Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Editoriale

Editoriale

Al contrario di quanto può sembrare scorrendo l’indice, questo numero di "Prove di Drammaturgia" non è affatto occasionale; piuttosto, la sua è un’organicità non scontata, da sottolineare. Se infatti si basa sulle risultanti di due convegni questi sono stati promossi, almeno in parte, già con l’intento di mettere alla prova la continuità dei loro argomenti, e indiscutibile risulterà l’autorevolezza delle voci coinvolte. Ma cominciamo col riconsiderare nella "tradizione" della nostra rivista il senso di tali incontri.

"Prove di Drammaturgia" è stato fin dall’inizio un luogo di riflessione e confronto di "nuovi" artisti di teatro e di teorizzazioni monotematiche a loro dedicate. A partire da queste aperture, abbiamo però cercato di volgere i suoi numeri a esiti storici dal presente, assumendo al centro fatti d’arte sintomatici e militanti. In tal modo sono nati i suoi dossier: ad esempio, sullo spazio scenico, sul "Patrimonio Sud", sul "Teatro Popolare di Ricerca", sullo spettatore e sul teatro di strada. Ecco, l’affiancarsi qui di "VIDEOGRAFIE - visione e spettacolo" e "Verso un teatro degli esseri" prosegue tale linea mirando, al contempo, a un’essenziale verifica: in che misura i presenti temi di riferimento - la riapertura alle tecnologie tentata dalle ultime scene d’arte e l’integrazione del teatro fra i "costretti" dall’handicap come dal carcere - possono realizzare unitari orientamenti, a sorpresa?

La nostra cultura del teatro è stata sempre animata da sostanziali divergenze, capaci col tempo d’integrarsi: non fu così già con le prime guerre del teatro "premeditato" contro quello "all’improvviso", ora è quasi mezzo millennio? I più vari contrasti indussero a perfezionare poi ogni tipo di scoperta teatrale, perché così gli artisti capirono che radicali dovevano farsi le loro verifiche per esistere. Non a caso, oggi giunge il portatore di handicap a fare teatro d’arte con gli Oiseau mouche come con Delbono; e questi, ad esempio, è stato indotto a vedere nella condizione "ferita" lo status della creazione scenica; un po’ come era stato guidato Bene nelle sue invenzioni recenti da sottrazioni di normalità interattiva ai suoi Shakespeare mosse dal bisogno di porre in disequilibrio tecnologie e poetica. Così questi dagli anni ’70 mira a produrre varchi di meraviglioso dalla condizione, anch’essa ferita, dei suoi incontri teatrali.

Tragico si direbbe dunque lo status di tali rispecchiamenti dal punto di vista degli artisti, quali persone in fuga dall’inerte banalità quotidiana e soggetti di lacerazioni vitali, bisognosi per una loro parte di contemporanea tecnologia e, per l’altra, di nuda immediatezza. Perché, allo stesso modo, tragico è il coraggio che induce il costretto, qualsiasi sia la reclusione del suo essere, a volere l’effimero superamento offertogli dal teatro, per poi percepire più dolorosa la sua condanna. Non a caso, Beckett poggiò la sua costruzione drammatica su tali dimensioni di presenza scenica. Ma non andrà allora distinta la tecnologia del tragico, in quanto capace di manifestare teatro-mente come un tempo avveniva con la "macchina scenica" del dio?

Più accertata è la corrispondenza teatrale del "costringimento", da Copeau segnalata suscitatrice di energie non solo circoscritte; e, si può aggiungere, artisticamente immune dall’uso alienato della spettacolarità tecnologica: fattasi dominatrice nel tempo che ci separa dalla teorizzazione benjaminiana sull’arte di "riproducibilità tecnica".

D’altro canto, il bisogno di rischiare proprio al teatro contemporaneo sembra aver trovato nella tecnologia e nel costringimento due essenziali fattori di sospensione delle sue consequenzialità irriflessive: le stesse famigliarizzazioni del lavoro teatrale con il video e con il laboratorio dimostrano in questi ambiti rigenerativi richiami di liminarità originaria - anche se Richard Schechner ben ricordava come Turner distinguesse la zona del "liminoide", distintiva delle società tecnologicamente complesse, per segnalare come direttamente portatore d’espressione solo il suo alter ego, l’originaria liminalità; e non solo Grotowski era d’accordo con lui. Come dimenticare, tuttavia, le macchine di scena mejercholdiane e le totalizzazioni teatrali di Piscator? Il fatto che la vita teatrale porta con sé da millenni percezioni primitive della vita non vuol dire che questa non si sia periodicamente nutrita dal suo opposto con meravigliose aperture o vitali negazioni.

La materia è tale che lo stesso Eduardo, maestro di maestri, sbagliò col definire la televisione un semplice elettrodomestico. Ma seppe ricredersi, e riambientarvi la sua arte a meraviglia, senza smettere di sostenere le scene dei ragazzi di strada e senza cedere all’intimismo, forse, la peggiore malattia teatrale del secondo Novecento.

Claudio Meldolesi
Gerardo Guccini


Ritorno alla pagina precedente

Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna