Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia 2/2001

ESPERIENZE DI NUOVA DRAMMATURGIA
Bologna, 2 marzo 2001
Progetto a cura di Cristina Valenti

PRESENTAZIONE

Le pagine che seguono documentano i lavori del convegno "Esperienze di nuova drammaturgia", che si è svolto a Bologna il 2 marzo 2001, nell’ambito delle iniziative del Centro di Promozione Teatrale La Soffitta. Il convegno, curato da chi scrive, nasceva dal desiderio di mettere a confronto le esperienze di alcuni degli artisti presenti nel cartellone di teatro della Soffitta, che trovava nelle tematiche legate alla nuova drammaturgia una sorta di filo conduttore sotteso.

È fuor di dubbio che in questi ultimi decenni, appartenenti a pieno titolo all’epoca del "dopo autore", il teatro abbia nondimeno trovato un importante momento di rigenerazione nella scrittura a contatto con la scena, e in particolare nelle esperienze drammaturgiche che si sono formate e radicate nelle compagnie.

Esauritasi la forma dramma, nel corso della prima metà del Novecento, è stata proprio la perdita di centralità del drammaturgo inteso come scrittore di testi a liberare nuovi impulsi creativi a partire da un concetto di scrittura non più applicata alla nozione di dramma ma a quella di spettacolo. Il passaggio dal concetto di testo drammatico a quello di testo spettacolare ha coinciso con la dilatazione della dimensione drammaturgica: non più spazio riservato all’autore, ma aperto al contributo creativo di tutti gli artisti implicati nello spettacolo. L’ingresso nella contemporaneità teatrale, ossia nel tempo del "dopo autore", è indubitabilmente segnato da Antonin Artaud, che muore nel 1948 e lascia al Novecento l’eredità di un giro di boa. Il concetto di teatro come organismo vivente, al quale restituire "il suo vero linguaggio, fisico e concreto", ovvero "linguaggio nello spazio e in movimento", significava per Artaud libertà – dell’attore e della messinscena – rispetto allo "scrigno del testo". E sul concetto di libertà come condizione creativa a partire dalla caduta dei codici occidentali di scrittura si è soffermato Claudio Meldolesi in conclusione del suo intervento introduttivo, riconoscendo proprio in Artaud "il prius": colui che ha immaginato una vitalità possibile per la drammaturgia a patto di rinunciare al suo statuto convenzionale. In quanto momento di cesura, la visione di Artaud contiene in sé la pars destruens e la pars construens del passaggio: l’indicazione della crisi definitiva dei codici drammaturgici e il preannuncio dell’esplosione della nozione testuale: "combattendo la forma drammatica, Artaud ha creato parole per la scena", ha detto Claudio Meldolesi, che ha inoltre osservato come siano stati Julian Beck e Judith Malina, in seguito, a lavorare per l’abbassamento dell’"incidenza delle convenzioni", aprendo la strada a tutti gli artisti che (consapevoli o meno di tali riferimenti) hanno orientato la propria libertà creativa in relazione al "corpo scenico" e all’azione dell’attore nello spazio.

Il richiamo al "corpo" dell’attore e quindi ai contenuti più fisici, materici del linguaggio, in riferimento alla concretezza della parola e dello spazio, è stato al centro di molte riflessioni. Di "lingua per il teatro" magica, misterica, esoterica ha detto Enzo Alaimo, facendoci tornare alla mente il concetto di "magia della parola", cui hanno fatto riferimento proprio gli uomini di teatro che, in nome di un "ritorno alle origini", hanno trovato riferimenti in una cultura altra, nella quale riscoprire un’efficacia dei segni, e quindi un potere della parola sul mondo (concetti espressi, significativamente, da Monique Borie nel suo libro su Antonin Artaud, sottotitolo: Il teatro e il ritorno alle origini). E il tema del mistero è tornato anche nelle parole di Marco Martinelli, forse il più "autore" fra gli artisti presenti al convegno, e quello che ha saputo costruire una personale scrittura inventando personaggi a partire dalle diverse lingue dei suoi attori e dagli incontri con alcuni "antenati" di elezione. Gerardo Guccini spiega molto bene nel suo contributo la tessitura di queste relazioni creative, in particolare in riferimento all’attrice Ermanna Montanari, "madre popolare e primigenia, romagnola e infera": compagna, perciò, di quegli "alchimisti dell’immaginario" che il Baldus delle Albe incontra negli inferi. Ma alchemica è sempre la scena delle Albe, come ci spiega Martinelli: luogo di trasformazioni personali, "nella carne degli attori", e scrittura per la scena che, al di sotto del livello narrativo, lascia percepire un’altra trama, "invisibile e sovrana", che ha a che fare con la sostanza materiale e con quella concettuale insieme, che coinvolge la vita e la trasforma.

Le parole ritornano. Massimo Marino ci ha ricordato che per Ennio Flaiano il teatro era "rappresentazione e trasfigurazione della realtà". Di fronte alla crisi delle forme teatrali, avvertita da molti artisti come crisi di civiltà, si chiede alla rappresentazione un potere di trasformazione, dalla vita alla scena e viceversa: come nei mondi inventati dalla scrittura di Marco Martinelli per le Albe, e come nella drammaturgia della vita in carcere, con gli attori detenuti del Tam Teatromusica, a contatto con i quali Michele Sambin ha approfondito la sua ricerca sul corpo come veicolo e manifestazione della parola, della musica, dell’arte. Da cui la nozione di drammaturgia intesa come testo complesso, al quale concorrono molteplici codici linguistici.

E ancora in riferimento al corpo: la necessità di lavorare sulla letteratura per "renderla corpo dell’attore" (Enrico Ianniello e Tony Laudadio); e i "corpi scritti in scena" come immagine del lavoro di drammaturgia con gli attori (Giancarlo Biffi).

Altre parole che ritornano: la solitudine dell’attore sulla scena (Luigi Gozzi) e quella del drammaturgo fuori della scena, che sente di "indossare il vestito di un fantasma" (Mauro Maggioni: "i testi che giacciono nel cassetto già ci sono nati"); la solitudine "fatale" dell’autore davanti alla tastiera (e la necessità di costruire testi/scenari: Gianluigi Gherzi). La scrittura per la scena come spazio di libertà: libertà anche come resistenza creativa rispetto alle proprie radici, secondo Alessandro Berti, necessità di "smarcarsi" (dal dialetto, dall’Emilia) per ritrovare la scrittura come linguaggio tra fisico e verbale (nella co-autoralità con Michela Lucenti) e come esplorazione nomade a contatto coi territori. La libertà come fuga dal dialetto, in cerca di un italiano da conquistare (Massimiliano Martines), ma anche, al contrario, come riscoperta di una lingua che attinge a radici non addomesticate per parlare al presente (Enzo Alaimo e Giancarlo Biffi).

Nella seconda parte della giornata, che prevedeva una serie di riflessioni affidate a studiosi e critici, Gerardo Guccini ci ha spiegato che l’attore come "veicolo segnico" può riflettere il mondo agglutinandolo in visione unitaria (inestricabile manifestarsi di "agire fonico e corporeo"), distillandolo nel gesto puro dell’avanguardia (dove cose e persone sono entità autoreferenziali, rescisse da "legami con il mondo dei significati"), oppure l’attore può essere veicolo del mondo: non rappresentando ma "includendo direttamente" la realtà. E quest’ultima nozione è al centro delle riflessioni riferite alla drammaturgia del sociale o dell’esperienza: l’autore come testimone (Giancarlo Biffi); la scrittura che deve "coltivare il proprio disagio" (Eleonora Fumagalli, citando Fabrizio Cruciani, in riferimento alle esperienze compiute presso carceri, comunità rom, quartieri interetnici); la drammaturgia non come "atto di scrittura separato", ma come "autodrammaturgia", esperienza personale dell’attore-autore, in particolare in condizioni di emarginazione e disagio (Alessandra Rossi Ghiglione); ma anche un teatro che sceglie di "camminare domandando" (Alessandro Berti), come un teatro che mette al centro le sue ragioni e sceglie il nomadismo, scoprendo un inaspettato rispecchiamento in esperienze che neppure conosceva (il Living Theatre, Grotowski…).

Andrea Porcheddu ha parlato del Sud del nuovo panorama drammaturgico, con particolare riferimento all’attualità dei temi legati al sociale (con la consapevolezza di tutti i rischi che uno sguardo dal Nord può significare in termini di "consacrazione modaiola").

Eugenia Casini Ropa ha parlato di come, negli ultimi anni, la danza contemporanea, prevalentemente non narrativa, sia stata provocatoriamente stimolata a misurarsi col concetto di "drammaturgia". Massimo Marino ha riflettuto sulle diverse drammaturgie del nuovo teatro.

Dunque, in mancanza di codici drammaturgici, il teatro ha vissuto a partire dagli anni ’60 e ’70 importanti esperienze innovative (Massimo Marino ha ricordato quello che è stato, per l’Italia, il momento più forte del rifiuto della parola, ossia il convegno di Ivrea del 1967, e anche i diversi modi di scrivere che ne sono nati: il "teatro nello spazio degli scontri" di Giuliano Scabia, il teatro a partecipazione che ha coinvolto scuole, ospedali psichiatrici e quartieri operai…): esperienze che hanno trasformato le competenze dell’autore, il significato della scrittura e la nozione di linguaggio scenico. Ma la nuova attenzione alla drammaturgia è erede delle rotture di quegli anni? Claudio Meldolesi ci ha invitato a non darlo per scontato, perché le cose richiedono ogni volta di essere rinominate e la rinascita del vecchio teatro è sempre minacciosa. Forse all’esplosione degli anni delle rivolte segue oggi la dilatazione dei nuovi territori conquistati: all’etica, alla necessità e ai linguaggi del teatro. E nella sua opera magica (ossia potente e efficace) di trasformazione, il teatro attraversa i territori della sperimentazione sociale, penetra l’invisibilità delle carceri e dell’esclusione, e al tempo stesso indaga le fantasie alchemiche dei poeti del passato, si rigenera nel teatro di un Sud che "non ha tempo da perdere", riscopre la dimensione popolare del dialetto e del racconto, pratica il linguaggio del corpo come ossessione, ma continua a farsi ossessionare da un’idea di drammaturgia come tessitura e mappa del mondo. (Cristina Valenti)


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