Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia 2/2001

DISCUSSIONE

Luigi Gozzi

Il mio sarà un intervento molto breve, innanzitutto di apprezzamento della giornata di oggi. Mi pare siano emerse delle cose molto interessanti. Sono in gran parte d’accordo con molte delle cose dette da Gerardo – ma non solo da lui – anche se mi paiono – lo dico subito – difficili da districare. Vorrei anche, soprattutto riguardo a stamattina, fare un invito. Parlo come operatore, come regista e drammaturgo, più che come docente. Lo so che ci sono degli elementi di rottura, di spaccatura, di contrapposizione. Qualche volta, oggi pomeriggio, è stato usato il termine "rapporto dialettico"; altre volte, invece, trovo che si esasperi un po’ inutilmente la contrapposizione tra il "corpo" e il "verbo". Non ho capito, e vorrei chiedere a Massimo Marino, cosa sono i "professionisti".
La contrapposizione non dialettica, muro a muro, tra il corpo e l’anima, tra il corpo e il verbo, tra verbalità e corporeità (non so quale sia l’anima, non so quale sia il corpo) – scusate, è una specie di rimprovero – mi sembra un po’ inutile. Le relazioni di Gerardo Guccini e di Eugenia Casini Ropa mi pare avviino la questione sul piano storico-teorico in una direzione più attiva: sono convinto che la dimensione della drammaturgia – termine pesantissimo, impegnativo, classico – sia oggi, nella condizione attuale del teatro, molto importante. Vorrei dire una cosa al drammaturgo Maggioni, a proposito del suo intervento. Per ragioni biografiche ho vissuto tutta la storia del Nuovo Teatro, compresa quella raccontata da Marino. Sarebbe interessante e importante raccontare la storia del teatro di ricerca e dell’avanguardia, perché ritengo si racconti spesso in maniera abbastanza approssimativa. L’importanza della drammaturgia fu sottolineata a Ivrea, per poi essere in gran parte dimenticata. Di questo bisognerebbe parlare. Dicevo di Maggioni, il quale ha la sua formazione col duo Remondi-Caporossi, duo che definire nell’alveo di Beckett è ovvio, ma che praticava il silenzio. E allora mi viene da fare un’osservazione sulla solitudine. Personalmente sono convinto – e chi ha lavorato con me lo sa e lo condivide – che non ci siano condizione e lavoro più solitari di quello dell’attore. L’attore è l’uomo solo, il drammaturgo no, ha la sua penna o il suo computer. Invece l’attore quando è in mezzo al palcoscenico con davanti il pubblico è assolutamente solo. Naturalmente mi interessano per contrapposizione – e di nuovo siamo ai contrasti, alle dialettiche aperte – le attività drammaturgico-sceniche, in cui questa solituidne sembra superata: il gruppo o la compagnia si muove tutto intero, è forse solidale. I racconti di Martinelli sono molto interessanti, e probabilmente egli pratica con continuità cose che tentano molte volte un po’ tutti. Anch’io ne sono stato tentato: ho però dovuto constatare che anche l’attore collettivo è, alla fine, assolutamente solo. Mi viene sempre la curiosità, di fronte a un testo, di sapere se e quanto corrisponda alla stesura iniziale o non sia invece il "resoconto" dello spettacolo. È il progetto da cui si è partiti – due, cinque, venti pagine, quindici o due parole, un gesto – oppure è ciò che ci ha restituito la scena? Perché il fascino della drammaturgia è che consta di un testo transeunte, di passaggio, mai finito – in un certo senso – come tutti i testi che si rispettano.

Massimiliano Martines (Dry_Theatre)

Presentavo il mio libro Della sete dell’anello a Lecce, in novembre dello scorso anno, e parlavo di come tutte le cose che faccio a livello artistico – video, teatro, scrittura – siano molto affini alla pratica sessuale. Nel senso che per me scrivere, fare teatro o fare video ha una stretta connessione con l’atto sessuale. Allorché un ragazzo dal fondo della sala si è alzato e mi ha fatto una domanda che ha spiazzato tutti. Mi ha chiesto: "Tu credi nel punto G?". In quell’istante, non ho saputo che dirgli. Effettivamente, ripensandoci, ho fatto male a dirottare il discorso su altre questioni, avrei dovuto rispondergli che il punto G esiste. Dal punto di vista artistico, e nel teatro in modo particolare, il punto G è l’incontro tra la scena, la scrittura e il pubblico. È lì che probabilmente si raggiunge il punto G, il punto di massimo compimento della drammaturgia, un punto sensibile, impossibile da ricondurre ad una tecnica, per via della sua natura quasi esoterica e discrezionale. La drammaturgia per me è qualcosa che rimane aperto. Ho molta fiducia nelle parole, mi piace scrivere. Ultimamente sto scrivendo con maggiore organicità rispetto al passato, soprattutto per il teatro, e il testo è l’ossatura a cui faccio sempre riferimento. Il testo è, ovviamente, il testo scritto in italiano. Ciò che, infatti, emerge da questo incontro è l’attenzione molto particolare che viene data al dialetto. Io scrivo in italiano, amo andare a teatro e sentire parlare l’italiano. Il dialetto rientra nella mia lingua, nella mia scrittura, in altre modalità. L’italiano è per me una lingua "altra" rispetto a quella che ho imparato. Ho imparato a parlare in dialetto, sono nato con delle inflessioni particolari e ritengo che il dialetto sia una fonte d’ispirazione. Nella mia scrittura entrano tutte le modalità del dialetto: i toni, il dire… tante cose. Quando scrivo ho memoria della mia lingua, però in teatro mi piace imparare una lingua nuova. Sono molto attento a discipline come la dizione, è una cosa che mi affascina tantissimo. In teatro imparo una nuova lingua: ho la tendenza a reimparare. La scrittura passa sul corpo, viene dal corpo. Io sperimento la scrittura. Nasco come attore – è giusto chiarire anche questo – e l’attore vive le cose, agisce la scena, ma soprattutto agisce la vita. Così dovrebbe essere anche per lo scrittore. Non posso parlare di cose che non conosco, per me scrivere è mettermi continuamente in discussione, è sperimentare le cose anche in maniera maledetta. Se uccido mio padre in scena, io l’ho ucciso realmente, in maniera metaforica ovviamente, ma ho sperimentato l’atto nella vita reale; se io mi strafaccio di eroina in scena, mi sono realmente strafatto di eroina: faccio i conti con le mie piccole dipendenze e mi nutro di tutto quello che mi uccide. Ciò che mi uccide è ciò che mi sta intorno, ma è anche ciò che mi nutre dal punto di vista della scrittura, che mi tiene in vita come essere umano: io, Massimiliano, vengo tenuto in vita dalle cose che mi uccidono. Per esempio, di cosa si nutre la mia scrittura? Si nutre dei video-clip, del mondo mercificato che ho intorno, del linguaggio della musica pop italiana, del rock italiano. Il rock è linfa vitale, mi ha fatto scoprire il teatro, paradossalmente. Per me, Vasco Rossi in scena fa teatro della crudeltà. Ovviamente, se si ragiona su cosa sta dietro Vasco Rossi, c’è il mondo dello star system. Però Vasco Rossi, con la sua scrittura, mi dà delle indicazioni su cosa dire, su come dirlo. Vorrei fare un’altra riflessione sul mezzo di scrittura. Io scrivo al computer, non scrivo più a mano. Questo influenza moltissimo il mio modo di scrivere. Quando scrivo ho una mappatura chiara rispetto a quello che sto scrivendo, e riesco a intervenire sul testo in maniera diversa se dovessi scrivere a penna, a mano. Questo influenza anche la conoscenza delle mie possibilità di fare teatro. Sarebbe fantastico arrivare in un teatro e potere usufruire di tutte le cose che quello spazio può offrire. La mia scrittura ne sarebbe inevitabilmente influenzata. Se comprassi un masterizzatore, lavorerei in maniera diversa sul teatro, e anche sulla scrittura, perché avrei più elementi da rilanciare nel gioco e nelle sue regole. Quindi anche i mezzi con cui si opera influenzano pesantemente la scrittura. Molte volte mi trovo a leggere o a vedere testi rappresentati che hanno la pretesa di spiegare tutto, oppure di non spiegare nulla. Chi citava Dancer in the dark, il film di Lars Von Trier…? È bellissimo il fatto che Lars Von Trier utilizzi il melodramma e le convenzioni del genere per far commuovere lo spettatore, arrivando con padronanza di mezzi ad un obiettivo ben preciso. Purtroppo, molto spesso questo non si vede nella drammaturgia contemporanea, non c’è un obiettivo, ci sono pochi livelli. Il bello del teatro è che ti dà la possibilità di intersecare vari livelli. Il massimo per me sarebbe arrivare a utilizzare in maniera intelligente la metafora. È un risultato molto alto avere insieme ad un livello di narrazione comprensibile a tutti, anche un livello "altro" di lettura, molto forte e molto potente. Lo scrittore si deve dare anche un orizzonte di senso. Spesso, invece, ci troviamo di fronte alla mancanza di orizzonti di senso, di pensieri strutturanti, di quel quid che rende densa una scrittura.

Andrea Adriatico (Teatri di Vita)

Questo incontro ha rivelato innanzi tutto l’accostamento di problematiche di natura molto diversa sotto un unico comune denominatore o in sostanza sotto un unico termine, che è la parola "drammaturgia". Si è parlato di drammaturgia come espressione di un discorso linguistico, di drammaturgia come fattore unificante di esperienze geograficamente vicine, di drammaturgia come "parola scritta del teatro", di drammaturgia come scrittura del silenzio del teatro. Tutte questioni rilevanti ma che esprimono la vastità di accezioni e la sostanziale polisemia di questo termine. Per ciò che mi riguarda posso solo ribadire che la mia esperienza e il mio pensiero è sintetizzato dal nome stesso di "Teatri di Vita", che ha individuato nella pluralità "dei teatri" ( e quindi delle "drammaturgie") la propria essenza. Continuo a credere sia più utile e necessario sottrarsi al desiderio di comprimere in un solo termine una vastità di espressioni e parlare di drammaturgie possibili. Di sicuro, da spettatore sono assolutamente felice che nello stesso momento tante persone che lavorano in ambito artistico scoprano tensioni rispetto al teatro completamente differenti, e che quindi un artista possa decidere di utilizzare il dialetto, un altro possa decidere di utilizzare la corporeità, un altro ancora possa decidere di utilizzare la parola come espressione privilegiata. In questo senso, le parole di Gozzi restano un appoggio pratico inscindibile dal mio lavoro, cioè bisogna passare da un’esperienza all’altra senza nessun tipo di paura, servendosi di ciò che è propriamente necessario. Eugenia Casini Ropa sostiene di aver avvertito un bisogno nel teatro contemporaneo: tornare alla "quarta parete", dopo molte esperienze di "sconfinamento". Questo è uno degli aspetti in cui mi riconosco di più. Ed è questa la personale "drammaturgia" che cerco. Una "drammaturgia dello spettatore" che gli permetta di essere tale, recuperando una distanza formale, attraverso una separazione tra l’agire e quello che avviene nel personalissimo spazio dei pensieri per dare vita ad un’intensa dinamica drammatica. La comunicazione deve passare da una libertà del fruitore. Necessaria. La sola drammaturgia che oggi concepisco è quella che non investe e non obbliga ad una lettura univoca, al di là della sua necessità formale di espressione: il corpo, la parola, il dialetto o la sociologia. È una questione di contenuti. La drammaturgia prima di tutto credo debba svolgere un servizio all’idea e al bisogno espressivo. Viviamo in un’epoca in cui siamo sottoposti ad una moltiplicazione di occasioni e di opportunità comunicative; esistono linguaggi che sfondano le "quarte pareti", e solo noi continuiamo nel nostro microcosmo teatrale a parlare di soggetto e di unicità; ad aver bisogno di definizioni univoche e dunque ristrette. Forse sarebbe più interessante e proficuo muoversi con una maggiore libertà e un minor bisogno di definizioni; vivere con maggiore disponibilità culturale un mondo aperto a mille esperienze e mille occasioni, in cui si tracciano strade nuove. Per capire il valore di questa necessità basta un esempio, una frase citata da Massimo Marino da un’intervista alla Raffaello Sanzio, sulla loro scelta finale di non utilizzare una sola parola dell’Amleto in scena. Uno spettacolo che ha dato vita ad un Amleto senza la poesia di Shakespeare, ma con tutta la sua portata emozionale e concettuale intatta, anzi, forse amplificata. E la sensazione di aver compiuto il salto per far diventare drammaturgia piena un silenzio. Questo, per me, è un fatto straordinario.

Gianluigi Gherzi

Vorrei provare, nel tempo breve che ho a disposizione, a dire alcune cose necessariamente estremistiche. Sono trent’anni che la drammaturgia in Italia viene fatta dai registi, non dai drammaturghi. Un consiglio da dare a un giovane drammaturgo per vedere rappresentate le sue opere: diventare regista. Qualcuno dice che la drammaturgia in Italia è in crisi. Penso invece che l’Italia abbia prodotto una bella drammaturgia, in questo periodo. Che Albe, Raffaello Sanzio, Teatro Settimo (e potrei andare avanti con un’altra quindicina di nomi) hanno prodotto ottime drammaturgie. Solo che non vengono riconosciute come tali. Vengono identificate con gli spettacoli prodotti e non assurgono a valore autonomo. Qualcosa non quadra. Chi fa davvero drammaturgia, oggi? Mi sembra sia cambiato tutto, e non ce ne siamo accorti. È cambiato tutto! Le autorialità sono tante, ormai. Quando si entra in una sala prove non si può pensare che il ruolo del drammaturgo sia quello dominante nel gioco delle autorialità, perché oggi, quando l’attore è attore, è un attore-autore. Entra, scassa il testo, lo crea. Se uno scenografo è uno scenografo entra, scassa il testo, lo crea; idem per il discorso musicale; idem per il discorso del movimento; idem per il discorso delle luci. Se esiste una proliferazione delle autorialità, va tranquillamente messa in discussione la figura del drammaturgo come l’abbiamo conosciuta in passato. Mauro Maggioni parla della "solitudine dello scrittore da concorsi". Lo capisco, e senza generalizzare dico che, nella maggioranza dei casi, quella solitudine riflette una caduta di funzione. Molto spesso si scrive affidando un messaggio nella bottiglia al mare della produzione teatrale. Poi, concretamente, si scopre, anche nel caso di testi "belli", che non c’è nessuna esperienza vitale di teatro interessata a uno scambio a distanza con un drammaturgo padrone della parola, che non si incontri quotidianamente con le altre autorialità presenti in scena. Spesso si parla di fantasmi… Qual è il ruolo dei centri di drammaturgia? È possibile affrontare il tema della drammaturgia astraendolo dalla realtà di una scena che cambia completamente, mettendo in discussione funzioni e ruoli tradizionali? Perché non ci si occupa del rapporto tra chi "scrive" e chi recita, mette in scena? Ma ci sono altri piccoli assurdi nascosti all’interno di una logica che sembra "normale". Ad esempio: premi di drammaturgia, premi per le opere non rappresentate… Ma perché alle opere "non rappresentate"? Perché solo "alle opere non rappresentate"? Tanti scrittori di teatro non aspettano la mitica vittoria al "concorso". Mettono in scena comunque, autoproducono, dividendo il rischio con un regista, con degli attori, con un gruppo. Questa è un’azione culturale che andrebbe premiata e che invece viene penalizzata. Certo, in questo caso non si premierà un testo inedito, ma si darà un aiuto all’attività di quello scrittore, della comunità artistica che ha sostenuto la sua opera, si creeranno situazioni favorevoli a nuove scritture e nuove produzioni. Molti scrittori di teatro, anche tra "quelli bravi", non riescono più a scrivere in astratto, senza avere davanti le facce e la vita di una comunità artistica di riferimento. Che spazio hanno questi "nella drammaturgia"? Molte cose mi lasciano sgomento, con la sensazione di vivere delle realtà parallele. La realtà di come davvero si scrive oggi e la realtà "virtuale", "l’autore immaginario e astratto" a cui in gran parte fanno ancora riferimento le istituzioni che parlano di drammaturgia. Credo che al centro ci sia una domanda ancora più importante: chi è l’autore, adesso? Forse comincia a mostrare la corda una visione romantica della figura dell’autore come possessore unico della parola, del senso, della poesia. È tornato di nuovo importante un discorso sull’autore collettivo: sull’autore come raccoglitore, come archivista, come levatrice, come narratore. L’uso di tutti questi termini sta a testimoniare la necessità di un rapporto che ricominci a bruciare la pelle, che riscaldi nuovamente il sangue nella relazione tra un artista e una comunità di riferimento. La domanda che mi faccio è se sia possibile che nel lavoro dell’autore possa ritornare a trovare spazio una collettività. Sono affascinato da quello che non è testo chiuso, ma mappa, scenario, territorio da attraversare. Dentro una mappa, dentro uno scenario si può navigare, si può ripartire per altri tradimenti, si può attraversare un mondo. Esiste, tra le ipotesi possibili, non l’unica certo, ma forte e significativa, quella di una drammaturgia come luogo degli eventi possibili, delle opportunità intraviste, delle grandi domande culturali e artistiche che il contemporaneo ci pone. Rimettere al centro l’artisticità come fatto non individuale, come avventura di piccole comunità, in rapporto con un mondo grande e complesso che cambia. E se per un attimo il volto dell’autore sembrerà scomparire, in realtà saremo solo testimoni di una mutazione capace di riagganciare i rapporti tra scrittura e mondo.

Alessandro Berti (L’Impasto - Comunità Teatrale Nomade)

C’è una grande distanza tra la teoria e quello che vivo. Spesso mi chiedo: perché la vita, quello che facciamo, non riesce ad esprimersi durante questi incontri? Non ho ancora trovato una risposta. Il mio forte disagio è ora determinato dal dovermi riferire a una griglia di temi, quelli fin qui discussi, legati esclusivamente al linguaggio, e non alle ragioni. Tenterei piuttosto un percorso inverso: dalle ragioni ai modi. Per carattere, ho la fortissima necessità di smarcarmi continuamente, anche da me stesso, e quindi di fuggire dal dialetto, con cui ho cominciato, di fuggire dall’Emilia, intraprendendo percorsi nomadi. In questo ultimo anno, ad esempio, mi sono occupato dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e delle contestazioni cominciate a Seattle, temi che apparentemente non hanno alcuna connessione coi precedenti. E infatti il nostro ultimo lavoro si intitola L’agenda di Seattle. Sono cresciuto negli anni Ottanta, nel massimo dell’ordine, nell’ordine assoluto: Emilia anni Ottanta, la disperazione più pura, perfetta. Perciò dentro di me ho l’ansia fortissima di smarcarmi da quest’ordine, a tutti i costi, continuamente. Rispetto a questo "smarcamento", il discorso del dialetto è molto interessante, perché – per esempio – io arrivo da un mese di lavoro a Udine, dove il dialetto è chiamato "lingua", dove Pasolini è tradotto dalla variante di Casarsa alla "koinè", cioè la lingua ufficiale della piccola patria friulana vicina a Haider. Qui il dialetto non è più qualcosa di "buono". Potrebbe esserlo, ma questa specie di ossessione di vocabolarizzare il dialetto in una lingua che sia funzionale a un piccolo stato simil-sloveno, è una cosa agghiacciante. Per cui la riflessione è stata sulla necessità di parlare in italiano, o forse di parlare in inglese, o forse di parlare nelle centinaia di varianti di dialetto friulano, e di non fissarlo in qualcosa che la tradizione adesso rischia di diventare, cioè un nuovo modello di potere. Per me questo è un esempio illuminante sulla valenza diversa che può avere un discorso sulle lingue, in un luogo o in un altro. Il camminare domandando è fondamentale, e noi abbiamo scelto il nomadismo per rispondere a una voglia fortissima di spazio pubblico, di discorsi frontali e un po’ ingenui, forse, però legati veramente al bisogno di togliersi da quell’ordine di cui parlavo. Concretamente, mi trovo ad avere una geografia, uno scenario complessissimo. Lavoro con Michela Lucenti – coreografa, danzatrice e attrice – e parto sempre da uno spazio diviso programmaticamente con gioia. Quindi mi sento molto extraterritoriale fin dall’inizio rispetto – per dire – a un testo. Ma anche rispetto alla coreografia: per me è tutto completamente mischiato. È per necessità che riconduco tutto alle ragioni, perché sarei veramente fregato se mettessi in scena la contestazione all’Organizzazione Mondiale del Commercio di Seattle, partendo dal linguaggio. Forse lo sono ugualmente, ma almeno ci provo partendo dall’essenziale.

Alessandra Rossi Ghiglione

Quando qualcuno, oggi, mi chiede di che cosa mi occupo, ci sono due parole che uso per provare a dire al mio interlocutore un’esperienza di lavoro molteplice e complessa. Queste parole sono "teatro" e "sociale". In alcune mie attività queste parole sono coniugate: mi occupo di "teatro sociale". Anche. La questione sociale per il "teatro sociale" è quella della comunità e delle persone che la compongono. Come migliorare la relazione? Come consentire a ciascun soggetto (sia individuo che gruppo) di esprimere la propria identità (quindi la propria differenza) e di avere un ruolo (quindi la propria appartenenza) nella/e comunità in cui si trova? Identità e ruolo sono questioni proprie del teatro, dove il teatro è inteso sia come processo di produzione di una messa in scena spettacolare (laboratorio teatrale), sia come processo collettivo di drammaturgia di comunità (feste, riti, eventi performativi, etc.). Nei luoghi del disagio, nelle situazioni marginali, nella quotidianità dell’esperienza sociale della formazione, del lavoro, della vita di quartiere o di comunità il teatro sociale promuove e legittima le competenze emotive espressive-creative e relazionali di ognuno. In particolare sviluppa e rinforza l’identità individuale (passato-presente-futuro) nella scoperta della propria diversità e nella relazione con la diversità dell’altro. Crea, sviluppa e promuove processi di cambiamento a livello individuale e collettivo. Fa emergere e esprime patrimoni culturali e civili attraverso la comunicazione creativa. In ambito di teatro sociale, ho lavorato in questi ultimi anni con un approccio personale che utilizza le categorie del lavoro drammaturgico e in particolare dell’esperienza di dramaturg che ho condotto nel teatro d’arte professionale, soprattutto con la narrazione. La drammaturgia dunque non come atto di scrittura separato, ma come processo di scrittura scenica compiuto con l’attore a partire da un lavoro di costante stimolo-raccolta dai materiale di improvvisazione. Spesso, negli spettacoli a cui ho lavorato, la drammaturgia si faceva auotdrammaturgia, l’esperienza personale dell’attore-autore o addirittura la sua autobiografia costituivano gli elementi fondanti della "storia", sia che questa si esprimesse nella fedeltà letterale al dato storico autobiografico come in Vajont di Marco Paolini o in Corpo di Stato di Marco Baliani, sia che trovasse forma attraverso un contestuale processo di "traduzione metaforica", nel rapporto con un’altra scrittura letteraria, drammatica, diaristica come in Lola che dilati la camicia ispirato al diario di Adalgisa Conti e realizzato con Cristina Crippa, in Sole Nero con Maria Maglietta o in Scolpita dal tempo con Francesca Mazza che fanno riferimento rispettivamente al romanzo partigiano di Gina Negrini e alla storia di vita di Dolores Prato. È soprattutto in continuità con il lavoro artistico con le attrici-autrici1 che ho iniziato a intervenire in situazioni di teatro sociale che avessero come specifico la condizione delle donne, e in particolare quello che viene chiamato impropriamente il disagio di genere. Da sola o in collaborazione con altre artiste ed operatrici ho incontrato nella forma del laboratorio teatrale donne di età, condizioni sociali e vissuti estremamente diversi. A Monza (Milano) con il Cadom (Centro Donne Maltrattate) ho lavorato con il gruppo di auotaiuto, a Torino in collaborazione con il Teatro Perempruner ho condotto due interventi uno con Tampep l’associazione laica che si occupa delle prostitute2 e l’altro a Mirafiori sud con donne anziane nel progetto del Comune Teatro e Periferie, ad Asti in collaborazione con Casa degli Alfieri, insieme a Lorenza Zambon, abbiamo realizzato per Teatro e Oltre un biennio di lavoro su teatro e donne con la realizzazione, fra le altre cose di un video L’immagine della carne, di due convegni e di un laboratorio teatrale multietnico "Damas", a Milano con l’Università Cattolica insieme a Giulia Innocenti Malini3 abbiamo lavorato sull’uso del teatro nella prevenzione delle patologie alimentari tra le adolescenti. L’elemento comune di questi lavori4 e di altri condotti in questi anni nell’ambito del teatro sociale come l’intervento in Kossovo per International Organization for Migration sul trauma di guerra5, è nell’approccio drammaturgico all’esperienza delle persone coinvolte. Partire dall’esperienza, cioè dalla storia personale che s’intreccia di azioni, accadimenti, sentimenti. Pensando alle riflessioni filosofiche di Merleau-Ponty sul "corpo vissuto", ma anche alle ricerche di Dowing sul corpo e la parola, ad Hillman e Goleman su emozioni, storia ed identità e a Demetrio sull’autobiografia come cura di sé. A partire da una condizione di disagio, disagio della complessità nella contraddizione tra identità sociale, identità di genere, ruoli, disagio della frammentazione tra corpo, emozioni, storie, conoscenze, competenze, ho proposto un lavoro in gruppo e di gruppo che consentisse l’espressione dell’identità attraverso il lavoro sulla memoria e sull’utopia, su storia e desiderio. In una prima fase si trattava, dopo la costruzione di un linguaggio fisico-gestuale condiviso attraverso il training, di raccontarsi teatralmente, cioè utilizzando il corpo e la parola attraverso esercizi di improvvisazione o di narrazione, portando oggetti, materiali, musiche, etc., con attenzione totale all’assoluta originalità di ciascuno, lasciando emergere storie e modalità narrative personali. Così da avere ciascuno almeno un luogo dove dirsi liberamente di fronte e con altri. E nello stesso tempo riconoscersi: vedere-ascoltare che la propria storia, pur nella sua diversità, è iscritta in una storia collettiva, di quel gruppo almeno e anche di una più ampia comunità. Far emergere un linguaggio e il suo rapporto con quell’esperienza di vita, perché ogni esperienza parla già il suo linguaggio, contiene già la sua bellezza. Poi in una seconda fase provare a costruire insieme una storia collettiva. A partire dagli elementi emersi, dai gesti, dai temi, dalle parole, dai canti domandarsi se c’è una storia che ci riguarda? Se c’è un noi? Di quali linguaggi è fatto? Provare a tracciare una mappa drammaturgica, un cartografia delle emozioni, dei pensieri, delle vicende. E infine domandarsi se vogliamo portare qualcuno con noi lungo questa geografia dei vissuti, cioè decidere se costruire insieme una storia da raccontare a qualcuno. Storia di un’esperienza che è insieme vita reale e vita emotiva, esperienza individuale e collettiva, sguardo su di sé e sul mondo, su come è, su come è stato e su come vorremmo che fosse. Tra identità e differenza. Sopra la mia scrivania c’è un bigliettino con l’acronimo Cadom: Centro Aiuto Donne Maltrattate; oppure Collettivo Artistico Donne di Malteatro. Me lo hanno regalato Giovanna e le altre donne del laboratorio. Ha a che fare con quello che sto facendo e forse con quello che sono.

NOTE

1. Ho dedicato sempre molta attenzione al lavoro delle donne, in particolare delle attrici-autrici, anche nella forma dell’incontro e della riflessione, vedi fra l’altro Ghiglione A., Rivoltella P. C., Altrimenti il silenzio. Appunti sulla scena al femminile, Milano, Euresis, 1998, Autonomie e diversità espressive in spettacoli di e con sole donne, "Teatri delle diversità", 17 marzo 2001, pp. 36-39.
2. Su questa esperienza è in corso di pubblicazione Rossi Ghiglione A., Donne tra palcoscenico della strada e scena della vita. Un progetto di teatro con donne che hanno esperienza di prostituzione, in Missioni Impossibili, numero monografico, "Comunicazioni Sociali", Milano, 2001.
3. Vedi Innocenti Malini G., Può il teatro salvare dai disturbi dei comportamenti alimentari? Tracce di un percorso di ricerche, "Teatri delle diversità", 13/14 giungo 2000, pp. 39-41.
4. Una prima sintesi del lavoro di drammaturgia dell’esperienza, con particolare riferimento ai contesti di formazione, è contenuto in Ghiglione A., Drammaturgia e formazione, in Teatro e formazione: i laboratori di drammaturgia, a cura di Ghiglione A., Bergamo, Quaderni dello spettacolo n. 52, Assessorato allo Spettacolo, Istruzione, Politiche Giovanili, 1998, pp 13-41.
5. Vedi il resoconto dell’esperienza fatta da Maurizio Agostinetto in Porcheddu A., Adriatico. Manuale per un viaggio teatrale nei balcani, Centro Servizi e Spettacoli di Udine, Udine, 2001, pp. 38-41.

Eleonora Fumagalli

Comincio col parlare della mia esperienza, anche se non amo parlare di me. Però è necessario per poter parlare di quello che definisco "il mio viaggio con la parola". Nasco come poeta e per anni ho scritto solo poesia. Poi mi sono innamorata del teatro, e sono passata dall’"io" al "noi". Ho frequentato il Centro di Drammaturgia di Fiesole, dove la convinzione fondamentale dei miei compagni di corso era che il teatro si scrive a tavolino. Infatti, nessuno di loro è divenuto teatrante. Sono diventati bravissimi scrittori, ma drammaturghi, alcuni solo occasionalmente e tramite concorso. Io avevo bisogno di scrittura e allo stesso tempo di teatro, di poesia e di scena. Quindi ho cominciato a scrivere con attori, per attori, a frequentare i teatri, scrivendo di fronte alla scena. Però non volevo fare la regista. Nel mio viaggio teatrale non ho camminato scegliendo le mete ma andando per cancellazioni, per esclusioni nella pratica. Allora, un giorno ho chiesto al professor Claudio Meldolesi: "Ma cosa sto facendo?" E lui mi ha detto: "Forse fai il dramaturg". E ha aggiunto: "C’è una mia amica a Stoccolma che è dramaturg, arriva in Italia per condurre un seminario…" . E cosi ho conosciuto Vanda Monaco Westersthål (dramaturg, regista e attrice italo-svedese), l’ho seguita a Stoccolma e mi sono ritrovata a fondare con lei una compagnia multietnica, cercando attori anche nella metropolitana stoccolmese, attraversando i quartieri periferici e multietnici di Stoccolma, per una sfida, un progetto teatrale che era anche una sfida di politica culturale. Così è nata una compagnia interetnica di teatro di ricerca, con arabi, curdi, siciliani, finlandesi, russi, argentini e abbiamo messo in scena Le Baccanti di Euripide. Ho vissuto un’esperienza bellissima: ho smesso di essere un’autrice, ho dovuto dimenticare tutto, anche perché il testo era in svedese. Mi sono accorta della differenza tra "lingua" e "linguaggio": ognuno parlava una lingua diversa, ma il linguaggio teatrale era familiare a tutti. Ci intendevamo, io riuscivo a capire, ho iniziato a vedere un invisibile, qualcosa in più, e mi si è un po’ sdoppiato lo sguardo… Poi sono tornata in Italia e mi sono detta: "E adesso come faccio a scrivere per ‘battuta-didascalia’, scrivere per commissione o partecipare ai cosiddetti premi? Torno a scrivere poesia. Torno a scrivere racconti". Quando scrivo un racconto o una poesia esaurisco la mia funzione: do il testo a un lettore ed è già una relazione che soddisfa la funzione di quella scrittura. Ma non se scrivo teatro. Quando ho scritto un testo teatrale, il testo verbale non esiste in quanto tale: posso usare la formula tradizionale "battuta-didascalia" per renderlo leggibile, formalizzarlo, ma le parole di quel testo aspettano la scena, un corpo, delle azioni, una materialità precisa. Quindi, ho proseguito il mio viaggio navigando tra i gruppi di ricerca. Ne ho attraversati tantissimi, ho fatto teatro in qualsiasi situazione. A furia di viaggi e sconfinamenti, mi sono ritrovata nel teatro sociale, che allora non si chiamava ancora cosi’, cioè non era ancora una categoria, ma una zona di scoperta. E ho attraversato anche questo, incontrando le sue molteplici possibilità e i molti inganni che nasconde, cercando di portare il mio bisogno di poesia e di poeticità, nel fare teatro in dimensioni dell’umano dove nessuno si era mai posto il problema della drammaturgia. Ormai la mia parola poetica era scoppiata, saltata, lacerata e questo è stato doloroso, spiazzante, una grande e fortunata avventura, che ora sto concludendo e modificando. Ho scoperto che il lavoro più grande lo stavo realizzando su me stessa, cioè il continuo mutare delle condizioni di necessità della parola, ma il persistere del bisogno di poesia (o poeticità) per essere vivi, per andare oltre, per "fuoriuscire" e inventare, partiva da un’afasia apparente per ricrearsi ogni volta in un linguaggio diverso. Ho imparato a essere in viaggio continuamente e a viaggiare verso l’ignoto: ogni volta rifare la valigia e mettere dentro solo ciò che è necessario; inventare delle forme che si possono chiamare "scritture", ma che invece sono una sorta di ipertesti, contenitori che non hanno un inizio e una fine, dai confini molto labili. Ho imparato a morire e rinascere continuamente, salvando la zattera della mia identità nell’anima delle parole, non nella loro forma. Ho preso in prestito da Renata Molinari una definizione, "drammaturgia dell’esperienza", molto utile e importante. È drammaturgia nel senso etimologico del termine: da "trama", come tessitura di energie, di azioni dell’esperienza riguardante qualcosa che accade e (possibilmente) muore in quella situazione, per poi rinascere e trasformarsi da un’altra parte, di nuovo a partire da un grado zero. L’importante è non avere niente di prestabilito. Ciò non significa confusione, contaminazione forzata, piuttosto "mantenere in vita". Non è un’estetica della sopravvivenza, ma espressione di un’etica della vita che non sopporta nemmeno i ricatti necessari attualmente al teatro sociale. Fabrizio Cruciani una volta diceva "coltivare il proprio disagio", cioè non pensare mai che una situazione sia completamente definita. La forma, appena "prende forma", deve essere pronta a saltare. Per questo ringrazio, ad esempio, la comunità Rom di Bologna, perché mi ha offerto un’esperienza importantissima, quella di poter portare il mio teatro tra loro e tra persone che non sanno cosa è il teatro. Per loro non esiste come forma spettacolare, non hanno il senso dello spettacolo, quanto piuttosto del rito; parlano una lingua diversa e hanno solo la parola orale, non c’è scrittura. Ho portato tra di loro un testo-laboratorio, su cui lavoro da anni, sempre costruito su poesia non in metrica, su una partitura ritmica a partire dai respiri, perché possa prendere vita, di volta in volta, in modo diverso, secondo le comunità di attori – e per attori intendo anche chi suona, chi danza, chi agisce in quella situazione – sempre diversi. Mi hanno dato le loro danze, e in questo scambio si è creato qualcosa di necessario. Ha iniziato a stabilirsi un comportamento rispetto alla parola, diventato poi la ricerca della parola di quel momento, vicina a qualcosa di simile a un rito sciamanico. Qualcosa di magico, non nel senso di evocazione, ma nel senso che la parola in quel momento non è il veicolo simbolico di qualcosa che accade altrove: accade in quel dato momento e solo in quel momento. Per cui tutti devono essere pronti, preparati a viverlo e a manifestarlo, non a rappresentarlo. Da lì un ragazzo ha convinto la sua famiglia che il teatro non è la televisione, che lo vorrebbe fare seriamente perché si può parlare della vita e di Dio come in un rito: "come" in un rito. Insomma la scrittura teatrale è una ricerca continua. Penso non si possa parlare di drammaturgia. Assolutamente no.


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Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna