Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia 2/2001

RELAZIONI E INTERVENTI

La letteratura perfetta, ovvero il Teatro dei salti mortali
di Enrico Ianniello e Tony Laudadio (Onorevole Teatro Casertano)

La letteratura è perfetta. Se ne sta lì, distesa sulla pagina, compiuta, in attesa di qualcuno che ne raccolga quanto serve e che la riponga dov’era, sugli scaffali o sui comodini. La lettura è intima e privata, non si sa come avviene agli altri, si conosce solo la propria, il proprio modo, le proprie condizioni ideali e il resto. La condivisione della letteratura, della lettura, non esiste: se ne può parlare, magari se ne può ricordare qualche passo o anche citare interi brani, ma non la si può condividere perché, sostanzialmente, rimane una fonte per la propria immaginazione e non si può rappresentare l’immaginazione, se non tramite il teatro. Ora, quando si decide di prendere questa perfezione, strapparla alla pagina per portarla in scena, bisogna essere coscienti che si tratta di un’impresa molto ardua perché da una perfezione non si sa come crearne un’altra, ed è probabile che non ci si riuscirà. Partendo da questo presupposto, quello che ci si domanda è: perché cercare a tutti i costi di andare incontro ad un fallimento? I motivi naturalmente sono personali, ognuno ha i propri ma è possibile cercare delle linee comuni. L’amore per l’autore, l’emozione provata alla lettura di un romanzo, l’occasionale incrociarsi dei propri interessi artistici con le parole trovate in un dato libro o in un dato scrittore. Tralasciando motivi forse meno nobili ma ugualmente presenti quali: la fama di uno scrittore utile alla vendita dello spettacolo, una forma di narcisismo del regista che vede nell’affrontare una determinata letteratura una specie di traguardo personale, il narcisismo dell’attore nell’interpretare i personaggi immortali dei grandi romanzi. Naturalmente questi sono anche i nostri motivi – i più e i meno nobili – e a questi se ne aggiunge un altro che definiremmo ludico. Il piacere del gioco: la riscrittura di una pagina per il teatro comincia da qui, da un nostro gusto, forse infantile nel vedere i personaggi vivere secondo la nostra volontà, muoverli, farli parlare, prenderli in giro o sul serio, proprio come farebbe un bambino con i suoi soldatini. Questo piacere dell’invenzione è fondamentale. Distruggiamo la letteratura perfetta per ricostruirla, ce ne riempiamo la testa per poi dimenticarla. Il seme deve morire per dare frutti.
Da alcuni anni lavoriamo attorno a un’idea di teatro che ci corrisponda appieno, e che ci aiuti a rappresentare, oltre che a comprendere meglio, la nostra visione del mondo. Questa idea si è andata concretizzando, nel corso del tempo, in una stringente scelta stilistica: nell’aver prediletto, cioè, la comicità e il lavoro sulla recitazione. Nei nostri ultimi spettacoli (La farsaccia, Rosencrantz e Guildenstern sono morti) infatti, la scelta della leggerezza ha vissuto un percorso a più livelli, sempre saltellando però sul baratro dello spaesamento e dell’inadeguatezza, tra la farsa da torta in faccia e la battuta sagace e consapevole. E gli attori – noi per primi – hanno avuto il compito di regalarsi generosamente e senza paure, mettendo in gioco la propria memoria e la propria capacità di simpatia.
Il primo passaggio delle opere di Céline dalla pagina alla scena è cominciato per noi nel 1998. In quell’anno l’associazione "Ricerche d’Equilibri" (trasformatasi poi in Onorevole Teatro Casertano) ha prodotto un primo laboratorio su Viaggio al termine della notte e Casse pipe, presentando poi un frammento del lavoro nell’ambito del Premio Torresani a Cremona.
Già in quella fase si evidenziò, con molta chiarezza, un possibile rapporto tra l’attore e i testi celiniani; rapporto che richiedeva, però, forza e presenza di attori che non rischiassero di rimanere schiacciati da un testo così alto, ma che sapessero dare vita a situazioni e personaggi "masticando" lo stile di Céline, e facendolo proprio. Nel corso del tempo abbiamo lavorato, quindi, all’adattamento drammaturgico e alla costruzione dello spettacolo, cercando una frequentazione costante con lo spirito di Bardamu e degli altri protagonisti che ce li rendesse più vicini senza sminuirli, tanto da poter ardire un confronto diretto con le nostre esistenze e le situazioni che conosciamo meglio.
Poi ci siamo chiesti: quanto spazio può occupare, in scena, la letteratura? Quanto è possibile renderla corpo dell’attore senza farne sentire la letterarietà? Quanta azione teatrale si riesce a tirare fuori da un libro conservandone le altezze poetiche? Dove finisce la narrazione, e dove comincia il monologo? Quanto bisogna distruggere e reinventare il testo per la scena? Quanti salti mortali bisogna fare per non cadere nel vuoto? E naturalmente non per un’esercitazione; ci siamo interrogati piuttosto su questi temi per via di un’esigenza: la letteratura del Novecento ci ha offerto, spesso, spunti di riflessione che non abbiamo trovato nella drammaturgia di questo secolo. O meglio, a parte i capolavori della drammaturgia contemporanea, abbiamo avuto in alcuni testi letterari la sensazione di un’esattezza nella descrizione di un mondo che maggiormente ci corrisponde, e nel quale si muovono figure di cui condividiamo angosce e voglie.
Siamo così arrivati a Louis Ferdinand Céline.
L’ironia non cede mai il passo alla tragedia, ma piuttosto la amplifica, scherzandoci con lo sguardo di un giovane entusiasta. Questo è il primo aggancio col nostro teatro. La lettura irretisce per una superba capacità stilistica, per un lavoro sulla parola e sui contenuti che affascina e diverte per poi mostrare tutto l’orrore del "secolo della velocità" che stava per cominciare. Teatralmente, questa materia si trasforma in un ventaglio di possibilità comiche: dalla farsa all’umorismo, dalla battuta fulminante e greve all’aforisma sottile. Il giovane Ferdinand/Bardamu – il protagonista dei romanzi – pone, sorridendo sfacciatamente, domande importantissime. Nei romanzi di Céline la posizione preminente è sempre occupata dall’inquietudine, dalla fuga perenne come salvacondotto per resistere, anche a costo di commettere dannatissimi errori. E si fa largo, tra le righe dell’avventura, l’orizzonte tragico del Novecento con tutto il suo carico di disillusione; la tragedia celiniana non è, infatti, una tragedia passionale: consiste bensì nella tragica consapevolezza degli entusiasmi traditi, nella situazione paradossale di chi sa di aver scoperto tutti i trucchi della vita, e ancora meglio sa di non poterne più fare a meno.
È il ponte che porta al vuoto, ai painting fields di Mark Rothko e alle lande inabitate di Beckett (che proprio in uno slancio d’entusiasmo definì il Voyage come "il più grande romanzo della letteratura francese", solo "un gradino sotto Joyce...").
Alla fine di questo secolo ci siamo noi. E, proprio come il giovane Bardamu, ci affacciamo su un altro secolo nuovo e scintillante, pieno di invenzioni (novità! progresso! moda!). Ma dov’è finita la nostra improntitudine, la nostra incoscienza? Dove sono i nostri errori di gioventù? Dove si sono persi gli slanci d’entusiasmo? Siamo, come tanti altri, giovani avventurieri prudentissimi. Purtroppo? O meno male? E perché questa paralisi, questa inanità? Da cosa ci deriva?
Il dottor Destouches è passato dalle vette della poesia agli abissi dell’odio razziale e della viltà, cucendo sulla sua pelle splendori e nefandezze del secolo che ci fa da padre. Noi vogliamo confrontarci con quel Bardamu che cent’anni fa si è arruolato sulle note della fanfara per saperne sempre di più su se stesso e sul mondo che lo circondava, e quindi saperne di più su noi stessi.

La scrittura e la memoria
di Enzo Alaimo

Mi ricordo, sì mi ricordo. Era questo il titolo e la frase ritornante di un film di/con Mastroianni. In quel caso la memoria era un’infanzia e una giovinezza dolce, armoniosa. Andare a trovare sapori e aromi di un paradiso che non tornerà mai più. Anch’io ne ho bisogno. Ma ogni qualvolta vado a cercare la mia dolce memoria, mi imbatto nelle ferite, nelle "vene aperte" di una memoria collettiva, di una comunità, che non riesce ad allontanare da sé le proprie radici, che a volte (sembra un paradosso) diventano eccessive, zavorre o fantasmi come certi personaggi familiari di sapore pirandelliano.
Mi sembra che ci sia lo sguardo a muovere le trame di ciò che ho scritto. Sempre lo stesso. Uno sguardo rapito, attonito, ingenuo, incredulo.
L’omino che racconta la sua vita in Petri, il mio primo lavoro, ne parla con lo stupore di un bambino al circo, quasi non riesce a credere che ciò che è successo (la guerra, il suo perdere gli affetti, le pietre che gli raccontano strani riti iniziatici) sia successo davvero e soprattutto a lui.
Le piangitrici di Planctus guardano la morte e la raccontano a loro stesse con gli occhi sgranati della "ebetudine stuporosa", sguardo straniato, voce che diventa canto disarmonico, lo stesso sguardo di Ecuba davanti alle rovine di Troia, di Cassandra mentre viene portata schiava, di Ismene che si rifiuta di aiutare Antigone a seppellire il fratello.
E poi lo sguardo sognante, illuminato, di Rosalia emigrante per caso in Villarosa che non riesce a comprendere la tragedia in atto di migliaia di sfruttati e morti nelle miniere europee, ma è catturata dalle luci, dai colori di una grande città e si perde tra vetrine sfavillanti e vestiti alla moda.
Ho bisogno di una rete narrativa, possibilmente a maglie larghe, che mi permetta di uscire, di raccontare contorni e contesti, di ragionare, di tirarmi fuori dal racconto, come a commentarlo con un’etica, come… un coro. Per Petri e Villarosa è questo il pentagramma, mentre non vale per Planctus, dove non c’è inizio e fine, dove l’autore si nasconde, il tempo è sospeso, la rete si stringe e i personaggi non tollerano intrusioni altrui. Appunto: maledetto maledetto Pirandello. Inseguo una lingua magica, misterica, esoterica, teatrale. Questo è per me il mondo dei dialetti: linguaggio cifrato del cuore e della memoria. Mi ricordo, sì mi ricordo. Il dialetto è orale, sonoro, sfugge alla universalità piatta delle grammatiche. Il dialetto è sfumature impercettibili, è partitura segreta di chi lo suona. Lo si ascolta e lo si sente. Non chiedere traduzioni.
Sono cresciuto "meticcio". Tra tre culture, tra tre dialetti. Quello della città di mare dove sono cresciuto, veloce, cantilenante, allegro e nasale. Quello materno, contadino, arcigno e acuto, e quello paterno, montanaro, gutturale, a spirale su se stesso. Ho fatto incursioni in questi mondi con la passione dell’amante perduto e la gioia di un amico ritovato. So di essere un abusivo di queste lingue, so di possederle in modo imperfetto, ma nessuno chiede una perizia profonda dello strumento a un suonatore della banda del paese.
La memoria di uno, anche se non vuole, è la memoria di tutti. Parlare di un popolo, di una comunità attraverso i ricordi di uno. Di un sopravvissuto.
Se abbiamo cuore per ascoltarlo, ci farà vedere un mondo.

Quando le parole non bastano
di Michele Sambin (TAM Teatromusica)

Quando le parole non bastano, il titolo che ho voluto dare a questo mio intervento, assume un significato in relazione al concetto di "drammaturgia", termine che non corrisponde precisamente al nostro teatro: "quando le parole non bastano" intervengono la pittura e la musica. È qualcosa che riguarda la dimensione del mio parlare al mondo, che risale all’infanzia; è proprio la difficoltà ad esprimermi con le parole che mi spinge a cercare altri modi per "parlare".
Per trattare l’argomento "drammaturgia" e il nostro lavoro nel teatro, vorrei accennare a un fatto accaduto di recente in occasione della presentazione di Andrej qui a Bologna, un regalo bellissimo e gratuito donatoci da persone sconosciute: una recensione, un testo breve, messo in rete da alcuni giovani in una rivista on-line. Lo considero un regalo perché restituisce quello che, come artista, ho sempre cercato e difficilmente trovato, cioè una risposta, un "ritorno" da parte del pubblico. Un atto che dà senso al lavoro dell’artista, al suo lanciare messaggi, che spesso ha l’impressione si perdano nel vuoto. Nel nostro caso non sono caduti nel vuoto, perché la restituzione, pur molto semplice, è stata puntualissima. Voglio partire proprio da questa breve analisi del nostro lavoro. "La rappresentazione colpisce per essere un tutt’uno, unitario e indissolubile, tra teatro, suono e pittura. Un’amalgama che il personaggio Andrej incarna perfettamente, poiché in scena è attore, musicista di viole – critici professionisti hanno scambiato violoncelli per clavicembali: è un violoncello, non una viola – e pittore di icone, commistione delle arti che si riflette figurativamente sia nei monaci protagonisti (tre), sia nelle tre tele bianche che occupano la scena".
È un tutt’uno. Una definizione perfetta, perché la costante ricerca del gruppo, fin dal mio lavoro prima del teatro, è proprio questo "tutt’uno", nel desiderio di far convivere con il teatro i due grandi amori: la pittura e la musica. TAM, infatti, significa "teatro, arte, musica". Tre linguaggi per parlare. Per parlare è necessario il tempo. Noi abbiamo deciso di parlare con parole fatte di immagini, di gesto, con parole fatte di "altro dalla parola", proprio perché questa non corrispondeva alle nostre necessità. Si tratta di forzare i termini. Cristina Valenti diceva che il termine "drammaturgia" è esploso. In effetti, noi consideriamo la drammaturgia come lo svolgersi di accadimenti nel tempo. Lo svolgersi dello spettacolo coincide col colorarsi dei quadri, il quale a sua volta rappresenta il tormentato rapporto di Andrej Rublëv con la sua arte, tra fede e spiritualità. È l’animo inquieto dell’artista teso verso la verità che viene dipinto in ciascuna delle tre tele.
A me interessa che questo "fare", il farsi della pittura, sia dramma, il dramma dell’artista. Ma non è un dramma descritto, quanto piuttosto la risultante di un "fare", del nascere della pittura. Infatti, il nostro lavoro è caratterizzato dalla relazione tra pittura e tempo. Esistono almeno due modi per cogliere questo rapporto: la pittura ha un tempo, quello della sua realizzazione (quanti mesi o giorni ha impiegato l’artista per realizzare l’opera). Questo tempo è univoco, diversamente da quello variabile in cui lo spettatore legge l’opera. C’è, dunque, una drammaturgia interna all’autore e una drammaturgia, sempre differente, per ogni spettatore.
Alle origini si trattava di fare coesistere la pittura e le sue problematiche con la musica, con l’arte del tempo per eccellenza. La musica esiste solo nell’ascolto, nel tempo bloccato, immobile. Il teatro per noi è il punto di congiunzione tra questi due tempi: dare tempo alla visione, dare tempo alla pittura, in relazione con la musica. E torno a Quando le parole non bastano. "Dipingendo, Andrej scava in se stesso, nella sua spiritualità d’artista, e il farsi sotto i nostri occhi di spettatori prima della crocifissione, poi della Vergine Maria, non è altro che l’espressione visibile del percorso artistico vissuto in prima persona dal monaco. Quando depone i colori e suona affidando alla musica il compito di esprimere la tensione e la drammaticità della propria introspezione fra arte e fede, è come se manifestasse in note quel che con i colori non si può spiegare".
Questa analisi è ancora una volta perfetta perché, al di là della volontà di creare gerarchie – intendo le gerarchie tra i tre linguaggi – qui si tratta di un percorso personale.
Vi accennavo, all’inizio, circa la mia infanzia. Per anni ho parlato in maniera molto strana… larpavo a vorescio oeic aggranammavo uttet le rapole… Avevo qualcosa, nei confronti del linguaggio, che non mi tornava. Come vi ho detto poco fa, parlavo a rovescio cioè anagrammavo tutte le parole. Questo segno di un’infanzia può essere assolutamente determinante per il lavoro futuro. Infatti, proprio per questa difficoltà a parlare, ho cominciato fin da piccolissimo a dipingere e a suonare, e queste due cose le volevo tenere unite, indissolubili, fare di questi due mondi un linguaggio unico.
Pur non volendo dare un ordine gerarchico agli elementi, sicuramente nutro un amore diverso per ciascuna di queste tre arti. Non sono tre figli che amo alla stessa maniera, sono linguaggi differenti. La parola è quello con cui ho maggiori difficoltà di relazione, con cui non mi sento molto a mio agio; mentre mi sento perfettamente a mio agio con la musica. Credo ci sia tra me, la musica e il fare musica, un rapporto diretto, non mediato come nella scrittura… un rapporto fisico, un modo per arrivare irrazionalmente nella profondità interiore, cioè ad un inconscio, andare nel profondo dei sentimenti in un modo che nemmeno l’ascoltatore sa definire. Di fatto, credo la musica sia difficilmente analizzabile nei suoi effetti: è analizzabile nella sua composizione, ma non nell’emozione che produce. "In Auna scena memorabile, per poesia e sensualità, l’ultima icona è dipinta dallo strusciarsi sulla tela dei corpi imbrattati di colori di due giovani innamorati. È il punto di arrivo della ricerca interiore di Andrej, il rendersi conto della necessità di un’arte per il popolo e del popolo. Il sogno di Andrej, quello che ogni notte gli sfuggiva e lo tormentava, svelato grazie all’amore".
Qui è centrale il corpo, un corpo di giovani. In Andrej c’è proprio un affidare loro il futuro, quasi una voglia di ritirarsi. In Tarkovskij, nel film Andrej Rublëv, la conclusione è l’incontro tra l’ormai vecchio pittore e il giovane costruttore di campane, che insieme dicono: "Andremo tu a costruire campane, io a dipingere monasteri". L’unione tra il maestro che ha vissuto e il giovane che si affaccia alla vita. Queste note scritte da alcuni giovani mi piacciono, perché sento che si sta passando qualche cosa alle nuove generazioni.
Il corpo è centrale, così come nel nostro fare. All’inizio esisteva la forte tensione utopica – a volte realizzata – che il corpo dell’attore (il corpo del performer, preferisco dire) fosse portatore di segni diversi, sia della musica sia dell’immagine. Questi linguaggi si manifestano attraverso il corpo.
Questo dicevo in una prima fase. Più avanti, il TAM ha avuto a che fare con "altri" corpi, che chiamerei "corpi che esprimono". Ho una certa difficoltà, che forse ormai dovrei superare, a definirci "attori", o a definire i corpi in scena "attori", perché abbiamo sempre cercato di lavorare con corpi che esprimono, senza per questo essere necessariamente allenati ad esprimere. Sono corpi che "fanno delle cose in scena", più che interpretarle. Questi corpi, con cui abbiamo condiviso e vissuto insieme, sono, per chi conosce il nostro percorso, quelli degli attori detenuti, del nostro lavoro in carcere. E ancora le parole non bastano. Non è coretto utilizzare il termine "attori" per definire i corpi dei detenuti in scena: è un prestito del teatro. Sarebbe necessario trovare altre parole per definire le loro presenze in scena.
Vorrei concludere con dei brevi pensieri sulla scrittura. Nel primo periodo, il lavoro del TAM aveva una formula laboratoriale, una pratica di scena. La scrittura arrivava alla fine. Ciò che abbiamo sempre cercato di ottenere è una scrittura comprensiva delle parole appartenenti ai diversi linguaggi, del visivo e dell’uditivo. La parola era trattata allo stesso modo di un altro materiale scenico. Recentemente, in virtù di una pratica costante nel corso degli anni, possiamo anche scrivere prima di arrivare alla scena, proprio perché ormai possediamo un nostro linguaggio, per cui molte cose possono essere scritte in anticipo a tavolino, prima di affrontare la scena.
Nel momento scenico è fondamentale la sincronia degli accadimenti. È inimmaginabile, per noi, affrontare prima l’aspetto musicale, associando poi l’aspetto visivo. L’obiettivo è far nascere simultaneamente nella scena tutti gli elementi. È completamente diverso immaginare un suono con una certa luce piuttosto che con un’altra. L’intervento della luce non può essere sfasato nel tempo. È necessario cominciare, in maniera anche incompleta, tenendo sotto controllo tutti gli elementi.

Trama concettuale del Baldus
di Marco Martinelli (Teatro delle Albe)

Vi parlerò del Baldus. È l’ultimo testo-spettacolo realizzato con le Albe. Dico "testo-spettacolo" perché non ho mai scritto testi che non fossero già all’origine parti integranti e "vive" di spettacoli in formazione. Non ho mai avuto un "testo nel cassetto". Non è una possibilità contemplata dal nostro modo di fare teatro. In vent’anni di pratica drammaturgica, ogni testo è nato direttamente dal lavoro in palcoscenico e con gli attori.
Dirò del Baldus come lavoro concettuale, proprio nell’accezione del termine che, nel 1967, dava Sol Le Witt allorché scriveva, parlando di arte concettuale: "L’idea in se stessa, anche se non realizzata visualmente, è un’opera d’arte, tanto quanto il prodotto finito". La definizione di Sol Le Witt vale per tutti i lavori delle Albe, non solo per il Baldus. Tuttavia, in questo nostro incontro, mi piace parlarne proprio in riferimento al Baldus, perché in questo spettacolo c’è una sorta di dissimulazione delle fondamenta concettuali che stanno sotto ogni lavoro delle Albe. Nell’Alcina queste fondamenta sono chiarissime; nel Baldus può invece accadere che lo spettatore si confonda e scambi lo spettacolo per un’esplosione di pura energia giovanile, bello, "fresco", divertente: "Ma guarda questi ragazzi come sono vivi!... Sono proprio presi dalla strada!… Ma come sono carini!… Ma come sono simpatici!…"
Il Baldus è un lavoro concettuale, pesantemente concettuale, proprio nel senso di Sol Le Witt e di Duchamp. Il Baldus è la riscrittura di un poema cinquecentesco in ventinove libri di Teofilo Folengo scritto in latino maccheronico, ovvero in una lingua completamente ricostruita, reinventata, che mescola alle reminiscenze classiche i dialetti lombardi di Mantova e Cremona. Inizia a Parigi, con un torneo alla corte del re di Francia. Guidone, discendente del grande Rinaldo, vince il torneo e Baldovina, la figlia del re, si innamora perdutamente di lui. I due si guardano e, durante il banchetto, si toccano sotto la tavola. Nella notte avviene la fuga d’amore. Guidone scappa con Baldovina, i due amanti sfuggono a tutti gli inseguitori sguinzagliati dal re. Guidone sa che sta rinnegando il suo onore cavaliere e sta facendo un grosso torto al re di Francia, ma l’amore travolge ogni cosa. I due si allontanano da Parigi fuggendo in groppa a un cavallo. Poi il cavallo muore e rimangono a piedi. Laceri, stanchi e affamati giungono a Cipada, un piccolo villaggio citra padum, "oltre il Po". Da Parigi si trovano così scaraventati in un villaggetto come ce ne sono migliaia in questo mondo; partiti da una capitale arrivano nel "buco del culo del diavolo", come dice Folengo. Questo "passaggio" è di fondamentale importanza: è il primo tassello della nostra costruzione concettuale.
A Cipada chiedono ospitalità a un contadino, Berto Panada, che, subito, apre loro la propria casa e offre il suo cibo: le sue cipolle, le sue fave, le sue zucche. "Se fossi re o papa, non avrei la pace che ho nel zappare la mia terra", dice orgoglioso Berto Panada. Dalla corte raffinata del re di Francia i potenti sono catapultati in un desco contadino. Berto invita gli ospiti a restare e a dividere con lui la vita contadina dei campi. Guidone ha un sussulto: "Ma come! La mia Baldovina è in avanzato stato di gravidanza – hanno fatto le cose molto in fretta… – e io non posso stare qui, in questo paesello, e afferrare la zappa al posto della spada! Io devo fare il mio lavoro di cavaliere. Me ne andrò di nuovo per il mondo a cercare di guadagnare, con la pace o con la guerra, un regno per me e per il figliolo che le sta per nascere".
Detto, fatto. Guidone se ne va e abbandona Baldovina, che rimane lì, ospite di quel buon contadino, e mette al mondo il protagonista della storia, Baldus, che nasce così a Cipada, ma è figlio di re. Baldus cresce a Cipada come "il figlio della Baldovina", che nessuno sa essere figlia del re di Francia. Cresce nella casa di Berto, è un "mariuolo" come i ragazzi con cui gioca e si azzuffa. E come tutti i figli di contadini anche Baldus e compagni vanno a Mantova, a tirare i sassi contro i figli dei nobili. Le guerre tra paladini dei poemi di Boiardo e Ariosto diventano in Folengo sfide a sassate tra bande di ragazzi.
Col passare del tempo, gli amici di Baldus diventano sempre più malandrini. Si beve, si ruba. Per i figli di poveri la vita è dura, bisogna impossessarsi in qualche modo del mondo, non può restare solo ai re e ai nobili. I ragazzi diventano dei ladri matricolati. Non vogliono lavorare, rifiutano la fatica. Baldus fa lavorare per lui Zambello, il figlio che Berto ha avuto nel frattempo da una contadina, una sorta di fratellastro. Fa lavorare lui, gli frega i soldi e se li beve all’osteria con i compagni. Una banda di briganti, di maledetti.
I nobili di Mantova si interrogano su come estirpare la mala pianta di Cipada, covo di ladri e assassini. Il potere comincia la sua repressione poliziesca, ma i briganti rispondono con violenza ancora maggiore: ammazzano Tognazzo, il "saggio" di Cipada, e Gaioffo, il dittatore di Mantova. Inseguiti dagli sbirri, nel decimo libro, fuggono da Cipada. Baldus e compagni, ovvero Cingar, che è la prima rappresentazione di uno zingaro nella letteratura italiana, Fracasso, Falchetto… salgono su una nave, la prima che trovano, e fuggono. Durante il viaggio si scatena una grande tempesta, che sembra sprofondarli all’inferno, tanto è violenta. A quel punto approdano invece in una isoletta deserta, rocciosa. Non c’è un filo d’erba, non un albero, non un cespuglio: nessun segno di vita. Si guardano intorno e trovano un pertugio che li porta in un antro sotterraneo. All’inizio è tutto buio, tenebra, poi, invece, cominciano a sentire dei rumori, a intravedere delle luci, ed entrano in un antro meraviglioso, tutto oro, argento e pietre preziose: è l’antro degli alchimisti, in cui il metallo viene trasformato in oro.
Siamo nell’undicesimo libro del Baldus, il libro che fa da cesura fra le due parti del poema. Qui Folengo dichiara la sua fede alchemica. Si domanda: "Ma chi sono questi alchimisti? Non sono gli imbroglioni, quelli che smerciano intrugli sulle piazze rinascimentali, ma gli alchimisti dell’immaginario, quelli che stanno agli inferi, quelli che trasformano veramente il metallo in oro, perché hanno scoperto il segreto dell’Alfa, ovvero la pietra filosofale, la sostanza della vita infinita". I Greci antichi definivano zoê quella "vita infinita" che scorre attraverso ognuno di noi, negli alberi, negli animali, che fa sì che ogni morte biologica non possa interrompere il decorso del mistero trascendente e nello stesso tempo immanente che ci sovrasta e ci attraversa. La zoê, sostanza invisibile e ideale, materia visibile e concreta.
Da una parte Folengo chiama Baldus "stronzus Cipadae"; dall’altra, attinge all’Alfa, la chiave metafisica che ci permette di toccare i "genitalia rerum". Per questo duplice sguardo, Folengo è un autore, come Jarry, amato e venerato dalle Albe; fanno parte della stessa famiglia, pesantemente concettuali e pesantemente materici. Sono insieme sublime e basso osceno, corporale. È questo che ci affascina. Cosa succede nell’antro degli alchimisti? Perché è così fondamentale questa cesura? Perché da quel momento i malandrini si trasformano in cavalieri e scenderanno all’inferno a combattere i diavoli. L’energia vitale che, prima, si impastava indifferentemente di bene e di male, di alto e di basso, impara a discriminare le sue componenti, si fa consapevole e dà adito a nuove identità, frutto di un’opera di radicale trasformazione.
Ho concluso il mio Baldus con la fuga da Cipada, non ho messo nello spettacolo la caverna degli alchimisti e le conseguenti avventure, né la guerra all’inferno con i demoni, eppure proprio di questo si tratta. Il processo teatrale realizza concretamente svolte, cambiamenti, transizioni: prende la vita dove pulsa, la porta in scena e lì la trasforma, sulla scena alchemica. Folengo, che lavorava con le parole ed era, come letterato, un grande narratore, per parlarci del grande tema-idea della trasformazione ci mostra un prima e un poi: il malandrino e il cavaliere, lo "stronzus Cipadae" e l’uomo nuovo che sboccia al tocco dell’Alfa. Noi, che siamo uomini di teatro e lavoriamo con le creature viventi, questa trasformazione alchemica l’abbiamo vissuta giorno per giorno nelle prove, l’abbiamo "vista" nella carne dei nostri Baldus, Cingar, Fracasso, Falchetto cresciuti sulla Statale 16 e nelle periferie romagnole: le impressioni di felice energia e assoluta spontaneità che vengono suscitate dai nostri giovani attori, fino a ieri adolescenti ravennati privi di conoscenze teatrali, barbari, "briganti", sono in realtà frutto di lavoro rigoroso e di disciplina.
L’idea guida dell’opera di Folengo – la trasformazione alchemica – è invisibile e presente nel tessuto del lavoro che ha reso possibile questo Baldus, presente "in se stessa", come direbbe Sol Le Witt, "un’opera d’arte, tanto quanto il prodotto finito". Lo spettatore che non percepisce l’Alfa, trama invisibile e sovrana, dietro il lavoro di riscrittura, può sì divertirsi (che non è poco…), ma non coglie la sostanza concettuale su cui poggiano non solo il Baldus, ma il percorso ormai ventennale del Teatro delle Albe. La scena delle Albe è da sempre l’antro degli alchimisti: dapprima ha trasformato in teatro la Campiano anarchica e asinina di Ermanna e la romagnolità arteriosa di Gigio, poi l’Africa di Mandiaye e Mor apparsa sulle spiagge di Marina di Ravenna, infine la selvatichezza di tanti adolescenti ravennati. Perché non si tratta solo di "recitare", la recita è l’esito di un processo che coinvolge e trasforma la Vita.

L’autore in scena
di Giancarlo Biffi (Cada Die Teatro)

Con sempre maggiore frequenza ci troviamo di fronte ad autori/registi o ad attori/autori. L’esigenza di esprimere le proprie urgenze, le proprie visioni, porta il teatrante, sia attore o regista, a muoversi nel teatro senza mediazioni. I linguaggi s’incrociano, si sovrappongono: il soggetto, la scena, la drammaturgia, il lavoro dell’attore diventano matrice unitaria dell’atto creativo. Il bisogno di raccontare o di dare visioni si assorbe in un unico progetto.
Si parte per un viaggio, per una esplorazione ogni volta differente. Quasi sempre si tratta di penetrare tra le fessure di una "vicenda" per trovare le ragioni, l’urgenza del suo divenire teatro. Il "soggetto" viene preso in esame per aiutare a capire, a comprendere sempre meglio la nostra natura e tutto quello che si muove attorno ad essa. La vicenda viene assaggiata, assaporata, riconosciuta per poi essere sciolta nel teatro e così divenire un’altra vicenda... la nostra vicenda.
Il teatro in funzione di un attore creativo, che sappia essere non solo strumento ma anche creatore ed esecutore della stessa partitura; un attore consapevole, che vive il teatro come necessità, "ha qualcosa da dire" e la scrittura scenica è lo strumento naturale per dare voce a questa intima necessità.
La danza dell’attore è fatta di parole, movimenti, suoni, rumori, azioni, sentimenti e necessità. La necessità di "dire" quando si è al centro della scena, di dire qualcosa che abbia a che fare col vivere oggi sulla terra. Il teatro come territorio "giusto" per esistere, come luogo per una possibile risposta alla barbarie imperante, alla continua violenza che ci blocca il respiro.
Quasi mai sento il bisogno di cercare un testo da mettere in scena; sono i problemi, le questioni che bruciano l’esistenza che vengono a me. È allora che le parole e le visioni si fanno concrete e iniziano a prendere forma.
Operare per una scrittura teatrale, in grado di trasferire in scena tensioni e passioni che bruciano la carne dell’esistenza, per riuscire a coniugare la drammaturgia dell’attore alla drammaturgia più complessa della vita, per realizzare il bisogno di sciogliere in poesia la quotidianità.
Si va in scena se si ha qualcosa da dire, altrimenti è meglio tacere e lasciare perdere; è la forte urgenza che ci spinge all’allestimento, è proprio quando non se ne può fare meno che la necessità diventa forza. Magnifico trovarsi in scena non solo per se stessi, ma perché spinti da un bisogno di dire, perché si è ambasciatori di qualcosa che va oltre la propria singola esistenza.
Il teatro è un mezzo per arrivare alla gente con altre parole, con altre danze. Se fossi un muratore andrei nei luoghi del bisogno a tirare su pareti, ma visto che sono un teatrante non posso fare altro che costruire storie e tessere percorsi. Percorsi e storie "vere" che vibrino nel loro farsi teatro.

Dal silenzio al silenzio
di Mauro Maggioni

Vorrei partire con un ringraziamento al professor Meldolesi, che mi ha finalmente chiarito un mio comportamento ricorrente. Io ho una caratteristica: quando scrivo "il testo", mi siedo davanti a un computer. Non scrivo quasi mai da solo, scrivo insieme a un’altra persona che si chiama Claudio Tomati. Quando mi siedo davanti a un computer, ho la sensazione di indossare il vestito di un fantasma; mi sento come se vestissi degli abiti che non mi appartengono, che non hanno nessuna funzione: inutili, socialmente inutili. Una grande solitudine. A quel punto mi faccio sempre una domanda: "Perché siedo qua, in questo deserto, cercando di scrivere un testo?". La mia collaborazione con qualcuno nasce da lì: almeno siamo in due davanti al computer, e possiamo chiacchierare. Ma la domanda è sempre la stessa: "Come si può scrivere un testo a tavolino, stando seduti?". In due c’è già un dialogo, un po’ di vita che scorre. Da soli si rischia di osservare solo il proprio ombelico.
Questo succede quando incarno la parte dell’autore che "va per premi" (io lo chiamo così). L’autore che va per premi vive nella sua beata solitudine, scrive un’opera e non va da nessuna parte, se non in quel tragitto compiuto dalla busta. Dieci copioni arrivano a Riccione, vengono aperte le buste, vengono lette… se ti va bene arriva una telefonata che dice: "Lei è stato segnalato per questo premio… lei ha vinto quest’altro premio…" E tutto giace nel cassetto.
Giace nel cassetto non per incuria o disamore dei registi, ma perché nasce già nel cassetto, perché è come una terra desolata. Per fortuna inconsciamente ho anche un alter ego: l’autore che costruisce sulla scena. Lì non mi sento più né solo (perché siamo alcuni a lavorare) e né soprattutto inutile, perché vado a lavorare concretamente su qualcosa. Quello che diceva Marco Martinelli, rimasticare le parole e poi rivomitarle trasformate, questo andare a scuola dall’attore è fondamentale per essere vivi e per creare cose vive.
Ciò non significa che le cose che scrivo insieme a Claudio non siano vive. Però hanno già un piede nella fossa, hanno un odore – debbo dire la verità – di deperimento organico. L’unico punto in cui riesco ancora a sentire una vita in quella parte – ancora casualmente: dico sempre "sono un uomo fortunato", sono un po’ figlio di Zeno, un personaggio a cui accadono le cose e non può fare altro che seguirle – è la ricerca sulla lingua, che stiamo svolgendo da qualche tempo. È la lingua natia, la lingua dei padri o dei nonni: il milanese. Infatti nasco e vivo a Milano, per poi decidere di fuggire, di emigrare a sud e finire a Taranto. Quando uso questa lingua, quando la modifico, è l’unico momento in cui sento che scrivendo, in beata solitudo o in compagnia, compio un gesto vitale. Io e Claudio ultimamente stiamo scrivendo un altro testo, un monologo… La nostra ricerca ha un padre altissimo – Giovanni Testori – a cui non arriveremo mai, anche se credo che ognuno nella propria vita debba tentare di fare almeno un capolavoro. Quindi noi ci proviamo.
I due spettacoli che presentiamo nella rassegna della Soffitta, in occasione del progetto Laboratorio Sud, sono una parte considerevole della mia storia. La mattanza è un testo di sei anni fa, scritto per indigenza in una settimana, vomitato fuori. Una prima stesura, a cui è stata apportata solo una modifica, eliminando l’errore più evidente: l’inserimento del cattivo in scena, che era veramente straziante. All’inizio i personaggi erano tre, ne abbiamo tolto uno. Il testo è stato scritto di getto, in una condizione di totale solitudine. Anche allora affiorava sempre la stessa domanda, quella di una canzone dei Talking Heads: "My God, what have I done?!" (Dio, che cosa ho fatto?!). Però il demone mi aveva posseduto, e il testo è uscito senza alcuno ostacolo. Ho detto: "Va bene, questo è uscito, lasciamolo andare".
La mia formazione – e qui arrivo al titolo della relazione – si è svolta a scuola dagli attori, nel senso che ho lavorato per tre anni con Remondi e Caporossi, due figure storiche dell’avanguardia romana degli anni Sessanta: dei post beckettiani. Dopo Beckett la parola è inutile, e così hanno annullato la parola. Ho fatto tre spettacoli con loro, nel silenzio. Sono i miei numi tutelari dal punto di vista dell’apprendistato teatrale. Nei loro lavori, l’attore è sempre schiacciato da una macchina, è un produttore di energia, è un criceto dentro un labirinto o dentro piccole ruote che girano freneticamente. In uno spettacolo tipico di Remondi e Caporossi c’è sempre una grande macchina scenica che imprigiona, intrappola. Non c’è più nemmeno la parola, non c’è niente. Probabilmente, dopo questo silenzio – lo do come giustificazione – ho vomitato tutte quelle parole che sono La mattanza.
Da lì parte un altro percorso, l’incontro con il CREST di Taranto, con alcuni ragazzi vitali, entusiasti, e che ormai non esistono più, irreversibilmente contaminati dal "fare l’attore", una trasformazione a cui non c’è rimedio: purtroppo, poco a poco, oltre al sapere si acquisiscono tutti i vezzi del mestiere. Non sono più "quella cosa".
Con il CREST è nato dunque un lavoro di gruppo, con cui ho prodotto molti spettacoli. Per arrivare all’anno scorso, e al precedente incontro con Liberamente di Napoli. Con Davide Iodice decidiamo di fare una coproduzione, che nel corso del lavoro si sarebbe dimostrata piuttosto travagliata per la molteplicità delle idee. In primis avevo cercato di proporre uno di quei famosi testi che vincevano i premi, ma nonostante facessi parte della produzione venne rifiutato. Alla fine siamo arrivati a iniziare il lavoro con… niente. Ci siamo trovati e abbiamo detto: "Bene, lavoriamo!", passando da Amleto a Ubu. In realtà, quello significava già lavorare, partendo però dagli attori: c’erano delle proposte e gli attori, su quelle proposte, creavano materiale. Una proposta era "la sfilata di moda". La sfilata di moda non prevede parole, contiene musiche e persone che passano. Poi costruimmo cinquanta, sessanta minuti di sfilata di moda delirante, dove passava veramente di tutto. Ricordo che avevo dato agli attori degli stracci, spazzatura che ero riuscito a raccogliere nel posto dove provavamo. Con questa hanno creato dei mondi! Da questi materiali creammo una sfilata di moda non formalizzata, della durata di un’ora. Davide aveva partecipato ad un funerale nel sud: lavorare con dentro quell’esperienza fu molto forte. Così, decidemmo di trasformare la struttura circolare della sfilata di moda – entrare, uscire e scomparire dentro un telo – in un funerale.
Anche un funerale rituale del sud ha la stessa struttura circolare: usciti dalla funzione funebre, coloro i quali hanno subito il lutto si siedono su delle sedie, e tutta la gente che ha partecipato in chiesa al rito passa loro davanti facendo le condoglianze. Che non è semplicemente "condoglianze", con la mano stretta. È più uno rito per spurgare il dolore, perché può protrarsi per ore, in rapporto a quanta gente ha partecipato al funerale. Ogni persona che passa davanti a chi ha subito il lutto costituisce sicuramente un ricordo: è un’immagine, un modo per rivedere in chi hai di fronte un frammento di vita della persona mancata. Quindi, Io non mi ricordo niente ha acquisito la forma di un funerale.
Sono passato dal periodo della formazione in cui non c’erano le parole, all’eccesso verbale che può essere La mattanza e da questo a un nuovo silenzio quasi rituale. Cane nero è il mio ultimo spettacolo, vi si possono riscontrare fortissime tracce di Io non mi ricordo niente. Tuttavia, la parola è tornata ad essere presente, sebbene modificata e un po’ annientata dal lavoro degli attori e – soprattutto – dalla musica. In Io non mi ricordo niente era presente una costante partitura sonora che accompagnava tutto lo spettacolo, e anche in Cane nero la musica è stata la componente fondamentale nella costruzione del lavoro scenico. È un percorso circolare e aperto. Però, la parola scritta, la bella parola per me ha comunque cessato di esistere.

Poetiche antiche, nuove estetiche
di Gerardo Guccini

Il mio intervento si articola in quattro punti: 1) il primo propone la nozione di attore testuale, come particolarmente rispondente al ruolo del drammaturgo nelle forme rigenerate della scrittura teatrale; 2) il secondo azzarda una scansione tipologica dei "significanti" o "veicoli segnici" teatrali che caratterizzano le esperienze del nuovo teatro; 3) il terzo tratta le modalità d’iscrizione della parola all’interno di questo panorama segnico; 4) nel quarto vedremo se e come sia possibile percorrere con i propri mezzi della scrittura vie analoghe a quelle designate dai differenti tipi di "significante" teatrale.
1 - Perché cercare una nuova espressione per indicare chi partecipa alla creazione dello spettacolo lavorando sui testi e le parole, quando abbiamo già a disposizioni nozioni collaudate e duttili come "autore" e "dramaturg"? Vediamo di individuarne le inadempienze e i limiti rispetto a certe emergenze della situazione attuale. L’autore, per definizione, produce forme la cui oggettività estetica è paradossalmente garantita, non tanto dall’avvolgente anonimato che riscontriamo nelle tradizioni popolari o in quelle orientali (anonimato che indica la più sovrana indifferenza verso tutto ciò che non sia la forma stessa), ma dalla soggettività di chi le firma. A partire dalle impostazioni del primo romanticismo, si è abituati a considerare la forma una confessione esteticamente mediata dell’autore, e l’autore un artefice che declina la sua identità essenziale nel seguito delle forme composte. Questo sistema di correlazioni che lega "autore" e "forma", oggettività estetica e soggettività psichica, è però estraneo alle pratiche del nuovo teatro. Chi scrive per alimentare la crescita degli eventi scenici (e segue quindi dall’interno i movimenti del divenire teatrale) connette, infatti, la scrittura agli attori, agli oggetti, alle azioni e ai luoghi, e cioè ad entità e soggettività molteplici, sperimentando associazioni, rispondenze e modalità relazionali che, siano esse fondate sulla compenetrazione o sullo straniamento, contraddicono comunque i principali valori implicati dalla nozione di "autore": la centralità della forma e il primato della soggettività creatrice.
A differenza di quella di "autore", la nozione di "dramaturg" procede direttamente dai processi teatrali, e non oppone contraddizioni e attriti alle culture del nuovo teatro. Il "dramaturg" agisce di sponda fra autore e attore, fra testo e spettacolo; fa nascere idee, proiezioni, rispecchiamenti; rafforza l’attoralità del testo e l’autoralità dell’attore; dove è forte il ruolo del regista, è lo straniero che dà consigli, che propone soluzioni inopinate, e, al contempo, il collaboratore che dirama le concezioni registiche nei territori del testo e della sensibilità interpretativa. Tuttavia, proprio il fatto che il "dramaturg" incarni le modalità relazionali del processo teatrale anziché servirsene ai fini d’una creatività ulteriore e propria, dissocia il suo profilo artistico dalle attuali proposte di nuova drammaturgia, che esprimono esiti testuali largamente significativi, spesso editi e fruiti anche autonomamente. Non per questo, il nuovo teatro è approdato ad una spettacolarità di repertorio o di pura rappresentazione, anzi, i testi prodotti dalle attività teatrali sembrano ignorare – anche quando pubblicati ed accessibili – la via del ritorno alla scena. È piuttosto accaduto che l’attività di scrittura che s’intreccia al lavoro e alla vita del teatrante abbia cambiato il panorama delle culture teatrali, intersecando con modalità diverse da quelle del teatro di pura rappresentazione il livello dell’evento e quello delle drammaturgie scritte: l’oralità dei narratori è anche racconto; gli spettacoli delle Albe sono anche drammi; la Valdoca è anche poesia e scrittura; le performance di Moscato sono anche letteratura; la riviviscenza delle origini è anche reinvenzione testuale del dialetto. Per queste ragioni, mi sembra pertinente vedere in chi scrive una sorta d’attore testuale; e cioè un artista che è presente ed agisce nell’evento scenico attraverso i testi che ha assemblato, modificato o composto; le sue parole nascono come teatro, sono elementi concreti e attivi d’un processo creativo che le suscita e se ne alimenta trascinandole in scena. La nozione d’attore testuale non include (come quella di "autore") la necessità di forme autonome e compiute, ma nemmeno limita (come quella di "dramaturg") l’istinto dialettico di autoaffermazione che porta a comporle, e che, manifestandosi nella nostra storia recente, ha fatto contestualmente rinascere dal teatro le finalità e le strutture degli antichi generi letterari: l’epico (Paolini, Baliani, Curino), il drammatico (Martinelli, Scimone), il lirico (Moscato, Gualtieri).
L’attore testuale agisce ai giorni nostri in un sistema di culture, e, più generalmente, in una civiltà dove la parola ha perduto la capacità di modellare in senso "logocentrico" gli spazi del sociale – scuola e università compresi. Quindi, poiché l’attore testuale partecipa all’evento scenico col mezzo della parola, la sua posizione appare oggi difficile, contraddittoria e paradossalmente felice. La composizione del testo si nutre, infatti, delle difficoltà che affronta; e mai la parola scritta è apparsa così compiutamente teatrale come quando ha dovuto lottare per conquistare al dramma concreti spazi d’esistenza. Non è insomma un caso che i drammaturghi che ricordiamo siano stati artisti fondatori, che hanno costruito architetture di teatralità profonda frequentate nel corso dei secoli tanto dal lavoro creativo degli artisti che dall’immaginazione dei lettori (sono – per intenderci – queste "architetture" impalpabili eppure indistruttibili, che hanno fatto di Seneca il maestro dei tragici rinascimentali, di Shakespeare l’autore più importante del XIX secolo, dell’Antigone sofoclea e del soldato Woyzeck due emblemi dell’umanità novecentesca).
Ora, con alle spalle oltre cento anni d’avanguardia e modernità, si torna diffusamente a parlare di testo e di drammaturgia, e ciò non perché le pratiche sceniche (quanto meno in Italia) siano state rinvigorite dal ritorno dell’Autore. Il fatto è che il "nuovo teatro" nato negli anni ’60, abitato, rimasticato e rivissuto dagli artisti venuti dopo, ha incontrato e diffusamente frequentato la parola senza perciò smarrire le proprie qualità essenziali: la centralità del processo; la metabolizzazione operativa ed estetica delle circostanze materiali e degli accidenti biografici; la percezione del teatro in quanto luogo dei possibili; l’istinto della ricerca; il valore della necessità (personale, collettiva, storica). Quindi, per meglio capire le drammaturgie del nostro presente teatrale, conviene confrontarle ai modi relazionali fra parola, attore e pubblico, che si sono prodotti e intersecati gli uni agli altri a partire dalla svolta degli anni ’60. Per farlo in modo sintetico e schematico, ho tentato di individuare i principali tipi di "significante" o "veicolo segnico" del "nuovo teatro".
2 - Gli spettatori del "nuovo teatro", giunti ormai alla terza generazione, hanno evoluto antenne sensibili alle emanazioni dell’organismo teatrale, i cui segni intenzionali (simboli, riferimenti, enunciati verbali) vengono così ad innestarsi su percezioni determinate da altri fattori. Nel "nuovo teatro", i processi comunicativi – che scontano la crisi dei modelli logocentrici – si diluiscono in una situazione intensamente relazionale, dove le impressioni si trasmettono da organismo a organismo, da presenza a presenza. Il "significante" al quale faccio riferimento non si concatena dunque ad altri significanti secondo codici prestabiliti, ma – come indicava la semiotica del teatro ai suoi albori – è l’opera stessa, che indirizza la ricezione delle sue tracce, dei suoi corrugamenti, delle sue sporgenze. Sono stato indeciso se utilizzare come criterio guida, invece di "significante" o "veicolo segnico", la nozione di "sintomo" nell’accezione di Ludwik Flaszen, che chiariva l’evolversi del percorso di Grotowski con una distinzione semiologica fra "segno" e "simbolo": "Possiamo dire che nella prima fase di lavoro […] i sintomi di vita alimentassero i segni, la costruzione. In seguito, la pensammo in modo opposto e le cause furono il pretesto per manifestare i sintomi"1. D’altra parte, il principale sintomo che annuncia la presenza dell’attore è proprio la qualità segnica del rapporto fra il mondo della performance e l’identità di chi vi agisce.
Nel "nuovo teatro" si evidenziano tre tipi di "significante" o "veicolo segnico", rispettivamente rispondenti al teatro dei Maestri, alla cultura delle avanguardie e a quei teatri che, praticando i presupposti della ricerca, sono organicamente sfociati in soluzioni largamente fruibili e capaci di stabilire col pubblico un comune sentire. Recentemente si è discusso del fenomeno denominandolo "teatro popolare di ricerca"2. Per comodità d’intesa, possiamo chiamarli: "veicoli segnici" agglutinati, "veicoli segnici" puri, "veicoli segnici" mondo.
I "veicoli segnici" agglutinati non distinguono il livello del significato dalla concreta presenza dell’emittente scenico, e, quindi, includono la rivelazione dell’identità artistica ed umana dell’attore, che riporta le singole articolazioni dell’agire fonico e corporeo alle qualità generali del proprio essere forma vivente, organismo luminoso, traboccante presenza. Campana, Pascoli o Majakovskij filtrati da Carmelo Bene sono altrettante possibilità di Carmelo Bene, manifestazioni della sua identità d’artista. È un’esperienza che tutti abbiamo provato. La voce e la presenza di Bene impregnano il testo come il timbro del violino impregna la musica suonata, con l’incommensurabile distinzione segnica che Bene, a differenza del violino, non è uno strumento, ma una persona, ha un corpo, sensazioni, pensieri, memoria, sensi, elementi tutti che il "veicolo segnico" agglutinato richiama e contiene sbilanciando a tutto favore dei secondi ogni educato equilibrio fra lo scritto e il detto, fra il progetto e l’atto. Un altro esempio: guardando il video del Principe costante di Grotowski si resta stupiti dal flusso di parole che percorre questo spettacolo, che più d’ogni altro ha contribuito a fondare il mito del teatro del corpo, e nello stesso tempo si capisce che le parole, qui, sono iscritte in un sistema extra-linguistico in cui la persona dell’attore è al contempo veicolo e contenuto: una rivelazione in atto che, ancor più che comunicare, si comunica3.
Il "veicolo segnico" puro separa, isola, rendendo le entità che entrano nella sua sfera d’influenza assolute e irresponsabili: affatto autoreferenziali. In questa teatralità, le cose e le persone che appaiono in scena non rappresentano l’altro da sé, né sono se stesse poiché rescisse dalla propria identità pregressa, e l’attore, non perseguendo l’obiettivo di ricreare scenicamente l’organica unità di corpo e mente, si rende disponibile a venire fruito come figura, frammento o tessera d’un insieme valutabile in base alle correlazioni formali fra le sue parti, non certo in quanto enunciato né in quanto espressione.
Penso, fra le avanguardie romane degli anni ’70, alla spettacolarità di Memè Perlini, irta di presenze e atti performativi ostentatamente inconciliabili; al successivo azzeramento del testo e della scrittura scenica a favore dell’attraversamento tecnico-stilistico dei media e della centralità dell’immagine (i primi Magazzini, Falso Movimento, Barberio Corsetti); e, infine, alla generazione degli anni ’90 (Motus, Masque, Teatrino Clandestino, Fanny & Alexander) nella quale l’autoreferenzialità dei movimenti d’avanguardia sembra essersi trasformata da contingenza sperimentale e mezzo di rivendicazione (anche politica), in struttura profonda del pensiero4.
Il "significante" puro cancella l’identità anteriore delle presenze teatrali instaurando in questo vuoto di significati l’autoreferenzialità scenica delle persone e delle cose. Eugenia Casini Ropa ha osservato che le avanguardie dell’ultima generazione hanno ristabilito la quarta parete; l’immagine è efficace, vorrei però aggiungere che, in questi casi, la quarta parete non si colloca idealmente fra il pubblico e lo spettacolo, ma è lo spettacolo stesso; non separa le presenze sceniche ma viene da queste costituita e, per così dire, innalzata. Mentre il "veicolo segnico" agglutinato si traduce in forme performative attraverso le quali traspare la luminosità dell’attore, il "veicolo segnico" puro rende il teatro astratto: e lo fa, ancor più che deformandone visivamente gli elementi, recidendo i legami con il mondo dei significati. Cose e persone appaiono sulla scena "significanti" puri, sono la materia estetica di un’opera che li ridefinisce inglobandoli: zone del campo visivo, fotogrammi, immagini di qualcosa che è lì, presente, accessibile, ma non esiste in altri tempi e luoghi.
Il "veicolo segnico" mondo trasporta nello spazio scenico identità fortemente caratterizzate del reale, che continuano a significare e ad essere l’oggettiva porzione di mondo che s’incarna in loro. Il nuovo teatro ha aggirato la crisi del modello mimetico rappresentativo sostituendo all’imitazione l’inclusione diretta del reale. Attori reclusi, portatori di handicap o segnati dal disagio psichico mettono lo spettatore nella speciale condizione di osservare la vita quotidiana che canta la propria volontà di trasformarsi. Parlando di "veicolo" mondo viene naturale pensare a Pippo Delbono e al suo "teatro degli esseri", alla "danza verità" di Platel, a Punzo e ai reclusi della Compagnia della Fortezza, agli adolescenti del Baldus di Marco Martinelli; tuttavia, la ricontestualizzazione del reale nello spazio scenico è anche alla base delle soluzioni, oggettivamente diversissime, del teatro di narrazione, in cui il racconto procede dalla persona del narratore, che si dichiara e rappresenta sia come testimone del racconto che come personaggio. Il "significante" agglutinato assimila le identità del reale, risucchiandone l’energia, la globalità, la storia; il "significante" puro le separa dalla loro vita pregressa; il "significante" mondo le conserva e ricontestualizza teatralmente, estraendone i risvolti poetici, le tensioni transformazionali e, per quanto riguarda il teatro di narrazione, i contenuti mitici.
3 - La parola s’intreccia con modalità diverse a ciascuno di questi tipi segnici. Il segno agglutinato si confronta in genere con la densità espressiva e l’altezza formale della grande letteratura. Tale "veicolo", per potere assumere la persona dell’attore e rifarla in quanto forma, richiede, infatti, che la parola predisponga un’atmosfera di eccezionalità e, per così dire, sigli il distacco dalle convenzioni quotidiane. Alla dialettica fra i tempi storici e allo scorrimento lineare del tempo materiale, si sovrappone qui un orizzonte di valori antropologici permanenti, un’immagine di uomo che resiste ai cambiamenti della condizione umana, e che, riflettendosi nelle opere letterarie, estrae quei testi e quelle affermazioni di pensiero che presentano qualità – di concentrazione, essenzialità e durata – affatto analoghe alle proprie. Il Principe costante si sviluppa a partire dal testo di Calderón nel rifacimento del poeta romantico Juliusz Slowacki; Apocalypsis cum figuris, l’ultimo spettacolo di Grotowski, monta brani biblici ed evangelici con scritti di Dostoevskij (I fratelli Karamazov), T. S. Eliot e Simone Weil; Carmelo Bene riunisce nel suo percorso di artista le vette della lirica italiana (Dante, Leopardi, Campana); Leo de Berardinis estende il florilegio dei classici alle opere di tutte le arti, e, col suo spettacolo per attore solo: past Eve and Adam’s (1999), compone quello che possiamo forse considerare il più esplicito manifesto circa le disposizioni letterarie del "veicolo segnico" agglutinato. Scrive nel programma di sala: "Nessun senso cronologico, ma un’enorme onda al di là della suddivisione artificiosa della storia; un’onda armonica dove […] La Gloria di Colui che tutto move per l’universo penetra e risplende sul mare viola di Omero e si frange nei nodi quasi stelle della Ginestra leopardiana"5.
Il "significante" puro esibisce la separazione delle espressioni letterarie dal loro contesto originario, dichiarandone la natura di citazioni infinitamente cedevoli, leggere e disponibili tanto alla sostituzione che ai giochi del montaggio.
Infine, il "significante" mondo vede nel parlato una proprietà del parlante: dettagliato, fluente, espressivo se questi è un narratore; assorbito dalla grana della voce, che impone le sue cadenze, il suo timbro e il suo ambiente, nel caso degli attori del disagio; oppure ridotto a fonemi e suoni, ad una musica di rumori umani, se questo, per l’appunto, è il linguaggio di chi parla.
4 - Vediamo ora in che modo e con quali esiti l’attore testuale può assimilare le proprietà di questi tre differenti tipi di "significante".
Il "veicolo segnico" agglutinato – essendo, di fatto, una modalità della presenza dell’attore – non rientra fra le possibilità d’assimilazione del linguaggio verbale. Mentre quest’ultimo (sia nella narrativa che nel dramma) definisce i propri oggetti descrivendone l’esistenza virtuale, il segno agglutinato include e connota in senso formale la persona che l’agisce. Tuttavia, proprio nell’ambito di questa teatralità, l’espressione letteraria svolge un ruolo essenziale: allena l’attore a confrontarsi dialetticamente con opere "altre"; allarga gli orizzonti di coscienza; formalmente, agisce come il chiaroscuro nei quadri dei caravaggeschi, e cioè dà energia, plasticità e slancio a espressioni mimiche e ad anatomie corporee che, considerate in sé, esistono indipendentemente dai giochi di luce ed ombra. Insomma, l’espressione letteraria, se anche non costituisce in questi casi l’oggetto dell’evento drammatico, collabora potentemente alla sua definizione, formando di spettacolo in spettacolo una sorta di repertorio ombra la cui unitarietà dipende dalla particolare identità dell’artista scenico cui è dedicato o intorno al quale si aggrega. Esemplare a questo proposito la serie di scritti che ha accompagnato il percorso di Ermanna Montanari: dapprima Marco Martinelli, autore e regista del Teatro delle Albe, ha tratto dalla sua presenza scenica un personaggio di madre popolare e primigenia, romagnola e infera: la Daura di Bonifica e Refrattari. Poi, sempre sotto la guida di Martinelli – regista non solo degli spettacoli, ma anche del processo creativo –, Ermanna si è confrontata, attraverso la poesia di Nevio Spadoni, con altre trasformazioni della stessa identità fisica e linguistica, fonica e morale. Ed è stata "la Bêlda,/la fiôla dla pôra Armida" in Lus; Varia, ulteriore avatar di Daura, nella prima e nella terza anta del Perhindérion; Alcina nel recente L’isola di Alcina. Il "veicolo segnico" agglutinato, riportando gli enunciati verbali all’identità artistica e umana dell’attore, mette in luce l’archetipo umano dei singoli personaggi, che, come un fiume carsico, affiora nelle diverse interpretazioni precipitando il ruolo degli autori – dei quali, pure, conosciamo benissimo i nomi, i percorsi, l’opera – in un’originaria e feconda condizione d’anonimato, dove ad enunciare le parole è, come dice Hugo, una "bocca d’ombra" che parla per tutti e, nell’ascoltarla, ci rende coro muto – plausibili fonti dei suoi enunciati, testimoni e portatori di quel magmatico patrimonio di pensieri e movimenti della sensibilità dal quale l’artista trae il filo e talvolta il disegno delle sue tessiture.
Il "veicolo segnico" puro non è un’invenzione del teatro, ma discende dalle punte della sperimentazione letteraria che ha sondato l’autoreferenzialità del linguaggio con netto anticipo rispetto alla scena. Dice Foucault, autore assai ascoltato dalle avanguardie teatrali degli anni ’70 e ’80: "La letteratura (e questo senza dubbio a partire da Mallarmé) si sta lentamente trasformando […] in un linguaggio la cui parola enuncia, nello stesso tempo in cui dice e nello stesso movimento, la lingua che la rende decifrabile come parola"6. La lingua "enunciata" dalla parola annulla dunque quella di partenza, alla quale sostituisce un’articolazione creativa che non necessariamente esprime o comunica. E cioè, una non lingua. Nel caso dei "significanti" puri, la lingua coniata dall’artista non presenta surplus di sorta; anzi si caratterizza rispetto a quella comune per via del suo esclusivismo, della sua radicalità, della sua vocazione ad essere essa stessa realtà e a tacitare quanto non le corrisponde nel cono d’ombra dell’assenza. Sulla pagina come sulla scena o negli spazi della figurazione, gli oggetti della creazione estetica possono dunque subire un processo di reificazione, che costituisce forse uno dei più ricorrenti ed evidenti elementi di contiguità fra le avanguardie dello scorso secolo.
Il "veicolo" mondo realizza il sogno d’un linguaggio in cui gli enunciati e i contenuti coincidono, e lo spettacolo si risolve in una visione di esistenze. Naturalmente, l’espressività verbale, passando da questa dimensione orale e performativa alla pagina scritta, viene rescissa dalle identità umane che aveva scenicamente declinate, e smarrisce quindi quella condizione d’assoluta armonia e compenetrazione per cui era stata parte inscindibile, voce e canto di particelle infinitesimali, ma anche significative e uniche dell’esistente; tuttavia, proprio il sentimento della perdita e l’istinto a risarcirla, possono instillare alla parola detta la necessità di trasformarsi in "opera", in ricostruzione artificiosa e compiuta del mondo. Detto con una sola parola: in letteratura. Le dinamiche della teatralità riconducibile alla nozione di "veicolo" mondo, contemplano il salto dall’oralità alla letteratura; così come, d’altra parte, le modalità del "veicolo segnico" agglutinato, facendo dell’attore testuale un organo della dialettica fra l’identità e la presenza dei performer, contemplano in certi casi un analogo salto dall’oralità al dramma.
L’attore testuale ricava dalla frequentazione della tipologia segnica qui esaminata diverse strategie compositive. Il "veicolo segnico" agglutinato lo porta a corroborare l’affioramento dei paradigmi umani con testi sapienziali e intarsi di sentenze; oppure gli fa concepire la parte scritta in quanto biografia teatrale e cifrata dell’attore. Il "significante" puro gli consente di svolgere una linea testuale parallela, che, proprio perché ispirata agli stessi criteri estetici della concezione scenica, non ingloba lo spettacolo che la contiene (cosa che, peraltro, non mira in alcun modo a fare). In questi casi, l’attore testuale predispone materiali verbali dai quali ricavare indistinti tappeti fonici, slogan, contrappunti ironici, citazioni riconoscibili, pseudo allocuzioni e pseudo dialoghi che completano l’unità iconica delle presenze sceniche.
Nei dintorni del "veicolo segnico" mondo, l’attore testuale definisce e connota con citazioni, indicazioni, secche e icastiche battute il rituale che organizza le azioni, e, inoltre, si confronta col vario rigenerarsi dell’espressione letteraria dall’oralità. Si pensi ai libri nati dalle esperienze di "teatro e narrazione", oppure all’inizio di Barboni di Pippo Delbono: un limpido brano autobiografico, che potrebbe svilupparsi in forma di monologo o di racconto, e che invece, secondando le esigenze del segno mondo, introduce e chiarisce la presenza personale dell’autore nel suo spettacolo.
Le strategie creative dell’attore testuale, nonostante coprano un’ampia gamma di possibilità estetiche, sono comunque accomunate dal fatto di svolgersi all’interno dei processi teatrali. È una condizione significativa e determinante, che, nel presente, favorisce la pratica degli sconfinamenti fra le funzioni dello spettacolo, mentre, in una più ampia prospettiva storica, avvicina le nuove drammaturgie alle antiche poetiche degli autori che operavano nel teatro. Anche per questi artigiani della parola scenica, l’esercizio della scrittura si risolveva, infatti, nella stesura di testi in parte allusivi, lacunosi, cifrati, e compiutamente intelligibili ai soli artisti scenici, che ne dispiegavano potenzialità e possibilità attraverso la realtà compiuta dello spettacolo. Il "dramma" autonomo, pubblicabile e fruibile anche indipendentemente dalla realizzazione scenica, non era (allora come oggi) una norma, ma piuttosto l’esito di contingenze particolari o specializzazione ulteriori, che lasciavano comunque trapelare anche nelle opere limate, corrette ed edite il sotteso fluire d’una tecnica di scrittura preclusa al lettore. Dice Molière nell’avviso Al lettore che precede la commedia-balletto L’amore medico (1665): "tutti sanno che le commedie son fatte solo per la rappresentazione, e quindi consiglio di leggere questa solo a chi ha occhi per scoprire durante la lettura tutte le sfumature della recitazione". Le parole vendute ai lettori e al pubblico, nascono nell’economia dei rapporti interpersonali fra gli artisti scenici. "Tutti i grandi testi che ci sono rimasti – ha recentemente osservato Siro Ferrone – […] sono in realtà, anche se raccontano d’altro, la storia d’un diario di lavoro"7. Anche il "nuovo teatro", dunque, rientra nella sotterranea tradizione che attraversa i teatri creativi di tutti i tempi, convertendo al loro interno l’oralità in testo, le relazioni in rituali scenici, la conoscenza in drammaturgia. Non è importante, ai fini della vitalità del teatro, che l’attore testuale ritrovi le vie che portano all’Autore con l’A maiuscola. Ad essere veramente essenziale è invece il fatto che le realtà teatrali siano "luoghi dei possibili" (Fabrizio Cruciani) dove le avanguardie continuano a trovare i propri "altrove", ma è anche possibile rivivere – incanalandoli magari verso la composizione di opere "altre" che non siano in realtà forme, ma nodi dell’esistente – i movimenti genetici dell’espressione letteraria, della poesia, del dramma.

NOTE

1. Cit. in Jennifer Kumiega, Jerzy Grotowski. La ricerca nel teatro e oltre il teatro 1959-1984, Firenze, La casa Usher, 1989, p. 90.
2. Cfr. il dossier Teatro popolare di ricerca, a cura di Gerardo Guccini, Massimo Marino, Valeria Ottolenghi, Cristina Valenti, in "Prove di Drammaturgia", Anno V, 1999, n. 2.
3. Cieslak – afferma Grotowski ricordando l’attore principe del suo teatro in un intervento del 9 dicembre 1999 – era un artista della stessa grandezza, mettiamo, d’un Van Gogh "perché aveva saputo trovare la connessione del dono col rigore" intendendo con dono il "dono di sé", il "dono al suo lavoro". Cfr. Jerzy Grotowski, Le Prince constant de Ryszard Cieslak, in Ryszard Cieslak, acteur-emblème des années soixante, a cura di Georges Banu, Arles, Actes sud - papiers, 1992, p. 20.
4. "Ciascuno di questi gruppi mostra una concentrazione decisamente inusitata di linguaggi autoreferenziali che si riconoscono, in definitiva, nella sfera di una "superindividualità" artistica: la scelta del teatro vuole essere fondamentalmente una scelta d’arte, espressione di sé attraverso un’azione che non rimanda ad altro, non significa altro". (Stefania Chinzari - Paolo Ruffini, Nuova Scena Italiana. Il teatro dell’ultima generazione, Roma, Castelvecchi, 2000, p. 122).
5. Leo de Berardinis, Se Ofelia recita Leopardi, programma di sala di past Eve and Adam’s.
6. Michel Foucalult, Storia della follia nell’età classica (1963), Milano, Rizzoli, 1976, p. 643.
7. Siro Ferrone, Come nasce un copione, in AA. VV., Seminario sulla drammaturgia, a cura di Luigi Rustichelli, Purdue University, Bordighera incorporated, 1998, p. 9.

Lettera aperta
di Eugenia Casini Ropa

Rileggendo a distanza di alcuni mesi il mio intervento sulla "drammaturgia della danza", per renderlo idoneo alla pubblicazione, mi accorgo che le riflessioni proposte allora a caldo, soprattutto sulla stimolante suggestione della relazione di Gerardo Guccini, mi paiono oggi non sufficientemente approfondite e in parte superate. Nel frattempo, infatti, ho avuto modo di procedere nell’approfondimento degli argomenti accennati, sia in discussioni con studiosi e artisti, sia con la lettura di nuovi scritti, soprattutto americani. Oggi questo lavoro di indagine è per me in pieno corso e i suoi frutti in termini di scrittura necessitano di qualche tempo ancora per essere del tutto maturi.
Preferisco quindi non pubblicare il mio intervento nei termini riduttivi che presenterebbe ora, ma mi prefiggo di ampliarlo, per il prossimo numero di "Prove di drammaturgia", in uno scritto che dia conto e discuta delle aperture metodologiche e delle interpretazioni critiche apparse più di recente. In particolare, oltre che sulla stessa pertinenza del termine "drammaturgia" in danza, sarà interessante interrogarsi – come del resto fanno alcuni studiosi, soprattutto semiologi – sulle modalità di costruzione del "senso" attraverso il movimento, sulle analogie con i processi della scrittura, sui rapporti retorici della danza col suo soggetto, sul binomio "coreografia/drammaturgia", sugli approcci consci o inconsci a queste problematiche individuabili nella danza contemporanea.

Un personaggio chiamato Provenzano, riflessione sulla drammaturgia a Sud
di Andrea Porcheddu

Si potrebbe partire, in effetti, da un dato concreto. Se c’è un elemento interessante, in questa scialba stagioncina teatrale, segnata più dalle pastoie politiche che da invenzioni teatrali, è proprio la ri-scoperta della drammaturgia contemporanea. Sono segnali evanescenti, piccole testimonianze, brevi suggerimenti di un modo possibile di fare teatro.
C’è chi continua a scrivere, ma c’è anche chi "comincia" a scrivere. E ci sono compagnie e teatri che si accostano, con rinnovata verginità, a quelle scritture. Complice, chissà, la moda inglese – come sempre, dalla minigonna ai Beatles, l’Inghilterra ci regala improbabili mode e ora tocca ai nuovi arrabbiati – o il suggello tedesco, ma anche da noi si scopre una nuova drammaturgia. E il dato è di non poco conto.
Viviamo in un’epoca di continua eiaculazione precoce, di virtuosismi virtuali, di vuoto portato all’eccesso. Un’epoca di superficialità glamour teorizzata e incoraggiata, da "ora del dilettante" esaltata da ansia giovanilistica: anche nel teatro, certo, in questo piccolo mondo antico, c’è chi ancora si emoziona per delle sfilate di moda e belle immagini di imberbi e impreparati attorini.
Tutto si consuma in fretta, spesso con violenza, con un ardore maschilista saccente e arrivista. Il culto per la produzione fine a se stessa, per il commercio creativo, per il progetto fatto solo per accontentare le esose richieste di un kafkiano ministero della cultura. Il culto, insomma, un po’ fascista – parola grossa, ma chissà perché di grande attualità – di un teatro privo di qualsiasi contatto con la ragione, con la profondità ancora viva della società… Prevale, allora, quella strombazzata virtualità, l’idea e la voglia di fuggire, la fuga dal reale.
Il teatro immagine, quel teatro immagine che allora – quasi venti anni fa – sembrava una rivoluzione in atto, una risposta innovativa alla verbosa e concettuale esperienza politica di tanti artisti, ha lasciato, come strascico mal compreso, solo un estetismo manierato, un vezzo barocco e decadente, un’idea di attore-genio incompreso, maledetto e istrionico, isolato e puro, che può andare in scena per il solo fatto di sentirsi artista, auto-giustificandosi e auto-gratificandosi. E le drammaturgie (questa volta al plurale) di simile teatro sono spesso derive pseudo-poetiche, illusioni ombelicali, deliri interiori, drammi piccolo-borghesi di figli di papà insoddisfatti moltiplicati in spazi scenici che diventano bomboniere ovattate.
D’altra parte, e parallelamente, si avverte una angosciante ricerca di miti, di punti di riferimento, di confronto con una memoria che non è più. Abbiamo perso drasticamente il nostro passato: ci siamo illusi, e ci illudiamo, di essere l’ottava potenza industriale quando, in realtà, siamo ancora la prima nazione di un terzo mondo agricolo… Questa schizofrenia caratteriale spinge certo nostro teatro allo spasmodico confronto con "certezze", con valori, con idee – politiche o meno – forti. Siamo un popolo di ultras, di tifosi, e abbiamo sempre bisogno di una squadra, di un leader, per il quale tifare.
Ecco, allora, ad esempio, la balcanizzazione della nostra scena: il continuo riferirsi alla violenza della guerra nella ex-Jugoslavia, ecco il grande ritorno alla Resistenza, alle storie di lotta partigiana. Esperimenti di scrittura che a volte – direi anzi spesso – riescono, ma che altre volte rimandano ad un esercizio di stile, ad un "vorrei ma non posso", ad un gusto naif annaffiato da eccesso di solidarietà. Confusione, allora, confusione ovunque: ci muoviamo su terreni minati, perdendo direttrici e orientamento.
Certo, non tutto è così: procediamo, anche qui, per veloci generalizzazioni, e quindi per facili provocazioni. Ma sono tendenze largamente riscontrabili. Però. Però qualcosa sembra muoversi. Segnali, si diceva, segnali di drammaturgia contemporanea. Non è un caso che questi segnali vengano, prevalentemente – anche se non esclusivamente – dal Sud.
Ci si interrogava sulla possibilità del tragico nel contemporaneo: se ne parlava anni addietro, ovviamente, confrontandosi con lo struggente lavoro di Carmelo Bene, se ne discute ora a proposito delle algide letture di Luca Ronconi. Ma se il cinema, con il Lars Von Trier di Dancer in the dark, o – in versione decisamente ironica – con il Woody Allen di La dea dell’amore, riporta con successo sullo schermo la struttura della tragedia greca, il teatro sembra essersi arenato sulla "distanza": non c’è più spazio per la tragicità, se non evocata, criticamente o cinicamente, da lontano. È ancora valida questa riflessione? Viene da domandarselo. Se andiamo a sbirciare i percorsi di scrittura dei nostri più interessanti autori contemporanei, vediamo che il senso tragico emerge, con forza, pressoché ognidove.
La tragicità, come sguardo sulla conflittualità dei rapporti umani e sulla ineluttabilità di un destino sempre dolorosamente presente, viene metabolizzata e riproposta in testi che – pur prendendo spunto dalla quotidianità – riescono ad evocare paradigmatiche nuove mitologie del contemporaneo. La riscoperta della tragedia, dunque, è possibile e non mancano esempi.
A partire proprio dalla scrittura aspra di Franco Scaldati, impastata su uno sciamanesimo linguistico e fisico, dove la poesia si tinge di un nero dolore, di grande maturità. Inutile stare qui a ricordare l’importanza del laboratorio fatto da Franco nel quartiere dell’Albergheria di Palermo, e le difficoltà in cui è costretto ad operare: resta un’opera – scritta e verbale – che lascia il segno.
Vorrei ricordare il formidabile lavoro sui riti del lutto di Aura Teatro, quella ricerca sapiente e antica, eppure modernissima, che lega con un filo la tragedia greca alla barbara quotidianità della Sicilia di oggi. Vorrei ancora citare il lavoro di Scena Verticale, la creazione di figure totemiche – femminili che incarnano il senso profondo del dolore di una società privata, come si è detto, di contenuti. Sarebbero molti gli esempi da citare, emblematiche rappresenta-zioni di una vitalità culturale e di una sensibilità creativa che non ha confronto: il sud Italia presenta, oggi, un teatro che è forse tra i più interessanti d’Europa.
Altro elemento portante di queste scritture, ovviamente, è la presenza del dialetto: di lingue che sono altre, diverse da quello che Margiangela Gualtieri chiama "l’italiano dalla corretta sintassi". Lingue sporche, suoni duri, materici, primordiali. Perché il dialetto? Perché, ovviamente, racconta di più. Lo diceva, in una recente intervista, Francesco Suriano, altra nuova penna del Sud Italia, che ha scritto in calabrese Roccu u Stortu.
In dialetto scrive Spiro Scimone – anche se ne La festa ha raggiunto la perfetta quadratura del cerchio, colorando di un’eco dialettale appena accennata un italiano popolare. Esplorano il sardo il gruppo Cada Die e Leonardo Capuano, e, per tanti versi, anche Giorgio Simbola. È fortemente dialettale la matrice dei nuovi narratori che provengono da Roma, l’ottimo Ascanio Celestini e il giovane Michele Sinisi, che affonda la sua scrittura nel dialetto pugliese. Riecheggia fin troppo il dialetto nei tanti gruppi che ogni anno escono da Napoli.
Dunque, tragedia, dialetto e società. Vorrei ora soffermarmi proprio su questo terzo elemento portante della drammaturgia del sud Italia: dando, finalmente, un senso a quel titolo – Un personaggio chiamato Provenzano – che sarà sembrato a molti solo un gioco di parole ad effetto. Che c’entra Provenzano, boss inafferrabile della mafia siciliana? C’entra, e vedremo perché.
Il teatro del Sud, mi è capitato di sostenere, è un teatro che non ha tempo da perdere. Che arriva allo spettacolo sfiancato, stanco delle mille difficoltà, dei tanti problemi, delle prove fatte in fretta e male. Ma che trae linfa vitale, continuamente e naturalmente, dal contesto in cui si muove.
A quella realtà difficile e frastagliata il teatro guarda, e non può non farlo: si pensa continuamente a cosa succede attorno alla scena, e tutto quel mondo si riversa scontroso e dolente nella scrittura, nel lavoro, nello spettacolo.
È questa, forse, l’essenza di quello slogan – teatro popolare di ricerca – che è stato elaborato tempo fa: la ricerca linguistica e contenutistica del teatro del sud non può prescindere dal suo essere profondamente popolare, radicato nel popolo e nell’idioma, nella complessità del sociale.
Dunque un teatro politico, senza dubbio, di una politicità che non è più solo agit-prop partitico, ma è politicità greca: comunità, sguardo complesso, e apertura all’incontro.
Non è un caso che i teatri del sud siano piccole cittadelle accoglienti: il Kismet, Koreja, il nuovo Garibaldi di Santa Maria Capua Vetere. Luoghi vivi, perché abitati da persone vive, luoghi di resistenza teatrale… Il rischio, allora, è quello di sentire il fascino di Provenzano: e mi spiego. Come raccontare una realtà che rischia di non essere raccontabile? Come affrontare certi temi? Il problema, in questi casi, è il pericolo della retorica. Per retorica intendo quel plus-valore "marxiano" e tutto borghese che un prodotto può portarsi dietro.
A metà anni Novanta abbiamo vissuto il boom di Napoli: tutto quello che era napoletano era buono, in quanto tale. Si avverte, in lontananza, un rischio simile anche per la drammaturgia del Sud: tutto quello che è scritto da sud – perché "politico" e perché tragico e perché dialettale – è buono. Non sempre, naturalmente, è così.
Vorrei prendere ad esempio uno spettacolo, pur riuscito in molti suoi aspetti: ovvero Acido fenico, di Koreja Teatro. Lavoro notevole, perché insiste in un intelligente percorso di prosa e musica che Salvatore Tramacere ha intrapreso. Qui la musica è affidata ai Sud Sound System, con evidente successo. Si scivola, semmai, sul testo, scritto da una penna importante come il magistrato De Cataldo. Testo infarcito di "cronaca", e, mi si consenta, di "luoghi comuni": senza quella "distanza poetica" necessaria perché simili parole funzionino sulla scena. Allora, a fronte di un encomiabile tentativo di lavoro, il risultato diventa stucchevole. L’eccesso di realtà brucia nella finzione… Diverso è l’approccio di Marco Martinelli per il Miles realizzato con il Kismet, laddove l’attualizzazione del classico illumina di squarci sorprendenti la realtà.
Come raccontare Provenzano, dunque? Non sta a me dare risposte, semmai porre qualche domanda. E si tratta di domande troppo ampie per essere affrontate in un contesto simile. Ma se ne può tentare qualcuna.
Se, come sembra, la nuova drammaturgia del Sud Italia, una volta abbracciata in un unico sguardo, potrebbe dignitosamente competere con quella inglese o irlandese o tedesca, potrebbe essere interessante immaginare una "esportabilità" di questi testi: possono essere messi in scena da altri che non siano gli autori stessi? Esiste, effettivamente, un "caso Provenzano"? Ovvero: esiste il rischio "teatro-cronaca"? Infine: come scongiurare la consacrazione modaiola, l’investitura che il Nord produttivo e concreto fa di questo Sud poetico e artistico?
Domande sterili, semplici considerazioni per un futuro ancora ben al di là da venire. Resta, oggi, questo enorme patrimonio teatrale: di un Sud che, ancora una volta, sa regalare emozioni inattese.

Drammaturgie per il Nuovo Teatro
di Massimo Marino

Quello che segue, più che un intervento critico è la composizione di un centone di testimonianze, dichiarazioni di poetica, descrizioni, riflessioni che hanno per oggetto la crisi della vecchia drammaturgia e i molteplici e contraddittori tentativi per disegnare nuovi confini alla scrittura per la scena o sulla scena. Una sorta di viaggio fra documenti diversi continuamente interrotto da nuovi scorci, da non scontate apparizioni, da impreviste prospettive che riaprono la discussione sul punto di vista.
"Non si è mai parlato tanto di teatro come in questi giorni", scriveva Ennio Flaiano sul settimanale "L’Europeo" dell’11 luglio 1965. "Tutto nasce dal fatto che la rivista "Sipario" fa tre domande agli scrittori, sul teatro, e pubblica le risposte di 31 scrittori […]. In generale gli scrittori trovano che non è possibile scrivere per il teatro, da noi, mancando le premesse essenziali: un linguaggio e una società. Una commedia italiana che non sia in dialetto, ha sempre l’aria di essere stata tradotta dall’inglese o dall’americano. Il risultato, dice Baldini1, è una lingua che potrebbe chiamarsi "italiese", che non si parla nella vita e neppure nei romanzi […].
Ormai sappiamo che cosa respinge gli scrittori italiani dalla scena: la mancanza di un linguaggio, di una società, di un pubblico, la certezza che per tutte queste ragioni il teatro sia una forma di arte inferiore o comunque accademica, non aderente alla realtà. […].
Tutto è sapere che cosa pensa, che cosa vuole oggi la nostra società. Se non vuol nient’altro se non ciò che già possiede, un certo benessere, una certa libertà, una certa paura, che bisogno può avere di un linguaggio, cioè di un teatro? Che cosa deve raccontarsi, che non possa farlo con l’italiano scritto, medio, coi suoi romanzi, coi suoi elzeviri, con le sue inchieste [con la sua televisione, possiamo aggiungere noi, oggi]? Il teatro non è soltanto rappresentazione della realtà, ma anche trasfigurazione della realtà, è protesta, un modo di essere presenti, un modo di spiegarsi il proprio tempo, o alla peggio di negarlo"2.
Sottolineiamo: Flaiano, citando alcuni degli scrittori intervenuti nel dibattito (Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia, Natalia Ginzburg), arrivava a concludere che l’unica drammaturgia credibile fosse quella con una radice dialettale.
Il Nuovo Teatro parte da qui: dalla consapevolezza di una frattura fra lingua e teatro, fra teatro e società, fra lingua e società. E, nel clima che precede il ’68, prova a buttare tutto all’aria, per approdare dalla drammaturgia alla scrittura che avviene sulla scena3, legata a tutti gli altri elementi del teatro. Attraverso molti esperimenti, etichette, tormenti, la parola "drammaturgia" viene riportata alla radice filologica di costruzione di azioni, lavoro di azioni che possono basarsi su molti elementi diversi, "perfino su un testo scritto", come ha ripetuto per anni Leo de Berardinis. Riscoprendo, spesso per vie inusuali, la potenza, la necessità della parola. Di una parola proteiforme, che si coniuga all’azione, all’immagine, al lavoro dell’attore, allo spazio, al suono, alla pratica scenica. Una parola necessaria, che tenta di penetrare, interpretare, scalfire il reale. Ma il cammino è ancora lungo e chiediamo la pazienza del lettore.
Ripartiamo dal manifesto che prepara il convegno del Nuovo Teatro tenutosi a Ivrea nel 1967, firmato da vari esponenti del rinnovamento di quegli anni (fra gli altri Corrado Augias, Giuseppe Bartolucci, Carmelo Bene, Sylvano Bussotti, Leo de Berardinis, Lele Luzzati, Franco Quadri, Luca Ronconi, Giuliano Scabia e Aldo Trionfo). Nella sezione scrittura drammaturgica si legge, fra l’altro: "Per scrittura drammaturgica deve intendersi l’elaborazione dell’azione drammatica, sia sotto forma di dialogo, sia sotto forma di note che fissino e determinino le linee sulle quali debbano svilupparsi i movimenti scenici.
Il rifiuto di una concezione naturalistica del teatro comporta anzitutto la contestazione del linguaggio naturalistico attraverso la negazione della poeticità teatrale, la frantumazione del personaggio, la riflessività tra lingua e personaggio, ecc. Essa deve basarsi inoltre sull’impiego della scrittura drammaturgica esclusivamente in funzione del rapporto che si deve costituire tra il palcoscenico e la platea. […].
Il rifiuto di dare un valore preminente alla parola scritta obbedisce alla necessità di assumere nella scrittura drammaturgica tutti quegli elementi della "contemporaneità" che costituiscono oggi i segni principali dell’evoluzione della società4.
Sul rifiuto del testo, della parola, della drammaturgia si sono scritte molte sciocchezze. In continuazione, in questi ultimi quarant’anni, hanno tuonato i richiami all’ordine di chi vuole, anche da insospettabili posizioni apparentemente avanzate, che il teatro sia qualcosa di uguale a se stesso, con uno statuto definito una volta per tutte. I sommovimenti che descriviamo hanno provato a incrinare questa fede. Ma è evidente che non vi sono riusciti del tutto, se si ripete in continuazione il ritornello del necessario ritorno al testo, all’autorità dell’autore. A quale testo? Con quale necessità? Il teatro, dato per morto o ingessato varie volte, dimostra nell’imprevedibilità delle sue strade, dei modi per rinascere e per trasformarsi nell’epoca dell’immagine e del postindustriale, del postmateriale, di essere principalmente "corpo vivente".
E via da Ivrea verso la ribellione studentesca del 1968 e quella operaia e sociale del 1969, l’autunno caldo, con gli scontri di Corso Traiano a Torino. Prova a confrontarsi con quei fatti, con la loro memoria e con le contraddizioni che aprono, un intervento di "animazione teatrale" in alcuni quartieri periferici della città voluto dal Teatro Stabile del capoluogo piemontese. Ai tempi l’"animazione", rivolta principalmente ai ragazzi, e gli esperimenti di "teatro a partecipazione" sembrava dovessero rinnovare la relazione scenica privilegiando il percorso, il processo messo in atto, rispetto al prodotto spettacolare, tendendo ad abolire la separazione fra "operatori" e "spettatori", che dovevano trasformarsi in "attori" partecipi, portando nel lavoro comune tutto il proprio vissuto e tutta la propria creatività.
L’intervento è affidato al poeta Giuliano Scabia, uno dei drammaturghi più consapevoli di quegli anni, autore di uno dei primi esperimenti di scrittura insieme con gli attori (Zip, rappresentato alla Biennale di Venezia del 1965). Scabia persegue un’idea di teatro "dilatato", un modo di fare "dal basso", insieme alla gente, che rinnovava necessariamente le procedure artistiche. Dalla sua cronaca dell’intervento elenchiamo alcune definizioni che testimoniano la necessità di intendere e "scrivere" il teatro in modo radicalmente diverso:

Sciopero articolato/Teatro articolato; Teatro intervistato; Teatro in casa; Teatro è visione del trauma; Teatro delle interviste; Teatro come indagine intorno all’idea di teatro; Teatro è ricerca del teatro; In certe occasioni le commedie non vanno scritte; Teatro come volantino filmato da portare di casa in casa; Recitazione come struttura repressiva; Teatro è anche riuscire a fare teatro in qualunque condizione data; Fare teatro è anche documentare la presenza delle immondizie; Teatro è anche fermarsi nel corso della rappresentazione; Teatro è anche andare di strada in strada a dire alla gente che si fa teatro e invitarla5.
Poco dopo, Scabia costruirà Marco Cavallo con i matti dell’ospedale psichiatrico di Trieste diretto da Franco Basaglia e andrà in giro per campagne e quartieri industriali con un gruppo di studenti a raccontare nelle case, nelle scuole, nelle osterie, nelle strade vecchie favole contadine in forma di teatro (Il Gorilla Quadrùmano e Il brigante Musolino), chiedendo in cambio agli "interlocutori" ricordi ed esperienze della cultura locale.
Schema vuoto da riempire con gli attori, canovaccio per inventare azioni a partecipazione, performance, teatro immagine, teatro di gruppo, nuova spettacolarità contaminata con la cultura visiva, attore autore, teatro danza: la scena a cavallo degli anni Settanta è dilatata fino a riformulare e moltiplicare il concetto di drammaturgia e i materiali stessi dell’arte teatrale.
A questo punto incontriamo il libro di Oliviero Ponte di Pino, un critico cresciuto con il Nuovo Teatro, che fotografa nella seconda metà degli anni Ottanta gli esiti di un cammino ormai ventennale: "Il rinnovamento del linguaggio, secondo modalità già praticate da altre avanguardie, procede prima di tutto per invasioni, contaminazioni e sconfinamenti; è una tendenza a attraversare i generi che insospettisce e allontana i critici più tradizionali, in genere restii a misurarsi su terreni per loro inesplorati e insoliti. In una prima fase sono le arti visive a imporre un allargamento di prospettiva. L’arte concettuale, il comportamentismo e la body art costituiscono per esempio un importante punto di riferimento per molti spettacoli "autoriflessivi": si tratta da un lato di utilizzare, magari come citazione, o come materiale di lavoro, una determinata opera; ma si tratta anche di appropriarsi del procedimento che la sottende e del progetto artistico cui si ispira"6.
Il discorso si riferisce a gruppi quali la Gaia Scienza di Giorgio Barberio Corsetti, Falso Movimento di Mario Martone (che si va trasformando, in quegli anni, in Teatri Uniti), la Compagnia i Magazzini di Federico Tiezzi e Sandro Lombardi e altri. Per loro "la rimozione del testo, della parola, appare inizialmente un passo necessario nella rifondazione della comunicazione teatrale"7.
Ma in quella stessa seconda metà degli anni Ottanta è ormai evidente anche la rinascita di una drammaturgia in senso più stretto. Si tratta di una nuova scrittura per il teatro che affonda nelle lingue, nei dialetti, nelle pratiche d’attore e in quelle tradizioni teatrali che già Flaiano dichiarava l’unica realtà della nostra scena. Dentro e oltre i confini del dialetto si andavano, infatti, generando esperienze di confronto serrato e anche conflittuale con le radici, di distacco da ogni oleografia populista per misurarsi con lo smarrimento contemporaneo, per curare l’afasia con lingue antiche e nuove insieme e con gesti all’altezza dei tempi.
Annibale Ruccello e poi Enzo Moscato a Napoli sono attori e scrittori che scavano lingua e degrado partendo da un recupero dell’impianto narrativo, salvo poi approdare (è il caso di Moscato) a esiti di lirismo monologante o a infinite variazioni che compongono opere a molti strati. Franco Scaldati a Palermo scrive in un dialetto arcaico storie poetiche e straziate, stralunate e violente, per approdare al lavoro nel quartiere marginale dell’Albergheria.
Di quegli anni sono le prime prove delle compagnie romagnole, alla ricerca di una "lingua" teatrale nuova, capace di esprimere urgenze e di tracciare connotati e confini contemporanei alla bellezza. Tale ricerca passa per l’immagine e il gesto per il Teatro Valdoca, che alla fine del decennio approderà a particolari lavori che compongono la poesia di Mariangela Gualtieri con le visionarie costruzioni registiche di Cesare Ronconi. La Socìetas Raffaello Sanzio parte con la ricerca di una lingua artificiale, la Generalissima, per viaggiare poi dentro il mito e dentro storie forti dell’immaginario occidentale, da Amleto alla Genesi, con l’esigenza di rifondare la scena nel segno della crudeltà propugnata da Artaud, mettendo in tensione linguaggi diversi con l’irriducibile diversità di corpi macilenti, enormi, mutilati, esaltati, sofferenti, oppressi, modificati. Marco Martinelli con il suo Teatro delle Albe fa, da autore e da regista, un teatro politico, anzi politttttttico (con sette t), a significare una molteplicità inesauribile di piani, in cerca di identità sociale e artistica, e quindi linguistica. Una sperimentazione che porterà al teatro meticcio afro-romagnolo, realizzato con attori italiani e con immigrati senegalesi, all’incontro con il dialetto, con la poesia di Raffaello Baldini e oltre, fino a un teatro di suono e di magia che vede in Ermanna Montanari la splendida protagonista, e agli ultimi lavori imperniati sulla gioventù, una gioventù che corre fra rave, discoteche e stadi, smarrita, smaniosa di consumare, di vivere, rappresentata nei Polacchi (dall’Ubu di Jarry) e nel Baldus (dal poema cinquecentesco di Teofilo Folengo). Sono teatri autodidatti, senza radici nell’arte tradizionale, con necessità vitali, alla ricerca di antenati (anche scrittori), di lingue per raccontare, aggredire la realtà.
I "rimossi" anni Ottanta pullulano di ricerche drammaturgiche: cos’altro sono il teatro di narrazione (Marco Baliani, Marco Paolini, Teatro Settimo e tanti altri), il teatro dei nuovi comici (dai Gemelli Ruggeri ad Alessandro Bergonzoni, passando per decine di nomi), il teatro di poesia? Il teatro dell’attore autore e quello dell’autore attore si intrecciano variamente, portando a riscrivere testi in relazione alle forze in campo nella creazione scenica e a costruire partiture verbali, poetiche, per l’invenzione dell’attore.
Si afferma anche una drammaturgia del quotidiano che insegue tagli narrativi non esclusivamente teatrali, in particolare quelli del linguaggio cinematografico o televisivo (Umberto Marino, Roberto Cavosi e altri), e un’altra di impianto mitologico, cerimoniale o psicanalitico (Giuseppe Manfridi, Rocco Donghia e altri). L’autore in realtà continua a esistere, anzi si moltiplica: lo testimoniano le centinaia di copioni presentati a concorsi di drammaturgia grandi e piccoli. Difficile sarebbe individuarne le molteplici tendenze e sfumature. Sicuramente questi drammaturghi sopravvivono più che vivere, con scarse occasioni per essere rappresentati e valorizzati e con una certa lontananza dalla scena concreta. Fra gli anni Ottanta e i Novanta è come se si erigesse un muro che sembra insuperabile fra coloro che lavorano con la scena, sulla scena, per la scena e quelli che elaborano testi, che poi difficilmente arrivano al pubblico.
Un’eccezione di qualità è rappresentata da alcuni scrittori che sono anche attori, come Spiro Scimone e il giovane Fausto Paravidino, rivelazione dell’ultima edizione del prestigioso Premio Riccione (1999). Entrambi sono ascrivibili a un orizzonte di derivazione pinteriana, intinta in fortissimi umori dialettali nel caso di Scimone. Così pure fanno eccezione alcuni artisti fuori dalle regole, pasoliniani ed eccessivi, come Antonio Tarantino (e pochi altri).
In realtà, il Nuovo Teatro italiano di più lunga militanza ha superato i cosiddetti generi, le imbalsamazioni: alla ricerca su linguaggi diversi, al gruppo, al lavoro incentrato sull’attore ha unito l’indagine drammaturgica e registica. Questo possiamo dire, oggi. Dopo un rifiuto immediato, gli artisti che hanno iniziato a operare negli anni Settanta e Ottanta in qualche modo si sono scontrati con l’esigenza di pensare a fondo i problemi della drammaturgia. Si pensi al percorso dei Magazzini, che, a partire dalla metà degli anni Ottanta, si confrontano con l’esigenza di "reintegrare il testo letterario nel tessuto spettacolare" e, quindi, "con i grandi autori della drammaturgia novecentesca"8, da Beckett a Testori.
Tuttavia, l’originario rifiuto totale era comprensibile. A degli autodidatti come erano quasi tutti gli esponenti più interessanti di quella generazione, nel testo sembrava contenuta la trappola di una tradizione che stabiliva vincoli estranei, che non consentiva mediazioni, che sembrava allontanare da quel gesto "contemporaneo" che bisognava agire più che pronunziare. Numerosi sono stati i sospetti nei confronti del testo, proprio per i motivi che coglieva Flaiano nell’articolo che abbiamo citato all’inizio.
Anni Novanta, una nuova ondata teatrale avanza con rifiuti nuovi o simili a quelli del passato. Con la spinta, ancora, a fare teatro per esprimere qualcosa di necessario, anche solo per affermare la propria presenza attraverso l’arte.
La lingua diventa quella del corpo, il corpo è il linguaggio e l’ossessione prediletta. Corpo come apparenza, immagine, in mezzo a una civiltà delle immagini, dello spettacolo. Un corpo spesso cyber, mutante, oppure mostrato come un reperto, un feticcio, scrutato con sensibilità da voyeur, inscatolato in macchine, offeso, scarnificato, glorificato oppure mescolato con immagini proiettate, rivelato dietro schermi, filtri, filmati.
Ma questa generazione, innamorata più degli scritti filosofici che della drammaturgia, della pittura di Bacon, delle idee di Baudrillard, dei mondi crudeli di Ballard, dei vuoti di Beckett, è in realtà molteplice.
Se è chiaro alle coscienze che sta avvenendo una mutazione genetica, dopo quella antropologica, anche il teatro deve pensarsi diverso da se stesso. Non può esaurirsi nell’eterna catena testo-regista-attore-pubblico. Si invoca l’atto, la reinvenzione del rapporto spazio-temporale. Ma forse non si vuole affatto riformare il teatro: semplicemente lo si vuole usare, perché è l’arte meno costosa, più collettiva, e perché dà la possibilità di esserci. Alcuni dei nuovi gruppi usano il ferro, il plexiglas, il campionatore più che la recitazione. Partono da sé, dall’inquietudine e dalla visione e non da canoni. Ma si tratta di una galassia composita, che divora tutto. E macera, metabolizza. Perfino la drammaturgia, la poesia. Basta non rinchiudere in gabbie la voglia, la necessità di sperimentare.
Un’ultima citazione, dal libro che Paolo Ruffini e Stefania Chinzari dedicano a questi ultimi scenari, tratta dall’intervista a Romeo Castellucci della Socìetas Raffaello Sanzio, considerato, in quel volume, il padre putativo o perlomeno il fratello maggiore di riferimento di molti degli ultimi gruppi:
"Ecco, il testo. Come è possibile essere fedeli e allo stesso tempo tradire il testo in molti modi, arrivando persino a ridurlo al silenzio?"
Nel testo c’è tutto. È quasi un paradosso che lo dica io, là dove nel nostro Amleto non si sentiva praticamente una sola parola di Shakespeare. In realtà non è un problema di testo, di letteratura: Shakespeare non si può resuscitare e non sarebbe neanche interessante farlo; non si tratta di cogliere il reale spirito dell’autore. Si tratta quasi di acquisire una certa stupidità di fronte a questi testi: vanno letti molte volte, fino a non capire più niente e dopo questo lavoro continuo le parole diventano materiale come altri elementi della scena. Questo rapporto con la materia è partito proprio da Amleto, mentre prima il nostro rapporto con il linguaggio era decisamente sovrastrutturato: avevamo addirittura creato la Generalissima. Amleto invece ha avuto la forza di far precipitare il linguaggio di un gradino ancora più in basso, fino a soppesare e ricondurre la parola a materia. Da qui deriva il rapporto fortissimo con la parola dell’infanzia e del bambino autistico, che viene sempre messa in relazione con le feci. La parola aveva questo ingombro, esattamente il peso di un corpo, ma non per questo abbiamo fatto un lavoro di cancellazione del testo. Al contrario è stato fatto un lavoro di profondità, fino a farlo riassorbire. Là dove è cancellato ritorna in forma fantasmatica, di sogno inconsapevole, di scelte estetiche"9.
E a questo assistiamo nella pluralità d’oggi: al ritorno della drammaturgia come "fantasma", o a varie specie di suoi "riassorbimenti", metabolizzazioni in una scena che mira oltre, verso i crinali delle discipline, dei mezzi espressivi. Ma sentiamo anche la necessità di ridare consistenza all’idea propria di drammaturgia, di testo, di tessitura. Un’idea che, per quanto possiamo dilatarla, rimane come una traccia guida per esprimere una visione delle cose, del mondo e un fare per la scena: un bisogno di parole e storie concentrate su di sé, che siano in grado di rimettere in moto il nostro sguardo sulla realtà, sull’immaginario, sui territori della nostra coscienza; un’aspirazione che deve realizzarsi con i mezzi del teatro del tempo.
Alla fine di questo cammino accidentato, raccontato per schizzi rapsodici, sta davanti a noi ancora il problema della scrittura, dell’immagine e del corpo vivente. In un qui e ora che si dibatte fra il bisogno di concretezza, di verità, fra le rappresentazioni che ci dominano e la voglia di uscire dai propri limiti, attuali e profondi. Ancora una lotta, una tensione senza soluzione, da assumersi, da vivere giorno per giorno, contraddittoriamente, fra immagine corpo e verbo.

NOTE

1. Si tratta di Raffaello Baldini, autore di poesie in dialetto romagnolo, che saranno portate sulle scene negli anni Novanta da Marco Martinelli e da Ivano Marescotti. Baldini scriverà anche, dopo questa prima esperienza, dei testi, in dialetto e in lingua, pubblicati dall’editore Einaudi.
2. Ennio Flaiano, Un personaggio in cerca del cappello, ora in Ennio Flaiano, Lo spettatore addormentato, Milano, Bompiani, 1996, pp. 226-229.
3. Il critico Giuseppe Bartolucci la chiamerà "scrittura scenica" nel volume intitolato appunto La scrittura scenica, Roma, 1968.
4. Elementi di discussione del Convegno per un Nuovo Teatro, in Franco Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia (materiali 1960-1976), Torino, Einaudi, 1977, p. 143.
5. Cfr. Giuliano Scabia, Teatro nello spazio degli scontri, Roma, Bulzoni, 1973, in particolare Azioni di decentramento, pp. 195-426.
6. Oliviero Ponte di Pino, Il nuovo teatro italiano 1975-1988, Firenze, La casa Usher, 1988, p. 19.
7. Ibidem, p. 20.
8. Pier Vittorio Tondelli, Un week end postmoderno, Milano, Bompiani, 1998, p. 236.
9. Stefania Chinzari - Paolo Ruffini, Nuova scena italiana. Il teatro dell’ultima generazione, Roma, Castelvecchi, 2000, p. 99.


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Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna