Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia 2/2001

INTRODUZIONE

Appunti sul dopo-dramma. Dalla "morte della tragedia" a quella del codice occidentale di scrittura per le scene, alle ubique tessiture ulteriori di madama Drammaturgia

di Claudio Meldolesi

Il popolo delle scene è ormai abituato ai terremoti; perciò, ha ritenuto a lungo di poter convivere anche con i lutti richiamati dal nostro titolo, come se maggiori grattacapi non potessero esistere rispetto a quelli quotidiani. E non si è annunciata più volte la morte del teatro stesso? Persino dei teatri di gruppo giunti all’assestamento hanno preso a condividere di recente questa ideologia e astratte sono quindi sembrate a molti nel loro ambiente analisi come quella di George Steiner, l’autore di Morte della tragedia, del 1961. Ora, affrontando questa divaricazione d’intelligenze, dato che l’Università di Bologna ha avuto la fortuna di ospitare un ciclo di lezioni di questo studioso di riferimento, attivo fra letteratura e filosofia, converrà rifarci anzitutto a lui non solo in veste d’iniziatore.

Pervasiva era la raffinatezza delle sue argomentazioni, e nell’ascoltarlo si percepiva un sottotesto aggressivo, felicemente disposto ad attrarre più tipologie di riceventi, anche perché tale comunicazione implicita sapeva volgersi pure a toni di connivenza affettuosa. Non dovevano mancare gli ascoltatori delusi dalla sua estraneità caratteriale al profetismo giacobino. Eppure era stato anche Steiner a fissare in questo libro il problema: la caducità delle forme teatrali, e in un momento in cui ancora il nuovo teatro non era definito. Tutto può accadere nel mondo del teatro, ed è per questo che lo amiamo. Ma come Steiner è giunto ad accreditare definitivamente questa frattura? Per la sua familiarità con il vuoto del tragico? Di fatto, parlando, egli induceva a far pensare che filosofia e teatro fossero per lui due entità indistinte e che la morte annunciata della prima lo avesse turbato e mosso alla scrittura di quel libro. Doveva aver colto, così, di conseguenza, il trauma del teatro-senza-tragedia, ma con un sentire tanto vivo da percepirne infine il futuro delle dinamiche in atto. Non a caso non aveva poi dedicato un secondo libro a quell’"infine". Ci si riferisce, così dicendo, al quartultimo capoverso del suo "Epilogo", che nell’edizione italiana recita: "O forse la tragedia ha solamente mutato stile e convenzioni" e che, dopo aver richiamato il celebre "grido muto" di Helene Weigel nei panni della Madre Courage brechtiana, giunge a definirlo il "medesimo lamento puro e selvaggio con cui la fantasia tragica ha marcato la prima volta il nostro senso della vita". Donde la sintomatica conclusione che, appunto, avrebbe potuto portarlo ad un’altra analisi: "La parabola della tragedia forse è intatta"1. Oltre la morte?

Il tertium, quale figura dell’orientamento, ricorre spesso nell’esperienza investigativa del teatro, che è però raramente tenuta in vita negli spettacoli. Eppure Madre Courage profetizzò la tragedia della seconda guerra e il beckettiano Aspettando Godot prospetta ancora il nostro presente, cioè la caduta delle alternative, la vicinanza del "Cristus Judex", giocosamente mimetizzato. Poi, per molti il tertium è divenuto l’altro grande scritto classico delle spiegazioni sull’argomento, Teoria del dramma moderno di Peter Szondi, un altro letterato d’inclinazione filosofica, ma il cui suicidio avrebbe portato ben oltre il suo sapere di comparatista la coscienza del nostro problema. Stiamo parlando serenamente di qualcosa di terribile, di una mutazione genetica del pensiero umano.

Si rifletta sulla variabile incidenza dei doni teatrali di questo studioso, appassionato dai riscontri drammaturgici con le intersezioni della grande cultura. Se il suo Saggio sul tragico, uscito in Germania l’anno dopo l’apparizione in Italia di Morte della tragedia, non diede seguito al finale steineriano, Teoria del dramma moderno lo aveva già rivelato ben consapevole dell’improvvisa verticalizzazione novecentesca dei problemi drammaturgici ereditati2.

Un po’ come Beck, subito dopo, aveva sentito ineludibile il richiamo del teatro, nonostante la fortuna che gli stava prospettando la sua pittura informale, quello Szondi dovette intuire che si andavano disperdendo gli "invernali" anni ’50 (F. Fortini) e fornì un contributo ottimistico sulla praticabilità del dramma moderno allo stato di crisi; anche se il suo linguaggio difficile sembrava richiedere agli addetti ai lavori maggior rigore nella ricerca alle vie di uscita.

Colpisce che Szondi fosse pervenuto a tale lucidità a ventisette anni, da immigrato ungherese a Berlino, benché la "volontà" del nuovo l’avesse portato a contraddirsi nella parte finale delle argomentazioni: che induce a pensare già risolta quella crisi da Arthur Miller e Brecht. Cosa che è stata storicamente smentita dal nuovo teatro, tornato sull’argomento con incontri paradigmatici, come quello finale di Therry Salmon: che, allestendo Pentesilea di Kleist, ha come visto l’ultimo momento della sua vita. La morte della tragedia si è costellata anche di nostre morti: il suicidio – appunto – di Szondi, la morte tragica di Therry Salmon, partecipi di un universo complesso e dai confini indefinibili, oltre che della sfida vitale che continua a produrre incontri di attori con la parola in assenza di codici deputati a valorizzare la loro coniugabilità. Perché il non dramma costringe ad agire in una sorta di situazione desertica priva di luoghi di riferimento, in cui facilmente ci si smarrisce, ma in cui la condizione di solitudine porta a immaginare un mondo innescato dalla variabilità poetica.

Perciò volge spesso alla poesia la scrittura dei nuovi autori teatrali. Come la morte della forma tragedia ha favorito sviluppi imprevedibili del tragico, così alcune avventure testuali del nostro tempo hanno dischiuso mondi accettando tale condizione di nuovo originaria: in cui, non a caso, la dimensione drammaturgica è tornata ad aprirsi ai contributi di tutti i soggetti della creazione spettacolare.

Questo è il secondo elemento di novità. La drammaturgia non è solo dell’autore. Piuttosto è il luogo della volontà di parola di tutti gli artisti, attori e via di seguito. Perciò abbiamo visto un altro scomparso illustre – Strehler –, prima di morire, indossare i panni di Faust; mentre, all’inverso, Testori ci ha lasciato anche agendo da interprete dei suoi testi, come gli attori autori.

Ma poiché questa introduzione intende solo spiazzare gli autori qui riuniti, per invogliarli a parlare dal prima più che dal dopo dei loro risultati, magari aprendoci qualche spiraglio sulle loro "officine", questa relazione continuerà a svolgersi sulle generali.

Logica avrebbe voluto, a questo punto, che prendessimo via Pirandello, per confrontarci con le diramazioni più limpide che continua a conoscere, o vie alternative nate da originali richiami ai teatri orientali, o la via dei Poeti – ce n’è una anche a Bologna – o quella dei Comici dell’Arte. Ma è parso preferibile partire da un estremo contrasto. Si rifletta sulla concezione dell’Auctor: dai latini era considerato tale l’artefice-e-guida, e in senso non solo artistico. Per convenzione, scrivere un copione significava farsi compagno di Virgilio o di Giulio Cesare: e ciò rendeva illegittimo intervenire sui drammi d’autore in nome dello spettacolo. Il radicamento italiano della Regia fu a lungo ostacolato anche per questo; mentre poi exploits autorali sono venuti da quel Testori, dall’ex dramaturg Müller, dallo sceneggiatore-dramaturg Carrière; si rifletta, dunque, sulla condizione dei dramaturg artisti, non della maggioranza di essi, proprio come si usa dire degli attori in sede storica: sottintendendo che ci si riferisce a quelli degni di memoria. Anche se si tratta di mediatori dell’arte rappresentativa, tra Settecento e Ottocento, poeti e filosofi d’eccezione in Germania crearono questo ausilio dell’arte scenica, volto a darle corpo in senso illuminista, prima, e romantico-negativo, poi. Ubiqua è l’indole della drammaturgia. E ancora dall’irregolarità dei nostri classici recenti sarebbe stato rimarcato questo Gestus: che oggi fa amare di più, anche nei decorosi teatri ufficiali, Pirandello e Strindberg, rispetto a Ibsen e Show.

D’altro canto, l’apertura alla poesia corrisponde al desiderio, da parte del teatro, di passare per l’oscurità, anche per quella del freudiano "motto di spirito", che appunto passa per il pre-conscio. I poeti ci hanno guidato a capire che Bene e Fo erano compagni di questa avventura; e il Nuovo teatro ha creato un passato, una tradizione in merito, perché ha saputo andare alla scuola degli attori, anche in termini di drammaturgia scritta, magari rifacendosi a trasposizioni di romanzi, alla comicità grottescamente frammentata, a testi d’attore e a scritture di poeti, misteriosamente aperte alla scena. Il Testori dei Magazzini si è così apparentato ai drammi di Bernhardt e al contrasto di Bene e Fo, mentre giungevano a dialogare le opposte assimilazioni "testuali" di Barba e Leo: realizzate dal primo per isolamenti genetici e dal secondo per scritti volti a rilanciare il corso rappresentativo di classici affini o a creare con la scena. Da questo punto di vista il Nuovo autore è più libero di quello del passato anche quando sceglie di nutrirsi delle scritture precedenti, purché sappia guardare al loro interno e andare alla scuola degli attori.

Siamo, da questo punto di vista, nella stessa condizione in cui Molière andava a imparare da un attore italiano – Tiberio Fiorilli, detto Scaramouche – che agiva a Parigi, rinnovando le procedure dell’interessamento drammaturgico. La stessa formula "interessamento drammaturgico" è significativa, perché nell’oscurità, nell’incertezza, nella mancanza di riferimenti, questa dimensione della limpidezza espositiva diventa fondamentale. Il teatro popolare sta ritornando all’attenzione dei creatori teatrali nello stesso modo. Non vogliamo fare le solite rappresentazioni – ci lasciano intendere più attori –, ma sappiamo che nel mondo popolare, abbandonato dagli studiosi e dagli uomini di scena da ormai trent’anni, c’è il fermento stesso del teatro di ricerca. In merito, vorrei comunicarvi, se lo ritenete utile, questo sentimento: che se la tragedia è morta e se il dramma è morto, possiamo lo stesso proseguire, dal "dopo" in cui viviamo, la grandezza di coloro che hanno agito con libertà nel mondo del teatro. Di fatto, l’autore – come l’attore, come l’uomo di teatro in genere – è tornato persona in quanto attivo in ambito teatrale. E tornando persona è ritornato a noi vicino: il Nuovo teatro è figlio in parte di questo atteggiamento, di questo superamento delle codificazioni. Però, siccome esso sta godendo di una durata straordinaria e non rappresenta tutto il teatro, sicché finirà a sua volta, non bisogna commettere l’errore di delegare al dopo, che già mira a buttare il bambino con l’acqua sporca. Bisogna capire cosa dobbiamo conservare con assoluto, viscerale desiderio per il futuro del teatro. Sono gli artisti che debbono dirci in merito. Io potrei solo fare delle proposte di lettura, perché credo che su questo argomento sia necessario essere molto radicali. Da secoli si parla di crisi del dramma, di morte della tragedia, ma si continuano tranquillamente a scrivere e rappresentare i soliti drammi e le solite tragedie. Quindi la radicalità è necessaria, almeno dal punto di vista del pensiero degli autori di teatro che sono qui seduti.

Ricapitolando e per concludere: come fra i matti – se mi consentite – la morte della tragedia e la crisi e morte del dramma hanno manifestato (l’ultimo Brecht, Beckett, Genet, Bernhardt, Testori…) un’apertura drammaturgica quale non si vedeva dal romanticismo negativo dei primi tempi, quando c’erano Goethe, Schiller, Kleist, Hugo, Manzoni, Shelley, cioè quando i grandi scrittori producevano opere per le scene. Credo che questo sia sfuggito ai nostri teorici, e che in realtà l’alleggerimento delle convenzioni sia stato l’elemento primo della nascita del Nuovo teatro, perché ha permesso a Julian Beck e Judith Malina, anzitutto, di spiazzare l’incidenza delle convenzioni nello spettacolo e, quindi, di riaprire le vie del "meraviglioso" alla messinscena. "Meraviglioso" che può essere quello barocco di Ronconi come quello dell’incontro del teatro con la strada. Quindi, "viva il teatro delle persone", siano esse attori o autori. E se ci fosse Giuliano Scabia, a questo punto gli darei la parola, perché lui è stato uno dei promotori di questo teatro delle persone, essendo un autore raffinato che girava – e gira ancora – per le strade recitando come un bambino sapiente.

Forse, il prius, lo straordinario inventore di questa stagione prolungata della drammaturgia è stato Artaud, quando era sottoposto alla tortura psichiatrica, a prospettare il "dopo", il teatro odierno dal punto di vista della drammaturgia, dicendo essenzialmente che quest’ultima tornerà viva quando non vorrà essere "drammaturgia", quando vorrà parlare di tutto fuori dalle solite convenzioni. Perché le solite convenzioni sono morte, ormai da noi distanti. Semmai, esse possono darci delle convenzioni deboli, quindi trasgredibili, e delle resistenze creative che non siano astratte. Perché la resistenza alla creazione è fondamentale per creare oltre: non ci può essere una creazione senza una resistenza della materia, ma ogni volta questa va trovata altrove. Il drammaturgo è oggi un portatore personale di teatro, che può realizzarsi solo attraverso gli incontri con una drammaturgia della scena. Qualcosa ha di nuovo reso epifanica la coincidenza di dramma e scena.

La centralità dell’arte scenica e la conseguente moltiplicazione delle procedure a base drammaturgica hanno evidentemente determinato una situazione nuova, ma non altra. Non a caso, separatamente, si sono rimanifestati richiami d’arte fra i poeti e nei nuovi luoghi del popolare. Non va isolata la fine del dramma moderno, come non va immaginata agevole la valorizzazione delle libertà da essa prospettate, perché si è diffusa la scena ancora più nuda.

Resterebbe da dire delle ricadute possibili di tutto ciò sul modo di scrivere per il lavoro di scena, aldilà della forma dramma; trattandosi però di una questione delicata, converrà dirne in modo più aperto, informale.

NOTE

1. La citazione rimanda alle pp. 271-72 della Morte della tragedia di G. Steiner, Milano, Garzanti, 1965.
2. Questo libro del ’56, apparso in Italia nel ’62, sarà qui considerato soprattutto per il suo capitolo IV, "Tentativi di soluzione".


Ritorno alla pagina precedente

Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna