Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia 1/2001

VIDEOGRAFIE - PRIMI PIANI

Massimo Marino
Shakespeare nel mio destino. Amleto e Macbeth secondo Eimuntas Nekrosius

Il Piccolo Teatro, con la collaborazione di Guido Davico Bonino, racconta gli spettacoli shakespeariani del regista lituano, presentati a Milano in occasione del Festival del Teatro d’Europa fra il novembre e il dicembre del 1999. Il filmato, realizzato da Raisat, sceglie di fornire ampi estratti dei due spettacoli, le scene nodali, quelle che meglio illustrano il modo di lavorare di Nekrosius. Squarci visionari sono intercalati da discorsi che chiariscono il percorso creativo di questo maestro della scena e da interviste agli attori.

La visione si apre con il fuoco che incendia i troni di Danimarca. Gli elementi primordiali risalteranno opportunamente nel film: il cubo di ghiaccio che lo spettro consegna ad Amleto, contenente il pugnale della vendetta; e poi la nebbia, il fuoco che brucia e trasforma in carbone… Il legno che domina la scena del Macbeth, il metallo, i sassi… Ma non solo, tutti gli elementi dell’arte di Nekrosius sono illustrati con immagini dense e coinvolgenti: il rapporto fra il corpo e la storia, la capacità di trasformare la parola scritta in azione ricca di strati e di vita, quella di affrontare i classici con un’urgenza che travolge lo spettatore e con un’astrazione simbolica che si condensa in segni incombenti. Come l’ingranaggio-ruota dentata-sega che domina la scena di Amleto, come il mantello di Macbeth che pesa tanto più quanto più il personaggio si avvia per la strada del delitto. Come la particolare caratterizzazione dei personaggi: le streghe, ragazzine belle e dispettose che curiosano nel pentolone che contiene il destino di Macbeth; il padre che pesa, quasi strindberghianamente, sul figlio nell’Amleto.

Amleto per Nekrosius è un dramma dell’azione, non dell’inazione: il suo protagonista è interpretato da un biondissimo divo del rock lituano, è un Amleto giovane, trasgressivo, ribelle, scatenato: una scelta contro qualsiasi imbalsamazione del testo.

Il tempo trascina Macbeth e trasforma la sua vicenda in una tragica e pietosa caduta, che evoca dal suo interno gli altri personaggi, come fantasmi, a volte grotteschi, frammenti di specchio in cui riflettersi.

Il video estrae i passaggi, i nuclei fondamentali dell’arte di Nekrosius dalla durata dei suoi spettacoli. Manca, evidentemente, il lento, fisico crescere e rendersi evidente sulla scena. Ma ricostruisce una specie di filo rosso che entra profondamente all’interno dell’arte di questo grande regista.

Massimo Marino
Progetto Sogno: La vita è sogno e Il Sogno di Luca Ronconi

I video documentano le due regie realizzate da Luca Ronconi nel primo anno di direzione artistica al Piccolo Teatro. La durata è di gran lunga inferiore a quella dei rispettivi spettacoli, ma le riprese permettono di penetrare "dietro le quinte". A scene di grande efficacia e smalto visivo si alternano interviste con gli interpreti e con il regista, momenti degli allestimenti e delle prove. Lo spettatore viene condotto dentro l’officina del maestro, che, soprattutto nel lavoro sul Sogno, viene mostrato nelle letture a tavolino, nello scavo delle parole e dei personaggi, al lavoro sul palcoscenico con la scenografa che riempie e trasforma lo spazio scabro del Teatro Studio.

I due video, affiancati, mostrano i lati complementari e opposti di un progetto unico in due tappe, sviluppato, nel caso della messinscena del testo di Calderon, con un grande impianto barocco, rivisitato con algida, ferrosa o cromata sensibilità postindustriale, nel caso del dramma lirico di Strindberg con un’efficace semplicità di impianto scenico che rimanda ad atmosfere nebbiose, metaforiche. In La vita è sogno gli interpreti sono attori affermati: il gioco delle ambiguità realtà-sogno, spettatore-attore, uomo donna, realtà-finzione-teatro, luce-buio, contribuiscono a creare un labirinto con "stanze" (le singole scene) dai colori smaccati, dove ci si smarrisce in versi, sostenuti da un impeto retorico che incide sulla ribalta del mondo e del potere, drammi interiori che si definiscono esteriorizzandosi.

Nel Sogno dell’autore svedese l’impianto simbolico è affidato a giovani ed efficaci attori, molti dei quali allievi della scuola del Piccolo. La grigia aura borghese, il tedio o la sofferenza lancinante di esistenze normali fino all’infelicità inconsolabile, al dolore metafisico, sono rese con un grigio uniforme, senza soli né accensioni. Le personalità dei simbolici personaggi sono sdoppiate fra vari interpreti, che rendono le diverse nature di entità in ricerca ansiosa e senza soluzione. Non c’è alcuna incarnazione dei personaggi, né psicologica, né esteriore. Si percepisce un dramma dell’identità franta dell’individuo, una realtà alterata patologicamente come nell’ossessione, nel sogno, o nella poesia, che è qualcosa di più della realtà, un sognare da svegli che rivela a noi stessi la nostra natura di prigionieri.

Il lavoro del regista risalta, dai begli inserti che scrutano nelle prove, come quello di un analista, che smonta, ingrandisce e aiuta a ricostruire i codici e i segni cristallizzati nei testi.

Carlo Marinelli
Luigi Nono: A floresta é jovem e cheja de vida

Siamo di fronte ad un lavoro prodotto per la TV, anche se è stato "girato" il 21 settembre 1998 al Teatro Strehler. In effetti, si tratta di una di quelle finte rappresentazioni pensate e organizzate in funzione della ripresa televisiva. Ho scelto questa particolare esecuzione di Nono per due ragioni: è mia convinzione che i compositori della seconda metà del Novecento sono consapevoli dei mezzi elettronici, anche se non ne usano gli artifici. Quindi, la trasposizione di questa musica attraverso questi mezzi è facilitata, perché nata in un ambiente che li presupponeva come esistenti. Invece, se andiamo più indietro nel tempo, non possiamo affermare che musicisti come Rossini e Mozart potessero essere coscienti dell’esistenza della fotografia e della registrazione. Nono ne è consapevole, e ha usato i mezzi di registrazione per intervenire sulla musica (nastri, mezzi digitali ed elettronici). Infatti, questa opera di Nono ha un nastro che inizia e finisce prima degli altri strumenti, mentre la musica comincia un po’ più tardi e finisce dopo da sola, come da solo è cominciato il nastro.

L’altra ragione è che, quando vogliamo produrre per la TV, pensiamo a qualcosa che deve entrare nella stanza di chi osserva. È necessario lavorare alla ripresa in modo che questa sia interna all’esecuzione, e non esterna come una ripresa della rappresentazione. Qui la musica è gestuale. L’esecuzione musicale ha creato una distanza tra il pubblico e gli esecutori nel momento in cui è salita dal pavimento al palcoscenico, come uno spettacolo teatrale. In una ripresa televisiva, devo inserire il risultato della mia lettura, affinché possa essere percepito direttamente da chi osserva, come se ciò che si vede avvenisse lì, come se al posto dello schermo ci fosse uno spazio capace di integrarsi con la stanza. Questo è ciò che ha realizzato il regista Gianni di Capua quando nel 1998 ha prodotto questo lavoro.

La foresta è giovane e piena di vita fu scritta da Luigi Nono nel 1965-1966 su testi raccolti da Giovanni Pirelli. È un’opera plurilingue: il titolo è in portoghese, la frase di un guerriero durante la lotta di liberazione dell’Angola. Era il periodo in cui l’Angola, il Mozambico, il Capo Verde e la Guinea Bissau combattevano per l’indipendenza dal dominio portoghese. Nono scrisse questa opera senza lasciare una partitura scritta, ma incidendola su disco vinile. L’intera opera dura circa quarantaquattro minuti.

Su questa base e sugli appunti frammentari lasciati da Nono, è stata fatta nel 1998 una ricostruzione. Sono stati restaurati i nastri originali, e l’opera è stata eseguita per la prima volta in pubblico dopo il 1966 al Teatro Strehler. L’opera fu scritta nel 1966 per soprano, tre voci di attori, clarinetto in si bemolle, lastre di metallo e nastro magnetico. Non si possono distinguere bene le voci recitanti da quelle cantate o registrate. Il clarinetto ha la funzione del "protagonista", e chiude il pezzo con un assolo.

La "foresta" può richiamare alla memoria la foresta tropicale, "piena di vita", cioè di combattenti come il guerriero che ha pronunciato la frase; e "giovane", non nel senso dell’età, quanto perché la guerra di liberazione è, per quelle popolazioni, una manifestazione di gioventù. C’è chi ha paragonato la foresta all’umanità, che possiede una grande capacità vitale, ottimisticamente in grado di rinnovarsi e superare qualsiasi ostacolo. Trattandosi di un lavoro televisivo, è interessante notare come Di Capua sia riuscito a trasmettere questa sensazione, quanto sia entrato dentro la composizione e l’abbia offerta in modo da renderla partecipe di quell’ambiente composto dal pubblico e dal luogo dell’immaginario televisivo.

Come ha operato Di Capua? Un primo elemento è come il nastro cominci e lo si ascolti, come costruisca un senso di attesa all’ingresso delle voci e dei suoni. Di Capua restituisce ottimamente questo senso di attesa: fin dall’inizio, egli non fa totali dell’intero schieramento di voci e strumenti, piuttosto fa dei parziali. Quello che potrebbe essere un elemento di disturbo nel caso di una ripresa dal vivo, dove si dovrebbe anzitutto fornire a chi guarda l’intero teatro a sipario aperto per vedere come sono disposti i vari arredamenti scenici, non costituisce per lo "spettatore televisivo" alcun motivo di fastidio.

Come rende Di Capua l’idea della foresta? Benissimo, perché presenta una vera e propria foresta di antenne che reggono i microfoni, dando l’idea fisica di una foresta che produce suoni. Un altro elemento è la temporaneità, l’oscillazione visiva e sonora delle lastre metalliche, aggiungendo a questo i riflessi prodotti sulle lastre oscillanti. Inoltre, usa con particolare insistenza le dissolvenze, la ripresa particolareggiata degli oggetti sonori reali (le catene, le lastre, i mazzuoli delle percussioni e anche il regolatore dei nastri). Va ancora oltre, dissolvendo le forme degli oggetti che hanno un corrispondente sonoro, addirittura con elementi di astrazione derivanti dalla defocalizzazione degli oggetti sonori. Avvicina sempre più l’obiettivo, fino a non consentire più la percezione dell’oggetto. Le astrazioni sono interessanti perché corrispondono a quelle della partitura di Nono. Di particolare interesse sono le sovrimpressioni di tre vocalisti, giocate con varianti di delocalizzazione: vengono spostati con tre piccoli parziali, poi montati in sede di postproduzione, fino al ritorno alla posizione originale. Le riprese totali appaiono molto avanti nell’esecuzione. La frase che dà il titolo all’opera viene detta solo dopo trentatré minuti dall’inizio (e dieci dalla fine). Un’altra cosa interessante è la capacità di Di Capua nel cogliere la gestualità dell’esecutore, la consapevolezza che non solo l’oggetto sonoro è un elemento del gesto, ma che anche i corpi sono elementi del suono.

Eugenia Casini Ropa
Lourdes Las Vegas - Bernadetje

Il video che propongo oggi nasce dallo spettacolo – anzi, come dice la didascalia iniziale, "intorno allo spettacolo" – Bernadetje del regista-coreografo Alain Platel. Lo spettacolo è stato il secondo della cosiddetta "trilogia" di Alain Platel e Arne Sierens (drammaturgo di Platel), variamente definito dalla critica come teatro, danza, verità, documento verità, surreale verità. Una parola, quest’ultima, che ritorna costantemente in riferimento ai lavori di Platel almeno dal 1993, anno in cui egli compie una svolta nel suo lavoro verso l’analisi del mondo circostante, e in particolare di ambienti e situazioni degradati e difficili (povertà, immigrazione, problematiche giovanili disperate). Platel produce da allora una serie di spettacoli, forse un po’ claustrofobici, che si svolgono all’interno di ambiti spaziali precisamente definiti, nei quali si dibattono i vari personaggi, quasi incapaci di uscire dalla propria intima situazione esistenziale e sociale, sempre comunque di disagio.

Per questo video vorrei dare due linee introduttive: una riguarda Platel e alcune informazioni sullo spettacolo; l’altra riguarda la trasposizione in video, cioè il modo particolare in cui è stata costruita. Questo video non è, infatti, una ripresa dello spettacolo, una riproduzione documentaria, né una sua diretta rielaborazione registica, ma è l’unione di vari elementi: in parte dello spettacolo e in parte del "fuori scena". Non inteso, questo, come il solito off stage, ma piuttosto come qualcosa di integrativo e integrato allo spettacolo.

Il metodo di lavoro adottato da Platel a partire da 1993, insieme al drammaturgo Arne Sierens, si è definito nel corso del tempo. Alain Platel ha una storia insolita, come molti registi del nuovo teatro belga, arrivati al teatro per caso, per strade molto strane, diverse l’una dall’altra, e in modo anche un po’naive: senza conoscere veramente le regole interne del fatto teatrale, reinventandole attraverso la propria particolarissima sensibilità e il proprio percorso esistenziale individuale.

Platel è ancora molto giovane, ha quarantadue anni. Ha studiato ortopedagogia, in particolare i problemi ossei e di linguaggio del bambino. Nel 1984, comincia casualmente a fare teatro da dilettante, tra i pedagogisti, e fino alla svolta del 1993 fa teatro in modo tradizionale, chiedendo agli attori di rendere scenicamente le sue idee. Durante i primi anni di teatro, ha proposto cose piuttosto surreali, fantastiche, che uscivano dal mondo del reale in quadri molto fantasiosi, spesso astratti, al limite della comprensibilità. Gli piaceva, sin dall’inizio, lavorare anche con persone non professionalmente preparate, come era egli stesso. Inizialmente era una sorta di animatore, che utilizzava il materiale disponibile attorno a sé. Presto comincia a lavorare anche con i bambini, in parte per la sua vocazione pedagogica, in parte per puro caso: una coppia di amici che lavorava con lui aveva un bimbo piccolo, che spesso portava in teatro durante le prove. Il bambino s’intrufolava in mezzo alle scene, finché Platel si rese conto di come fosse importante quella figura, di come il modo di muoversi di un bambino, così vero e reale, mettesse in crisi il comportamento degli attori, che invece recitavano sulla scena.

Questo lo spinse ad un’osservazione sempre più appassionata, per la creazione di un metodo che permettesse di portare in scena le persone così come sono, in modo da potersi mostrare agli altri non recitando ma diventando essi stessi personaggi, con la propria personalità. Un intento molto difficile, perché un adulto, in scena, ha l’istinto di atteggiarsi in modo particolare anche se non è un artista. La "svolta" è nata da quest’osservazione, da uno sguardo attento rivolto alla vita delle persone che incontrava. Allora ha smesso di utilizzare testi preesistenti per fare teatro, pensando che la ricchezza maggiore per elaborare i suoi spettacoli poteva scaturire proprio dalle persone. Ognuna era diversa dall’altra e aveva in sé talmente tante storie, tanta umanità, tanta espressione, tanta violenza, da poter generare direttamente i materiali drammaturgici. Dal 1993 in poi, il lavoro di Platel potrebbe situarsi a metà strada tra lo psicodramma e la vera e propria regia-coreografia. Il suo interesse principale è "spremere" le persone per caratterizzarle come tali, facendo dell’individuo un personaggio.

Il primo spettacolo del 1993 si chiamava Bonjour Madame…, ispirato alla guerra nell’ex Jugoslavia, allora appena iniziata, ed è nato stimolando le persone attraverso l’improvvisazione. Da quel momento l’improvvisazione è stato l’elemento fondante del suo metodo di lavoro: scegliere le persone per lo spettacolo osservandole con attenzione, parlando loro e cercando i tipi umani che a lui interessano. A volte sono bambini, perché secondo Platel essi riflettono un’umanità che nessun altro è in grado di dare in scena. L’improvvisazione si basa su un minimo canovaccio ideale, su un tema portante che gli "attori" vorrebbero sperimentare, inevitabilmente trasformato nel corso del lavoro d’improvvisazione. Le prove durano circa tre mesi, ma il testo finale, dilatato dalle improvvisazioni, viene scritto da Sierens solo quindici giorni prima dello spettacolo. Poi i due autori pensano allo spazio scenico, sempre caratterizzato e chiuso in sé stesso. Spesso capita che all’interno del gruppo ci siano anche dei danzatori, ma è assolutamente estraneo alla sua volontà progettuale che il teatro di Platel sia definito "teatro-danza" e il suo intervento registico "coreografia", perché in realtà la danza in senso stretto non c’è. Come tutto il teatro di ricerca fiammingo contemporaneo è però certamente molto fisico e costruito sul ritmo incalzante e intrecciato delle azioni, ritmo che contribuisce a renderle a volte virtuose e quasi acrobatiche. Del resto, oggi, la definizione "teatro-danza" individua genericamente proprio quei tipi di spettacolo, indifferentemente provenienti dalla danza o dal teatro, che utilizzano una commistione di linguaggi e che si sviluppano su una costante partitura corporea di base, ritmicamente e cineticamente efficace.

Bernadetje è un lavoro di ispirazione autobiografica. Platel e Sierens hanno vissuto insieme da bambini. Venivano portati a giocare in un parco dove ci si poteva imbattere nella riproduzione al naturale della grotta di Lourdes. Due strade più avanti il luna park. I bambini si fermavano in un primo tempo a pregare la Madonnina e poi andavano sulle giostre. Lo spettacolo si svolge interamente all’interno di un vero autoscontro montato sul palcoscenico. I protagonisti sono dodici ragazzi – scelti in giro per centri sociali, ognuno con storie difficili alle spalle – che vivono o si incontrano in questo autoscontro. Le vicende sono quelle iperrealistiche di uno squallido luna park di periferia, con tutte le possibili storie intrecciate di adolescenti che abitano e frequentano abitualmente tali luoghi. Tra di loro ci sono, però, anche due piccole madonnine, due bambine vestite da prima comunione, che abitano l’ambiente in maniera del tutto anomala e surreale, sempre presenti ed estranee, rimando ad una contaminazione tra sacro e profano, tra purezza ideale e realtà degradata.

Questo video, che al titolo originale aggiunge Lourdes-Las Vegas, non presenta semplicemente lo spettacolo, bensì ricostruisce, con il linguaggio proprio del mezzo, il rapporto intimo dei ragazzi con lo spettacolo. Non è, si è detto, un tradizionale backstage: i bambini compaiono di quando in quando nelle loro attività quotidiane e si raccontano, e in tal modo raccontano e giudicano anche le storie dei loro personaggi-alter ego. Non raccontano lo spettacolo, ma vi si rispecchiano, perché è stato creato attraverso i reali problemi della loro vita. Il video non fa che tradurre con fine intelligenza registica il nucleo portante e sensibile di questa relazione.

L’opera-video, per la regia dell’italiano Giovanni Cioni, ha vinto molti premi internazionali. Gli sbalzi cromatici e le sfocature presenti sono previste e volute. I colori e la resa visiva non sono uniformi, perché le riprese dirette dello spettacolo e i brani inseriti in seguito sono stati girati con sistemi diversi e la loro difformità segna chiaramente lo stacco tra il mondo della realtà e quello della verità teatrale.

Gianni Manzella
Creare un mondo sulla scena. Il teatro di Lev Dodin

Come si percepisce dai suoi video, Lev Dodin svolge sugli spazi un lavoro assai importante. Egli individua sempre uno spazio fisico per l’azione, definito e costante lungo tutto l’arco di svolgimento dello spettacolo. Non ci sono scene che cambiano. Una volta fissato lo spazio scenico, tutto avviene in quel luogo.

In Gaudeamus (spettacolo di cui è stato prodotto un video a cura di Raisat) è una discesa di neve bianchissima che un poco alla volta si sporca, raccogliendo le tracce di ciò che avviene durante lo spettacolo. Protagonisti sono le reclute di un "battaglione di costruzione", usato come forza lavoro piuttosto che come unità da combattimento, raccogliendo fra le sue fila i marginali, per attitudine o nazionalità, di quel che fu l’impero sovietico. Li si vede arrivare uno a uno sulla pedana inclinata coperta da un candido strato di neve, al suono di una marcia da circo. Capelli rapati, la divisa malmessa. E a uno a uno precipitare in una serie di buchi aperti sul palcoscenico, attraverso i quali continueranno ad andar fuori e dentro, sporgendo a tratti solo col busto come la Winnie dei beckettiani Giorni felici.

La stessa unicità degli spazi riscontriamo nei due spettacoli più recenti (Cevengur, Commedia senza titolo). Nel video realizzato a Milano, sempre a cura di Raisat, questi due lavori sono montati in alternanza, con uno scarto che è necessario riempire per passare dall’uno all’altro – e proprio l’individuazione dello spazio scenico può esserne il tramite. Il primo è ancora la riduzione di un romanzo, quel Cevengur che Andreij Platonov non riuscì a pubblicare in vita. L’altro invece è un testo di Cechov. Per la prima volta Dodin, per lo meno nella carriera più recente, allestisce direttamente un testo teatrale. Ma significativamente non sceglie uno dei testi più noti e consacrati di Cechov, piuttosto il testo meno teatrale che esista: il testo giovanile ritrovato postumo dopo la sua morte, senza titolo, chiamato infatti Commedia senza titolo (in Europa è noto anche con il titolo di Platonov, il nome del protagonista). Un testo smisurato, molto lungo, molto caotico, assolutamente disordinato, in cui sono già presenti tutti i temi che Cechov elaborerà più tardi nel suo teatro. Un testo che evidentemente permette a Dodin di lavorare nella stessa maniera in cui opera con i romanzi, cioè a partire da un materiale molto ampio, per un lavoro di improvvisazione con gli attori, per poi da lì ritornare a una struttura definita, compatta e decantata.

Anche in questo caso, Dodin inventa due spazi fisici molto precisi. In Commedia senza titolo, è un interno-esterno che non coincide con il naturalismo cechoviano di Stanislavskij o di Peter Stein. È un luogo in cui alcuni elementi del paesaggio cechoviano sono trasferiti in un contesto assolutamente astratto, dominato da una grande piscina attorno a cui si sviluppa la scena (e in cui come vedete finiscono a volte gli attori).

L’elemento dell’acqua ritorna anche in Cevengur, presentato due anni fa in Italia a Gibellina, all’aperto, sulle rovine della città distrutta dal terremoto, in occasione del festival che vi si svolge ogni anno proprio per mantenere viva la memoria di quel luogo.

Anche l’immaginaria Cevengur di Platonov è una città morta che chiede di non essere dimenticata. E’ il luogo dove si incontrano i solitari senza fissa dimora, gli emarginati, gli irriducibili idealisti. Gente un po’ picchiatella, "compagni cretini" si chiamano fra loro (se ne accorse subito Gorkij quando lesse il manoscritto inviatogli da Platonov, e decretò il suo "no"). Uno che si fa chiamare Dostoevskij, un altro Dio, uno fissato con l’organizzazione, uno innamorato di Rosa Luxemburg e del suo comunismo. Se ne stanno insieme a filosofare del mondo e delle stelle, del senso della vita, sognano qualcosa che cambierà la loro vita. Parlano di donne, per iperboli, chiusi nel loro inconcludente circolo maschile. Quando il pescatore decide di buttarsi in acqua per andare a vedere com’è la morte, e naturalmente non torna indietro, hanno un momento di ribellione. Decidono di fare il comunismo, da sé. Il comunismo in un unico villaggio.

Ma come cambiare? Col piombo e con le armi, che altro? Bisogna sterminare tutti quelli che impediscono il sorgere di una vita nuova. Viene steso un proclama. Si fissa per un giovedì l’inizio della beatitudine eterna. Anche il lavoro viene abolito, si vivrà con quello che il sole produce per tutti. Ma intanto si uccide, nel nome della giustizia. Altri uomini. I loro corpi nudi sono trascinati sulla scena dentro sacchi di plastica trasparente, e coperti di terra, in uno dei momenti di più forte emozione dello spettacolo. è il primo giorno del comunismo. Devono farsi trovare in ordine. Si spogliano degli abiti e si mettono in fila sotto una doccia, sul fondo.

Ma il comunismo alla prova a Cevengur, accompagnato con un po’ di ironia dalle musiche e dalle voci di una Traviata alla prova sotto la guida di Toscanini, tocca solo marginalmente quello storicamente realizzato. Quanto l’epopea contadina del precedente Fratelli e sorelle rappresentava un vero spaccato della storia della Russia sovietica, dall’angolazione particolare di un villaggio rurale, tanto Cevengur appare privo di una precisa attualizzazione storica. Vale per oggi e per domani.

Dodin ha creato piuttosto una grande macchina scenica. Una vasca d’acqua, profonda, su cui incombe una parete vetrata, attraversata dai riflessi della luce, che può però ribaltarsi all’indietro, nella cavità di un praticabile punteggiato di croci cimiteriali. Perché nel nuovo mondo di Cevengur, dove anche il sole sembra sorgere diversamente da prima, un bambino può ancora morire e per salvare dalla febbre il figlio del pescatore tornato in paese, bisogna rimettersi al lavoro, accendere il fuoco con l’ultimo fiammifero rimasto per cuocere l’ultimo uovo. E basta l’arrivo di una presenza estranea, un intellettuale spedito a vedere cosa succede in questo strano posto, una donna che chiama il ricordo di tutte le donne, perché il passato torni ad affacciarsi col suo carico di desideri, sentimenti, rimpianti. Per gli abitanti di Cevengur non c’è che da mettersi di nuovo in cerca di un altro luogo, a cercare dentro la profondità dell’acqua il mistero di un’altra vita, uno dietro l’altro, con una pietra legata al collo.

Il muro vetrato torna a ruotare due volte, nel finale di fortissima emozione. Per svuotarsi di tutto ciò che l’aveva riempito, terra e povere cose, della vita vissuta per due ore sulla scena. Quelle due ore di vita vissuta che purtroppo nessun video può restituire, di cui le immagini registrate ci lasciano una sorta di nostalgia.

Pier Luigi Capucci
Il digitale nelle immagini cinematografiche e negli audiovisivi

Questo incontro riguarda il digitale nelle immagini cinematografiche televisive e, oltre a costituire un momento della rassegna, integra le lezioni e le proiezioni che ho dedicato a questo argomento durante il corso. Prima di tutto vorrei ringraziare Annalisa Giardina e Francesco Ottolini, due studenti che, facendone il proprio oggetto di studio per l’esame, hanno realizzato il montaggio di questo video a partire da una varietà di materiali che ho prodotto. Questo video resterà nell’archivio del DAMS, quindi a disposizione di chi è interessato a questi argomenti.

Da circa due decadi, in maniera crescente e a vari livelli, i linguaggi del cinema e del video si sono ibridati con le tecnologie digitali. Tra le ragioni principali della diffusione del digitale nel cinema e negli audiovisivi vi sono le possibilità di intervento e manipolazione, praticamente illimitate.

I modi in cui le tecnologie digitali possono intervenire in un video o in un film sono diversi. Nonostante questo incontro prenda in considerazione principalmente l’intervento sulle immagini e la loro realizzazione, i momenti forse più evidenti, le tecnologie digitali possono essere utilizzate (e in genere vengono utilizzate) anche in altre fasi, non meno importanti, come la post-produzione, il montaggio (audio e video), le scenografie, il sonoro, via via fino alla gestione economica e organizzativa, all’archiviazione e al restauro.

Il video riunisce diverse esperienze internazionali e vari lavori che hanno vinto o sono stati finalisti nei tre maggiori festival internazionali dedicati alle immagini digitali: "Ars Electronica" a Linz, "Imagina" a Montecarlo, patrocinata dall’INA (Istitut National de l’Audiovisuel), e "Siggraph" negli Stati Uniti.

L’apporto delle tecnologie digitali ha generato un’ampia tipologia di realizzazioni che, a seconda del grado di referenzialità delle immagini e di intervento del digitale, va da applicazioni documentarie, in cui la "registrazione" del reale è l’elemento primario, fino a generi espressivi completamente svincolati dalla necessità della presenza del reale, totalmente realizzati mediante computer. Le possibilità di azione sulle immagini possono essere molto varie e non è detto che quelle visivamente meno evidenti implichino interventi digitali più limitati. Tuttavia, oltre a modificare gli aspetti cromatici, la luminosità e il contrasto delle immagini, la peculiarità degli interventi digitali sta soprattutto nella creazione di immagini che sarebbe estremamente difficile, molto oneroso o addirittura impossibile ottenere con le tecniche tradizionali.

Nel video che vedrete, con esempi tratti da film e audiovisivi ho cercato di rappresentare il territorio delle nuove immagini e delle ibridazioni del digitale con il cinema e il video, nonché la varietà di queste applicazioni. La durata di questi esempi va da qualche decina di secondi a poco meno di dieci minuti. I video in computer animation, cioè completamente realizzati al computer, sono in genere brevi sia perché operare con queste tecnologie è ancora costoso (si tratta spesso di piccole produzioni) sia perché normalmente questo è il formato con cui tali realizzazioni vengono presentate nei festival dedicati (si può dire che ormai costituiscano un genere a sé).

Ho raggruppato gli esempi in categorie. La prima è quella che chiamo delle "immagini referenziali e immagini sintetiche", quando cioè immagini ottenute con gli strumenti tradizionali (referenziali) vengono digitalmente modificate o vengono affiancate da immagini di origine digitale (sintetiche). È, questo, anche il terreno principe degli effetti speciali, di cui vedremo svelati quelli del Titanic, come sono stati realizzati, come cambia la scena aggiungendoli ad essa a poco a poco come tante velature. Poi vedremo alcuni effetti da The Mask, un esempio di cartoon all’interno di un contesto realistico, e da Forrest Gump. In quest’ultimo caso si tratta del montaggio di materiali cinematografici contemporanei con materiali documentari del passato, facendo in modo che il protagonista si muova in maniera plausibile all’interno di una situazione ambientata negli anni Sessanta. Vedremo poi altri due esempi. Il primo è What Dreams May Come (Al di là dei sogni), molto interessante per la qualità degli effetti e per le citazioni che questi effetti, che creano una scenografia completamente inventata, traggono dalla storia dell’arte. Il secondo è Spawn, che mostra come vengono creati i personaggi sintetici poi utilizzati all’interno dei film.

La seconda categoria è dedicata al realismo delle immagini digitali: a come, attraverso il computer, sia possibile produrre audiovisivi o film con mondi che simulano il reale. Qui personaggi, situazioni e ambienti sono completamente inventati e realizzati al computer (si parla in questi casi di computer animation). Gli esempi che vedremo, tutti audiovisivi, sono Un temps pour elle, delizioso corto francese sull’eclisse di sole con una magistrale simulazione degli effetti di luce; Zaijian, giapponese, interessante per la riproduzione dell’architettura di una città; Devil’s mine, belga, corto che ha originato, potremmo dire, una moda nella rappresentazione del movimento in spazi angusti; Tightrope, audiovisivo statunitense molto interessante per la qualità della rappresentazione della figura umana e dei suoi movimenti (tra le cose più difficili da simulare); Endogenesis, audiovisivo tedesco sulle possibilità di intervenire sulle forme e di simularne la trasformazione.

La terza categoria è quella del cartoon, cioè l’utilizzo del computer per realizzare film e audiovisivi di animazione. Questa categoria si può ulteriormente suddividere in 2D (animazioni bidimensionali), 3D (animazioni tridimensionali) e 2D/3D (animazioni che uniscono forme bidimensionali e tridimensionali). In questo settore il computer ha praticamente sostituito il lavoro tradizionale e vedremo due esempi molto interessanti e diversi sia per genere (uno è 2D e l’altro 3D) sia per tipo di "segno", a testimonianza del fatto che gli strumenti digitali consentono una grande varietà di realizzazioni. Il primo, Maly Milos, canadese, è realizzato con tecniche 3D ed è una divertente favoletta a sfondo bucolico. Il secondo, Fishing, è invece una deliziosa parodia, a sfondo moralistico, dell’abbondanza e del sapersi accontentare.

Infine ho voluto dedicare un piccolo spazio a un artista francese molto particolare, Bériou, che ha vinto diverse manifestazioni internazionali. Una sua caratteristica è l’interpretazione del corpo umano (mediante varie tecniche digitali, tra cui il morphing) e il suo segno è sempre riconoscibile (cosa abbastanza rara nei media contemporanei). Questo audiovisivo, potremmo chiamarlo un "micrometraggio", si intitola Limb ed è una divertente parodia della nascita vista con gli occhi del nascituro.

Luca Scarlini
Grande e piccolo: o dell’opera in video

L’opera lirica, secondo una stereotipata tradizione italiana ancora resistente nel mondo come immagine principe del Belpaese, è legata a un fasto che è condiviso allo stesso tempo dal lessico scenico (broccati, rasi, dorature, etc.) e dall’ambiente ricettivo; è impossibile dimenticare infatti come le prime alla Scala siano state – e in parte ancora siano – simbolo condiviso del lusso più sfrenato e pertanto siano spesso state sottoposte a radicali contestazioni. Il video nel mondo del melodramma tradizionale si limita a documentare queste dinamiche e diventa gadget destinato ai fans di questo o quel cantante, che può acquistare a caro prezzo un frammento o l’integrale di una celebre performance, di norma documentata pedissequamente e con scarsissimo appeal di immagine. In queste produzioni, che costituiscono la parte maggiore dell’home video musicale, il lavoro di rielaborazione infatti è scarso se non nullo ed in genere viene escluso qualsiasi tentativo di rilettura o semplicemente di confronto con diversi mezzi espressivi. Tale è stato comunque in buona parte anche il fil rouge delle discontinue produzioni televisive di nuovi titoli (che hanno coinvolto compositori del calibro di Igor Stravinskij con The flood e che hanno visto come precursore Gian Carlo Menotti, che ha inaugurato il percorso nel 1951 con il natalizio atto unico Amahl e gli ospiti notturni, ancor oggi popolarissimo), ma gli anni recenti hanno visto le prime tracce di una inversione di tendenza che però stenta ancora a trovare ascolto diffuso nel "paese del melodramma", dove pure sono da segnalare alcune felici eccezioni, come ad esempio il precedente storico di Sylvano Bussotti, le collaborazioni di Studio Azzurro con Giorgio Battistelli e Luca Francesconi o una recente incursione di Alessandro Solbiati. Le serie prodotte dalla BBC insieme all’Arts Council of England, come l’ormai ricchissima, quantitativamente e qualitativamente, Sound on film, ne sono un ottimo esempio, proprio in quanto e per quanto abbandonano la magniloquenza a favore del "far piccolo", del confrontarsi direttamente con le regole specifiche della produzione televisiva che fa sì che in un palinsesto colto (poco probabile attualmente da noi sulla TV generalista) trovino spazio anche dei racconti musicali di quindici minuti, che si confrontano in modo diretto con la realtà, sfatando un altro pregiudizio stereotipo per cui il palcoscenico musicale non potrebbe recar tracce delle "crudezze" della cronaca. L’alta qualità di queste produzioni è legata al fatto che i registi (e spesso si tratta di alcuni tra i più notevoli filmaker britannici) agiscono di fatto come un secondo (e talvolta primo, in caso di scelte compositive che escludono la parola) librettista in una relazione tumultuosa che rivoluziona alcune prospettive della drammaturgia per musica, di cui sono ancora da sperimentare appieno i ritmi. Questa senz’altro però darà frutti notevoli in futuro, potendo beneficiare anche di una dimensione di ricerca sull’immagine digitale e su alcune forme di narrazione ergodiche (ovvero multidirezionali), come quelle messe in atto da Tod Machover nella sua avveniristica "macchina interattiva" Brain opera, realizzata insieme al Massachussets Institute of Technology. "Ridurre, diminuire, togliere" erano state le parole d’ordine dei musicisti d’avanguardia tra le due guerre, quando si era voluto far tabula rasa della pesante eredità wagneriana. Anche se un simile imperativo non è stato espresso, è senz’altro anche la linea principale di sviluppo degli esperimenti più interessanti nel territorio della videopera, antitetici ai vari Tosca nei luoghi di Tosca o Traviata nei luoghi di Traviata che non fanno altro che pantografare in chiave di realismo integrale un’idea di grandeur che da tempo è marginale, se non come fantasma culturale, anche nelle pratiche spettacolari dei palcoscenici più tradizionalisti.

Fabio Acca
N.K.
di Zimmer Frei, o della contraddizione fisica

"Credo esista una specie di 'simpatia muscolare', di analogia ortopedica tra il nostro stesso corpo di spettatori e quello contenuto nell’immagine. Per comprendere realmente i movimenti di porzioni di corpo nel quadrato dell’immagine, si attiva il nostro schema corporeo, comprese le involontarie tensioni muscolari interne"(Anna De Manicor, ottobre 1999).

La ricerca teatrale delle ultime generazioni pare oltrepassare definitivamente la tradizione lineare della contaminazione. Piuttosto, riorganizza la vocazione tradizionale del teatro ad assumere il ruolo di un "contenitore da arte totale", proiettandosi con sempre maggiore frequenza altrove da sé, in luoghi apparentemente differenti per elezione estetica dal teatro. Al contrario, i diversi specifici linguistici che intrattengono un rapporto attivo con la visione spesso maturano una qualità che li avvicina per corrispondenza di obiettivi ad un’idea teatrale di spettacolo. Una condizione trasversale, sottile e rarefatta, che rende il teatro qualcosa di simile a una corrente, a un margine, dove ruoli e peculiarità differenti convivono con grande agilità. Non contenitore, quindi, ma flusso, zona di passaggio che mantiene una specificità teatrale in virtù dell’esclusività del suo compimento scenico.

Una relazione che, lasciando all’ombra dello sfondo una ipotetica crisi di soggetto, traduce e riconfigura l’identità del nuovo teatro a partire dall’affermazione di una sua tanto profonda quanto definitiva mutazione genetica. Un’apertura che richiede da parte dello storico di teatro lo sforzo di un’indagine necessariamente interdisciplinare, per poi riconquistare il proprio senso di appartenenza in direzione di una "trasferibilità" di codice.

La progettazione teatrale spesso si raggruma, con tempi e soluzioni differenti, attorno ad eventi spettacolari intermedi, non necessariamente vincolati ad uno statuto teatrale in senso stretto, e tuttavia nati da una emanazione teatrale. Così, l’Opera Teatrale, intesa come oggetto estetico chiuso, assume proporzioni più vaste, non circoscritte, rispetto ad un’idea allargata di eventualità spettacolare. In questa prospettiva di nomadismo, la relazione particolare tra video e opera teatrale acquista un carattere problematico, avendo ormai superato l’idea di documentazione più o meno fedele del fatto scenico, e di conseguenza la preoccupazione dell’originalità. Essa piuttosto viene proposta come opera in sé, capace di articolare un rapporto diversificato con il fruitore.

N.K. – Never Keep Souvenirs Of A Murder di Zimmer Frei, gruppo di punta di quella sorta di factory senza leader che è il TPO di Bologna, è un caso emblematico di questa mobilità dell’oggetto teatrale. Infatti, il tentativo di una sua definizione è quantomai sfuggente, a cominciare dalla fluidità delle responsabilità creative delle sue autrici, Anna Rispoli e Anna De Manicor. La prima regista, autrice e coprotagonista della versione teatrale; la seconda regista, autrice e coprotagonista della versione video, a cui si aggiunge una terza versione video-installata come film per due schermi.

Due camere d’albergo sezionano simmetricamente e specularmente la scena. Nella video-installazione la simmetria è data da due schermi o monitor posti l’uno di fronte all’altro che alternativamente o contemporaneamente mandano in onda le immagini, mentre nel video è resa in maniera meno decifrabile attraverso il montaggio, quando non è ufficializzata dalla ripartizione orizzontale di due settori visivi all’interno dello schermo. In questo spazio agiscono le due attrici, il cui ruolo drammaturgico è principalmente quello di accumulare tensione verso un plot continuamente rimandato, attraverso un immaginario che spazia dal teatro al romanzo giallo al noir cinematografico: lo spettacolo teatrale, così come la video-installazione o il video, generano nello spettatore un senso di aspettativa manipolando strategicamente i segni convenzionali di una spy story (il danaro di dubbia provenienza, le valige, i documenti sospetti, le parrucche per un salto di identità, la pistola, l’atmosfera del complotto, le telefonate che segnano alcuni momenti topici della vicenda…) senza che gli elementi possano generare una trama precisa o l’occasione di un senso definitivo. Tutto contribuisce alla costruzione di un evento come distribuzione e concentrazione di climax, attesa di un gesto conclusivo, una inquietudine sostenuta dal sonoro di Massimo Carozzi che letteralmente architetta lo spazio e restituisce l’esterno in forma di minaccia pinteriana. I due spazi non comunicano se non per il carattere omogeneizzante di questo non-stop del climax, per qualcosa che nell’intreccio volutamente mancato costituisce, per lo spettatore, motivo di allerta. Solo il finale riconsegna parzialmente al desiderio di quest’ultimo un’opportunità di senso, nello scambio di identità delle due protagoniste, che si "travasano" l’una nell’altra dai due campi scenici.

Un’osservazione progressiva del lavoro nei suoi tre "supporti" fa emergere come lo spettacolo teatrale tenda a semplificare l’ambiguità semantica del video, costretto a consegnare ad una dimensione circoscrivibile dello sguardo gli spazi mentali costruiti dal montaggio delle immagini. La visibile simmetria delle stanze e la compresenza costante delle attrici, infatti, disinnescano in parte le convergenze di senso private dello spettatore. Una constatazione che si fa ancora più decisa in rapporto alla video-installazione. Essa, appunto, distribuendo la visione in due superfici differenti ed opposte che possono mandare immagini in contemporanea, spazializza lo sguardo e riordina il montaggio in funzione di una violenta inclusione del caso.

In effetti, la dilatazione progettuale di N.K. amplifica una singolare contraddittorietà di fondo: contrae la dimensione spaziale della percezione in modo inversamente proporzionale alla attesa di profondità messa in atto dall’occasione di fruizione, riverberando sui "supporti" utilizzati quella qualità trasversalmente teatrale di cui si accennava all’inizio. Contrariamente alla tensione della video-installazione, lo spettacolo teatrale sottrae spessore alla visione, come se gli oggetti e i personaggi di questa narrazione mancante prendessero vita in due ambienti cinematografici "formato cinemascope" (così li definiscono le due autrici), quasi fossero tagliati in modo da fare passare una cinepresa, riproducendo la sensazione di superficie dei due schermi e restituendo la piattezza di una fruizione video-cinematografica.

Un altro importante livello da rilevare in questa drammaturgia di resistenze, evanescente come la sostanza stessa delle elaborazioni elettroniche del video e tuttavia carnale come la materia stessa del teatro, è la fisicità dell’immagine. La scrittura scenica di Zimmer Frei si avvale di uno stile della presenza attoriale in bilico tra iperrealismo cinematografico e astrazione formale, una modalità dello stare in scena che paradossalmente più il video che lo spettacolo avvicina il lavoro del gruppo alla danza. Il montaggio crea uno slancio ritmico che a tratti (soprattutto nelle reiterazioni di alcuni particolari della scena o dei corpi dei performers che sfuggono "biologicamente" ad una visione teatrale, anche giocati con speciale feticismo) ribalta il rapporto di efficacia fisica tra spettacolo teatrale e video. L’inquadratura e il movimento di macchina interrogano direttamente il corpo dello spettatore, lo inducono ad una vertigine fisica, una qualità della percezione ancora più inconsueta se la si pensa applicata ad un mezzo come il video. Il momento in cui, nella video installazione, le due protagoniste si riversano l’una nell’identità dell’altra, richiama lo spaesamento di un vero e proprio attraversamento dello spazio: i loro primissimi piani si fronteggiano dai due schermi, e dopo un breve nero ritroviamo una nel campo visivo che fino a quel momento aveva dato vita alla composizione drammatica dell’altra. Un segno che trascina con sé l’ancestrale valore magico di una tecnologia sempre più "calda" e di un teatro sempre più "freddo".

Fabio Bruschi
Per un catalogo collettivo delle videoteche teatrali italiane

Nel corso di "TTV@TPO", edizione speciale di TTV organizzata da Riccione Teatro e Zimmer Frei a Bologna (9-14 Ottobre 2001), verranno presentati i risultati della prima fase del progetto "Catalogo collettivo delle videoteche teatrali italiane".

L’obiettivo del progetto è di definire delle norme catalografiche condivise, procedere progressivamente alla catalogazione delle videoteche teatrali, far convergere i dati nel catalogo collettivo, organizzando contemporaneamente sia attività di studio e ricerca che corsi di aggiornamento e formazione professionale per catalogatori.

L’iniziativa è stata ideata da Riccione Teatro e fatta propria dall’ETI, dall’Assessorato alla Cultura dell’Emilia Romagna e dall’IBC-Istituto dei Beni Culturali che – oltre a portare le proprie competenze scientifiche – ha curato la gestione della fase finale del progetto pilota regionale con la partecipazione di diversi centri teatrali, tra cui primariamente gli Archivi del Teatro Contemporaneo di Riccione Teatro e l’Archivio Biblioteca del Teatro municipale "Romolo Valli" di Reggio Emilia.

Nel corso di " TTV@TPO", in particolare, verrà presentato il Thesaurus dei soggetti teatrali, a cura di un gruppo di lavoro composto dai documentalisti Vincenzo Bazzocchi (IBC) e Antonio Tolo, e da un gruppo di docenti e ricercatori universitari, coordinato dal prof. Marco De Marinis (DAMS Bologna), cui hanno partecipato, tra gli altri, Elisa Vaccarino, Ada D’Adamo e Franco Prono (DAMS Torino).

Il progetto si caratterizza per avere esaminato non solo il teatro ma il complesso delle arti performative, ponendo in relazione queste ultime, oltre che con programmi di documentazione, con tutta l’ampia gamma espressiva che nasce dall’incontro tra la scena e il complesso mondo delle immagini in movimento: film, video, TV, PC, installazioni, ecc.

La tradizionale attitudine del teatro italiano d’arte e di ricerca a esprimersi con il video, il film, ecc. è ben documentata dall’attività di ormai tre generazioni teatrali, da Carmelo Bene e Leo de Berardinis a Magazzini, Martone, Rem & Cap, Gaia Scienza fino a Motus, Teatrino Clandestino, Accademia degli Artefatti, Masque Teatro, L’Impasto/Anna de Manincor e molti altri. Oltre al Thesaurus verrà presentato il sito web curato dallo stesso IBC, ove compariranno i 3700 titoli catalogati a Reggio e i 2300 catalogati a Riccione, per un complesso di circa 6000 titoli.


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Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna