Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia 2/2001

CONCLUSIONE

di Claudio Meldolesi

La questione dell’attore-autore-creatore è ormai da considerare volta per volta nel teatro italiano. Ogni sera cerchiamo di sfuggire a comici sedicenti che l’esperienza televisiva ha finito per omologare; e, in genere, non è difficile distinguere quelli cresciuti cavalcando la rottura teatrale degli anni ’60 e ’70, come dietro le ultime offerte di Zeffirelli si intuiva ancora con raccapriccio il regista allievo di Visconti. D’altro canto, è anche vero che c’è stato un ritorno alla drammaturgia globale. Penso che un autore come Koltès agisse da attore nella scrittura e che il drammaturgo odierno può anche scrivere per i fatti suoi, se è essenzialmente un attore. La scrittura odierna non è quella a tutto tondo delle regole aristoteliche: la distingue semmai la capacità di accendere dei richiami, delle zone di fertilità e dei segni capaci di contagio e passibili di prolungamento. Credo che il ritorno della poesia al colloquio con gli attori sia stato determinato proprio da questo. Quanto abbiamo detto sembra rimandare a quattro punti.

1. Tutto si gioca sulla capacità di esserci dell’attore o del poeta, pur andando oltre sé, di essere portatore di qualcosa che non sia narcisismo, autoproiezione. C’è una straordinaria coincidenza fra Stanislavskij che diceva questo e Fortini che diceva "Il poeta deve […] parlare davvero come fosse un altro da sé". Si scava nella soggettività per diventare altri da se stessi, senza dimenticarsi. E ciò pure rimanda all’essere attori.

2. Per esperienza sappiamo che ci possono essere splendidi spettacoli di parola o senza parola; possiamo sentirci più vicini agli uni o agli altri. Noi non bruceremo Shakespeare e nemmeno Bernhardt, o Brecht. Artaud stesso non li bruciò, anche se si trovò a dover indicare alle scene vie di distruzione e di rinascita; e grazie anche ai suoi rifiuti tale rinascita è avvenuta sui margini delle metropoli, nelle province, nelle zone.

3. La Romagna è diventata un epicentro dell’Europa teatrale, essendo non proprio centrale dal punto di vista degli avvenimenti economici o culturali. Credo questo sia avvenuto perché la fertilità e la capacità di slittamento del soggetto hanno rivelato altre dimensioni; e ciò è stato estremamente vitale: viviamo l’anno duemila, che non è tanto meglio dell’anno mille, in cui si temeva che finisse il mondo.

4. Il bene teatro rimanda a un esserci diverso. Il bene teatro, che ha portato l’attore a essere drammaturgo e il drammaturgo ad essere attore, ci richiede anche di capire la rinascita del vecchio teatro. Perché questo è successo negli ultimi dieci anni, è rinato il vecchio teatro allo stato sospeso: le ultime generazioni del teatro di gruppo non appartengono alla storia di Julian Beck, sono un’altra cosa anche loro. Stiamo vivendo in una situazione di scarsa nominabilità delle cose, e dobbiamo accettarla come tale, pur cercando di ripensarne le relazioni proprio a partire dalla dimensione più sicura, dalla capacità di fronteggiare una piazza, dalla capacità di percepire un flusso umano, sapendo che tutto questo ha attraversato le carceri, la follia come ha sollecitato all’amore e al rifiuto.

Da questa altezza il teatro chiede agli autori di ripensarsi sia eticamente che in termini di linguaggio, dato che, morta la forma del dramma, non è morta la drammaturgia; ma a questa chiede doni necessari la scena, più che in passato.


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