Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia 1/2001

VERSO UN TEATRO DEGLI ESSERI
documenti e voci dall’incontro di Lerici - 2 luglio 2000

a cura di Gerardo Guccini

Presentazione

La crescente dilatazione materiale del fatto teatrale e l’affermarsi di modi produttivi che agiscono direttamente sul sostrato culturale e umano della realizzazione spettacolare, si sono risolti in un mondo-teatro che interseca diversi ordini di realtà: le carceri, le scuole, le comunità terapeutiche ospitano con sempre maggior frequenza attività teatrali anche di elevato livello artistico; mentre, sul versante dell’invenzione spettacolare, le intuizioni e i pensieri che determinano l’opera si modellano su corpi, voci, persone, luoghi e anche materiali e tecniche estranei al teatro e proprio perciò capaci di rinnovarlo.

Un rapido sguardo al passato ci aiuterà a capire radicalità e implicazioni di questo rivolgimento. Com’è noto, le tradizioni storiche hanno conformato attraverso i secoli oppure generato in pochissimi anni di travaglio, dei veri e propri "mondi del teatro" con regole, convenzioni, tecniche e gerarchie interne: le compagnie dei professionisti e poi i teatri di gruppo degli anni Settanta sono stati, riprendendo la fortunata espressione di Claudio Meldolesi, delle "micro-società" capaci di produrre e conservare culturaconcrete identità del sociale, ricavando lo spettacolo dall. Ora, invece, il teatro tende a sovrapporsi alle ’assestamento d’una società ulteriore. elaborazione delle tensioni trasformazionali in atto anziché dall’

È difficile prevedere gli sbocchi di questo fenomeno frastagliato e complesso. Può darsi, come prospetta Antonio Calbi nell’intervento qui raccolto, che il suo attuale sviluppo colmi il vuoto lasciato dalla scomparsa del "grande attore". Può darsi che ad essere determinante non sia tanto l'alternarsi delle emergenze estetiche, quanto l’estensione sociale del fenomeno stesso, che suscita continuamente nuove formazioni e possibilità d'azione. In ogni caso, la coesistenza creativa del teatro con le identità del reale implica, per potersi tradurre in mutamenti strutturali, il parallelo assestarsi d’una cultura della mediazione che veicoli la conoscenza delle esperienze fra i saperi dei percorsi artistici e quelli degli ambiti istituzionali, definendo così gli spazi operativi che sono stati stabiliti di fatto dal mutuo convergere degli uni e degli altri. Come scrive Richard Schechner nella Teoria della performance (Roma, Bulzoni, 1983): "Da una parte dello specchio, le persone interessate ai generi artistici spiano la vita. Dall’altro lato, le persone interessate alle scienze umane spiano l'arte". Negli ultimi anni e specie in Italia, questo reciproco osservare l’uno il campo d’azione dell’altro si è sviluppato – secondo l’espressione dello psicologo Giuseppe Errico – in un vero e proprio "doppio movimento" di scienziati e artisti. Una stessa operatività – che può potenzialmente tradursi in straordinari laboratori del mentale – include dunque artisti, teatranti, terapeuti, operatori sociali, insegnanti, scienziati e "attori speciali", rendendo sempre più necessario il passaggio, sotto la duplice spinta della cooperazione materiale e del reciproco osservarsi, a una fase di dialogo e confronto, che bilanci, fra l’altro, gli effetti (striscianti ma avvertibilissimi) prodotti da una diversa modalità d’integrazione, sulla completamente fondata trasferibilità delle funzioni. trasferibilità per la quale, gli insegnanti si fanno registi, i teatranti insegnano, i terapeuti formano attori, gli artisti curano. All’opposto di ciò, la complessa ricchezza delle situazioni in atto imposta le coordinate d’una processualità dialettica e interattiva, in cui il pensiero si alimenta al di fuori dei propri specifici percorsi formativi (artistici o scientifici), e le diverse identità professionali vengono integrate da uno spessore umano curioso, contraddittorio, emozionalmente aperto.

Per sostenere efficacemente tale del confronto, gli artisti di teatro dovrebbero però acquisire una più diffusa coscienza della loro posizione collettiva nei riguardi del fenomeno. Le suddivisioni categoriche di "teatro e handicap", "teatro e carcere", "teatro e terapia", "teatro e scuola" sono infatti funzionali alla gestione del sociale, ma non riguardano il punto di vista del teatro, che si incarna piuttosto in possibilità e valori presenti in ognuna di queste partizioni. Al proposito, è importante ricordare l'acuta impostazione problematica di Cristina Valenti che, parlando di teatri nei "luoghi del disagio", ha accentuato la visione dei fattori trasversali e loro valori unitari. A queste forme di teatralità corrispondono infatti "linguaggi teatrali – leggiamo nel programma della seconda edizione del festival "I luoghi del disagio" (Forlì, gennaio-aprile 1997) – che hanno saputo elaborare le diverse condizioni di sofferenza per trasformarle in poesia sulla scena – una poesia dolorosa e crudele, certo, ma anche alata e leggera, come l’espressione lirica sa essere: che nel momento in cui esplora la cognizione del dolore se ne distacca per indicare prospettive di riscatto e di speranza a partire dalle infinite e misteriose risorse che ogni individuo custodisce in sé come valore inalienabile".

Il tavolo di lavoro "Verso un teatro degli esseri", che ha concluso la prima fase del progetto le "Abilità nascoste" assieme allo spettacolo Hallò Cathrin realizzato da attori portatori di handicap con la regia di Maurizio Lupinelli, si è riferito, per trovare un argomento di riflessione comune ai percorsi di diversi artisti, alle potenzialità sceniche degli individui segnati da un'identità più energica e viva. Identità che, siano essi emarginati o reclusi, una volta allontanata dal mondo quotidiano ed inserita in una dimensione di centralità autoespressiva, libera – come ha osservato Claudio Meldolesi parlando di "teatro e carcere" – una "presenza, eccessiva, espressionista e controversa" che rompe i rapporti di convenzione.

Il teatro, prestando al sociale e, più concretamente, alle esigenze personali di compensazione e riscatto, la propria scienza delle relazioni e delle trasformazioni umane, ha ricevuto il dono d’una presenza che, nel manifestarsi, nega risolutamente l’autonoma compiutezza della forma, e, pure, ne raccoglie le funzioni espressive e la natura estetica risolvendole in esempi di poesia concreta. La nozione di "bellezza" può oggi apparire relativa o antiquata; non di meno il suo significato, implicando in chi vede il sentimento dell’ammirazione e del trasporto, tocca da vicino le tensioni, le preoccupazioni e il sentire degli artefici che vogliano trarre dal loro lavoro qualcosa di vivo: un organismo traboccante possibilità di comunicazione e incontro. Obiettivo dal quale discendono – nei casi emblematici e più significativi – le opere che intrecciano realtà e invenzione affidandosi, ancor più che alle tecniche dell’attore, alla capacità – "innata", secondo Oliver Sacks – di essere facendo teatro.

Vorrei concludere questa presentazione con qualche elemento d’inquadramento storico. Il "teatro degli esseri", pur presentando organismi produttivi radicalmente diversi da quelli (d’impresa, di compagnia, di gruppo) definiti dalle tradizioni storiche e recenti, si connette infatti direttamente alle esperienze e alle reti relazionali scaturite dall’esplosione epocale degli anni Sessanta. E inoltre, proprio perché si distacca dalle prassi di matrice teatrale, corrisponde alla visione artaudiana d’una realtà potente, che ruba al teatro il compito di sospendere le convenzioni del vivere quotidiano liberandone l’energia.

Gli artisti che hanno dato evidenza e respiro a questo fenomeno diffuso, operano spesso all’interno di istituzioni indipendenti ed estranee (si pensi a Punzo e alla Compagnia della Fortezza), oppure innestano gli individui incontrati nel sociale in formazioni teatrali, che, già da tempo, alimentano e realizzano le loro scelte poetiche (ed è il caso di Delbono e Lenz Rifrazioni); in entrambi i casi, sono però portatori di saperi e tradizioni personali che affondano le radici nelle esperienze cruciali della svolta novecentesca: il parateatro, i teatri di base, le avanguardie degli anni Settanta, il post-moderno, la contrapposizione politica al sistema. Anche per questo, non amano che si consideri la loro opera alla stregua di un’azione di pubblica utilità e perciò ristretta a precisi contesti d’intervento, né che, parlando dei loro attori, se ne accentuino i caratteri anomali (l’handicap, la reclusione) sottovalutandone la capacità di essere. "Io sfido un qualsiasi attore di quelli definiti professionisti – dice Pippo Delbono, parlando di Bobò – a star fermo, a non far niente e a tenere mille persone in un silenzio totale. Inizierei a dire: handicappato sarà lui".

Il fatto è che le opere scaturite da queste particolari possibilità di commistione, hanno svelato, come accade con le affermazioni artistiche di svolta, una faccia ulteriore del teatro.

L’arte è l’unico terreno della vita civile che tolleri e accetti come necessario uno stato di rivoluzione permanente. Non vi è infatti opera di poesia che non sveli una possibilità imprevista e ignorata (per l’appunto: un’altra faccia) della propria pratica artistica. Solo fino a pochi anni fa, in epoche più ottimiste e fiduciosamente proiettate verso il futuro, si era usi iscrivere questi "svelamenti" in un sistema dialettico che ne esaltava il carattere "innovativo", "di superamento". Non vorrei che ora, essendo diventato più difficile riscontrare nei fatti del teatro degli eventi oggettivamente "nuovi" (rispetto a che cosa? E con quali prospettive?), si finisse per non riconoscere nemmeno gli "svelamenti" che, pure, continuano a prodursi articolando una storia morale ed estetica, dove, forse, il fenomeno di cui ci stiamo occupando si configura come un ricongiungimento al mondo del teatro post-mimetico.

Nel Novecento, si è passati – sia attraverso bruschi salti che attraverso soluzioni mediate e graduali, come l’attore immedesimato di Stanislavskij e quello straniato di Brecht – dall’arte di rappresentare l’altro da sé a quella di essere. Ora, nel passaggio fra i secoli, le attitudini, la cultura e anche i modi operativi sedimentati dalla svolta novecentesca si stanno risolvendo in una transizione ulteriore, per cui il teatro torna a confrontarsi col mondo, non più riflettendolo, come avveniva nel sistema mimetico, ma assumendone direttamente le realtà. La storia del teatro comprende dunque due snodi focali: l’uno va dal rappresentare all’essere; l’altro, successivo, dall’essere agli esseri. Si tratta di trasformazioni strettamente conseguenti, delle quali la seconda, già implicata nella prima, era stata profetata (non c’è termine più pertinente) da Antonin Artaud.

"Io non vedo cosa il teatro possa avere a che fare con il romanzo – scrive Artaud al Sindaco di Perugia che l’aveva invitato a partecipare al convegno "Romanzo e teatro" – […] si continua ad assimilare il teatro a un genere, letterario o no, mentre sono vent’anni che io combatto per la disintegrazione assoluta del teatro da tutti i generi e da ogni specie d’arte, e per il suo reinserimento nell’andamento dell’attività quotidiana, quella dei vagoni per il bestiame, d’una transiberiana, della bomba atomica o d’una squadra d’alto mare".

Artaud espone poi un suggerimento, che sarà parso allora paradossale, provocatorio, delirante, mentre è adesso leggibile come un concreto progetto di percorso per un numero ridotto di spettatori. C’è a Perugia un obitorio, meglio sarebbe mostrare il gioco segreto della sua architettura – suggerisce Artaud –, piuttosto che interrogare ancora una volta gli scrittori europei. "Per arrivare a questo obitorio – scrive – occorre discendere per certi corridoi in pendenza dove non si passa che uno ad uno, e che danno a chi ci passa il freddo della piccola morte".

Artaud vede il nostro teatro: un teatro inserito nel quotidiano, basato sull’esercizio di capacità innate, reale e potente come la transiberiana, la bomba atomica, una squadra d’alto mare… Il fulcro di questa sovrapposizione di invenzione e realtà, sono, però, nel nostro caso persone che, affidandosi al gioco scenico e alla sua coazione ad essere, compensano condizioni di esistenza difficili e delicate. Anche per questo è utile che gli artisti si interroghino, cercando all’interno delle loro esperienze e del teatro quanto in essi si converte naturalmente in vicinanza e gesto solidale, in affermazione della dignità personale, in pratica quotidiana del riscatto.

