rende
decifrabile come parola"6. La lingua "enunciata"
dalla parola annulla dunque quella di partenza, alla
quale sostituisce unarticolazione creativa che non
necessariamente esprime o comunica. E cioè, una non
lingua. Nel caso dei "significanti" puri,
la lingua coniata dallartista non presenta surplus
di sorta; anzi si caratterizza rispetto a quella
comune per via del suo esclusivismo, della sua radicalità,
della sua vocazione ad essere essa stessa realtà
e a tacitare quanto non le corrisponde nel cono dombra
dellassenza. Sulla pagina come sulla scena o negli
spazi della figurazione, gli oggetti della creazione
estetica possono dunque subire un processo di reificazione,
che costituisce forse uno dei più ricorrenti ed evidenti
elementi di contiguità fra le avanguardie dello scorso
secolo.
Il "veicolo" mondo realizza il sogno dun
linguaggio in cui gli enunciati e i contenuti coincidono,
e lo spettacolo si risolve in una visione di esistenze.
Naturalmente, lespressività verbale, passando da
questa dimensione orale e performativa alla pagina
scritta, viene rescissa dalle identità umane che aveva
scenicamente declinate, e smarrisce quindi quella
condizione dassoluta armonia e compenetrazione per
cui era stata parte inscindibile, voce e canto di
particelle infinitesimali, ma anche significative e
uniche dellesistente; tuttavia, proprio il
sentimento della perdita e listinto a risarcirla,
possono instillare alla parola detta la necessità di
trasformarsi in "opera", in ricostruzione
artificiosa e compiuta del mondo. Detto con una sola
parola: in letteratura. Le dinamiche della teatralità
riconducibile alla nozione di "veicolo" mondo,
contemplano il salto dalloralità alla letteratura;
così come, daltra parte, le modalità del "veicolo
segnico" agglutinato, facendo dellattore
testuale un organo della dialettica fra lidentità
e la presenza dei performer, contemplano in certi casi un
analogo salto dalloralità al dramma.
Lattore testuale ricava dalla frequentazione
della tipologia segnica qui esaminata diverse strategie
compositive. Il "veicolo segnico" agglutinato
lo porta a corroborare laffioramento dei paradigmi
umani con testi sapienziali e intarsi di sentenze; oppure
gli fa concepire la parte scritta in quanto biografia
teatrale e cifrata dellattore. Il "significante"
puro gli consente di svolgere una linea testuale
parallela, che, proprio perché ispirata agli stessi
criteri estetici della concezione scenica, non ingloba lo
spettacolo che la contiene (cosa che, peraltro, non mira
in alcun modo a fare). In questi casi, lattore
testuale predispone materiali verbali dai quali
ricavare indistinti tappeti fonici, slogan, contrappunti
ironici, citazioni riconoscibili, pseudo allocuzioni e
pseudo dialoghi che completano lunità iconica
delle presenze sceniche.
Nei dintorni del "veicolo segnico" mondo, lattore
testuale definisce e connota con citazioni,
indicazioni, secche e icastiche battute il rituale che
organizza le azioni, e, inoltre, si confronta col vario
rigenerarsi dellespressione letteraria dalloralità.
Si pensi ai libri nati dalle esperienze di "teatro e
narrazione", oppure allinizio di Barboni di
Pippo Delbono: un limpido brano autobiografico, che
potrebbe svilupparsi in forma di monologo o di racconto,
e che invece, secondando le esigenze del segno mondo,
introduce e chiarisce la presenza personale dellautore
nel suo spettacolo.
Le strategie creative dellattore testuale,
nonostante coprano unampia gamma di possibilità
estetiche, sono comunque accomunate dal fatto di
svolgersi allinterno dei processi teatrali. È una
condizione significativa e determinante, che, nel
presente, favorisce la pratica degli sconfinamenti fra le
funzioni dello spettacolo, mentre, in una più ampia
prospettiva storica, avvicina le nuove drammaturgie alle
antiche poetiche degli autori che operavano nel teatro.
Anche per questi artigiani della parola scenica, lesercizio
della scrittura si risolveva, infatti, nella stesura di
testi in parte allusivi, lacunosi, cifrati, e
compiutamente intelligibili ai soli artisti scenici, che
ne dispiegavano potenzialità e possibilità attraverso
la realtà compiuta dello spettacolo. Il "dramma"
autonomo, pubblicabile e fruibile anche indipendentemente
dalla realizzazione scenica, non era (allora come oggi)
una norma, ma piuttosto lesito di contingenze
particolari o specializzazione ulteriori, che lasciavano
comunque trapelare anche nelle opere limate, corrette ed
edite il sotteso fluire duna tecnica di scrittura
preclusa al lettore. Dice Molière nellavviso Al
lettore che precede la commedia-balletto Lamore
medico (1665): "tutti sanno che le commedie son
fatte solo per la rappresentazione, e quindi consiglio di
leggere questa solo a chi ha occhi per scoprire durante
la lettura tutte le sfumature della recitazione". Le
parole vendute ai lettori e al pubblico, nascono nelleconomia
dei rapporti interpersonali fra gli artisti scenici.
"Tutti i grandi testi che ci sono rimasti ha
recentemente osservato Siro Ferrone [
] sono
in realtà, anche se raccontano daltro, la storia dun
diario di lavoro"7. Anche il "nuovo teatro",
dunque, rientra nella sotterranea tradizione che
attraversa i teatri creativi di tutti i tempi,
convertendo al loro interno loralità in testo, le
relazioni in rituali scenici, la conoscenza in
drammaturgia. Non è importante, ai fini della vitalità
del teatro, che lattore testuale ritrovi le
vie che portano allAutore con lA maiuscola.
Ad essere veramente essenziale è invece il fatto che le
realtà teatrali siano "luoghi dei possibili" (Fabrizio
Cruciani) dove le avanguardie continuano a trovare i
propri "altrove", ma è anche possibile
rivivere incanalandoli magari verso la
composizione di opere "altre" che non siano in
realtà forme, ma nodi dellesistente i
movimenti genetici dellespressione letteraria,
della poesia, del dramma.
NOTE
1. Cit. in Jennifer
Kumiega, Jerzy Grotowski. La ricerca nel teatro e
oltre il teatro 1959-1984, Firenze, La casa Usher,
1989, p. 90.
2. Cfr. il dossier Teatro popolare di ricerca, a
cura di Gerardo Guccini, Massimo Marino, Valeria
Ottolenghi, Cristina Valenti, in "Prove di
Drammaturgia", Anno V, 1999, n. 2.
3. Cieslak afferma Grotowski ricordando lattore
principe del suo teatro in un intervento del 9 dicembre
1999 era un artista della stessa grandezza,
mettiamo, dun Van Gogh "perché aveva saputo
trovare la connessione del dono col rigore"
intendendo con dono il "dono di sé", il "dono
al suo lavoro". Cfr. Jerzy Grotowski, Le Prince
constant de Ryszard Cieslak, in Ryszard Cieslak,
acteur-emblème des années soixante, a cura di
Georges Banu, Arles, Actes sud - papiers, 1992, p. 20.
4. "Ciascuno di questi gruppi mostra una
concentrazione decisamente inusitata di linguaggi
autoreferenziali che si riconoscono, in definitiva, nella
sfera di una "superindividualità" artistica:
la scelta del teatro vuole essere fondamentalmente una
scelta darte, espressione di sé attraverso unazione
che non rimanda ad altro, non significa altro". (Stefania
Chinzari - Paolo Ruffini, Nuova Scena Italiana. Il
teatro dellultima generazione, Roma,
Castelvecchi, 2000, p. 122).
5. Leo de Berardinis, Se Ofelia recita Leopardi,
programma di sala di past Eve and Adams.
6. Michel Foucalult, Storia della follia nelletà
classica (1963), Milano, Rizzoli, 1976, p. 643.
7. Siro Ferrone, Come nasce un copione, in AA. VV.,
Seminario sulla drammaturgia, a cura di Luigi
Rustichelli, Purdue University, Bordighera incorporated,
1998, p. 9.
Lettera aperta
di Eugenia Casini Ropa
Rileggendo a distanza
di alcuni mesi il mio intervento sulla "drammaturgia
della danza", per renderlo idoneo alla
pubblicazione, mi accorgo che le riflessioni proposte
allora a caldo, soprattutto sulla stimolante suggestione
della relazione di Gerardo Guccini, mi paiono oggi non
sufficientemente approfondite e in parte superate. Nel
frattempo, infatti, ho avuto modo di procedere nellapprofondimento
degli argomenti accennati, sia in discussioni con
studiosi e artisti, sia con la lettura di nuovi scritti,
soprattutto americani. Oggi questo lavoro di indagine è
per me in pieno corso e i suoi frutti in termini di
scrittura necessitano di qualche tempo ancora per essere
del tutto maturi.
Preferisco quindi non pubblicare il mio intervento nei
termini riduttivi che presenterebbe ora, ma mi prefiggo
di ampliarlo, per il prossimo numero di "Prove di
drammaturgia", in uno scritto che dia conto e
discuta delle aperture metodologiche e delle
interpretazioni critiche apparse più di recente. In
particolare, oltre che sulla stessa pertinenza del
termine "drammaturgia" in danza, sarà
interessante interrogarsi come del resto fanno
alcuni studiosi, soprattutto semiologi sulle
modalità di costruzione del "senso" attraverso
il movimento, sulle analogie con i processi della
scrittura, sui rapporti retorici della danza col suo
soggetto, sul binomio "coreografia/drammaturgia",
sugli approcci consci o inconsci a queste problematiche
individuabili nella danza contemporanea.
Un personaggio
chiamato Provenzano, riflessione sulla drammaturgia a Sud
di Andrea Porcheddu
Si potrebbe partire, in
effetti, da un dato concreto. Se cè un elemento
interessante, in questa scialba stagioncina teatrale,
segnata più dalle pastoie politiche che da invenzioni
teatrali, è proprio la ri-scoperta della drammaturgia
contemporanea. Sono segnali evanescenti, piccole
testimonianze, brevi suggerimenti di un modo possibile di
fare teatro.
Cè chi continua a scrivere, ma cè anche chi
"comincia" a scrivere. E ci sono compagnie e
teatri che si accostano, con rinnovata verginità, a
quelle scritture. Complice, chissà, la moda inglese
come sempre, dalla minigonna ai Beatles, lInghilterra
ci regala improbabili mode e ora tocca ai nuovi
arrabbiati o il suggello tedesco, ma anche da noi
si scopre una nuova drammaturgia. E il dato è di non
poco conto.
Viviamo in unepoca di continua eiaculazione
precoce, di virtuosismi virtuali, di vuoto portato alleccesso.
Unepoca di superficialità glamour teorizzata
e incoraggiata, da "ora del dilettante"
esaltata da ansia giovanilistica: anche nel teatro,
certo, in questo piccolo mondo antico, cè chi
ancora si emoziona per delle sfilate di moda e belle
immagini di imberbi e impreparati attorini.
Tutto si consuma in fretta, spesso con violenza, con un
ardore maschilista saccente e arrivista. Il culto per la
produzione fine a se stessa, per il commercio creativo,
per il progetto fatto solo per accontentare le esose
richieste di un kafkiano ministero della cultura. Il
culto, insomma, un po fascista parola
grossa, ma chissà perché di grande attualità di
un teatro privo di qualsiasi contatto con la ragione, con
la profondità ancora viva della società
Prevale,
allora, quella strombazzata virtualità, lidea e la
voglia di fuggire, la fuga dal reale.
Il teatro immagine, quel teatro immagine che allora
quasi venti anni fa sembrava una
rivoluzione in atto, una risposta innovativa alla verbosa
e concettuale esperienza politica di tanti artisti, ha
lasciato, come strascico mal compreso, solo un estetismo
manierato, un vezzo barocco e decadente, unidea di
attore-genio incompreso, maledetto e istrionico, isolato
e puro, che può andare in scena per il solo fatto di
sentirsi artista, auto-giustificandosi e auto-gratificandosi.
E le drammaturgie (questa volta al plurale) di simile
teatro sono spesso derive pseudo-poetiche, illusioni
ombelicali, deliri interiori, drammi piccolo-borghesi di
figli di papà insoddisfatti moltiplicati in spazi
scenici che diventano bomboniere ovattate.
Daltra parte, e parallelamente, si avverte una
angosciante ricerca di miti, di punti di riferimento, di
confronto con una memoria che non è più. Abbiamo perso
drasticamente il nostro passato: ci siamo illusi, e ci
illudiamo, di essere lottava potenza industriale
quando, in realtà, siamo ancora la prima nazione di un
terzo mondo agricolo
Questa schizofrenia
caratteriale spinge certo nostro teatro allo spasmodico
confronto con "certezze", con valori, con idee
politiche o meno forti. Siamo un popolo di
ultras, di tifosi, e abbiamo sempre bisogno di una
squadra, di un leader, per il quale tifare.
Ecco, allora, ad esempio, la balcanizzazione della nostra
scena: il continuo riferirsi alla violenza della guerra
nella ex-Jugoslavia, ecco il grande ritorno alla
Resistenza, alle storie di lotta partigiana. Esperimenti
di scrittura che a volte direi anzi spesso
riescono, ma che altre volte rimandano ad un esercizio di
stile, ad un "vorrei ma non posso", ad un gusto
naif annaffiato da eccesso di solidarietà.
Confusione, allora, confusione ovunque: ci muoviamo su
terreni minati, perdendo direttrici e orientamento.
Certo, non tutto è così: procediamo, anche qui, per
veloci generalizzazioni, e quindi per facili provocazioni.
Ma sono tendenze largamente riscontrabili. Però. Però
qualcosa sembra muoversi. Segnali, si diceva, segnali di
drammaturgia contemporanea. Non è un caso che questi
segnali vengano, prevalentemente anche se non
esclusivamente dal Sud.
Ci si interrogava sulla possibilità del tragico nel
contemporaneo: se ne parlava anni addietro, ovviamente,
confrontandosi con lo struggente lavoro di Carmelo Bene,
se ne discute ora a proposito delle algide letture di
Luca Ronconi. Ma se il cinema, con il Lars Von Trier di Dancer
in the dark, o in versione decisamente ironica
con il Woody Allen di La dea dellamore,
riporta con successo sullo schermo la struttura della
tragedia greca, il teatro sembra essersi arenato sulla
"distanza": non cè più spazio per la
tragicità, se non evocata, criticamente o cinicamente,
da lontano. È ancora valida questa riflessione? Viene da
domandarselo. Se andiamo a sbirciare i percorsi di
scrittura dei nostri più interessanti autori
contemporanei, vediamo che il senso tragico emerge, con
forza, pressoché ognidove.
La tragicità, come sguardo sulla conflittualità dei
rapporti umani e sulla ineluttabilità di un destino
sempre dolorosamente presente, viene metabolizzata e
riproposta in testi che pur prendendo spunto dalla
quotidianità riescono ad evocare paradigmatiche
nuove mitologie del contemporaneo. La riscoperta della
tragedia, dunque, è possibile e non mancano esempi.
A partire proprio dalla scrittura aspra di Franco
Scaldati, impastata su uno sciamanesimo linguistico e
fisico, dove la poesia si tinge di un nero dolore, di
grande maturità. Inutile stare qui a ricordare limportanza
del laboratorio fatto da Franco nel quartiere dellAlbergheria
di Palermo, e le difficoltà in cui è costretto ad
operare: resta unopera scritta e verbale
che lascia il segno.
Vorrei ricordare il formidabile lavoro sui riti del lutto
di Aura Teatro, quella ricerca sapiente e antica, eppure
modernissima, che lega con un filo la tragedia greca alla
barbara quotidianità della Sicilia di oggi. Vorrei
ancora citare il lavoro di Scena Verticale, la creazione
di figure totemiche femminili che incarnano il
senso profondo del dolore di una società privata, come
si è detto, di contenuti. Sarebbero molti gli esempi da
citare, emblematiche rappresenta-zioni di una vitalità
culturale e di una sensibilità creativa che non ha
confronto: il sud Italia presenta, oggi, un teatro che è
forse tra i più interessanti dEuropa.
Altro elemento portante di queste scritture, ovviamente,
è la presenza del dialetto: di lingue che sono altre,
diverse da quello che Margiangela Gualtieri chiama "litaliano
dalla corretta sintassi". Lingue sporche, suoni
duri, materici, primordiali. Perché il dialetto? Perché,
ovviamente, racconta di più. Lo diceva, in una recente
intervista, Francesco Suriano, altra nuova penna del Sud
Italia, che ha scritto in calabrese Roccu u Stortu.
In dialetto scrive Spiro Scimone anche se ne La
festa ha raggiunto la perfetta quadratura del
cerchio, colorando di uneco dialettale appena
accennata un italiano popolare. Esplorano il sardo il
gruppo Cada Die e Leonardo Capuano, e, per tanti versi,
anche Giorgio Simbola. È fortemente dialettale la
matrice dei nuovi narratori che provengono da Roma, lottimo
Ascanio Celestini e il giovane Michele Sinisi, che
affonda la sua scrittura nel dialetto pugliese.
Riecheggia fin troppo il dialetto nei tanti gruppi che
ogni anno escono da Napoli.
Dunque, tragedia, dialetto e società. Vorrei ora
soffermarmi proprio su questo terzo elemento portante
della drammaturgia del sud Italia: dando, finalmente, un
senso a quel titolo Un personaggio chiamato
Provenzano che sarà sembrato a molti solo un
gioco di parole ad effetto. Che centra Provenzano,
boss inafferrabile della mafia siciliana? Centra, e
vedremo perché.
Il teatro del Sud, mi è capitato di sostenere, è un
teatro che non ha tempo da perdere. Che arriva allo
spettacolo sfiancato, stanco delle mille difficoltà, dei
tanti problemi, delle prove fatte in fretta e male. Ma
che trae linfa vitale, continuamente e naturalmente, dal
contesto in cui si muove.
A quella realtà difficile e frastagliata il teatro
guarda, e non può non farlo: si pensa continuamente a
cosa succede attorno alla scena, e tutto quel mondo si
riversa scontroso e dolente nella scrittura, nel lavoro,
nello spettacolo.
È questa, forse, lessenza di quello slogan
teatro popolare di ricerca che è stato elaborato
tempo fa: la ricerca linguistica e contenutistica del
teatro del sud non può prescindere dal suo essere
profondamente popolare, radicato nel popolo e nellidioma,
nella complessità del sociale.
Dunque un teatro politico, senza dubbio, di una politicità
che non è più solo agit-prop partitico, ma è politicità
greca: comunità, sguardo complesso, e apertura allincontro.
Non è un caso che i teatri del sud siano piccole
cittadelle accoglienti: il Kismet, Koreja, il nuovo
Garibaldi di Santa Maria Capua Vetere. Luoghi vivi, perché
abitati da persone vive, luoghi di resistenza teatrale
Il rischio, allora, è quello di sentire il fascino di
Provenzano: e mi spiego. Come raccontare una realtà che
rischia di non essere raccontabile? Come affrontare certi
temi? Il problema, in questi casi, è il pericolo della
retorica. Per retorica intendo quel plus-valore "marxiano"
e tutto borghese che un prodotto può portarsi dietro.
A metà anni Novanta abbiamo vissuto il boom di Napoli:
tutto quello che era napoletano era buono, in quanto tale.
Si avverte, in lontananza, un rischio simile anche per la
drammaturgia del Sud: tutto quello che è scritto da sud
perché "politico" e perché tragico e
perché dialettale è buono. Non sempre,
naturalmente, è così.
Vorrei prendere ad esempio uno spettacolo, pur riuscito
in molti suoi aspetti: ovvero Acido fenico, di
Koreja Teatro. Lavoro notevole, perché insiste in un
intelligente percorso di prosa e musica che Salvatore
Tramacere ha intrapreso. Qui la musica è affidata ai Sud
Sound System, con evidente successo. Si scivola, semmai,
sul testo, scritto da una penna importante come il
magistrato De Cataldo. Testo infarcito di "cronaca",
e, mi si consenta, di "luoghi comuni": senza
quella "distanza poetica" necessaria perché
simili parole funzionino sulla scena. Allora, a fronte di
un encomiabile tentativo di lavoro, il risultato diventa
stucchevole. Leccesso di realtà brucia nella
finzione
Diverso è lapproccio di Marco
Martinelli per il Miles realizzato con il Kismet,
laddove lattualizzazione del classico illumina di
squarci sorprendenti la realtà.
Come raccontare Provenzano, dunque? Non sta a me dare
risposte, semmai porre qualche domanda. E si tratta di
domande troppo ampie per essere affrontate in un contesto
simile. Ma se ne può tentare qualcuna.
Se, come sembra, la nuova drammaturgia del Sud Italia,
una volta abbracciata in un unico sguardo, potrebbe
dignitosamente competere con quella inglese o irlandese o
tedesca, potrebbe essere interessante immaginare una
"esportabilità" di questi testi: possono
essere messi in scena da altri che non siano gli autori
stessi? Esiste, effettivamente, un "caso Provenzano"?
Ovvero: esiste il rischio "teatro-cronaca"?
Infine: come scongiurare la consacrazione modaiola, linvestitura
che il Nord produttivo e concreto fa di questo Sud
poetico e artistico?
Domande sterili, semplici considerazioni per un futuro
ancora ben al di là da venire. Resta, oggi, questo
enorme patrimonio teatrale: di un Sud che, ancora una
volta, sa regalare emozioni inattese.
Drammaturgie per
il Nuovo Teatro
di Massimo Marino
Quello che segue, più
che un intervento critico è la composizione di un
centone di testimonianze, dichiarazioni di poetica,
descrizioni, riflessioni che hanno per oggetto la crisi
della vecchia drammaturgia e i molteplici e
contraddittori tentativi per disegnare nuovi confini alla
scrittura per la scena o sulla scena. Una sorta di
viaggio fra documenti diversi continuamente interrotto da
nuovi scorci, da non scontate apparizioni, da impreviste
prospettive che riaprono la discussione sul punto di
vista.
"Non si è mai parlato tanto di teatro come in
questi giorni", scriveva Ennio Flaiano sul
settimanale "LEuropeo" dell11
luglio 1965. "Tutto nasce dal fatto che la rivista
"Sipario" fa tre domande agli scrittori, sul
teatro, e pubblica le risposte di 31 scrittori [
].
In generale gli scrittori trovano che non è possibile
scrivere per il teatro, da noi, mancando le premesse
essenziali: un linguaggio e una società. Una commedia
italiana che non sia in dialetto, ha sempre laria
di essere stata tradotta dallinglese o dallamericano.
Il risultato, dice Baldini1, è una lingua che potrebbe
chiamarsi "italiese", che non si parla nella
vita e neppure nei romanzi [
].
Ormai sappiamo che cosa respinge gli scrittori italiani
dalla scena: la mancanza di un linguaggio, di una società,
di un pubblico, la certezza che per tutte queste ragioni
il teatro sia una forma di arte inferiore o comunque
accademica, non aderente alla realtà. [
].
Tutto è sapere che cosa pensa, che cosa vuole oggi la
nostra società. Se non vuol nientaltro se non ciò
che già possiede, un certo benessere, una certa libertà,
una certa paura, che bisogno può avere di un linguaggio,
cioè di un teatro? Che cosa deve raccontarsi, che non
possa farlo con litaliano scritto, medio, coi suoi
romanzi, coi suoi elzeviri, con le sue inchieste [con la
sua televisione, possiamo aggiungere noi, oggi]? Il
teatro non è soltanto rappresentazione della realtà, ma
anche trasfigurazione della realtà, è protesta, un modo
di essere presenti, un modo di spiegarsi il proprio
tempo, o alla peggio di negarlo"2.
Sottolineiamo: Flaiano, citando alcuni degli scrittori
intervenuti nel dibattito (Pier Paolo Pasolini, Alberto
Moravia, Natalia Ginzburg), arrivava a concludere che lunica
drammaturgia credibile fosse quella con una radice
dialettale.
Il Nuovo Teatro parte da qui: dalla consapevolezza di una
frattura fra lingua e teatro, fra teatro e società, fra
lingua e società. E, nel clima che precede il 68,
prova a buttare tutto allaria, per approdare dalla
drammaturgia alla scrittura che avviene sulla scena3,
legata a tutti gli altri elementi del teatro. Attraverso
molti esperimenti, etichette, tormenti, la parola "drammaturgia"
viene riportata alla radice filologica di costruzione di
azioni, lavoro di azioni che possono basarsi su molti
elementi diversi, "perfino su un testo scritto",
come ha ripetuto per anni Leo de Berardinis. Riscoprendo,
spesso per vie inusuali, la potenza, la necessità della
parola. Di una parola proteiforme, che si coniuga allazione,
allimmagine, al lavoro dellattore, allo
spazio, al suono, alla pratica scenica. Una parola
necessaria, che tenta di penetrare, interpretare,
scalfire il reale. Ma il cammino è ancora lungo e
chiediamo la pazienza del lettore.
Ripartiamo dal manifesto che prepara il convegno del
Nuovo Teatro tenutosi a Ivrea nel 1967, firmato da vari
esponenti del rinnovamento di quegli anni (fra gli altri
Corrado Augias, Giuseppe Bartolucci, Carmelo Bene,
Sylvano Bussotti, Leo de Berardinis, Lele Luzzati, Franco
Quadri, Luca Ronconi, Giuliano Scabia e Aldo Trionfo).
Nella sezione scrittura drammaturgica si legge,
fra laltro: "Per scrittura drammaturgica deve
intendersi lelaborazione dellazione
drammatica, sia sotto forma di dialogo, sia sotto forma
di note che fissino e determinino le linee sulle quali
debbano svilupparsi i movimenti scenici.
Il rifiuto di una concezione naturalistica del teatro
comporta anzitutto la contestazione del linguaggio
naturalistico attraverso la negazione della poeticità
teatrale, la frantumazione del personaggio, la
riflessività tra lingua e personaggio, ecc. Essa deve
basarsi inoltre sullimpiego della scrittura
drammaturgica esclusivamente in funzione del rapporto che
si deve costituire tra il palcoscenico e la platea. [
].
Il rifiuto di dare un valore preminente alla parola
scritta obbedisce alla necessità di assumere nella
scrittura drammaturgica tutti quegli elementi della
"contemporaneità" che costituiscono oggi i
segni principali dellevoluzione della società4.
Sul rifiuto del testo, della parola, della drammaturgia
si sono scritte molte sciocchezze. In continuazione, in
questi ultimi quarantanni, hanno tuonato i richiami
allordine di chi vuole, anche da insospettabili
posizioni apparentemente avanzate, che il teatro sia
qualcosa di uguale a se stesso, con uno statuto definito
una volta per tutte. I sommovimenti che descriviamo hanno
provato a incrinare questa fede. Ma è evidente che non
vi sono riusciti del tutto, se si ripete in continuazione
il ritornello del necessario ritorno al testo, allautorità
dellautore. A quale testo? Con quale necessità? Il
teatro, dato per morto o ingessato varie volte, dimostra
nellimprevedibilità delle sue strade, dei modi per
rinascere e per trasformarsi nellepoca dellimmagine
e del postindustriale, del postmateriale, di essere
principalmente "corpo vivente".
E via da Ivrea verso la ribellione studentesca del 1968 e
quella operaia e sociale del 1969, lautunno caldo,
con gli scontri di Corso Traiano a Torino. Prova a
confrontarsi con quei fatti, con la loro memoria e con le
contraddizioni che aprono, un intervento di "animazione
teatrale" in alcuni quartieri periferici della città
voluto dal Teatro Stabile del capoluogo piemontese. Ai
tempi l"animazione", rivolta
principalmente ai ragazzi, e gli esperimenti di "teatro
a partecipazione" sembrava dovessero rinnovare la
relazione scenica privilegiando il percorso, il processo
messo in atto, rispetto al prodotto spettacolare,
tendendo ad abolire la separazione fra "operatori"
e "spettatori", che dovevano trasformarsi in
"attori" partecipi, portando nel lavoro comune
tutto il proprio vissuto e tutta la propria creatività.
Lintervento è affidato al poeta Giuliano Scabia,
uno dei drammaturghi più consapevoli di quegli anni,
autore di uno dei primi esperimenti di scrittura insieme
con gli attori (Zip, rappresentato alla Biennale
di Venezia del 1965). Scabia persegue unidea di
teatro "dilatato", un modo di fare "dal
basso", insieme alla gente, che rinnovava
necessariamente le procedure artistiche. Dalla sua
cronaca dellintervento elenchiamo alcune
definizioni che testimoniano la necessità di intendere e
"scrivere" il teatro in modo radicalmente
diverso:
Sciopero articolato/Teatro articolato; Teatro
intervistato; Teatro in casa; Teatro è visione del
trauma; Teatro delle interviste; Teatro come indagine
intorno allidea di teatro; Teatro è ricerca del
teatro; In certe occasioni le commedie non vanno scritte;
Teatro come volantino filmato da portare di casa in casa;
Recitazione come struttura repressiva; Teatro è anche
riuscire a fare teatro in qualunque condizione data; Fare
teatro è anche documentare la presenza delle immondizie;
Teatro è anche fermarsi nel corso della
rappresentazione; Teatro è anche andare di strada in
strada a dire alla gente che si fa teatro e invitarla5.
Poco dopo, Scabia costruirà Marco Cavallo con i matti
dellospedale psichiatrico di Trieste diretto da
Franco Basaglia e andrà in giro per campagne e quartieri
industriali con un gruppo di studenti a raccontare nelle
case, nelle scuole, nelle osterie, nelle strade vecchie
favole contadine in forma di teatro (Il Gorilla Quadrùmano
e Il brigante Musolino), chiedendo in cambio agli
"interlocutori" ricordi ed esperienze della
cultura locale.
Schema vuoto da riempire con gli attori, canovaccio per
inventare azioni a partecipazione, performance, teatro
immagine, teatro di gruppo, nuova spettacolarità
contaminata con la cultura visiva, attore autore, teatro
danza: la scena a cavallo degli anni Settanta è dilatata
fino a riformulare e moltiplicare il concetto di
drammaturgia e i materiali stessi dellarte teatrale.
A questo punto incontriamo il libro di Oliviero Ponte di
Pino, un critico cresciuto con il Nuovo Teatro, che
fotografa nella seconda metà degli anni Ottanta gli
esiti di un cammino ormai ventennale: "Il
rinnovamento del linguaggio, secondo modalità già
praticate da altre avanguardie, procede prima di tutto
per invasioni, contaminazioni e sconfinamenti; è una
tendenza a attraversare i generi che insospettisce e
allontana i critici più tradizionali, in genere restii a
misurarsi su terreni per loro inesplorati e insoliti. In
una prima fase sono le arti visive a imporre un
allargamento di prospettiva. Larte concettuale, il
comportamentismo e la body art costituiscono per esempio
un importante punto di riferimento per molti spettacoli
"autoriflessivi": si tratta da un lato di
utilizzare, magari come citazione, o come materiale di
lavoro, una determinata opera; ma si tratta anche di
appropriarsi del procedimento che la sottende e del
progetto artistico cui si ispira"6.
Il discorso si riferisce a gruppi quali la Gaia Scienza
di Giorgio Barberio Corsetti, Falso Movimento di Mario
Martone (che si va trasformando, in quegli anni, in
Teatri Uniti), la Compagnia i Magazzini di Federico
Tiezzi e Sandro Lombardi e altri. Per loro "la
rimozione del testo, della parola, appare inizialmente un
passo necessario nella rifondazione della comunicazione
teatrale"7.
Ma in quella stessa seconda metà degli anni Ottanta è
ormai evidente anche la rinascita di una drammaturgia in
senso più stretto. Si tratta di una nuova scrittura per
il teatro che affonda nelle lingue, nei dialetti, nelle
pratiche dattore e in quelle tradizioni teatrali
che già Flaiano dichiarava lunica realtà della
nostra scena. Dentro e oltre i confini del dialetto si
andavano, infatti, generando esperienze di confronto
serrato e anche conflittuale con le radici, di distacco
da ogni oleografia populista per misurarsi con lo
smarrimento contemporaneo, per curare lafasia con
lingue antiche e nuove insieme e con gesti allaltezza
dei tempi.
Annibale Ruccello e poi Enzo Moscato a Napoli sono attori
e scrittori che scavano lingua e degrado partendo da un
recupero dellimpianto narrativo, salvo poi
approdare (è il caso di Moscato) a esiti di lirismo
monologante o a infinite variazioni che compongono opere
a molti strati. Franco Scaldati a Palermo scrive in un
dialetto arcaico storie poetiche e straziate, stralunate
e violente, per approdare al lavoro nel quartiere
marginale dellAlbergheria.
Di quegli anni sono le prime prove delle compagnie
romagnole, alla ricerca di una "lingua"
teatrale nuova, capace di esprimere urgenze e di
tracciare connotati e confini contemporanei alla bellezza.
Tale ricerca passa per limmagine e il gesto per il
Teatro Valdoca, che alla fine del decennio approderà a
particolari lavori che compongono la poesia di Mariangela
Gualtieri con le visionarie costruzioni registiche di
Cesare Ronconi. La Socìetas Raffaello Sanzio parte con
la ricerca di una lingua artificiale, la Generalissima,
per viaggiare poi dentro il mito e dentro storie forti
dellimmaginario occidentale, da Amleto alla Genesi,
con lesigenza di rifondare la scena nel segno della
crudeltà propugnata da Artaud, mettendo in tensione
linguaggi diversi con lirriducibile diversità di
corpi macilenti, enormi, mutilati, esaltati, sofferenti,
oppressi, modificati. Marco Martinelli con il suo Teatro
delle Albe fa, da autore e da regista, un teatro
politico, anzi politttttttico (con sette t), a
significare una molteplicità inesauribile di piani, in
cerca di identità sociale e artistica, e quindi
linguistica. Una sperimentazione che porterà al teatro
meticcio afro-romagnolo, realizzato con attori italiani e
con immigrati senegalesi, allincontro con il
dialetto, con la poesia di Raffaello Baldini e oltre,
fino a un teatro di suono e di magia che vede in Ermanna
Montanari la splendida protagonista, e agli ultimi lavori
imperniati sulla gioventù, una gioventù che corre fra rave,
discoteche e stadi, smarrita, smaniosa di consumare, di
vivere, rappresentata nei Polacchi (dallUbu
di Jarry) e nel Baldus (dal poema
cinquecentesco di Teofilo Folengo). Sono teatri
autodidatti, senza radici nellarte tradizionale,
con necessità vitali, alla ricerca di antenati (anche
scrittori), di lingue per raccontare, aggredire la realtà.
I "rimossi" anni Ottanta pullulano di ricerche
drammaturgiche: cosaltro sono il teatro di
narrazione (Marco Baliani, Marco Paolini, Teatro Settimo
e tanti altri), il teatro dei nuovi comici (dai Gemelli
Ruggeri ad Alessandro Bergonzoni, passando per decine di
nomi), il teatro di poesia? Il teatro dellattore
autore e quello dellautore attore si intrecciano
variamente, portando a riscrivere testi in relazione alle
forze in campo nella creazione scenica e a costruire
partiture verbali, poetiche, per linvenzione dellattore.
Si afferma anche una drammaturgia del quotidiano che
insegue tagli narrativi non esclusivamente teatrali, in
particolare quelli del linguaggio cinematografico o
televisivo (Umberto Marino, Roberto Cavosi e altri), e unaltra
di impianto mitologico, cerimoniale o psicanalitico (Giuseppe
Manfridi, Rocco Donghia e altri). Lautore in realtà
continua a esistere, anzi si moltiplica: lo testimoniano
le centinaia di copioni presentati a concorsi di
drammaturgia grandi e piccoli. Difficile sarebbe
individuarne le molteplici tendenze e sfumature.
Sicuramente questi drammaturghi sopravvivono più che
vivere, con scarse occasioni per essere rappresentati e
valorizzati e con una certa lontananza dalla scena
concreta. Fra gli anni Ottanta e i Novanta è come se si
erigesse un muro che sembra insuperabile fra coloro che
lavorano con la scena, sulla scena, per la scena e quelli
che elaborano testi, che poi difficilmente arrivano al
pubblico.
Uneccezione di qualità è rappresentata da alcuni
scrittori che sono anche attori, come Spiro Scimone e il
giovane Fausto Paravidino, rivelazione dellultima
edizione del prestigioso Premio Riccione (1999). Entrambi
sono ascrivibili a un orizzonte di derivazione
pinteriana, intinta in fortissimi umori dialettali nel
caso di Scimone. Così pure fanno eccezione alcuni
artisti fuori dalle regole, pasoliniani ed eccessivi,
come Antonio Tarantino (e pochi altri).
In realtà, il Nuovo Teatro italiano di più lunga
militanza ha superato i cosiddetti generi, le
imbalsamazioni: alla ricerca su linguaggi diversi, al
gruppo, al lavoro incentrato sullattore ha unito lindagine
drammaturgica e registica. Questo possiamo dire, oggi.
Dopo un rifiuto immediato, gli artisti che hanno iniziato
a operare negli anni Settanta e Ottanta in qualche modo
si sono scontrati con lesigenza di pensare a fondo
i problemi della drammaturgia. Si pensi al percorso dei
Magazzini, che, a partire dalla metà degli anni Ottanta,
si confrontano con lesigenza di "reintegrare
il testo letterario nel tessuto spettacolare" e,
quindi, "con i grandi autori della drammaturgia
novecentesca"8, da Beckett a Testori.
Tuttavia, loriginario rifiuto totale era
comprensibile. A degli autodidatti come erano quasi tutti
gli esponenti più interessanti di quella generazione,
nel testo sembrava contenuta la trappola di una
tradizione che stabiliva vincoli estranei, che non
consentiva mediazioni, che sembrava allontanare da quel
gesto "contemporaneo" che bisognava agire più
che pronunziare. Numerosi sono stati i sospetti nei
confronti del testo, proprio per i motivi che coglieva
Flaiano nellarticolo che abbiamo citato allinizio.
Anni Novanta, una nuova ondata teatrale avanza con
rifiuti nuovi o simili a quelli del passato. Con la
spinta, ancora, a fare teatro per esprimere qualcosa di
necessario, anche solo per affermare la propria presenza
attraverso larte.
La lingua diventa quella del corpo, il corpo è il
linguaggio e lossessione prediletta. Corpo come
apparenza, immagine, in mezzo a una civiltà delle
immagini, dello spettacolo. Un corpo spesso cyber,
mutante, oppure mostrato come un reperto, un feticcio,
scrutato con sensibilità da voyeur, inscatolato in
macchine, offeso, scarnificato, glorificato oppure
mescolato con immagini proiettate, rivelato dietro
schermi, filtri, filmati.
Ma questa generazione, innamorata più degli scritti
filosofici che della drammaturgia, della pittura di
Bacon, delle idee di Baudrillard, dei mondi crudeli di
Ballard, dei vuoti di Beckett, è in realtà molteplice.
Se è chiaro alle coscienze che sta avvenendo una
mutazione genetica, dopo quella antropologica, anche il
teatro deve pensarsi diverso da se stesso. Non può
esaurirsi nelleterna catena testo-regista-attore-pubblico.
Si invoca latto, la reinvenzione del rapporto
spazio-temporale. Ma forse non si vuole affatto riformare
il teatro: semplicemente lo si vuole usare, perché è larte
meno costosa, più collettiva, e perché dà la
possibilità di esserci. Alcuni dei nuovi gruppi
usano il ferro, il plexiglas, il campionatore più che la
recitazione. Partono da sé, dallinquietudine e
dalla visione e non da canoni. Ma si tratta di una
galassia composita, che divora tutto. E macera,
metabolizza. Perfino la drammaturgia, la poesia. Basta
non rinchiudere in gabbie la voglia, la necessità di
sperimentare.
Unultima citazione, dal libro che Paolo Ruffini e
Stefania Chinzari dedicano a questi ultimi scenari,
tratta dallintervista a Romeo Castellucci della Socìetas
Raffaello Sanzio, considerato, in quel volume, il padre
putativo o perlomeno il fratello maggiore di riferimento
di molti degli ultimi gruppi:
"Ecco, il testo. Come è possibile essere fedeli
e allo stesso tempo tradire il testo in molti modi,
arrivando persino a ridurlo al silenzio?"
Nel testo cè tutto. È quasi un paradosso che
lo dica io, là dove nel nostro Amleto non si
sentiva praticamente una sola parola di Shakespeare. In
realtà non è un problema di testo, di letteratura:
Shakespeare non si può resuscitare e non sarebbe neanche
interessante farlo; non si tratta di cogliere il reale
spirito dellautore. Si tratta quasi di acquisire
una certa stupidità di fronte a questi testi: vanno
letti molte volte, fino a non capire più niente e dopo
questo lavoro continuo le parole diventano materiale come
altri elementi della scena. Questo rapporto con la
materia è partito proprio da Amleto, mentre prima
il nostro rapporto con il linguaggio era decisamente
sovrastrutturato: avevamo addirittura creato la
Generalissima. Amleto invece ha avuto la forza di
far precipitare il linguaggio di un gradino ancora più
in basso, fino a soppesare e ricondurre la parola a
materia. Da qui deriva il rapporto fortissimo con la
parola dellinfanzia e del bambino autistico, che
viene sempre messa in relazione con le feci. La parola
aveva questo ingombro, esattamente il peso di un corpo,
ma non per questo abbiamo fatto un lavoro di
cancellazione del testo. Al contrario è stato fatto un
lavoro di profondità, fino a farlo riassorbire. Là dove
è cancellato ritorna in forma fantasmatica, di sogno
inconsapevole, di scelte estetiche"9.
E a questo assistiamo nella pluralità doggi: al
ritorno della drammaturgia come "fantasma", o a
varie specie di suoi "riassorbimenti",
metabolizzazioni in una scena che mira oltre, verso i
crinali delle discipline, dei mezzi espressivi. Ma
sentiamo anche la necessità di ridare consistenza allidea
propria di drammaturgia, di testo, di tessitura. Unidea
che, per quanto possiamo dilatarla, rimane come una
traccia guida per esprimere una visione delle cose, del
mondo e un fare per la scena: un bisogno di parole e
storie concentrate su di sé, che siano in grado di
rimettere in moto il nostro sguardo sulla realtà, sullimmaginario,
sui territori della nostra coscienza; unaspirazione
che deve realizzarsi con i mezzi del teatro del tempo.
Alla fine di questo cammino accidentato, raccontato per
schizzi rapsodici, sta davanti a noi ancora il problema
della scrittura, dellimmagine e del corpo vivente.
In un qui e ora che si dibatte fra il bisogno di
concretezza, di verità, fra le rappresentazioni che ci
dominano e la voglia di uscire dai propri limiti, attuali
e profondi. Ancora una lotta, una tensione senza
soluzione, da assumersi, da vivere giorno per giorno,
contraddittoriamente, fra immagine corpo e verbo.
NOTE
1. Si tratta di
Raffaello Baldini, autore di poesie in dialetto
romagnolo, che saranno portate sulle scene negli anni
Novanta da Marco Martinelli e da Ivano Marescotti.
Baldini scriverà anche, dopo questa prima esperienza,
dei testi, in dialetto e in lingua, pubblicati dalleditore
Einaudi.
2. Ennio Flaiano, Un personaggio in cerca del cappello,
ora in Ennio Flaiano, Lo spettatore addormentato,
Milano, Bompiani, 1996, pp. 226-229.
3. Il critico Giuseppe Bartolucci la chiamerà "scrittura
scenica" nel volume intitolato appunto La
scrittura scenica, Roma, 1968.
4. Elementi di discussione del Convegno per un Nuovo
Teatro, in Franco Quadri, Lavanguardia
teatrale in Italia (materiali 1960-1976), Torino,
Einaudi, 1977, p. 143.
5. Cfr. Giuliano Scabia, Teatro nello spazio degli
scontri, Roma, Bulzoni, 1973, in particolare Azioni
di decentramento, pp. 195-426.
6. Oliviero Ponte di Pino, Il nuovo teatro italiano
1975-1988, Firenze, La casa Usher, 1988, p. 19.
7. Ibidem, p. 20.
8. Pier Vittorio Tondelli, Un week end postmoderno,
Milano, Bompiani, 1998, p. 236.
9. Stefania Chinzari - Paolo Ruffini, Nuova scena
italiana. Il teatro dellultima generazione,
Roma, Castelvecchi, 2000, p. 99.
|