Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia 2/2001

l’Osservatorio Critico

a cura di Fabio Acca

A partire da questo numero, "Prove di Drammaturgia" inaugura uno spazio permanente dedicato alle emergenze e alle sollecitazioni critiche provenienti dalle aree più sperimentali della ricerca teatrale italiana. Un luogo aperto e sensibile alle voci, all’immaginario e ai materiali di una generazione mutante che, facendo propria la tradizione del Nuovo Teatro, è riuscita spesso a riformulare in maniera originale il proprio attraversamento degli specifici artistici nel segno esclusivo del teatro.

L’intervista a Chiara Lagani e Marco Cavalcoli di Fanny & Alexander, curata da Ilona Fried il 27 aprile 2001, in occasione della presentazione a Budapest di Romeo e Giulietta et ultra durante la scorsa stagione teatrale, restituisce lo stupore dello sguardo dell’artefice sul proprio lavoro, colto nel passaggio e nella continuità del processo creativo, rivelando le paternità, le logiche compositive e gli umori di uno dei gruppi di punta di quella ricerca che ha conquistato stabilmente una propria esclusività storica nel panorama teatrale non solo italiano.

Conversazione con Fanny & Alexander

di Ilona Fried

Il vostro Romeo e Giulietta, a mio parere, illumina in profondità il concetto di "postmoderno". Siete d’accordo con questa mia interpretazione?

Chiara: Questo spettacolo – insieme al doppio spettacolo Romeo and Juliet e Storia infelice di due amanti, nostro primo approccio a Shakespeare – è stato un momento centrale per il percorso artistico del gruppo. Non avevamo mai rappresentato testi classici, e l’incontro con un autore di questa importanza ha stimolato molte riflessioni sul discorso e i codici teatrali: sulle modalità rappresentative, sulla funzione del pubblico e sull’esposizione di chi sta in scena, anche in uno spazio più "tradizionale". La riflessione che fai sul postmoderno è indubbiamente interessante, a partire però da un ripensamento della tradizione. Riteniamo che questo sia fondamentale, per una ricerca che si apre a una cosa nuova.

Ho la sensazione che il vostro lavoro abolisca la "coincidenza", ciò che di romantico persiste nel nostro immaginario culturale, restituendoci un mondo estremamente duro: alleggerito dall’ironia, dalla parodia, ma sostanzialmente duro.

Chiara: In Romeo e Giulietta et ultra, l’idea della "coincidenza" per noi risiedeva nel fascino di lavorare sull’emblema della coppia di adolescenti che è anche l’emblema dell’idea di morte come archetipo, come mito, e il testo di Shakespeare rappresenta proprio questo mito di amore e morte. Dopo averlo letto, ci siamo accorti come l’idea che ne avevamo fosse completamente diversa. Una lettura più attenta ha svelato come Shakespeare sembra abbia esercitato – proprio come dicevi tu – una feroce ironia, uno spostamento feroce di questa idea romantica, tanto da farla apparire inverosimile. Pare che gli amanti non possano amarsi a causa del padre, della faida. Tuttavia, la storia della coppia tradisce una sfida culturale: gli amanti, in questo dramma, parlano più di morte che di amore. Già nel Sogno di una notte di mezza estate Shakespeare fa la parodia di Piramo e Tisbe, quasi stesse già pensando a questo discorso della satira sul romanticismo, che diventa – appunto – un emblema feroce, diretto, duro. Ci riconosciamo in questo concetto, anche perché tutte le idee di amore e di coppia su cui avevamo lavorato in precedenza partono da questa durezza, dall’abbandono, dal fatto che ad un certo punto l’altro svanisce, trascorre.

Dunque, nonostante si sia parlato molto di autoreferenzialità del teatro a proposito del vostro lavoro, qui aprite un discorso sulla società.

Chiara: Noi siamo sempre autoreferenziali, non solo per ciò che riguarda il discorso sul teatro. Mettiamo sempre in scena le nostre vite, filtrate da un’indagine mitica, mitologica. Anche nel Requiem a cui stiamo lavorando, partiamo da un abbandono, da un lutto, che pur fondandosi su un discorso molto privato, viene filtrato da un mito, quello di Amore e Psyche. Credo che la forza del nostro lavoro risieda proprio nel partire da qualcosa di strettamente biografico, che però non può essere riconosciuto come tale. Le nostre esperienze nella vita devono necessariamente essere rappresentate in una forma differente. Prima sei vittima: soltanto quando ne fai una lettura diversa riesci a trovare un’opportunità per la rappresentazione.

Dunque partite da un dato personale, ma adoperate un’astrazione molto forte.

Chiara: Il dato personale non può essere rappresentato come tale, "nudo e crudo". L’interesse nasce quando viene rappresentato in una forma "altra". Il privato può essere dato al pubblico, ma rimane personale solo per l’attore che lo rappresenta.

Come preparate uno spettacolo?

Chiara: Inizialmente l’ideazione è di Luigi e mia, partiamo da coincidenze, desideri, matrici comuni. Lo sviluppo del lavoro avviene in un secondo tempo. Partiamo sempre da un’idea di spazializzazione, che non coincide necessariamente con una "scenografia": lo spazio teatrale è un concetto, anche astratto. I primi spettacoli svolgevano un’idea di spazio decisamente "narrativizzato": i teatrini anatomici, la torta di zucchero… lo spazio raccontava una storia. Anche il buio, come "buco nero", assume una connotazione narrativa: un sogno, un incubo… già di per sé il buio parla di fantasmi. La prima componente del processo creativo è dunque visionaria. Poi comincia un lavoro maggiormente differenziato, in cui io mi occupo della scrittura e Luigi del sistema della visione. Seguono poi le prove, durante le quali vengono elaborati questi materiali, creati singolarmente o in gruppo. Vengono verificati tutti gli elementi e spesso è necessario distruggere molto di ciò che si è creato, prima di arrivare all’esito definitivo.

Dalla lettura dei vostri testi traspare una forte preparazione letteraria e filosofica…

Chiara: In effetti abbiamo una formazione non teatrale, piuttosto letteraria, umanistica. Questa prospettiva ha vincolato il nostro interesse per il cinema, così come per tutte le altre discipline artistiche, compreso il teatro, e il nostro processo creativo ne è profondamente influenzato.

In un certo senso, si può dire che voi siate al margine tra teatro e arti visive.

Chiara: Sì, è quello che alcuni hanno detto. Penso sia dovuto al fatto che tendiamo a non pensare il teatro come qualcosa di esclusivamente pertinente al palcoscenico: teatro è semmai ciò che avviene nell’arte e anche nella vita, ma filtrato da un immaginario artistico.

Non ponete confini tra i generi artistici.

Chiara: Sì, di volta in volta assumono un livello diverso di importanza. Nel caso di Romeo e Giulietta et ultra è stato fatto un lavoro di riscrittura molto rispettoso del teatro shakespeariano. L’unica operazione abbastanza radicale esercitata sul testo consiste nel non rappresentare Romeo e Giulietta, quanto piuttosto l’universo shakespeariano, il suo sistema d’idee, attingendo a molti drammi per nuclei tematici, come il discorso sul potere o sull’amore. All’inizio, questo modo di procedere ci lasciava stupefatti, perché estraendo brani lirici dal Sogno di una notte di mezza estate, dalla Tempesta o dal Giulio Cesare, e – come appunto accade nel nostro Romeo e Giulietta et ultra – costruendo un’architettura narrativa, tutto filava perfettamente. Anzi, alcune cose riuscivano a creare una forte emozione. Ti chiedi come sia possibile che il discorso di Shylock in bocca al Principe possa funzionare così esattamente. Questo significa che, in un grande autore come Shakespeare, esiste una sorta di "naturalezza" nel procedere per nuclei tematici.

Avete costruito una struttura enigmatica, dando la possibilità agli studiosi di riconoscere i testi originari…

Chiara: Esiste anche l’emozione di chi riconosce una citazione. E allora riconosce anche il meccanismo nascosto dietro il gesto artistico, che consiste in una questione drammaturgica.

Voi siete molto astratti, freddi. Però, se si prende in mano il vostro piccolo programma di sala, si può notare una discreta cura artigianale: le foto sono tagliate a mano… c’è qualcosa di molto personale in questo oggetto.

Marco: Una costante del nostro lavoro è quella di partire da sé, sia dal punto di vista ideale, emotivo, sia da quello pratico. È solo da poco tempo che consegniamo una parte del nostro lavoro ad altre persone: fin dalle origini l’attività teatrale era a trecentosessanta gradi, cioè l’opera teatrale era il risultato del mio lavoro di scrittura, del lavoro scenografico, del lavoro dell’attore. C’è anche un piacere della pratica, come quando i bambini giocano e desiderano fare tutto. Pur con poche possibilità, abbiamo creato anche una condizione materiale, in cui si può lavorare liberamente, in cui esprimere compiutamente il proprio desiderio creativo.

Può significare una maggiore sicurezza arrivare ad un punto in cui si possono affidare ad altri alcune parti del lavoro?

Chiara: Certo, ma prima è necessario sperimentarlo da sé, sapere cosa significa, perché puoi delegare il lavoro solo se conosci il suo significato. Se hai questa consapevolezza puoi anche dirigere meglio le mani dell’altro. Siamo partiti in due, poi siamo diventati tre, quattro… In principio dovevamo fare tutto, e questo vuole dire capire meglio certe cose. Ora c’è chi organizza, chi recita, chi scrive, ma ognuno ha ben chiare le competenze degli altri. Non costituiscono ambiti separati, ognuno conosce le responsabilità altrui.

Marco: Perché, in qualche maniera, ciascuno di noi le ha sperimentate.

Siete padroni di tutto?

Chiara: Più che padroni siamo duttili, anche verso ciò che abbiamo solo assaggiato, che non appartiene direttamente al nostro specifico. Comunque l’idea di artigianato è molto importante: costruire una bottega d’arte, quasi fosse una bottega del Cinquecento, in cui l’artista che prepara il colore ha in mente anche la pittura, un’idea intensa che determina fortemente l’impronta artistica.

Trovate che oggi ci sia spazio per questa idea di artigianato, per la riflessione?

Chiara: Questo spazio va sempre cercato con le unghie. È sempre più raro trovarlo. In particolare, l’artigianato, al di là del discorso artistico, scompare sempre di più, anche come pensiero, come forma d’arte. I cambiamenti determinano vie sempre più semplici, più comode. Infatti, non credo nell’uso della tecnologia come una scorciatoia, come una soluzione di semplicità, ma come strumento consapevole. I veri strumenti di semplicità sono altri. Ciò non implica l’esclusione a cui alludo: cose diverse devono poter convivere. Il tipo di artigianato di un qualche strumento o di una qualche via si può anche programmare mediante un computer se rientra in un sistema di visioni e in una prospettiva artistica determinata.

Marco: L’importante è non trovarsi a fare qualcosa per conto di qualcun altro. È un’idea molto personale, ed è politica in quanto molto personale e viceversa. Un atteggiamento istintivamente anarchico che ci appartiene da sempre: non come teorizzazione politica – in questi termini non sarebbe interessante – ma come gesto. Finché riesci a controllare anche argomenti molto complessi in modo tale da essere protagonista e motore di ciò che stai facendo, allora puoi confrontarti con un mondo molto vasto, spesso industriale, composto da ampie aggregazioni di pensiero e produzione, riuscendo però a imporre anche un tuo segno personale, un tuo segno particolare. Questo spazio si conquista con fatica e determinazione, senza usare lo spazio che qualcuno ha costruito per te; cercando di portare un tuo segno "a tutto tondo", attraverso la presentazione di un’opera. Ha avuto un’importanza speciale, per noi, organizzare qualche tempo fa dei piccoli festival, per mostrare il nostro lavoro. A Verona abbiamo organizzato un festival non semplicemente perché avevamo voglia di fare qualcosa in questo senso, ma perché era importante dare un segno, trovare uno spazio per poter presentare il nostro lavoro, in un contesto creato da noi, in cui noi dettavamo le regole del gioco. Questo approccio con il pubblico è fondamentale.

Siete particolarmente interessati al problema dell’autenticità, della falsificazione, del simulacro?

Chiara: È sempre stato un tema fondamentale, per noi. La stessa radice della parola "attore" in greco antico, l’hypokrites. Il discorso sulla maschera è importante per chiunque faccia teatro, come pure per chi va a teatro.

C’è una divisione fra il palcoscenico e il pubblico?

Chiara: Sì, c’è una divisione. Anche quando sfondi la parete divisoria. Abbiamo lavorato anche in teatrini anatomici, in spazi scenografici che contenevano anche il pubblico, tuttavia la divisione esiste sempre.

Marco: Romeo e Giulietta et ultra è il primo spettacolo dove è esplicitato il rapporto palco-platea. Altri nostri lavori non sono costruiti per il palco, però la riflessione sulla divisione tra l’attore e lo spettatore, tra la scena e il pubblico è sempre presente. Se ciò non fosse, si riuscirebbe solo a inserirsi in un contesto predeterminato. Solo la coscienza di questa divisione permette il suo superamento.

Uno spazio spesso labirintico, che lo sguardo non riesce a circoscrivere con precisione.

Chiara: Si tratta di una sottrazione: il discorso sul simulacro va condotto anche in relazione a chi osserva, a livello visivo. Una sembianza, un ectoplasma, un fantasma che compare per un attimo, per poi subito sottrarsi. Questo implica da un lato un momento di frustrazione per chi guarda – lavoriamo molto sulla frustrazione dello sguardo – e dall’altro un desiderio, che accende la fantasia su qualcosa che non è più distinguibile nettamente. Non è dato allo spettatore di vedere immediatamente. È un altro modo di lavorare sull’illusione. In Sulla turchinità della fata l’illusione non era giocata, come in Romeo e Giulietta et ultra, su un nero che continuamente inghiotte i corpi degli attori, ma sullo stesso meccanismo scenografico che determinava la visione: un grande occhio d’acciaio simile a un diaframma fotografico, che si apriva e chiudeva ritmicamente. Anche questo riguarda la sottrazione, che è profondamente radicata nello stesso sistema della narrazione. La figura di un padre manovrava come delle marionette i protagonisti della storia, e questo grande occhio era forse l’occhio del padre, o forse il padre e chi guarda potevano coincidere, non si sa. Comunque nel nostro lavoro questo senso di sottrazione è fondamentale, ciò che viene negato amplifica la libera creazione della fantasia, perché anche chi osserva è creatore.

L’illusione teatrale è creata anche dalle luci, dai colori…

Chiara: L’idea di luce coincide con una drammaturgia del nero e del bianco, e da questa è partito anche il lavoro sui costumi. In Romeo e Giulietta et ultra subentra anche il rosso: la prima idea sulla ripartizione dei colori nasce da Romeo and Juliet e Storia infelice di due amanti, da uno spazio nero, del buio, e da uno spazio bianco, che per noi significava un luogo dove tutto poteva essere visto: l’attesa, l’estenuante prepararsi degli attori che devono recitare. I costumi dovevano saper svelare allo spettatore qualche indizio del buio che stava di là, mentre dal lato opposto gli attori quasi invisibili, se non per qualche squarcio di luce tra le pieghe nere. Poi abbiamo aggiunto anche il rosso come motivo simbolico della violenza mitica: il sangue, una venatura di sangue che lo spettatore porta negli occhi come un’allucinazione.

Durante lo spettacolo, alcuni spettatori sono usciti proprio durante la scena più appassionata. Secondo voi ciò è determinato da una differenza culturale, dal fatto che in Ungheria le passioni vengono mostrate meno?

Marco: Non so. Ci è capitato alcune volte con un tipo di pubblico abituato per lo più ad un teatro "della chiacchiera", più consueto e più indolore. Alle volte si verificano anche delle reazioni di riso isterico. Può capitare in alcuni momenti, nei momenti in cui improvvisamente i nervi si scoprono, e si squarcia un attimo di emozione, non so se definirlo autentico, in ogni caso molto primitivo. Credo che alcune persone in quel momento possano sentirsi in imbarazzo e così, per prendere le distanze, sciolgono la propria tensione in una risatina. Quel momento può dunque coincidere anche con la decisione di alzarsi e abbandonare il teatro. Non penso sia una questione culturale, semmai qualcosa di molto personale.

Siete soddisfatti dei risultati che avete ottenuto?

Chiara: Soprattutto conta il fatto che in pochi anni siamo cambiati profondamente, siamo molto cresciuti. A sedici anni eravamo in due. Adesso di anni ne abbiamo ventisei, e siamo in sei o sette, quasi otto: stabili, stipendiati, finanziati dallo stato, con un giro piuttosto fitto. In questi dieci anni tutto è cambiato moltissimo. Questo ci fa sperare per il futuro, nonostante ogni passo sia sempre faticosissimo, un lavoro micidiale.


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