Gerardo Guccini

 

 

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Giorgio Tedoldi

(Sindaco del Comune di Lerici)

Bertolt Brecht dice in una sua poesia: "Chi sta in alto va verso la gloria,/chi sta in basso va verso la fossa". Sono versi didattici che insegnano al lettore quell’imbecillità della guerra, che mi sembra sia stato il valore centrale dello spettacolo che abbiamo visto e che prende per l’appunto le mosse da Madre Coraggio. Si fa sempre bene a ricordare che la guerra è imbecille, perché dimenticarselo è purtroppo la normalità. Ad esempio, qualche tempo fa a La Spezia è stato ritrovato un ordigno di centocinquantatre chili. Tutta la città è stata messa a soqquadro, però l’abbiamo tutti subito presa come una cosa naturale. Era la guerra, le bombe potevano legittimamente cadere. E legittimamente è caduta questa bomba di centocinquantatre chili, che ha fatto evacuare un’intera città. Non si tratta di valutare se chi l’ha lanciata era un liberatore o un invasore; fatto sta che quella era una cosa normale, così come ora è normale evacuare una città per disinnescare l’ordigno. L’anormalità della guerra, per noi esseri umani un po’ deficienti, diviene purtroppo normalissima. Non la percepiamo più. Ecco, il messaggio forte dello spettacolo è emerso chiaramente dalle immagini che tutti gli attori hanno saputo darci, ma in particolare modo quelli che comunemente definiamo "disabili"; proprio le particolarità che portano con sé, li hanno investiti, in quel momento e in quella sede, di una diversità alta. Alta proprio perché maggiormente carica di umanità. Questo ho visto nello spettacolo, e di questo vi devo assolutamente ringraziare. È accaduto un miracolo. Io mi metto nei panni dei genitori e di quelli che hanno lavorato per realizzare tutto questo. So di ragazzi e ragazze che nella loro quotidianità si muovono e esprimono a fatica, mentre, lavorando teatralmente, hanno recitato delle parti, ce le hanno fatte vedere, le hanno mostrate sul palcoscenico. E questo è veramente miracoloso. Quindi, veramente, grazie a tutti e da parte di tutti.

Grazie ai collaboratori, al regista, a chi ha rivisto quest’opera brechtiana, a tutti coloro che hanno dato un contributo.

Roberto De Simone

(Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Lerici)

Il tema del convegno mi porta a condividere alcune riflessioni che sicuramente non hanno niente a che fare con il mondo del teatro, sul quale, d’altro canto, non ho le competenze necessarie. Mi è stato spiegato che il teatro degli esseri eleva l’attore a soggetto principe della rappresentazione, costringendo il testo ad inchinarsi all’unicità del soggetto che recita, portando in primo piano i valori dell’uomo con le proprie specificità, i propri sentimenti, le proprie difficoltà. Da tutto ciò emerge un tema a me caro, che è quello dell’uomo come punto di riferimento, attorno al quale deve ruotare ogni nostra scelta. Quest’uomo è sempre l’altro che si affaccia nella propria vita e che fortunatamente non è mai come noi lo desidereremmo; credere che l’altro sia unico e singolare dentro tutto l’universo è, a mio avviso, un grandissimo atto di fede.

Ritornando all’oggetto del convegno, è bello che la rappresentazione teatrale ponga in primo piano i ragazzi come attori e autori di ciò che va in scena, che li elevi al rango di creatori di una forma comunicativa già insita dentro di loro, aiutati in questo con maestria dal regista e dallo sceneggiatore, sempre pronti a carpire quello che albergava già dentro ad ognuno di loro. Non posso in questo mio breve intervento che rallegrarmi di far parte di un’amministrazione molto sensibile al tema dei rapporti umani. La mia cultura mi ha sempre portato a non fare alcuna preferenza tra le persone che a vario titolo incontro, ma se qualche volta devo fare necessariamente delle scelte mi viene naturale stare dalla parte di quelli che sono considerati a torto "diversi". Quando sono stato invitato a partecipare a questo incontro, mi è stato chiesto di spiegare le ragioni per cui ho condiviso questa esperienza. Vi confesso che non posso spiegare con le parole ciò che noi tutti, come amministrazione e come comunità, abbiamo dimostrato coi fatti. Credo che la sensibilità dimostrata nei confronti di tematiche come l’emarginazione, la diversità e quant’altro, secondo le logiche correnti, elevi non tanto il profilo amministrativo, ma piuttosto il valore umano dell’agire politico e dell’interessamento al bene comune. In conclusione: il tema del convegno e la rappresentazione costringono anche noi a non recitare in un testo rigido, imposto, ma a cercare nella vita di tutti i giorni di esserne autori e interpreti.

Gerardo Guccini

(Università di Bologna)

Le parole di saluto del Sindaco Tedoldi e dell’Assessore De Simone giungono con immediatezza al centro del nostro argomento, che riguarda la possibilità di attraversare, confrontare e accostare in quanto espressioni di cultura teatrale e fatti del teatro quei diversi processi relazionali e compositivi che inventano la vita scenica a partire dall’assimilazione di concrete realtà e identità del sociale. Trovo significativo (e anche di buon auspicio per il nostro lavoro) che i rappresentanti d’una amministrazione cittadina, per spiegare un’iniziativa nata in risposta ai problemi dell’handicap, cerchino un linguaggio per dire – in primo luogo – le proprie emozioni e incappino nell’esigenza di definire la diversità dell’attore. "Una diversità alta – ha detto il Sindaco Tedoldi – alta proprio perché maggiormente carica di umanità". Si parte dalla difficoltà d’esistenza dei cosiddetti diversi e ci si trova a fare i conti con la diversità (forse socialmente altrettanto problematica) del teatro. È un salto caratteristico della nostra epoca e di questi ultimi anni, in cui osserviamo realizzarsi straordinarie convergenze fra gli autonomi sviluppi del teatro e le esigenze espresse dal sociale. Si tratta di processualità relazionali forti, che proseguono – in modo più o meno diretto ed essendone più o meno consapevoli – lo slancio propulsivo impresso, ormai quarant’anni, dalla moltiplicazione dei teatri, dalla rottura dei rapporti gerarchici fra centro e periferia, dall’estensione delle pratiche inventive a tutte le funzioni del teatro, dalla possibilità di farsi un teatro (o anche di farsi teatro) e di tentare con questo solo strumento e patrimonio il rinnovamento delle mentalità e delle menti.

A partire dagli anni Sessanta, i movimenti di fuga dei teatranti – dalle strutture istituzionali del teatro verso la società reale e la realtà dell’essere umano – hanno prodotto nuovi teatri e modalità di lavoro, che, pur procedendo da teatralità d’arte, si sono riconosciuti in finalità e valori di natura etica. Da un lato, il laboratorio – inteso in quanto luogo di educazione permanente dell’attore – e, dall’altro, le strade, le scuole, le fabbriche, i camion che trasportavano i teatranti verso nuovi scontri e confronti, i manicomi, gli spazi aperti della natura e delle civiltà rurali, hanno definito per tutti gli anni Sessanta e Settanta i contesti e gli sfondi del nuovo teatro ben più che gli spazi fisicamente occupati dagli spettacoli. L’allontanamento dei teatranti dagli alvei istituzionali del teatro è stato essenzialmente causato da sensibilità e culture che vedevano nel "fare" teatrale il luogo di riconoscimento e crescita di un’umanità allo stato nascente, con relazioni, possibilità e "arti" ancora da inventare. Ancor più che rinunciare alle prospettive artistiche, i nuovi teatri degli anni Sessanta intraprendendo un’opera di trasformazione antropologica, nella quale le "arti" sono sfuggiti dall'istituzione teatrale ricominciate daccapo e la bellezza si è mostrata non addomesticata, estranea al compiaciuto brivido del piacere e pervasa da un senso di rivelazione, che non necessariamente rimanda a un significato esplicito, ma fa del suo apparire un simbolo muto e coinvolgente. In quegli anni, è opportuno ricordarlo, la rifondazione dell’individuo e il radicale mutamento del mondo sociale erano aspirazioni generalmente sentite; incarnandole, oggettivandole, concentrandole in esperienze ed eventi estremamente significativi ed eloquenti, il teatro ha dunque disseminanto il proprio cammino di costellazioni di "segni storici", che ancora oggi individuano un preciso criterio di appartenenza e costituiscono, per chi ne riconosce il valore, un patrimonio irrinunciabile, una memoria da mantenere viva. Ora il quadro è parecchio mutato, ma, direi, più nei modi di valutare e percepire, che non nella sostanza dei fatti teatrali. Ci troviamo infatti in una situazione in cui i teatranti continuano a farsi il proprio teatro con pazienza e manualità artigiane e, al contempo, dispiegando capacità inventive a tutto campo, che coinvolgono, oltre che i risultati, anche i meccanismi e le funzioni del lavoro teatrale. Scomparsa la brillante patina dei significati storici che, negli anni Sessanta e Settanta, ricopriva le opere e i percorsi degli artisti-guida, resta la vitalità d’un mondo teatrale che, ora come allora, rigenera l’arte modificando la realtà. Sono persone vere quelle che, provenendo da manicomi, carceri, case di rieducazione e dal mondo della scuola, si consegnano al rapporto coi teatranti suscitando la necessità di un’arte che dia forma al loro mostrarsi. Il teatro, in questo quadro di rapporti, è, ancor più che uno specchio del mondo, il mondo stesso capovolto. Al suo interno, chi viene normalmente considerato un "diverso" esprime – "trae fuori" – la propria identità e la condivide con il pubblico; la vita reclusa diviene oggetto di visione; l’adolescente si disciplina per conservare anche in stato di rappresentazione le qualità della sua energia riottosa e indisciplinata. Mentre, negli anni Settanta, il radicamento sociale del nuovo teatro si è svolto sotto il segno storico della contrapposizione, della ribellione, del rifiuto; ora, il nuovo che continua a prodursi indica piuttosto l’esigenza di compensare e di riequilibrare. Capovolgendo ordinamenti e partizioni del reale, il teatro esprime infatti una latenza eversiva che non si sfoga contro un nemico esplicito, ma sostanzia quanto al livello della vita quotidiana sembra esaurirsi e venire meno. Il teatro dà voce a chi tace, crea simboli concreti, insegna gli effetti della bellezza, produce valori e relazioni dirette in un mondo sempre più segnato dagli effetti della globalizzazione economica. Se l’uomo contemporaneo delega sempre più a impersonali sistemi di esigenze il compito di modellare la sua volontà e i suoi istinti, e perde quindi energia e senso della collettività, ecco che il teatro chiama in scena "attori" segnati da una vita più forte, più decisa, più posseduta e incarnata. "Attori" che offrono allo spettatore – ha detto Pippo Delbono in un altro intervento – come la visione di un grande fenomeno naturale.

Il nuovo teatro, però, anche agendo sotto il segno del riequilibro e della compensazione, continua a confermare il gesto e il senso della sua nascita storica. E cioè si conforma e determina, proprio come negli anni Sessanta, in quanto organo culturale estraneo (ma compatibile) ai sistemi che organizzano la vita civile, e appartenente per contro all’umanità, che in quei sistemi si trasforma, si interroga, si adatta, resiste. In questa prospettiva, l’incontro del teatro con i luoghi del disagio e le concrete identità del sociale costituisce – oltre che una frontiera del nuovo – la conferma che esiste e si è fortemente radicata, specie in Italia, una tradizione teatrale che, pur rilanciando i valori e gli istinti della svolta, si confronta con panorami e possibilità di azione talmente mutati da poter venire definita come postnovecentesca. Per questo, nel nostro incontro, si parla di "teatro degli esseri", espressione che riconosce i sintomi di un sentire trasversale e condiviso, e non implica quelle distinzioni fra "teatro ed handicap", "teatro e carcere", "teatro e terapia", "teatro e scuola", che riflettono, ben più che il punto di vista del teatro, quello della funzione sociale.

Vorrei chiudere il mio intervento citando un articolo di Furio Colombo apparso proprio ieri (1 luglio 2000) su "La Repubblica". Vi si parla dello spettacolo realizzato dal regista Koji Mijazaki con il laboratorio "Viaggio di nessuno" nel manicomio di Racconigi, a pochi chilometri da Torino. Furio Colombo, che come sappiamo non è un critico teatrale, avverte, a fronte di questo evento, l’inadeguatezza degli apparati critici della recensione "tipo", che distingue il livello degli intenti da quello della realizzazione, l’artista dall’opera, le fonti dagli esiti. Qui, al contrario, per rendere conto dell’accaduto, bisognava testimoniare le incertezze dello sguardo, divenuto incapace di discriminare invenzione e realtà, poesia e sofferenza psichica; e ciò non perché lo spettacolo fosse in sé confuso ma perché con/fondeva, fondeva assieme. Riporto alcune frasi di Colombo: "Le anime morte vestono camicioni bianchi, si muovono con i piedi nudi nell’acqua. […] Temono il direttore ma amano la suora, che è un angelo. Un angelo, loro lo sanno, può anche essere terribile. […] Seguono la routine, rispettano ogni minima regola che decide ogni minimo istante di vita. Sembrano miti. Ma si piegano? […] Però sopravvivono. Sono arrivati fin qui e fanno teatro. Qui dove siamo? Siamo in un bosco in una notte d’estate" (Furio Colombo, Quelle voci dal teatro dei matti, "La Repubblica", 1 luglio 2000).

Il teatro di cui parla Colombo e intorno al quale siamo qui riuniti, non è tanto un teatro "creatore", quanto un teatro "levatrice", che agisce sul reale mettendo in luce le sue energie, la sua poesia, i suoi segni, le sue abilità nascoste, e che, poiché implica al suo interno una realtà trasformata, corre continuamente il rischio di svuotarsi, di dissiparsi. Questo teatro, dice Colombo, è come l’opera di un Picasso madonnaro che disegni "sull’asfalto del marciapiede le sue figure abbandonandole alla pioggia". D’altra parte, questa condizione precaria lo obbliga ad essere straordinariamente consapevole e rigoroso. "Siamo a teatro – riconosce l’articolo su Racconigi –, ma questo è il più strano e forse il più rigoroso teatro d’Europa".

Federica Maestri

(Lenz Rifrazioni)

Intanto volevo ringraziare gli organizzatori di questa giornata per avermi invitato a riflettere di nuovo su alcune questioni che stanno molto nel cuore e nella testa del gruppo Lenz Rifrazioni. Non una novità, perché già l’anno scorso al Festival "Natura Dèi Teatri", con alcuni amici presenti anche oggi, abbiamo naturalmente ragionato e pensato al significato di questo movimento diffuso e, credo ancora non riconciliato nella teoria. Prima di ragionare più liberamente volevo leggere uno scritto brevissimo che è a chiusura del primo anno del nostro progetto sul Faust, perché credo che alcune parole più precise in questo momento siano, almeno per me, più convincenti dei ragionamenti a braccio che possiamo fare. "Il teatro conosce il presentimento della storia e dà l’annuncio di nuove rivelazioni. Questa è l’arte, la mania, la sapienza irragionevole che si nasconde nel luogo più e più umano. La scena si dispiega nei sussurri visionari del mai visto, dell’inaudito. Quanto più il presagio è lontano dal verosimile tanto più scuote i timorosi dei nuovi destini. Eppure chi a lungo si è preparato con altri silenziosi a questo avvento sa che quella sola è la grande lunga via. L’artista sente dove pulsa il cuore della nuova arte, il teatro sarà il luogo della lingua sconosciuta, della mente non sfinita, delle membra trasognate, dell’integrità sentimentale, o non sarà. Ossia sarà ciò che è già stato morto e passato. Fortuna e mani sensibili ci hanno condotto qui a ritrovare il maggior senso dove l’oblio e la cecità della moltitudine dicono un minor pregio; scoperta la ricchezza si deve lavorare con disciplinato e tenace sforzo a raffinare il mirabile metallo grezzo. Non c’è vera arte se non c’è appassionato studio, quotidiana applicazione, metodo rigoroso e severo. Al duraturo piacere si arriva dopo lotta accanita e sacrificio, le illuminazioni si devono scolpire in solida pietra per durare e farsi rimirare. Il nuovo attore che intraprende il cammino del teatro chiede la cura familiare e l’alleanza sensitiva dell’attore esperto del passato, perché la solitudine della scena sarà la conquista finale, l’atto liberato dal dominio di ogni benevola assistenza, padrone della lingua, parole e gesto di inimitabile grana, risoluto e pronto all’azione s’imporrà nella funzione che inanella l’io eroico, unico, puro, integro al noi umano plurale, indistinta confusione di volontà diseguali. L’intrecciarsi del mito e del sentimento del presente ci rimette sulle tracce del nostro poeta turrito, che prigioniero della sua onda ha proclamato l’unità di poesia e mania. Hölderlin è il nostro nume tutelare, nella sua ombra luminosa, nella sua luce oscura cerchiamo la strada all’oggi del teatro; romantico, ebbro di ricerca, animoso di tensioni e di squilibri, diffidente del fenomeno e appassionato del profondo disvelarsi per bocca e corpi incarnanti la bellezza sconosciuta. La scena non è la tela su cui dipingere di tinte cupe la ferita, il sacrificio, il dolore, lo strazio, ma lo spazio vivo in cui erigere il monumento al genio supremo che abita l’attore, musica di armonia e dissonanze, scrittura di straripamenti sentimentali e glaciali straniamenti, ballata di mosse selvatiche e di movenze logoritmiche, insieme poderoso di coscienza del linguaggio e di creatività non domata e sottomessa al proficuo funzionare. Minacce e pericoli sono in agguato mascherati dal primato del limite apparente, dal cordiale pio accontentarsi del primo frutto, dalla paura della fatica singola e corale. Ogni sovvertimento profondo della norma estetica è contrastato, frainteso, osteggiato, deriso, compatito o peggio indifferentemente tollerato come modo del momento, come morfologia della curiosità e della stranezza. Solo se ci affideremo al tempo lungo, senza fretta, senza pause, senza tregua, senza limiti, nascerà un nuovo tempo del teatro".

Vorrei ora incorniciare questo breve scritto con alcune informazioni dirette che riguardano la nostra pratica di lavoro. Lenz viene da un percorso di "teatro puro". Alle sue origini non ci sono esperienze condotte nel sociale o momenti di confronto con il teatro ragazzi. Lenz ha sperimentato le possibilità di un nuovo "teatro di lingua" che ha trovato in Hölderlin, in Kleist e in Shakespeare i suoi autori elettivi e che quest’anno affronterà Goethe con un progetto triennale sul Faust. Quindi, noi di Lenz sappiamo benissimo quali pericoli e quali tensioni vengano innescati dal movimento che ci avvicina a nuovi e diversi orizzonti e possibilità d’incontro. Facciamo fronte ai rischi con la severità del metodo e con le esperienze che ci vengono dal nostro lavoro. Sono circa tre anni che lavoriamo insieme a Lucia Perego a un laboratorio permanente di teatro-danza. Gli incontri si tengono con una frequenza di due volte alla settimana, e il gruppo che lo segue comprende sia portatori di handicap intellettivi o fisici, che giovani attori. Gli uni e gli altri costruiscono assieme un nuovo linguaggio di conoscenza e codici, ancora più potente, ancora più impegnativo del linguaggio normale del teatro. E insieme a questa esperienza importantissima, della quale viviamo da tempo la straordinaria normalità, abbiamo iniziato quest’anno un’altra fase di lavoro con un gruppo di malati mentali cronici, che vengono dal manicomio di Colorno. Dopo la chiusura dei manicomi, queste persone sono state collocate in comunità. Insieme a loro abbiamo lavorato con attori della compagnia e con giovani attori già esperti. A partire da questo progetto, del quale ci rimangono memorie potenti, stiamo approntando un testo che si intitola Affresco e un piano drammaturgico che, nell’economia complessiva del nostro lavoro, confluirà, svelandosi, nel Faust. Il Faust diventerà un affresco di vita e d’arte, in cui le vite di coloro che vi hanno messo mano non resteranno ai margini, ma saranno i punti supremi di lavoro. E, naturalmente, chi è più supremo di chi ha vissuto in estraneità e solitudine come gli ex degenti di Colorno?

È importante dire che, da due anni, nella nostra compagnia lavorano stabilmente, accanto agli attori "storici" del gruppo, due attrici down professionalizzate. Per loro il teatro non è più un’esperienza di ricreazione, di invenzione, di piacere, ma è diventato il loro lavoro quotidiano. Un lavoro che ha consentito loro di costruire un nuovo percorso di vita. E che, così credo, appare anche nei piccoli atti, nelle scelte e nelle opere di Lenz.

Giorgio Simbola

(Compagnia del Lazzaretto)

Quando mi è stato proposto di partecipare a questo incontro ho accettato immediatamente. Innanzitutto la retribuzione è, rispetto ai miei normali margini di guadagno, incredibilmente soddisfacente. Inoltre questa occasione mi è sembrata cadere a pennello. Procedendo nel mio lavoro, mi si è infatti imposta con crescente decisione l’esigenza di un confronto, di uno scambio di opinioni e di esperienze con persone che attuano prassi simili alle mie. Voglio premettere che il mio approccio al teatro è diverso: non sono uno studioso e non ho una formazione teatrale, non sono in grado di stabilire collegamenti tra il mio fare teatro e il fare teatro generalmente inteso. Non ho studiato il teatro. Sono nato in un paese della Barbagia, in Sardegna; un nonno faceva il pescatore, l’altro il giostraio; sono entrato per la prima volta in un teatro quando avevo diciotto anni, la seconda volta dieci anni dopo, per cui la mia formazione è veramente irrilevante. In questa occasione voglio provare a raccontarvi quello che sto facendo, e anche cosa è cambiato dentro di me e dentro le persone che lavorano con me.

Io vivo a Bologna in una casa occupata. Una casa occupata, per intenderci, è un luogo generalmente in disuso dove persone senza residenza si ficcano dentro sfondando le murature, sfondando le porte e stanno lì ad abitare finché la polizia non le manda via. Risparmiano così i soldi dell’affitto. Per pratica politica, abbiamo sempre aperto le case che avevamo occupato ad altre situazioni di bisogno, così di volta in volta hanno abitato con noi degli emigrati nordafricani. Finché questo settembre, in conseguenza dello sgombero di un campo nomadi presso Bologna, sono arrivati nella casa di via del Lazzaretto sei nuclei familiari di etnia rom. Erano in condizioni disastrose, da sette giorni cercavano di accamparsi da qualche parte, ma la polizia li braccava e li mandava via, e settembre è stato un mese molto piovoso a Bologna. Appena li abbiamo accolti nella casa non si poteva stare loro vicino dal lezzo che emanavano; ma credo che chiunque stando sette giorni così, dormendo per terra o in macchina, senza potersi lavare, non sarebbe stato in condizioni diverse.

Questo incontro fortissimo, questa loro presenza incredibile ed emozionante, è stata la base del nostro lavoro, nato mano a mano che la quotidianità si dipanava in comune. Ecco un’altra differenza nel mio modo di essere: io, al contrario di quanto accade nell’esperienza raccontata da Federica Maestri, non sono un attore o un regista che si è avvicinato ad un mondo diverso dal proprio. Io sono parte di questo mondo, ci sono dentro; non mi sono dovuto avvicinare ai rom, io sono rom, ci abito, ci vivo, condivido con loro tutti i giorni, i miei pasti, il mio cesso, la mia doccia: tutto. Ecco, mano a mano che la nostra quotidianità portava a conoscerci, rimanevo sempre più affascinato dai volti, dalla gestualità di queste persone, dal modo incredibilmente teatrale di usare la voce. Un rom non parla mai con il tono di voce dimesso e quotidiano che sto usando adesso, porta sempre la voce come un attore professionista. Se deve dire: "Vado via", oppure: "Andiamo"; un rom fa un gesto incredibilmente forte ed eloquente che precede la parola. Osservando queste cose ho pensato di proporre loro di innestarsi a un percorso di lavoro teatrale riferito all’emigrazione, che avevo già in qualche modo intrapreso. Le reazioni sono state incredibili, aldilà di qualsiasi aspettativa. Ad esempio, non si riusciva a provare con una sola persona per volta: tutti quanti volevano essere presenti, e dopo cinque minuti di prova si perdeva immediatamente la nozione di chi stava recitando e di chi era pubblico. Il testo prevedeva che uno degli attori mi cercasse e, rivolgendosi al pubblico, dicesse in serbo: "Avete visto Giorgio?". Tutti gli altri, che erano il pubblico, inesorabilmente rispondevano. Chi diceva: "No, non l’abbiamo visto!"; chi diceva: "Guarda è seduto là"; chi diceva: "Ma che cosa chiedi?". È stato difficilissimo, lavorando con loro, introdurre le convenzioni del gioco teatrale. Alla fine abbiamo raggiunto un’intesa col paradossale risultato che, a fingere, erano proprio quelli che facevano parte del pubblico. C’è, ad esempio, una signora anziana, grande mamma Konvilca, che ogni volta che l’attore poneva questa domanda ormai retorica ("Dov’è Giorgio?") lei, che faceva il pubblico, si tappava la bocca con le mani perché non voleva rispondere.

Così lo spettacolo è andato avanti e ora siamo una compagnia di diciotto persone. Questo significa che soltanto i costi di trasferimento sono immensi. Quando propongo loro: "Sentite, troviamo una forma dello spettacolo che coinvolge un numero minore di persone, così magari riusciamo a guadagnare qualcosa". Ogni volta mi si dice: "Va bene, va bene, va bene". Poi sorgono delle grandi discussioni su chi viene e chi non viene; alla fine andiamo sempre tutti e non guadagniamo mai niente.

Adesso che vi ho dato un’idea del nostro modo di lavorare, tenete anche presente che noi non abbiamo uno spazio e proviamo in una camera da letto. Nella casa occupata avevamo ricavato uno spazio che chiamavamo teatrino: ora lì dormono dodici persone, c’è il frigorifero e la cucina. A volte facciamo ancora le prove lì, ma sempre in condizioni disturbate, per esempio mentre il pollo frigge. Così non riesco mai a parlare di teatro.

Vi ho raccontato queste cose per darvi un’idea dell’atmosfera; quello a cui voglio arrivare è spiegarvi quali dinamiche hanno innescato in me, e poi in loro, questo fare teatro. Questo spettacolo è nato dal mio desiderio e dal bisogno di mostrare l’incredibile bellezza e la forza di queste persone, la loro straordinaria capacità di emozionarsi. Fare teatro è diventato per loro subito un modo per raccontare le proprie storie. Io provavo a proporre un canovaccio ma inesorabilmente veniva snaturato e trasformato, così che, di volta in volta, lo spettacolo prendeva una forma diversa, rispondente a quello che volevano dire.

Quando riprendiamo le prove, ogni volta che bisogna fare una replica, c’è sempre qualcuno che dice: "No, io questo non lo dico più, questo andava bene quando eravamo all’inizio. Adesso voglio dire questo". Quindi il testo e la trama vengono continuamente stravolti. All’inizio si verificava una difficoltà: il teatro non appartiene all’universo dei rom, mentre vi appartiene tantissimo la musica, che però non è vissuta come da noi. Ad esempio, in una sala da concerto il pubblico fruisce e il musicista esegue: nessuna connessione con il sociale. L’evento "concerto" è fine a se stesso, o se vogliamo ha per scopo il piacere che il fruitore può trarre dall’ascolto di buona musica. Per i rom non è così, la musica è sempre collegata a un evento sociale, si suona, come in tutte le tradizioni popolari, in occasione delle feste, dei matrimoni, ecc. Quando gli ho chiesto: "Vi andrebbe di fare uno spettacolo tutti insieme?", mi hanno chiesto, a loro volta: "Cos’è uno spettacolo?". Ho risposto: "Uno spettacolo è come un concerto, come quando si fa musica". Questa spiegazione li ha soddisfatti. Quando dovevamo debuttare, ho detto: "Facciamo lo spettacolo il cinque". E loro: "Ah, che festa è ?". E io: "No, non è nessuna festa". E loro allora: "E perché andiamo a fare lo spettacolo?". Non avevano questa necessità; poi lo spettacolo è andato avanti. Durante la prima replica, tre di loro hanno dato forfait appena hanno visto il teatro. Dalla seconda, come vi dicevo, nessuno vuole più mancare.

Il lavoro va avanti quotidianamente. Mi si chiede: "Allora, quand’è che facciamo lo spettacolo?"; oppure sono io che dico: "Ci hanno chiamato in questa città per fare lo spettacolo, però non ce la facciamo, i soldi che ci possono dare non ci bastano neppure per andare". E loro mi dicono: "Va beh, chi se ne importa, i soldi li mettiamo noi". Tenete presente che queste persone vivono chiedendo l’elemosina ai semafori, perché sono tutti clandestini. Però ho notato anche un altro effetto del fare teatro. Tendevano a celare l’identità rom, avevano associato la parola "zingaro" alla parola "no-buono": zingaro no-buono. Ora questa cosa è mutata profondamente: sono molto più coscienti del loro essere e per me questo è un risultato straordinario che mi riempie di orgoglio.

Ora vorrebbero fare un altro spettacolo; era successo anche a me. La mia prima esperienza teatrale è stata uno spettacolo che avevo fatto da solo, senza aver mai fatto prima niente come attore o come regista. Io sono un musicista, e come musicista avevo lavorato in alcuni spettacoli di teatro. Mi sono detto: "Adesso voglio provare a fare uno spettacolo". E con grande coraggio, e forse anche un po’ di follia, ho fatto questo spettacolo. È stato doloroso come un parto, ve lo giuro, però sentivo allo stesso tempo che non potevo farne a meno. E mano a mano che costruivo questo spettacolo, cambiava in qualche modo il rapporto con me stesso. Con la musica non mi è mai accaduto nulla di simile. Era come se un bisogno fosse stato soddisfatto, ma era un’illusione, perché questo bisogno ne ha generato immediatamente un altro. Ora, il fatto che la cosa si ripeta e che anche loro provino il bisogno di fare qualcosa di nuovo, credo dimostri che il nostro esperimento è riuscito. Ciò che è successo a me sta succedendo a loro. Fare lo spettacolo è stato faticoso, ma ora è cambiato il rapporto con loro stessi. Sembrerà una stupidaggine, ma, paradossalmente, quando uno di loro si comportava male lo chiamavano "ziganski", zingaro. Ora questo non succede più. Cerchiamo assieme sui siti internet tutto ciò che riguarda i rom, siamo in contatto con diverse realtà rom europee organizzate. Sono cambiate moltissime cose, ma la più straordinaria di queste è la loro incredibile voglia di fare un altro lavoro: è un bisogno che si auto-rigenera costantemente. Fare teatro in questo modo parte dalla vita e ti spinge verso il teatro, il teatro ti ri-sbatte contro la vita e la vita un’altra volta ti rimanda a provare, a fare queste cose. Dove voglio andare? Non lo so.

Antonio Viganò

(Teatro La Ribalta)

Grazie di questo invito, che mi consente di parlare e di far meglio conoscere gli Oiseau Mouche, con cui ho realizzato, come regista, alcuni spettacoli (Excusez-le o Il vestito più bello, 1995; Personnages, 1998). Gli Oiseau Mouche sono una compagnia teatrale di uomini e donne con handicap mentale, che però di professione fanno appunto gli attori. Essendo regista sono sensibile, oltre che alle sollecitazioni esposte fino adesso, ai temi che riguardano l’arte e l’estetica. Cerco di fare entrambe le cose, di integrarle, portando comunque a termine spettacoli che siano anche organismi estetici. Questo per me è essenziale. Gli Oiseau Mouche sono una struttura unica. Sono nati così. Alcuni uomini e donne con handicap mentale hanno deciso di costituirsi in compagnia, in forma organizzata e istituzionale sotto il cappello protettivo dello Stato che, comunque, li definisce e li riconosce in quanto portatori di handicap; statuto sociale che li toglie dal normale mercato teatrale. Cioè non possono essere attori normali, perché facendo gli attori normali guadagnerebbero soldi come tutti, e guadagnando soldi come tutti perderebbero le sovvenzioni cui accedono come portatori di handicap.

La compagnia Oiseau Mouche nasce nel 1981; comprende ventitré attori che lavorano quotidianamente sul teatro e le arti plastiche. È un luogo protetto, e il fatto che si sia costituito in Francia all’epoca inn cui Jacques Lang era ministro della Cultura è, da tanti punti di vista, un segno significativo e importante.

Noto – e mi sembra succeda anche qui, a questo incontro – che quando parliamo della diversità, ne parliamo sempre come se l’handicap, in qualche modo, descrivesse una categoria sociale. Forse la cosa più bella che ho trovato negli Oiseau Mouche è la loro capacità di mostrarsi come persone, dissolvendo l’idea che l’handicap sia, per l’appunto, una categoria. Quando lavoro con loro, non penso né sento di fare teatro con una compagnia di handicappati; faccio teatro con Martial, con Anita, così come in Italia lavoro con i miei attori o con mia sorella. Gli Oiseau Mouche, nonostante operino in una situazione di differenza legittimata da una scelta coraggiosa, ci impongono di parlare di loro come singoli uomini e artisti, non a livello di categoria. Le parole del Sindaco, questa mattina, mi hanno fatto ricordare il mio incontro con gli Oiseau Mouche. È vero: l’impatto emotivo è forte e la commozione, l’emozione scorrono fra la platea e il palco, dove sono presenti queste diversità, questi esseri. La prima volta che ho incontrato teatralmente questa diversità è stato a Bari: ho provato un senso di vergogna. Non potevo credere che quella persona potesse essere tanto brava, tanto "normale" da poter salire su un palcoscenico e raccontare la sua vita, dispiegando la particolare unicità dell’attore, che oggi – lo ricordava Gerardo – è reso tale dalla propria identità, mentre una volta doveva essere capace di indossare tutte le altre. Gassman, che purtroppo non c’è più, diceva che l’attore è un po’ lo scemo divino, tanto vuoto da potersi riempire di tutto. L’impatto con gli Oiseau Mouche è stato fortissimo; la commozione è stata però seguita da un sentimento di vergogna per lo stupore provato. Insomma, noi ci "stupiamo" perché delle persone hanno appreso ad usare tutti gli strumenti che fanno sì che si abbia una dignità umana; dignità che, in concreto, coincide con la libertà di esprimere il proprio pensiero e il proprio sguardo sul mondo. E ciò appartiene in profondità agli Oiseau Mouche.

Gli Oiseau Mouche non lavorano con un regista unico; hanno fatto bellissimi spettacoli anche con altri registi (Wladyslaw Znorko, Philippe Vaernewyck, Paul Laurent, Gilles Defacques, Stéphane Verrue, Susy Firth, Christian Vasseur, Damien Dodane, Gervais Robin, François Cervantes, Claire Dancoisne, Danièle Hennebelle); di conseguenza, non penso di poter essere il portatore dell’idea degli Oiseau Mouche. Quanto vi dico riguarda più che altro le mie esperienze fatte lavorando con loro. A questo proposito, penso di avere oggi più dubbi e più paure che non certezze. Fanno bene gli Oiseau Mouche a cambiare regista; vogliono evitare di cadere in un errore, che anch’io temo moltissimo. L’errore di diventare uno specialista in qualche settore, di essere catalogato e riconoscibile, di essere quello che fa il teatro con una particolare diversità . La casualità che ti porta a lavorare in una prigione o in un manicomio apre la strada a enormi possibilità di arricchimento umano e artistico, sempre che tutto ciò non si assesti in una professionalità a senso unico, che andrebbe contro a tutto quello che abbiamo detto, e che io condivido pienamente. La scommessa degli Oiseau Mouche è stata porsi come soggetti teatrali di fronte al teatro, che fa una gran fatica ad accettarli, bisogna dirlo. Il teatro è onnivoro, ma tutto ciò che mangia viene digerito velocemente – almeno, al livello delle strutture istituzionali e del mercato. Gli Oiseau Mouche dicevano: "La nostra attività non è né ludica né di apprendimento. Quello che facciamo è un gesto artistico, e lo rivendichiamo in quanto gesto artistico, non c’è nient’altro; noi ci riteniamo persone, esseri umani che hanno diritto di vivere in questo mondo, in cui ognuno deve avere il diritto di esprimersi". Io, in loro, ho amato i corpi, così come amo i corpi degli attori con cui lavoro, perché, come si dice spesso, nel corpo c’è la nostra memoria, c’è la nostra relazione con il mondo, c’è il nostro modo di porsi. I corpi degli Oiseau Mouche esprimevano qualcosa che aveva a che fare con il loro stato, la loro forza scaturiva dalle reazioni dei corpi all’interno di uno spazio scenico: raccontavano molto della vita e questo mi interessava profondamente. Ciò che mi interessa nel teatro è la luce e l’ombra. E quando dico "luce e ombra" intendo un rapporto tra forze contrastanti, che ha a che vedere con la possibilità di avere "rivelazioni", "visioni". Ciò che si mostra non appare mai completamente come è; forse il mostrarsi mi racconta l’ombra, quello che s’intravvede appena.

Per contribuire al dibattito vorrei parlarvi di una mia paura. Vedendo uno spettacolo molto bello fatto da disabili mentali, ho notato che il pubblico applaudiva un attore, che cantava così bene da sembrare completamente normale. Allora, ho sentito in me la reazione che si deve essere verificata in tutti gli altri spettatori: l’applaudivo perché lui, che per me rappresentava la diversità, aveva fatto uno sforzo meraviglioso per venire a casa mia e diventare simile a me. L’applaudivo perché era stato tanto bravo da perdere la sua diversità e diventare esattamente come me. Questa scoperta mi ha segnato e ferito. Penso che in ciò ci sia un problema che riguarda tutto il teatro e non solo i diversi. Vedrò di sintetizzarlo il più possibile: il teatro può essere onnivoro e distruttivo, può livellare, omologare, appiattire gli esseri di cui si nutre. Il teatro, spesso, premia solo chi è capace di rendersi il più possibile uguale a noi e non chi mantiene la propria differenza. Ragione per cui non andiamo a scoprire un altro mondo ma è lui, il mondo altro, che si adegua al nostro e lo fa proprio. Allora noi lo ringraziamo con un applauso. Per reagire alle facoltà omologanti del teatro occorre fare scelte di tipo poetico, che fanno nascere il lavoro dall’unicità del singolo. Io voglio parlare con Ervè, che è un microcefalo, come parlo con Michele che è un mio socio, come parlo con te, con lui, con voi tutti. Vorrei che ci si considerasse tutti come singole persone, ognuna con le proprie qualità e caratteristiche. Credo che le partizioni categoriche chiudano le esperienze, le specializzino e rendano settoriali, adeguandole alle logiche del consenso; mentre, tutto all’opposto, la forza delle poetiche apre le esperienze e dà senso al teatro.

Carlo Bruni

(Teatro Kismet Opera)

Dopo avere ascoltato i precedenti interventi, mi ritrovo nella condizione di dover scegliere fra una strada prestabilita, che però ricalcherebbe molte delle cose già dette, o il rischio di un itinerario improvvisato più attento a quanto appunto emerso sinora. Mi lancio nell’avventura.

Il Teatro Kismet OperA è una struttura di dimensioni cospicue: ci lavorano quarantadue persone gestendo due spazi teatrali e due compagnie. Ma all’inizio la nostra storia ha percorso tappe molto simili a quelle raccontate da Giorgio Simbola.

Il gruppo originario del Kismet, perseguendo un principio di professionalità concreto (campare del proprio lavoro), aveva scelto la convivenza e la condivisione di esigenze private a compensazione di quella che era un’ovvia scarsità di risorse: aveva scelto uno dei molti modi possibili per educare il proprio disagio. E se "chi somiglia si piglia", è stata quindi un’attitudine originaria che ci ha spinto a lavorare nelle aree cosiddette "disagiate" e a sviluppare azioni su cui solo successivamente ci siamo interrogati, animando un dialogo dialettico fra pratica e pensiero. Dialogo che si è poi organizzato in percorsi più strutturati e ormai divenuti storici , in particolare nelle attività con portatori di handicap. L’iter di questa specifica esperienza è stato custodito da Enzo Toma, ora in Giappone per un progetto simile, con attori disabili, nella prospettiva di una prossima produzione.

Il rapporto del Kismet con l’handicap si è strutturato intorno ad un laboratorio stabile a Bari (due incontri settimanali da ormai dieci anni), grazie all’intervento di una associazione di volontari che si chiama Archa, che ha creduto al progetto e cercato con noi le risorse per realizzarlo. L’approccio è stato assolutamente interno alla ricerca teatrale e, anche se non totalmente svincolato dalle naturali influenze ideologiche e da una sorta di desiderio di ampliamento "democratico" delle prospettive del teatro, non è mai stato succube di queste e non è mai stato condizionato da pretesti terapeutici. Nessuno di noi aveva una vocazione assistenziale, e l’incontro è avvenuto sul fronte del fare teatro, con tutte le contraddizioni conseguenti, compresi gli accapigliamenti e scontri fra differenze mai sottovalutate.

Quando sono arrivato al Kismet, circa otto anni fa, ho subito pensato che, forse, c’era qualcosa di strumentale nel rapporto con l’handicap e che, in definitiva, far leva sui buoni sentimenti del pubblico era un facile espediente per commuovere, suscitare entusiasmi, raccogliere consensi e assolvere pure a qualche problema di coscienza. Così, la prima volta sono entrato nel laboratorio con una buona dose di diffidenza. Pensavo: "C’è un che di furbo in questo gioco".

Sul palcoscenico un gruppone di ragazzi vestiti di nero, intenti in una specie di massaggio collettivo.

Io sono nato a Bisceglie, un paese che ospita ancora oggi uno dei manicomi più grandi d’Europa. Li consideravamo un popolo straniero, gente di un’altra razza; per i più piccoli, un popolo di mostri da evitare; per le famiglie "colpite", una vergogna da nascondere.

Ed ecco che un "mostro" – si chiama Vita, una ragazza down, una palla… una stella – mi prende per mano e, letteralmente, mi trascina nel gruppo. Piombo all’improvviso in un altro mondo, in un altro livello percettivo. Attraverso una frontiera. Grazie a Vita, a quel gioco di mani e corpi, incontro una lingua diversa e non per questo meno sensibile, articolata, ricca: certamente, almeno dal punto di vista del teatro, sorprendentemente espressiva.

È stato come se, in matematica, invece di spiegarmi la logica delle operazioni, qualcuno mi avesse fatto sentire un’addizione. Ho riconosciuto un teatro possibile: una miniera che come tutte le miniere nascondeva e nasconde un tesoro e molte, molte insidie.

Sapete com’è: quando uno scopre un tesoro, appunto, corre il rischio dell’ubriacatura, del saccheggio, dello scempio. Nel nostro caso, qualcuno preso dalla forza dei risultati teatrali più superficiali potrebbe dimenticare le persone; senza cogliere le differenze che le distinguono (ci sono quelli che pensano che i giapponesi siano tutti uguali e tutti dei maestri di karatè o che ogni nero sia uno straordinario percussionista). Ne Il paese dei ciechi di H. G. Wells, l’ospite vedente crede che la sua "dote" possa garantirgli un dominio, una superiorità e questa convinzione gli impedisce di spostare il suo punto di vista (curioso!) e riconoscere la cultura dell’altro: una cultura cieca che ha semplicemente sviluppato altre, e per molti versi ben più sofisticate, doti.

Il laboratorio permanente del Kismet ha coltivato negli anni il teatro come uno spazio interculturale, senza prefiggersi la sua immediata traduzione in spettacolo, pensando piuttosto allo spettatore/operatore, che ricopre un ruolo determinante nel momento in cui è invitato a liberarsi dai comuni schemi interpretativi, che tendenti a ridurre la sua sensibilità artistica in favore di una più radicata sensibilità consolatoria. In questo clima, si sono distillate delle vocazioni precise, direi nella stessa percentuale che in genere emerge da qualunque laboratorio teatrale. Una cinquantina di attori sono emersi e hanno formato un gruppo stabile partecipando a molte delle nostre creazioni.

Acqua di Pietre, I Segni dell’Anima, Macchabèe, Vangelio, sono fra gli spettacoli che più direttamente hanno tratto origine da questo lavoro, ma attori come Vito Carbonara sono entrati a far parte ormai dell’equipe "storica" (Vito ha lavorato in: Peter Pan, Uccelli, Ecuba e i suoi figli).

Ho sempre pensato al teatro come a uno stato altro in cui una società si riflette: riflette su se stessa. C’è una frontiera e dall’altra parte chi osserva vede un se stesso diverso, uno straniero che, proprio per questo, è più capace di mettere in luce i segreti del suo spettatore. La frontiera che mi aveva fatto attraversare Vita era simile: deposito di anime e anche di qualche straordinario trucco (ingrediente che Angelo Maria Ripellino ci ricorda essere fondamentale), essa ci ha introdotto a uno speciale universo teatrale che richiede ancora molto studio e approfondimento.

Prima Gerardo ha accomunato i termini nuovo e diversità. Nella nostra esperienza il punto d’intesa con questi stranieri si è manifestato nella comunanza di un disagio e nella sua attitudine a tradursi, educarsi, in teatro: un nuovo frutto della diversità. Un’attitudine esemplare che è stata per noi una grande occasione di crescita. Nello specifico potrei sottolineare quanto sia stato importante lo studio dell’azione e dei principi che la governano in teatro. Un portatore di handicap, così come altri abitanti di qual mondo del disagio di cui parliamo (penso all’esperienza che viviamo all’interno delle carceri), imprime all’azione un’originalità e un senso profondo di necessità che nasce proprio dai suoi limiti, dai suoi vincoli. È un terreno d’indagine molto delicato perché contraddittorio: si fonda su quei limiti attraverso la loro liberazione, che resta però quasi sempre circoscritta allo spazio e al tempo del palcoscenico. Ci siamo spesso occupati di quanto quell’occasione ristretta di libertà e di attenzione che porta il teatro, non possa poi esasperarne la mancanza nel momento in cui l’esperienza teatrale, viene meno e si torna a casa, in un contesto sociale in cui, evidentemente, c’è pochissimo spazio per un disabile. È un interrogativo irrisolto, come quello più generalmente legato al principio di consapevolezza che non ci ha impedito di continuare a credere in questo lavoro e chiede però certamente uno specifico controllo anche sanitario.

C’è poi un filo sottile su cui si regge l’emozione condivisa del teatro. Nella mia esperienza ho constatato che quella commozione si manifesta proprio nel momento in cui attore e spettatore accettano di abbandonarsi e superano i confini della consapevolezza. Quindi il problema della consapevolezza riguarderà l’attore disabile piuttosto prima e dopo la rappresentazione e si risolverà soltanto e semplicemente nel rispetto della sua dignità di uomo.

Pippo Delbono

(Compagnia Pippo Delbono)

La mia esperienza è abbastanza simile alle altre, è un insieme di cose che hanno coinciso un po’ naturalmente. Non c’è mai stata una scelta mentale a monte delle esperienze. Mi sembra bello pensare che l’arte sia sempre, in fondo, un fatto tutto casuale. Per esempio, leggevo oggi una cosa di Lars Von Trier. Io non ho visto il suo ultimo film, sarà sicuramente bellissimo, ma lui dice che tutto quello che succede nei suoi film è totalmente frutto del suo pensiero. E questo mi terrorizza un po’. Pensare che esistono queste strane figure di artisti superiori, artisti che hanno così tanta capacità di creare tutto con la mente, mi spaventa; mi piace di più pensare di essere una figura che si fa intermediaria di un’esperienza, e basta. Magari lo fai perché sei più aperto, perché hai i pori più aperti, però sei solamente il tramite di qualcosa di più grande di te, di noi. L’idea di artista come tramite mi sembra più bella di quella di creatore, di regista. Non sono stato io direttamente a volere quello che mi è successo, sono stati icasi della vita. Io non avrei mai pensato di avere in compagnia un bambino down, un microcefalo sordomuto, un ragazzo poliomielitico, un bambino del Sahara, un barbone che ho conosciuto a Napoli per le strade; ho lavorato anche con dei rom; non l’ho scelto, mi è capitato. E prima ancora mi è capitato di trovare dei maestri che mi hanno insegnato a fare un teatro che non era un teatro normale, non era un teatro fatto soltanto di testi. Non sono mai stato un solo giorno in una sala ad analizzare il testo di un autore, a cercare di capirlo attraverso un percorso esclusivamente intellettuale, non l’ho mai fatto. Mi piaceva andare in giro, vedere i concerti, seguire ovunque per il mondo Frank Zappa, seguire tutte le diverse dimensioni artistiche. E così la vita mi ha portato a incontrare maestri che avevano altri linguaggi, entrare in un altro mondo di libertà. Libertà che è anche quella di guardare le proprie ferite, non una cosa tutta gioiosa, scintillante. In questi giorni mi sono trovato al Gay Pride a Roma: troppi lustrini, troppa TV. Chi è stata la madrina? Che ne so, Ambra, la Cucinotta… Ma, scusate, per me l’omosessualità vuol dire pensare all’amore libero, all’amore che può avere tanti aspetti, e non all’idea di un ghetto dove tutti vanno perché è molto chic no? Quindi mi è sembrato bello fare lì uno spettacolo come "La rabbia", un omaggio a Pasolini in cui forse c’è anche un mondo… non so… forse gay, sì, che però è sicuramente un mondo di libertà, un mondo di arte. Nella diversità si è più vicini all’arte. Dove ci sono delle ferite, dove sei guardato male forse è più facile essere vicini all’arte. Se tutte le cose ti filano bene, se nasci tranquillo, ti sposi, fai tre figli, hai i soldi e la casa forse è più difficile fare gli spettacoli. Fare arte vuol dire sempre rapportarsi con la vita, con la morte, con il mistero, con la ferita. Ma se anche tu hai tutto e sei sempre stato tranquillino, magari arrivato agli ottanta, dici: "Ma che cazzo ho fatto nella mia vita?" Lì ti viene una lucidità e fai un grande spettacolo. Venire folgorato dalla lucidità è stata un po’ anche la mia esperienza. Mi è capitato di trovarmi in un momento difficile, diciamo che sono andato completamente fuori di testa, per motivi veri, dei problemi fisici e non, così, genericamente esistenziali. E lì, in manicomio, mi è capitato di trovarmi con Bobò, questo omino microcefalo che lavorava con me, e di trovarlo stupendo, molto bello. Allora, da quel punto lì, ho iniziato a farlo entrare nella mia compagnia. Io sono una via di mezzo tra quelli che stanno dentro e i "normali"… Ho studiato molto il teatro, ho seguito i maestri. Ho detto se faccio teatro voglio andare a imparare da quelli più bravi. E ce l’ho fatta. Mio papà mi diceva: "Se suoni il violino, prima fai dieci anni di studi, poi suoni. Poi trovi la tua propria strada". E questo mi ha sempre colpito. Mi piace il senso del lavoro, mi commuove vedere gli attori dell’Oriente. A Bali ho visto delle commedie molto semplici, ma fra gli attori c’era uno che faceva la scimmia ed era una scimmia. Avrà avuto settantacinque anni e diventava veramente una scimmia, con tutto il suo corpo. E questo era commovente. E nello stesso tempo era una persona che, finito lo spettacolo, puliva per terra. Anche questa dimensione è per me importante. Bobò vive a casa mia, Nelson in compagnia, lo teniamo dieci giorni ognuno… siamo una specie di comune. Il buddismo ti dice innanzittuto che devi sviluppare la tua vita, crescere nella tua vita insieme agli altri. Non sono di spirito buono, non faccio del bene perché così, poi, qualcuno mi darà qualcosa. Io non sono buono, però la mia vita è cresciuta e guarita allargandosi ad altre persone, stando dietro a Bobò, iniziando a preoccuparmi di Bobò che ha vissuto per cinquant’anni in un manicomio, iniziando ad amarlo. All’inizio, come diceva Carlo, mi sembrava un po’ bruttino, invece adesso lo trovo bellissimo, mi sembra erotico, sensuale. Allora questo amare dei fiori diversi ti fa crescere.

Mi viene in mente una cosa: in questi giorni sono stato a Saint-Etienne, mi hanno invitato a un convegno sull’attore, e in mezzo a tanti "veri attori" ho incontrato dei giovani attori che lì facevano le pulizie, le cose pratiche. Non parlavano mai. I giovani non hanno più voglia di diventare attori in "quel" modo, non hanno voglia di rincoglionirsi, di diventare attori che magari sulla scena sono stupendi ma poi nella vita non riescono a essere niente. L’attore è comunque uno che sta sempre a contatto con una ferita. Secondo me, una persona così avverte la necessità di crescere anche spiritualmente. E questo succede stando vicino a persone come Bobò o Nelson, persone che hanno una grande qualità artistica e anche un po’ segreta; non hanno fatto scuole, la loro scuola è stato il manicomio, è stato il dolore, l’emarginazione, ma quella è una scuola, una grande scuola. Succede che ti insegnano a crescere non soltanto come attore, ma come persona. Il teatro a contatto con il cosidetto handicap potrebbe sviluppare proprio questo: qualcosa come un processo di umanizzazione che cambi il mestiere dell’attore, diventato veramente noioso e pesante. Allora, forse tanta gente come me, come le persone che sono qui e che stanno cercando di mettere nella loro vita altre persone, cambieranno i modi di essere e ci sarà qualcosa di nuovo, che, forse, sarà proprio questa umanizzazione, questa crescita.

Marcella Nonni

(Teatro delle Albe)

Sono uno dei fondatori del Teatro delle Albe insieme a Ermanna Montanari, Marco Martinelli e Luigi Dadina. Oggi, dopo diciotto anni, coordino organizzativamente Ravenna Teatro (Teatro Stabile di Innovazione dove opera e produce il Teatro delle Albe). Dentro Ravenna Teatro abitano e si intrecciano il dialetto di ferro di Ermanna, il vampirismo drammaturgico di Marco, l’Africa di Mandiaye N’Diaye, i racconti di Luigi, le visioni di Maurizio Lupinelli e le mie tessiture organizzative. Questi sentieri si incontrano e scontrano con l’energia fertile ed esplosiva dei ragazzi della "non scuola" (cfr. Cristina Ventrucci, La non-scuola delle Albe, in "Prove di Drammaturgia", A. 4, n° 2/98, pp. 25-27). Questa esperienza ha nove anni di vita ed ogni anno circa quattrocento giovani tra i quattordici e i vent’anni frequentano i nostri laboratori. Questa tribù popola per molta parte dell’anno la nostra casa: il Teatro Rasi. Il Teatro Rasi è abitato dai ragazzi della "non scuola" quando preparano gli spettacoli che poi mostreranno al pubblico alla fine del laboratorio, quando partecipano come spettatori alla stagione di Teatro Contemporaneo e quando assistono alle prove e ai debutti degli spettacoli del Teatro delle Albe. Dal popolo della "non scuola" alcuni sono divenuti i Palotini nello spettacolo I Polacchi, altri hanno formato nuovi gruppi teatrali, altri ancora incominciano a scrivere di teatro. Questo significa che il progetto portato avanti in questi anni dal Teatro delle Albe sulla "non scuola" è una alchimia di "segni" che abbraccia la vita intera di uno "Stabile Corsaro" dalla scena all’organizzazione, dall’allestimento tecnico alla visione degli spettacoli.

Un’ultima cosa, un mio ricordo personale: circa venti anni fa, prima di cominciare a fare teatro, facevo l’educatore con dei portatori di handicap considerati "gravissimi". Erano giovani in carrozzella, avevano pochissimi movimenti e non parlavano. Questo incontro, questa convivenza fatta di sguardi e pochi suoni ti costringeva ad utilizzare modalità di relazione non codificate. Una continua invenzione di "alfabeti" e impercettibili "segni" che mi hanno dato la forza e la sensibilità per potere costruire ciò che sto facendo ora. Se non ci fosse quell’esperienza di educatore, chissà… avrei forse scelto di fondare il Teatro delle Albe e di fare della organizzazione teatrale la mia vita?

Renato Bandoli

(Direttore del progetto "La abilità nascoste")

Molti di voi conoscono il nostro progetto, hanno seguito in maniera più o meno attenta il lavoro iniziato da novembre dello scorso anno. Il progetto aveva avuto un prologo un mese prima, alla fine di settembre, con un seminario tenuto da Maurizio Lupinelli, attore del Teatro delle Albe di Ravenna, che ora ha curato la regia di Hello Kattrin, lo spettacolo che vedrete stasera. Da questo piccolo primo esperimento è nata la scommessa che ha animato questo progetto.

Non a caso abbiamo voluto chiamarlo "Le abilità nascoste", proprio per andare contro lo stereotipo della disabilità intesa come assenza di destrezza, menomazione, disvalore. Portare in evidenza abilità sepolte, dare forma ad energie apparentemente annichilite è stato il viaggio che abbiamo intrapreso coi nostri ragazzi. Abbiamo voluto scommettere sul processo creativo artistico come leva per dare voce alla vita segreta presente in ogni essere.

Etichette, per la verità, un po’ modaiole e di scarso significato, come "teatro dei disabili", "teatro e carcere", ecc. fanno un po’ ridere poiché le si vorrebbe appiccicare a fenomeni teatrali che in realtà debordano dagli stretti confini delle categorie del sociologico, dell’assistenzialistico o altro, per connotarsi, invece, come qualcosa che attiene alla creazione artistica, senza ulteriori specificazioni o qualificazioni. Mi sembra che oggi, qui, siano presenti alcune di queste esperienze esemplari, lo abbiamo ascoltato negli interventi precedenti.

Per esempio, nel caso del nostro lavoro con portatori di handicap, credo sia necessario combattere contro un equivoco di fondo, un rischio sempre presente: l’uso terapeutico del teatro. Certo, il processo della creazione artistica, con questi attori, si accompagna anche ad un miglioramento delle loro condizioni (prestazioni?) psicofisiche. Ma la cosa più importante, il dato davvero decisivo, è che l’arte teatrale libera energie vitali in ogni essere, costringe tutti, per così dire, ad una emancipazione dello sguardo, verso l’esperienza di una vita possibile oltre la vita data. Il nostro scopo è l’esperienza artistica, trovare una poetica, una lingua della realtà di queste persone.

Il percorso che mi accomuna a Maurizio ci ha portato alla convinzione di come sia importante, soprattutto dal punto di vista poetico e teatrale, porsi contro quel moralismo ipocrita, contro una certa retorica, quella che ci fa venire la lacrimuccia, appunto, per il disabile, per il carcerato, per il nuovo povero, per il rom, ecc. Visto che oggi, con questo convegno abbiamo la fortuna di poterci avvicinare ad alcune realtà teatrali forti, mi sembra molto più significativo che rimangano queste pietre in forma di parole dette questa sera da Gerardo, da Giorgio, da Pippo, da Viganò, da Carlo e dagli altri intervenuti, piuttosto che proseguire io. È molto importante che siano loro a raccontarci esplorazioni, tragitti artistici e modalità di linguaggio teatrale più radicate e compiute della piccolissima esperienza che stiamo facendo qui a Lerici. Spero, mi auguro, che questo nostro lavoro abbia lo slancio per fare il salto verso una nuova dimensione. Cioè io non vorrei, ovviamente, che il tragitto percorso finora si fermasse qui, anche perché sono convinto che Maurizio sia riuscito a darci qualcosa di straordinario. Ecco, non a caso ricorre anche nel foglio di sala dello spettacolo di stasera questa parola, "straordinario", anzi, per essere precisi, extra-ordinario. Non è casuale perché se la disabilità è un’esposizione ordinaria, quotidiana di una mancanza, di una lacuna, di una scarsità, il teatro invece è una esposizione straordinaria di un pregio, di un valore. L’arte dell’attore è eccedenza, abbondanza, compiutezza, dispendio d’energia. Questo ce lo insegna Barba, ce lo insegna Grotowski , insomma ce lo insegna tutta quella bella compagine di "Cavalieri dell’Impossibile", come dice Cruciani.

Penso che attraverso il lavoro fatto da Maurizio, le abilità straordinarie che si nascondono in questi corpi siano state portate in evidenza, siano state portate in superficie attraverso un lavoro nel quale – questo ci tengo a sottolinearlo, perché a volte nei fogli di sala può sfuggire, poiché si leggono per cercare di capire cosa sarà lo spettacolo – noi non abbiamo voluto "rendere normali" dei ragazzi disabili. Abbiamo voluto e vogliamo la verità della loro presenza in scena; cioè, detto in altri termini, che questi ragazzi rimangano se stessi, cioè singole e uniche personalità emergenti di una umanità che soffre, perché non ci possiamo fare niente, è la natura. In altre riflessioni, in altre occasioni, con Maurizio, abbiamo parlato dell’handicap come lato oscuro dell’esistenza, dell’esserci, come un lato notturno della vita, che ci può insegnare a sognare esattamente in un’oscurità diversa da quella nella quale noi persone "normali" sogniamo. E così, la poesia di questi attori, la loro presenza scenica ci trasporta in un’altra dimensione. E in qualche maniera ci trasforma, dà una nuova forma, una forma diversa al nostro sguardo.

Quindi, quello che abbiamo cercato nel lavoro è la verità di un fatto molto semplice: questi disabili, lì sulla scena li vediamo in quanto attori. Innanzitutto perché non è stato possibile, anche volendo, strumentalizzare la loro diversità, la loro potenza, il loro fuoco. Sono talmente efficaci che è difficile strumentalizzare, cioè piegare ad altri scopi, la verità che si impone; ma da un’altra parte, invece, abbiamo voluto senz’altro costruire una gabbia drammaturgica, cioè un gioco fatto di rigore e precisione, un vero e proprio gioco scenico all’interno del quale loro appaiono per quello che sono, e allo stesso tempo diversi da come noi li vediamo in quanto disabili, come esseri in scena, come esseri in vita sulla scena. Questo mi sembra importante.

Anna Maria Bertola

(Psicologa)

Il mio intervento di oggi nasce come riflessione a seguito di una telefonata a Renato Bandoli e Maurizio Lupinelli per cercare una soluzione che sbloccasse la nostra Madre Coraggio, incagliata su problemi di memorizzazione. Ci chiedevamo come mai la sua memoria funzionasse a tratti e d’improvviso non la sostenesse più, quasi l’esercizio ripetitivo cadesse nel vuoto. Ma partiamo dall’inizio, da settembre 1999, quando abbiamo visto la rappresentazione conclusiva del seminario laboratoriale tenuto da Lupinelli e da Bandoli con i ragazzi disabili dell’Associazione Pleiadi.

Siamo stati colpiti dalle potenzialità espressive degli attori, che in pochi giorni hanno estratto da loro stessi, con una semplicità ed una naturalezza disarmanti, quelle parti emozionali da sempre represse e poco considerate. Tra riflessioni, paure ed entusiasmo abbiamo deciso di proseguire con un laboratorio da ottobre a giugno, fino alla produzione dello spettacolo.

Fare teatro è stato mettere a loro disposizione uno spazio, quello della scena, in cui ciascuno poteva sentirsi "soggetto" libero di sprigionare le proprie energie vitali, rompendo le cadenze-catene di una quotidianità sempre uguale, giorno dopo giorno, anno dopo anno, vissuta con noia e rassegnazione.

In questa seconda fase non ci si fermava più al gioco emozionale, ma entravano in campo altre componenti: la capacità di mantenere un impegno e di lavorare per il conseguimento di un obiettivo a medio termine, l’uso della memoria, dell’attenzione, della parola, del corpo, la voglia di esprimere se stessi, oltrepassando quei limiti fisici e mentali che confinano i nostri attori nel ruolo di disabili.

Nella psicologia esistenziale, ha particolare rilevanza il concetto di "possibilità" contrapposto a quello di "denominazione". Tutta la vita, in particolare nella sua fase iniziale, è insidiata dalla prigionia della denominazione, una sorta di marchio che ci identifica, costringendoci alle strettoie di un’etichetta preconcetta. I nostri genitori per primi, con espressioni svalutanti del tipo "non combinerai nulla di buono nella tua vita", contribuiscono ad attribuirci quello che può essere vissuto come un destino ineludibile, poiché la denominazione tende a congelare l’oggetto e sembra ignorare del tutto una dimensione fondamentale della vita, quella della possibilità.

La tensione immanente di ogni essere umano verso l’individuazione esprime una forza che ci spinge altrove, liberandoci dalla necessità di una vita protetta e consentendoci di entrare gradualmente nel mondo delle possibilità.

È allora che si compie quel passaggio, per certi versi inebriante, da un "mondo dato" ad un "mondo possibile". Gli attori si sono divertiti, cimentandosi con i continui cambiamenti che Lupinelli proponeva loro, perché si rivelavano a se stessi e agli altri in una dimensione nuova: quella delle loro possibilità.

Il percorso di lavoro, durante il quale ha preso forma la loro espressione artistica, è stato un percorso di crescita che, attraverso la disciplina ed il rigore della pratica teatrale, ha portato alla luce la potenza del gesto e della verità.

È stata una scoperta sentire l’urgenza che avevano di dar voce al loro vissuto emozionale ed esperienziale: occorreva trovare un modo per canalizzare il loro bisogno di esprimersi, e non era possibile far leva sulla memoria pura e semplice, perché la ripetizione delle parti assegnate spesso creava in loro frustrazione, sfiducia nelle loro capacità, paura di sbagliare e quindi caduta dell’attenzione.

Ad un certo punto abbiamo capito che il significato della parola diventava tutt’uno con il significato del gesto, e dall’esercizio della memoria siamo passati alla ricerca di un senso che evocasse per loro la capacità di trattenere parole non piu’ estranee, ma fatte proprie. Così sono nati gli attori: dall’attribuzione di senso ai loro personaggi, per arrivare a trovare quei gesti che dessero espressione al senso profondo di sé, in grado di sgominare i demoni della paura e del pregiudizio.

La storia di ciascun uomo non è né buona, né cattiva: è un insieme di lotte, di sconfitte e di vittorie, di gioie e di dolori. È la sintesi dei nostri vissuti: tutto quanto siamo stati, tenebra, luce, pianto, rabbia, tenerezza ci appartiene totalmente ed è inserito nella memoria del nostro corpo.

L’uomo può conoscere, apprendere, creare, sviluppare la propria mente solo attraverso il corpo. La Corporeità della Mente è formata dalle immagini sensoriali che ne determinano la soggettiva reattività, la capacità di scelta, l’associazione e l’elaborazione tramite la memoria. L’intelletto può giudicare le cose del mondo, solo perché queste sono già esposte ad un corpo che le vede, le sente, le tocca.

Ciò che caratterizza l’uomo è la possibilità di trasformare la conoscenza in coscienza, riuscendo a comprendere il mondo esterno attraverso la comprensione di sé: si realizza un sentimento del mondo partendo dal sentimento del proprio corpo.

Le memorie del corpo, che non tornano alla mente cosciente, sono continuamente attive e non informano solo gli atteggiamenti di nostalgia e regressione, ma tutti gli aspetti del vissuto. Proprio ciò che il corpo ricorda più profondamente, la mente non può ricordarlo, perché precedente e propedeutico alla strutturazione della stessa.

Il disabile, più è grave psichicamente, più vive in relazione a questo tipo di memorie corporee, che determinano le sue reazioni ed i suoi linguaggi, inspiegabili se non si tiene conto delle "impressioni". Per capirci prendiamo ad esempio una persona con attacchi di panico: nonostante non ci sia ragione di questa paura, "vive di impressioni", nel senso che qualcosa si è impresso fisicamente nel suo corpo.

Platone dice che "conoscere è ricordare", non nel senso che io confronto ciò che vedo con l’essenza che l’anima porta dentro di sé come ricordo della sua origine, ma perché esperienze precedenti trattenute dalla memoria mi fanno fare nuove esperienze: così il mondo nasce nella giusta forma per noi, perché realizzata nella nostra quotidiana esperienza.

"Riflettere non è rientrare in sé e scoprire l’interiorità dell’anima, ma accogliere con lo sguardo quelle fugaci impressioni con cui il mondo mi si offre e con cui io mi offro al mondo nel momento in cui gliele restituisco". È significativo l’esempio che Umberto Galimberti porta a proposito della stretta connessione corpo-mondo: non posso pretendere di imparare a nuotare fuori dall’acqua, perché i miei movimenti, anche se tecnicamente corretti, non danno al mio corpo la potenza operativa. "Nell’acqua il mio movimento è concreto perché il mare è il mondo su cui il mio corpo agisce" (Umberto Galimberti, Il Corpo). Isolato dal mondo, il corpo diventa oggetto perché gli manca un mondo dove potersi esprimere con senso. Ancora Galimberti: "Recuperare il corpo significa respingere il formalismo della coscienza per sostituirlo con la comunicazione sensoriale senza la quale non possiamo abitare il mondo, né pensarlo con l’a priori della ragione… Avere un mondo è qualcosa di più del semplice essere al mondo".

Per chi è malato, il mondo perde la sua fisionomia perché diminuisce, se addirittura non si interrompe, quel dialogo tra corpo e mondo grazie al quale le cose si caricavano di significati, che coincidevano con le intenzioni del corpo e il corpo raccoglieva quei sensi che erano diffusi tra le cose. Nella malattia, a far senso non è più il mondo, ma il corpo che da soggetto di intenzioni passa allo stato di oggetto di attenzione: lo spazio si riduce alla dimensione dell’organismo, il tempo alla durata della malattia. L’Io-penso si riduce ai limiti dell’Io-posso perché manca la possibilità di vivere il mondo.

Il gesto non è la reazione nervosa ad un' azione di stimolo, ma la risposta del corpo ad un mondo che lo impegna. La scienza, considerando il corpo nel suo isolamento, risolve la gestualità in una serie di risposte meccaniche offerte da un sistema nervoso sottoposto a stimolazioni esterne e quindi interpreta il comportamento patologico come una semplice sottrazione rispetto al comportamento normale, quindi come un deficit.

La definizione di "menomato" risente dell’impostazione metodologica della scienza che, conoscendo solo ordini quantitativi, non riesce a pensare che il comportamento patologico non è qualcosa di meno rispetto al comportamento sano, ma è un modo diverso di dare un senso al mondo.

Per nostra fortuna, l’arte libera l’uomo laddove la scienza medica lo incatena ai suoi limiti. "In ogni gesto c’è dunque la mia relazione con il mondo, il mio modo di vederlo, di sentirlo, la mia eredità, la mia educazione, il mio ambiente, la mia costituzione psicologica. Nella violenza del mio gesto o nella sua delicatezza, nella sua tonalità decisa o incerta c’è tutta la mia biografia, la qualità del mio rapporto con il mondo, il mio modo di offrirmi. Attraversando da parte a parte esistenza e carne, la gestualità crea quell’unità che noi chiamiamo corpo, perché non è il corpo che dispone di gesti, ma sono i gesti che fanno nascere un corpo dall’immobilità della carne" (Umberto Galimberti, Il Corpo).

Antonio Calbi

(Critico e organizzatore)

È molto difficile intervenire alla fine di un pomeriggio così sostanzioso, così ricco. Tra l’altro, ogni intervento che si è succeduto ha richiamato gli altri descrivendo prospettive di fuga impressionanti. Credo oggi si siano messi giù degli appunti, si siano definiti dei nodi di riflessione che prima o poi bisognerà agganciare a un lavoro teorico.

Vorrei esporvi un pensiero che ho già in parte esposto l’anno scorso nell’ambito del festival "Natura dei teatri". Io credo sia finita un’era, che il Novecento teatrale sia concluso non soltanto dal punto di vista cronologico, ma che il teatro abbia in qualche modo esaurito tutte le spinte dei padri fondatori, delle avanguardie. Peter Brook parlava di teatro della noia, di teatro "mortale"; Pippo Delbono ricordava la sua recente presenza alla convention del teatro d’Europa che si tiene ogni anno a Saint-Etienne, in Francia, mostrando con molta chiarezza che certe esperienze straordinarie del teatro italiano – extra-ordinarie le abbiamo definite – sono uniche nel panorama europeo, dove ci sono per altro effervescenze diverse, relative per esempio alla nuova drammaturgia o alla nuova regia. In Italia si sono invece realizzate delle anomalie, come quella della quale stiamo trattando oggi, assolutamente vitali e stimolanti.

Proprio lo scorso anno ci si chiedeva: quando la tradizione del grande attore si esaurirà con i suoi ultimi campioni, quando spariranno i "dinosauri" della scena, come ci meraviglieremo ancora, dove vivremo quelle epifanie che sono il vero nocciolo del teatro: la sorpresa di trovarsi davanti a un nuovo non previsto, inatteso? Ora, scomparso Gassman, la tradizione del grande attore si va per l’appunto dissolvendo; ma noi stiamo vivendo una nuova epifania del teatro davanti a questi attori speciali. Non credo che la diversità e la normalità siano categorie oggettive; penso piuttosto che la normalità e la diversità siano varianti di un’unica sostanza umana, intendo l’uomo come processualità, come essere vivente in divenire; per cui mi piace pensare che l’attore speciale, e cioè l’attore carcerato, l’attore barbone, l’attore sieropositivo, l’attore portatore di handicap fisici o l’attore down, abbia assunto il compito fino a ieri svolto dal grande attore italiano. Non credo che potremmo fissare questo tipo di esperienze, codificarle, spiegarle fino in fondo, perché si tratta di esperienze di transito, di esperienze liminari. D’altra parte, se non esistessero questi limbi, questi territori speciali, che solo in certi momenti si illuminano, non ci sarebbe forse un futuro reale per il teatro, ma solamente la replica, il teatro della copia, quel teatro che scimmiotta se stesso e la realtà. Invece, credo che oggi il teatro abbia una funzione fondamentale non in quanto mimesi, ma in quanto laboratorio del reale, in quanto territorio d’indagine – artistica, poetica, estetica, e non solo – della realtà, della vita e del mondo. Sarebbe interessante capire, magari ritornando a Nietzsche, che ci ha illuminato sulla nascita della tragedia, quando è accaduta la scissione tra arte e teatro, tra arte e vita. Non a caso noi occidentali parliamo di scissione tra corpo e anima; e questa visione ha certamente influito sul teatro. Mentre io ho la presunzione di pensare che nel teatro, nel teatro puro, nel teatro vero, nel teatro necessario, queste dicotomie spariscano. Anna Maria Bertola, nell’intervento che mi ha preceduto, ha detto – ed è una frase bellissima – che "il corpo è fatto dai gesti". Il corpo non è una forma data una volta per tutte, il corpo vive la sua vita. Quindi non può esistere un teatro d’arte formalizzato. Anche Giorgio Strehler si è battuto per un teatro d’arte, di un’arte per un pubblico il più ampio possibile, e questa è una nobile utopia, ma un teatro d’arte in quanto forma fissata. Noi invece sappiamo che le forme d’arte fluiscono, si trasformano, perché l’arte è sempre un processo, non è mai una tappa fissata. E, quindi, mi piace pensare che queste esperienze al limite, queste esperienze "paradossali" siano davvero pratiche d’arte nel senso più alto e puro del termine, perché sono vive, perché ci tengono desti, perché ci pongono dei problemi. Si tratta sicuramente di fasi transitorie, extra-ordinarie, sulle quali, però, gli studiosi dovrebbero riflettere più di quanto non abbiano fatto finora. Il nostro incontro serve forse anche a questo: a fornire alimenti e note per la riflessione. È giusto, come rifletteva Pippo Delbono, che sia il caso a determinare il procedere degli artisti; spetta ad altri il compito di tradurre i percorsi in termini di cultura teatrale, trasformando le esperienze artistiche, che sicuramente hanno un termine, in occasioni da cui ripartire.

È molto interessante quello che diceva Gerardo Guccini in apertura di questo incontro: tutto il Novecento si è battuto in tutti gli ambiti disciplinari per rivendicare all’arte il diritto di esercitare le proprie spinte innovative. Nella parte iniziale del secolo ci sono state le avanguardie; nel teatro italiano degli anni Sessanta e degli anni Settanta si sono sperimentati linguaggi, il teatro si è imposto come arte, non solo come copia, come mimesi. Ma cosa è accaduto negli anni Novanta? Ha prevalso quel teatro che va aldilà della forma artistica, che supera i confini fra pratiche diverse, fra gli ambiti creativi ed espressivi, e fra questi e il quotidiano. Non dimentichiamoci che l’attuale fase di lavoro di Pippo Delbono coagula un lungo lavoro; non dimentichiamo che sono più di dieci anni che esiste l’esperienza di Armando Punzo nel carcere di Volterra, che è da un decennio che questa forma di teatro esiste, interrogandoci e tenendoci desti. In qualche modo, dopo aver rivendicato al teatro lo statuto di atto artistico, che non copia ma trasfigura la realtà, che vi scava dentro, che la feconda, che la rivela, ci si trova ora a rivendicare l’immissione della realtà sul palcoscenico. E questo è tanto più fondamentale in quanto avviene nell’epoca della copia. Bèla Balazs diceva all’inizio del Novecento: "Bizzarro che le persone, le quali durante il giorno lavorano freneticamente e vivono la loro vita, abbiano bisogno, la sera, di andare a vedere delle altre persone che scimmiottano la vita. E questo per capire com’è fatta, per davvero, la vita". Bèla Balazs rifletteva così in un periodo in cui il cinema e la televisione non erano ancora esplosi. Oggi, che bisogno abbiamo noi di andare a teatro, visto che siamo nell’era della copia: il romanzo, la telenovela, il cinema, ci dicono di più di quanto può dirci il teatro. Allora il teatro rivendica il suo statuto di gesto artistico non banalizzato, irriducibile e virulento, bello e dolente, sempre vivo e reale. Lo spettatore, quindi, non va a teatro per vedere com’è la vita, ma per sprofondarvi dentro, per perdersi e ritrovarsi.

Per questa ragione credo che le esperienze di cui abbiamo parlato quest’oggi possano dirci davvero tantissimo e vadano tenute "sotto osservazione". È da questa situazione, infatti, che si dovrà partire per studiare il teatro del futuro. Ieri forse c’era il bisogno di confrontarsi con le culture extraeuropee, dalle quali sviscerare le potenzialità del gesto e dell’espressività corporea. Pensiamo a Pina Bausch, pensiamo a Eugenio Barba, pensiamo a Grotowski, a Kantor, e oggi a Nekrosius. Cosa non hanno fatto e fanno! Ora, però, bisogna andare aldilà. La nostra è l’epoca delle assenze: di maestri, di teorie, di scuole. C’è un territorio davvero aperto. Il teatro italiano è diventato un labirinto, che è architettura pericolosa ma pure potente, che è prigione che può intrappolare per sempre ma pure metafora della conquista della libertà. Non so se avete avuto questa sensazione: gli artisti che hanno parlato quest’oggi rappresentano davvero una grande famiglia, ma i loro percorsi sono totalmente diversi. C’è il rischio di perdersi, di disorientarsi. Però, forse, questo labirinto va attraversato pensando che persista davvero un mitico, un sacro, un laico, un utopico filo di Arianna che ci guidi alla scoperta del teatro necessario. Luogo di festa, di utopia, di arte, di trasfigurazione, di poesia vivente, delle emozioni, del "corpo ambiente", come bene ha annotato Umberto Galimberti e come gli attori dell’Oiseau Mouche, di Pippo Delbono, della Compagnia della Fortezza ci hanno fatto capire in questi anni, aprendo delle prospettive davvero importanti, e forse tali proprio perché non svelano dove possano portare. E tengo a ribadirlo: il valore fondamentale di queste esperienze risiede, secondo me, nel loro tenerci desti, in stato di allerta e ci coinvolgono, costringendo noi spettatori, osservatori o qualsiasi cosa siamo, ad entrare nel territorio del rischio. È allora che il teatro esiste, perché non va dimenticato che qualsiasi forma d’arte autentica, se non comporta rischi, non svolge infatti il proprio compito. E queste forme di teatro, nel bene e nel male, sono la vera scena del rischio del teatro d’oggi.

Giorgio Simbola

Credo anch’io che in questo modo di lavorare uno dei nodi cruciali sia il rapporto fra gli artisti e le persone che questi avvicinano. Ma, proprio per questo, il nostro incontro mi ha un po’ deluso. Certo, ci siamo interrogati a lungo su come noi ci relazioniamo a loro, a questi attori speciali. Per esempio, mi hanno molto colpito i dubbi di Antonio Viganò. Lui dice: "Io mi sono commosso vedendo lo sforzo che quell’attore faceva per cantare così bene, per venire a casa mia". Ma questo accade con tutte le persone che vivono in una realtà dove non c’è teatro; non parlo di handicappati, parlo di gente normale per la quale il teatro è qualcosa di inimmaginabile. L’ottanta per cento dei miei compaesani non è mai entrato in un teatro, e se dovessero entrarci, è chiaro che farebbero uno sforzo immenso per poterci fare qualcosa. Quindi, mi sono chiesto: "Perché ci siamo tanto interrogati sul tipo di relazione che noi scegliamo di stabilire con loro, sulla correttezza del nostro modo di porci, mentre non ci siamo interrogati quasi per nulla su ciò che avviene sull’altra sponda?". Secondo me, prima ancora di parlare di un "teatro degli esseri", sarebbe importante indagare le trasformazioni che il teatro produce a livello dell’essere. "Essere" significa avere coscienza di essere. Quando questa coscienza investirà il teatro, allora, forse, si potrà parlare di un "teatro degli esseri". Credo che questo ancora non lo possiamo fare e credo anche che ci sia una contraddizione nel nostro modo di fare teatro. Certo, siamo coscienti di tutta una serie di processi storici già avvenuti, processi superati, descritti, analizzati, studiati, ne siamo pienamente coscienti e abbiamo deciso che non ci vanno più bene. Però nel momento in cui avviciniamo persone che non hanno queste stesse possibilità, che non sono in grado di dire quanto il teatro ha determinato e cambiato, e che però sanno come il teatro ha cambiato loro stessi, credo sarebbe necessario compiere un passo fondamentale. Bisognerebbe, cioè, ritornare nella vita, con una consapevolezza nuova che non è più quella del Living o del teatro politico. Come dice Pippo Delbono, è la "ferita" che produce l’atto creativo. Allora, forse, è importante andarla a cercare. Non so quanto reali possono essere le ferite di uno che, in questo sistema sociale, vive la fortunata condizione di artista; o quante di più grosse o di più piccole ce ne possano essere altrove. Credo che la cosa da fare immediatamente sia cambiare gli atteggiamenti e le intenzioni, tornando al punto in cui il teatro non si sa neppure che cosa sia. E poi dovremmo ripartire da lì per vedere cosa il "fare teatro" determina nell’essere, e come la consapevolezza di essere incide sul teatro.

Gerardo Guccini

Oramai l’ora è tarda e non mi sembra certo il caso di trarre conclusioni generali, però non è neanche bello finire seccamente il nostro incontro. Il calore umano trasmesso dalle esperienze di cui abbiamo parlato, e dalla presenza di questo folto pubblico che ha preferito stare insieme a noi invece di andare al mare, merita un congedo significativo e affettuoso: carico di promesse. Credo che Giorgio Simbola con il suo intervento ci abbia regalato questo congedo, raddoppiando in un sol colpo i contenuti dell’incontro. È infatti evidente che i punti di vista e le trasformazioni degli "attori speciali" di cui tutti i relatori sono stati compagni di lavoro e di vita, costituiscono il centro delle esperienze esposte, la loro anima e il loro motore. Trovo però logico che questo centro non sia stato diffusamente esplicitato. Mi sembra, infatti, che in questo genere di cose, personalissime, delicate e facilmente indiscrete, parlare dell’altro senza aver dichiarato il proprio sentire indichi un istinto di dominio, che qua, fortunatamente e direi anche ovviamente, non si è verificato. Ben venga, dunque, l’intervento di Simbola che ha nominato un centro restato, per così dire, "protetto", e sul quale si tornerà senz’altro, magari con un altro incontro e prendendo tutte le precauzioni del caso.

Oltre a ciò vorrei semplicemente dire che, per adeguare il pensiero teatrale alla straordinaria ricchezza di proposte del nostro presente, conviene considerare le parole, le definizioni, i concetti, non come griglie, recinti o gabbie, ma come ritratti, o meglio tentativi di ritratti, che richiamano al livello del linguaggio quelle realtà che si sforzano di riprodurre. Riprendendo lo stimolante intervento della dottoressa Bertola, potremmo dire che le parole, i concetti, non sono "luoghi della definizione", ma "luoghi della possibilità" riflessi a livello del linguaggio. Non gabbie, dunque, ma ritratti. Non "luoghi della definizione", ma "luoghi della possibilità". E quindi aperti e tali da poter sollecitare e accogliere anche eccezionali, come quelle, di grande dignità, rigore e forza comunicativa, che ci hanno dato oggi i nostri amici artisti.


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Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna