Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Prove di Drammaturgia 1/2001

ATTI DEL CONVEGNO
Bologna, 25 gennaio 2001

Massimo Marino (Critico e studioso di teatro)

Memoria o tradimento? Documentazione o creazione? Fra questi vari opposti si sono sviluppate le pratiche e le discussioni sul rapporto fra teatro e video. Fra due arti e tecniche che sembrano, di volta in volta, incommensurabili o capaci di inedite interazioni e solidarietà. Come dimostra la vicenda del nuovo teatro, aperto a tutte le contaminazioni, ardito nell’inventare un uso teatrale del video. Pronto a rovesciare il rovello della riproduzione più o meno fedele nel problema di nuove aperture di uno sguardo moltiplicato e in crisi.

Dal teatro in TV degli anni Cinquanta, dalla ripresa delle opere di Eduardo e di Dario Fo, si è aperto il problema del rapporto fra spettacolo dal vivo e videoriproduzione. La discussione se il video possa fornire una documentazione, una memoria, se abbia la capacità di fermare l’attimo del teatro, di registrarlo, o se comunque l’evento sfugga a qualsiasi pretesa di registrazione. Se sia memoria o se debba essere, necessariamente, tradimento e perciò stesso reinvenzione, altro spettacolo, altra possibilità.

La diffusione del videotape a partire dagli anni Settanta ha reso sempre più agili le tecniche di ripresa facendo credere riproducibile "in casa" lo spettacolo. Ma l’illusione documentaria del mezzo elettronico è stata continuamente smentita da inguardabili video di spettacoli ripresi con la camera fissa, che pretendono di ricostruire il punto di vista dello spettatore, di uno spettatore (ideale: ma qui torniamo alla prospettiva per il principe del teatro all’italiana!), producendo un tempo di noia lungo quanto uno spettacolo, che non si riesce a valutare proprio in quanto opera di teatro o di danza. E purtroppo sanno bene gli organizzatori teatrali e i direttori artistici di festival quanto tale uso sia ancora vivo.

In realtà, accanto all’illusione documentaria – che testimonia l’ansia di fermare e trasformare in opera certa l’effimero del teatro – più produttiva è stata una sperimentazione che ha teso a ricreare l’opera o a restituirne il senso di lavoro in divenire. Ricordiamo gli spettacoli televisivi o con la televisione di artisti come Ronconi, Stein, Strehler, Ruiz, Bussotti, Peter Sellars e altri, le ricerche svolte negli anni Settanta dai programmi sperimentali della Rai, gli esperimenti di Quartucci e Carmelo Bene, l’uso di frontiera fra arti e arti sceniche diverse (non solo il teatro, ma anche la danza, la performance, le arti visive, la musica, ecc.) dei "nuovi gruppi" di fine anni Settanta e inizi anni Ottanta (la cosiddetta postavanguardia), Magazzini allora Criminali, Falso Movimento, la Gaia Scienza.

Naturalmente tali esperienze andrebbero analizzate nei dettagli, per la loro molteplicità. Qui possiamo solo ricordare che si è trattato di esplorazioni che hanno via via ricreato (Ronconi, per esempio) un lavoro teatrale con altri mezzi, hanno trasportato un modo pop e teatrale di lavorare sui materiali nel mezzo cinematografico o televisivo (Carmelo Bene), hanno realizzato inediti intrecci fra corpo del performer, azione teatrale in tempo reale e sguardo del video (Martone, Barberio Corsetti con la Gaia Scienza, da solo e poi con Studio Azzurro).

Per Barberio Corsetti, in particolare, il video è diventato a lungo elemento costruttivo dello spettacolo: capace di mostrare l’azione dell’attore dietro le quinte, di enfatizzare o solo ingrandire e indagare particolari dell’azione, riprodurre e scomporre i corpi, far interagire immagini reali extrateatrali, paesaggi, elementi naturali con il tempo della finzione.

Parallelamente anche il video, come prodotto autonomo che parte da un’esperienza legata alle arti sceniche, ha compiuto notevoli passi in avanti, andando a precisarsi in generi (documentario, backstage, ripresa sempre più creativa, con molteplicità di punti di vista, non escluso lo sguardo "oltre la scena", fino a dietro le quinte o verso il pubblico, o dentro il processo stesso del lavoro dell’artista, ecc.).

Tale percorso è, per esempio, in Italia testimoniato dalle quindici edizioni del Premio Riccione TTV, ideato da Franco Quadri nel 1985 e attualmente diretto da Fabio Bruschi. Nel 1986 lo stesso Quadri sottolineava "la soggettività dell’artista teatrale e la sua capacità di realizzarsi attraverso l’elettronica […] sia formulando discorsi teatrali appositamente per il video, sia sperimentando su questo mezzo progetti scenici in via di elaborazione, simultaneamente alle prove o addirittura in anteprima". Liberati il teatro e il video dall’obbligo documentario, molte sono state le nuove strade percorse, facendo incrociare il plurilinguismo, la presenza, l’astrazione spaziale, l’emotività teatrale con l’impressione di realtà, l’accelerazione, l’invenzione coloristica e spazio-temporale, la deformazione, la ripresa a mano, il montaggio e ogni altro procedimento televisivo.

Quando si è affacciata una nuova generazione di teatranti – quella degli anni Novanta – cresciuta nella contaminazione postmoderna, refrattaria alle vecchie graduatorie di valori artistici, onnivora ed estranea agli "specifici linguistici" perché figlia di un’epoca polverizzata e meticcia, senza fedi, cosificata, dominata dall’economia, dallo scambio veloce, dalla virtualità e dall’incubo di qualche insinuante o violenta apocalisse – l’immagine e il video sono entrati ancor di più nella pratica scenica, con la musica, il rumore, il kitsch e la moda, con nuove ritualità, con l’ossessione del corpo, con macchine celibi e feticismo voyeuristico, con una concettualità che si incrocia con l’esibizione e la negazione sadomasochista del soma.

Questo nuovo teatro varca i confini, non riconosce naturalmente la gerarchia testo-messa in scena, ne rifiuta la funzione. La scena dei nuovi gruppi si proietta in originali invenzioni spaziali e di rapporto con gli spettatori, usando ogni possibilità tecnologica, comprese le immagini. Immagini video che spesso entrano nello spettacolo, costituendone un’autonoma pista, come avviene nei Vapori della sposa di Masque Teatro, prodotto per Riccione TTV nel 1998. Oppure si tratta di memorie, evocazioni, contrappunti all’azione, come negli spettacoli di Motus, come nel loro Orpheus Glance tutto giocato sull’ossessione dell’immagine multipla di una Euridice persa per sempre, un omaggio al cinema di Jean Cocteau e ad altre suggestioni visive.

Negli ultimi lavori di Teatrino Clandestino le immagini possono diventare involucro o schermo che nasconde e rivela le apparizioni reali, macroevidenze in primissimi piani di un’azione teatrale sullo sfondo in campo lunghissimo in Si prega di non discutere di Casa di bambola, trascorrere di scene di vita quotidiana che mostrano in trasparenza un sottoscala dove attori burattineschi ripercorrono le vicende dell’Otello di Shakespeare, oppure figure evocate, nel recentissimo Hedda Gabler (ancora Ibsen), su un trasparente sipario da un mondo infero, dove i personaggi strappati alla storia agiscono la loro dannazione più profonda attraverso monologhi o proiezioni di desideri, come nella corsa finale fra i campi, fino a una sovraesposizione accecante.

All’intrusione creativa del video nella grana stessa dello spettacolo corrisponde la scelta di inventare opere video originali a partire da materiali dello spettacolo che possono essere alcune scene o anche solo un costume ottocentesco da spiazzare con una corsa lungo il greto di un torrente, mentre alcuni versi di Pascoli appaiono in fantasmatica sovrapposizione (Psyche di Teatrino Clandestino). Tutte le tecniche cinematografiche ed elettroniche cooperano a moltiplicare lo sguardo e la percezione dello spettatore. Alcune di tali opere, o anche altre che non hanno alcun rapporto con materiali di uno spettacolo preesistente, nascono per una percezione attiva, da realizzarsi attraverso la fruizione in installazioni o performance.

Dalle opere di una videomaker come Anna De Manincor, che è anche attrice e danzatrice, risulta evidente come il video si trasformi in occhio mobile, emozionale, diffranto. Le sue "riprese" di spettacoli sono ricreazioni di stati d’animo di uno spettatore che abbandona qualsiasi pretesa di oggettività e ogni punto di vista privilegiato, che si perde nell’incanto della scena, raggruma esplosioni fisiche, dettagli, si distrae, collega immagini a concetti. I suoi video originali sono spettacoli creati col video, con un impatto emotivo tutto teatrale.

Di queste e altre derive forniscono testimonianza le selezioni del Concorso Italia di Riccione TTV dal 1995 a oggi, nonché rassegne e progetti ai confini, come quelli realizzati in diverse occasioni dal Link e da altri centri multimedia. Ma anche il risalto dato al ruolo del video nel nuovo teatro nei volumi e negli articoli che descrivono il fenomeno. Si veda il recente libro dedicato ai gruppi romagnoli dalla Ubulibri, Certi prototipi di teatro, a cura di Cristina Ventrucci e Renata Molinari. E si veda la sezione Linguaggi del volume dedicato alla Nuova Scena Italiana da Paolo Ruffini e Stefania Chinzari, edito da Castelvecchi. Accanto alle voci "corpo", "scena", "sguardi", "mito e nuova ritualità", "suoni (e rumori, respiri, ronzii)", "pensieri e parole" un capitoletto è intitolato al "VHS". E chiudiamo proprio con una citazione da tale testo: "I territori esplorati riflettono ancora l’inquietudine della scena postmoderna ma lo fanno con altre immagini e, soprattutto, tralasciando volontariamente qualsiasi intenzione narrativa e di comunicazione: non più architetture e pitture bidimensionali né la ricerca di una natura artificiale che evochi l’Eden perduto ma una visione sofferta del mondo. I paesaggi, questa volta del tutto virtuali, raccontano di una tecnologizzazione dilagante: cabine di controllo alla Matrix, operatori da centrale nucleare alla Silkwood, figure androidi che richiamano sia Blade runner sia, per rimanere in Italia, il fumetto degli anni Settanta Cosmine, e, anche quando l’atmosfera e le prospettive a metà fra Piranesi e la letteratura gotica passando da Metropolis potrebbero riportarci con lo sguardo indietro, gli scenari sono rivisitati in chiave futuribile" (Paolo Ruffini e Stefania Chinzari, Nuova Scena Italiana, Roma, Castelvecchi, 2000, p. 206).

Domanda

Volevo chiedere a Massimo Marino di intervenire sulla situazione del teatro, che mi sembra sia diversa rispetto alla civiltà della riproduzione. Il cinema è già di per sé riproduzione, la musica è un mondo in cui la fruizione attraverso un mezzo riprodotto è abituale. Il teatro, invece, è di per sé una civiltà della percezione diretta, è una civiltà fondata sul rapporto diretto. Però l’apparizione del mezzo video, la possibilità visiva, ha scatenato in artisti di teatro una creatività diversificata e che non perciò si è allontanata dal teatro. A me questa sembra una specie di contraddizione piuttosto forte. Il teatro ha manifestato nell’innovazione la sua vocazione a essere civiltà della fruizione diretta, ma al contempo ha festeggiato il mezzo video con entusiasmo creativo. Volevo chiedere un contributo su questo atteggiamento di convivenza e di duplicità che si è manifestato nel teatro.

Risposta

Il problema sta proprio nei termini in cui lo hai enunciato tu. Nonostante la marcata differenza di ambiti fra video e teatro, il nuovo teatro ha assimilato alle sue modalità produttive la riproduzione video. Forse perché permette di espandere la percezione e gli ambiti di esperienza in modo insieme economico e creativo. È quello che vediamo nei lavori dei gruppi dell’ultima generazione della ricerca, che vivono una tensione continua tra la necessità del teatro di essere presenza, contatto con chi sta davanti, aldilà del buio, lo spettatore da coinvolgere, magari solo idealmente, e un bisogno di distanza che marchi la compiutezza dell’opera e l’identità del suo autore. Assistiamo al paradosso di una presenza tanto più forte e nuova, quanto più si segna una distanza che definisca l’autonomia dell’opera e dell’operazione artistica. È come se si volessero insieme abbattere ed erigere pareti, coprire il corpo e l’azione di schermi che aiutino meglio a rivelare le trame più nascoste delle relazioni evocate. L’ultimissimo teatro, attraverso la sovrapposizione al corpo dell’attore di macchine e di protesi, e alla scena di immagini, video o non video, ha raccontato con smarrimento ed emozione, in modo non narrativo, una distanza, l’apocalisse umana e sociale che ci sta entrando lentamente dentro. Si possono leggere in quei lavori, contemporaneamente, la necessità di allacciare fili per mettersi radicalmente in gioco e quella di costruire barriere per preservarsi. Il dichiarato disinteresse per il pubblico e per la sua percezione, drammatizza in realtà questo sperdimento e quella necessità.

Antonio Costa (Docente di Storia del Cinema)

Per inquadrare rapidamente le principali questioni poste al cinema dal video, permettetemi di riferirmi (e non solo per la terminologia) alla semiologia di Christian Metz. Nella sua trattazione sui codici del contenuto e codici dell’espressione, Metz ha proposto una distinzione tra veicolo e programma (in Linguaggio e cinema, Milano, Bompiani, 1977, pp. 250-252). Se applichiamo questa distinzione a un sonetto del Foscolo, diremo che il sonetto (la forma metrica del sonetto) è il veicolo, mentre il programma è il contenuto del sonetto, ad esempio "la sera", l’idea di Foscolo della morte.

Per gran parte dell’ultimo secolo (diciamo dagli anni Trenta in poi), nel campo della testualità audiovisiva, il rapporto veicolo-programma è stato pressappoco il seguente: per veicolo si intendeva un testo audiovisivo narrativo di un’ora e mezza circa, e per programma la tipologia dei generi cinematografici che si sono affermati nella Hollywood classica (melodramma, western, noir e così via) o di quelli più o meno corrispondenti affermatisi in Europa.

Tale assetto del rapporto veicolo-programma ha funzionato all’interno di quella istituzione sociale totale – come la chiama ancora Metz – che è l’istituzione cinematografica. Questa istituzione è andata in crisi. Noi continuiamo a parlare di film, appiattendo sotto uno stesso termine il rapporto veicolo-programma. "Ho visto un film" vuol dire "ho visto un testo audiovisivo narrativo di circa un’ora e mezza". Noi vediamo molti film, ma possiamo dire che non esiste più l’istituzione cinematografica come istituzione sociale totale. Il film sopravvive come testo audiovisivo di un’ora e mezza circolando nelle reti televisive, ma non esiste più il cinema come istituzione sociale totale (sostituito dalla televisione): il film in sala sopravvive (presto dovremo dire: un po’ come l’opera lirica, o quasi).

Nel momento in cui questa istituzione è andata in crisi – i segni sono chiari a metà degli anni Settanta – emerge la pratica del video: il prolungamento, con una metamorfosi di medium, di pratiche che erano integrate nell’assetto globale dell’istituzione cinematografica. In altri termini, grazie all’economicità del video, si realizza integralmente l’idea "nouvelle vague" della caméra stylo (versante della produzione) e si moltiplicano, al di fuori della tradizionale sala cinematografica, le occasioni di visione (versante della fruizione).

La diffusione dei video va di pari passo con la specializzazione della testualità audiovisiva. I due estremi sono: da una parte il cinema d’autore, i film che vedono i cinefili nei film-studio delle varie città italiane ed europee; dall’altra il cinema pornografico, le sale a luci rosse, home video, ecc. Sono pur sempre visioni specializzate, ed è venuta meno quell’omogeneità del prodotto che faceva sì che, se parlavo di film, tutti sapevano di cosa stavo parlando.

Siamo ormai nell’epoca del video digitale, veicolato sui canali satellitari. La stessa concezione di canale televisivo si sta modificando, e di conseguenza anche quella di palinsesto. Inoltre, con il web abbiamo un altro medium dove circolano i testi audiovisivi (con nuove e inedite interazioni tra testualità audiovisiva e testualità scritta) che esasperano la specializzazione della fruizione. Nella stessa direzione va il DVD, nuova frontiera dell’home video, che sta rendendo pateticamente obsolete (come è già accaduto, in musica, per il vinile) le nostre collezioni di cassette in VHS.

Ora, limitandoci strettamente al rapporto tra video e cinema, possiamo osservare due usi fondamentali del video rispetto al cinema. Il video diventa una sorta di sostitutivo della testualità classica (di un’ora e mezza), e entra a far parte di una galassia di testualità di tutti i tipi, dove forse l’elemento dominante è quello della brevità. Il video coincide spesso con un cortometraggio. Non sempre, però. Già nei primi anni Settanta abbiamo dei video di molte ore: da ricordare, ad esempio, Anna (1972-73) di Alberto Grifi, presentato alla Mostra di Venezia nel 1975. Si trattava di un video di undici ore circa (nella versione originale in 1/4 di pollice con telecamera Akai), ridotto poi a 225' nella versione "vidigrafata" in 16 mm. Ma la tendenza è la brevità. Quindi il video come opera audiovisiva autonoma, che può dar luogo a due tipi di fruizione: la prima è quella da festival, da galleria d’arte, che lo istituzionalizza come "opera d’arte" chiusa o aperta, da fruire in quanto tale; la seconda, il video come testo audiovisivo che entra dentro il palinsesto televisivo.

C’è un altro uso del video come strumento di riproduzione, assemblaggio, risemantizzazione di testi audiovisivi. Esso comprende anche la possibilità di realizzare documentari sul cinema, sulla storia del cinema, sulla realizzazione di un film (backstage).

Quindi abbiamo un video consumato come testo autonomo e un video come metatestualità audiovisiva su altri testi audiovisivi. Per il primo esempio, ho scelto Achilles di Barry Purves, un cortometraggio di animazione (pupazzi animati) prodotto nel 1995 da Channel Four e trasmesso in Italia dal canale satellitare della Rai (Raisat-Cinema). Si tratta di una sorta di abrégé, in chiave esplicitamente omosessuale, dell’Iliade di Omero. È un testo audiovisivo di difficile definizione: un tentativo di rielaborazione plastica delle suggestioni della pittura vascolare e del teatro, secondo un modello di esasperato estetismo (si pensa per certi versi a Cocteau, per altri al cinema di Gregory Markopoulos). D’altra parte, Achilles offre spunti di grande interesse non solo a chi si occupa di cinema (d’animazione, di avanguardia) ma anche a chi si interessa al teatro di figura (i "puppets" sono di Mackinnon Saunders).

La seconda modalità d’uso è il video come strumento per parlare, rappresentare, riflettere di e su opere audiovisive. Il video è uno strumento di grande efficacia per il discorso critico-interpretativo grazie alla omogeneità strutturale con l’oggetto del discorso (il film e comunque il linguaggio audiovisivo). Attraverso il video, i rapporti fra il pubblico e la testualità audiovisiva mutano radicalmente. La possibilità di riprodurre in video il film rende l’opera "reversibile" (la possiamo vedere e rivedere, percorrere esattamente come un libro, senza dover più subire l’irreversibilità della proiezione cinematografica tradizionale). Inoltre la riproducibilità video rende l’opera filmica manipolabile (come dimostrano le varie programmazioni notturne di Enrico Ghezzi in Fuori orario). Questo porta ad un corollario molto importante: che l’istituzione televisiva, il passaggio al video dell’immagine cinematografica, comporta anche un forte ridimensionamento della funzione della critica cinematografica: la facilità di accesso alle opere audiovisive rende il critico un po’ meno padrone esclusivo del sapere attorno al film (che è diventato più facilmente acquisibile da ognuno). Di qui una certa emarginazione della figura del critico, che sulle pagine dei quotidiani ha sempre meno spazio, mentre sono invece aumentati gli spazi riservati alla promozione dei film.

Vorrei proporre due esempi di uso del video come strumento di manipolazione di testi filmici (manipolazione intesa come interpretazione). Due esempi di video metatestuali sul cinema. Il primo è Steps (1987) di Zbigniew Rybczynski. Si tratta di una sorta di visita archeologica alla scalinata di Odessa da parte di una comitiva di turisti americani. La tecnologia elettronica digitale, di cui il grande Zbig (come viene chiamato negli USA, dove è da tempo emigrato, questo genio polacco dal nome impronunciabile) è diventato maestro indiscusso, permette di fare entrare questi ridicolissimi personaggi nel film La corazzata Potëmkin di Ejzenštejn e "abitarlo", commentarlo, interagendo con i personaggi. Il risultato è una sorta di testo new-dada, dagli effetti letteralmente spaesanti, di irresistibile umorismo: omaggio e al tempo stesso rivisitazione dissacrante di un capolavoro universalmente riconosciuto della storia del cinema, ma anche operazione metatestuale di grande efficacia, dal valore esemplare.

Secondo esempio invece è l’impiego del video come strumento di storia o critica cinematografica: Histoire(s) du Cinema di Jean-Luc Godard, che è insieme storia del cinema, autobiografia critica e generazionale, saggio per immagini e "poème" (un "cinéaste mallarméen": così Jean-Louis Leutrat ha definito Godard). Vi farò vedere un segmento della terza sezione di questa monumentale opera "audiovisiva", quella che si intitola La monnaie de l’absolu, ed è dedicata al cinema italiano. Il segmento che vi mostro coincide più o meno con la durata di una canzone di Riccardo Cocciante, La lingua italiana: in questo frammento viene posta una domanda e data una risposta. La domanda è: "Comment le cinéma italien/a-t-il pu devenir si grand/puisque tous/de Rossellini à Visconti/d’Antonioni à Fellini/n’enregistraient pas le son/avec les images?". La risposta è: "La langue d’Ovide et Virgilie/de Dante et de Leopardi/était passèe/dans les images". Naturalmente il senso di segmento deve essere colto all’interno di un intreccio testuale estremamente complesso: a me è sufficiente mostrarvi un saggio di questo gioco di contaminazioni di testo audiovisivo, voce recitante (la voce di Godard stesso), citazioni pittoriche, cinematografiche, poetiche e filosofiche. Si prova un senso di vertigine e di spaesamento totale nel vedere frammenti di nostro cinema (da Roma città aperta a Francesco giullare di Dio di Rossellini a Uccellacci e uccellini di Pasolini e a Ladri di biciclette e Umberto D di De Sica) mescolati a quadri di Manet, citazioni di Lucrezio, Ovidio e Leopardi: il tutto con un commento musicale costituito dalla canzone di Riccardo Cocciante, che Laurence Schifano definisce "dalle parole assai stupide" (Bianco e Nero, n. 3-4, 1999, p. 189) . Si tratta di un esempio senza uguali, forse, delle possibilità del video in direzione di una saggistica in forma audiovisiva sull’audiovisivo.

Carlo Marinellin (Presidente Istituto Ricerca Teatro Musicale)

Tenendo presente che do per scontate tutte le premesse, vorrei parlare solo della riproduzione. La riproduzione, sia visiva sia sonora, costituisce un fatto che, a partire dalla metà dell’Ottocento, è risultato sempre più fondamentale per il cambiamento di ottica dell’intera società. La riproduzione di qualcosa che avviene altrove, attraverso il video e la TV, ha un’importanza assai superiore a quella che può sembrare a prima vista, e va considerata come un processo completamente diverso da quello della creazione. Quelli proiettati fino ad ora sono tutti processi creativi, non riproduttivi. Il processo riproduttivo presuppone la realizzazione di un’analogia strutturale tra la lingua della musica e la lingua della visione. È un problema ancora irrisolto, però l’obiettivo dovrebbe essere questo. Ogni volta che si prende qualcosa creato per qualche altro mezzo e lo si trasferisce sul mezzo visivo, si mette in scena un processo riproduttivo. Dobbiamo tenere presente che la musica è una performing art. Non è un’arte che ciascuno, senza il possesso di un codice specifico, può percepire direttamente. La si deve percepire sempre attraverso un possessore di codice. Senza il tramite di un possessore di codice non è comunque possibile percepirla collettivamente, perché la percezione del possessore di codice è sempre individuale.

Qualsiasi esecuzione di un brano di musica è, dunque, una prima traduzione. Noi riceviamo l’interpretazione, non il brano di musica, che per noi non ha un originale perché non è leggibile se non dai possessori di codice. Ma quando passiamo all’opera lirica, passiamo ad un momento scenico, cioè passiamo in teatro. Allora abbiamo un secondo processo di traduzione, quello dalla interpretazione alla rappresentazione. Quando vogliamo passare tutto questo su un mezzo visivo o alla TV, facciamo un’ulteriore processo di traduzione: interpretazione, rappresentazione, visione. Sono tre traduzioni.

Questo rende la visione di uno spettacolo lirico o di un concerto, in televisione o su un home video, un problema difficilmente risolvibile, perché colui che fa vedere deve tenere conto di qual è stata la realizzazione del regista, di qual è stata la realizzazione del direttore d’orchestra e degli altri interpreti, per poi arrivare a quello che voleva dire l’autore. È possibile? Teniamo presente che la distanza dal testo di riferimento originario si allontana sempre più, e che quindi la capacità di riproduzione è sempre più lontana da quella che può essere una lettura diretta. Per la musica, qual è la situazione ideale della TV o dell’home video? La produzione in studio. Nessuna riproduzione potrà rendere interamente il significato della rappresentazione o dell’esecuzione.

Una produzione televisiva deve porsi un problema fondamentale: il risultato sullo schermo deve integrarsi all’ambiente in cui viene ricevuto. Un ambiente non individuabile a priori, ma che è certamente un "piccolo ambiente". L’integrazione fa in modo che non esista il problema della distanza tra il ricevente e l’offerta (trasmissione o proiezione), perché il fine della TV è quello di integrare ciò che si vede "in quel rettangolo" con l’ambiente in cui sta il ricevente. Di conseguenza, i princìpi per una produzione televisiva non possono che essere profondamente diversi da quelli validi per una produzione cinematografica (o per una produzione teatrale).

Qui si innesta il mercato. Il mercato dell’home-video, per ragioni puramente mercantili, si è disinteressato completamente di questo problema, producendo prima le videocassette, poi i laser-disc e i DVD. Tali problematiche nascono nel momento in cui i film e le riprese dal vivo di teatro vengono immesse nel mercato e trattate allo stesso modo dei prodotti originariamente televisivi. Anzi, il mercato del DVD è del tutto composto da prodotti non originariamente televisivi, fatto che deforma completamente la loro funzione. Vedere un film alla TV significa fare un’operazione che rinnega quella completezza che è attribuibile solo alla fruizione su uno schermo. La sala può essere piccola o grande, ma un film va visto su uno schermo, perché questa è la sua funzione originale.

Per questo incontro ho scelto due ipotesi diverse: la prima è un prodotto originariamente televisivo, che vediamo trasposto su uno schermo attraverso il videoproiettore, il che impedisce di percepire il prodotto televisivo direttamente a contatto con il nostro ambiente, creando un distacco determinato dallo schermo.

Quali possono essere gli obiettivi? Se faccio una ripresa dal vivo – teatro lirico o di prosa – mi trovo di fronte ad un problema: la musica, per essere letta direttamente sulla partitura, richiede il possesso di un codice speciale. In altre parole, la possibilità di leggere direttamente la musica è inibita a coloro che la ricevono. Questo significa che è necessaria la presenza di un’interprete: il teatro in musica ha bisogno di essere interpretato, e rappresentato.

Subisce perciò due trasposizioni: la prima da parte degli interpreti, cioè dai lettori del codice; la seconda nel passaggio dall’interpretazione alla rappresentazione, che tiene conto degli elementi teatrali. In alcuni casi i due momenti possono coincidere, ma avviene sempre una doppia trasposizione. Il regista televisivo interviene a questo punto, e opera una terza trasposizione, perché traspone la rappresentazione dell’interpretazione in oggetto televisivo. In sintesi: l’interprete ha trasposto una volta, il regista traspone una seconda volta, il regista televisivo traspone una terza volta.

Ora, cosa traspone il regista televisivo? Secondo me dovrebbe trasporre la rappresentazione, tenendo presente che essa già contiene l’interpretazione, e che l’interpretazione già tiene conto del testo di riferimento. Un problema di non semplice soluzione, perché richiede una sensibilità multipla da parte del regista televisivo. Raramente si può osservare questa sensibilità nel mercato dei registi televisivi, i quali mancano soprattutto di una preparazione musicale che consenta loro di comprendere i tre passaggi, per poi rendere il tutto.

Giovanni Soresi (Direttore Comunicazione Piccolo Teatro di Milano)

Ho lavorato per molti anni con Giorgio Strehler al Piccolo Teatro; mi sono occupato di attività culturali e in particolare di comunicazione. Ci siamo sempre posti il problema di come documentare uno spettacolo. Uno dei problemi del teatro è quello della sua riproducibilità: uno spettacolo, a differenza di un libro o di un quadro, muore la sera stessa in cui si rappresenta, o quando finisce il suo ciclo di repliche.

Siamo partiti con una cosa abbastanza semplice: il video consentiva di conservare una memoria dello spettacolo e di mostrarlo a tanta gente. Quindi aveva due funzioni: una di documentazione e una di divulgazione. La TV in Italia nasce nel gennaio del 1954 e il primo spettacolo teatrale del "Piccolo" è Arlecchino servitore di due padroni del 1955. Fino agli anni Settanta gli spettacoli teatrali venivano ripresi in pellicola. Bisognava aumentare molto la luce e il risultato finale assomigliava più a uno sceneggiato televisivo che a uno spettacolo teatrale, anche perché lo scopo delle trasmissioni di allora era divulgativo. Se si vedono oggi alcuni video degli anni Cinquanta, Sessanta o Settanta, probabilmente ci si annoia. Se invece si conosce qualcosa allora si riscopre un mondo, così come quando si osserva un quadro dopo averlo sempre visto su un libro o un’enciclopedia. Succede che si ritrova qualcosa dello spettacolo, diverso da ciò che era originariamente e da come gli spettatori di allora lo videro; però tutto questo aiuta a capire come uno spettacolo si è trasformato, o semplicemente cosa significava in quel momento fare uno spettacolo.

Faccio un esempio: la prima ripresa televisiva dell’Arlecchino del 1955 è un documento storico molto interessante rispetto all’Arlecchino che è stato ripreso altre volte in TV, l’ultimo tre anni fa in alta definizione. È completamente diverso, ha una velocità che ricorda il film muto; fare Arlecchino, allora, voleva dire riappropriarsi di un modo di far teatro, di una comicità e Strehler usò un’esaltazione del movimento per dare nuova vita a un autore come Carlo Goldoni, allora ingiustamente trascurato dalla cultura.

Negli anni Settanta si fa un passo avanti rispetto alla ripresa dello spettacolo a camera quasi fissa. Un primo esperimento fu realizzare uno special sullo spettacolo. Il documento più importante è lo special sulle prove del Gioco dei potenti (1967) realizzato da Gilberto Tofano, ritrovato recentemente negli archivi della Rai; il regista (Strehler) fa vedere alcuni momenti delle prove, insieme ad alcuni frammenti dello spettacolo realizzato. Un altro esempio è L’opera da tre soldi (1974); in questo special curato da Carlo Battistoni si utilizzano le prove, il backstage per spiegare e dare attualità allo spettacolo. Abbiamo una sorta di passaggio: la TV usata per mostrare quello che voleva dire l’autore e la TV usata per mostrare quello che voleva dire il regista, che in molti spettacoli è un coautore del testo.

In quegli anni inizia la collaborazione sistematica tra un teatro e la Rai, per registrare una serie di spettacoli del Piccolo Teatro. Questa collaborazione va avanti per tutti gli anni Ottanta. Nel 1991 la Rai/FonitCetra presenta il risultato di questo lavoro: due cofanetti con la registrazione di otto spettacoli; oltre a essere una novità editoriale è stata anche una tra le prime iniziative di telemarketing.

L’esperienza ci ha portato a utilizzare la TV e il video in una funzione soprattutto informativa e divulgativa. Gli elementi strutturali del teatro – il testo, la recitazione, l’abilità degli attori, le intenzioni del regista, la scenografia e la musica – si fondono nel sistema unitario dello spettacolo teatrale. Il video-reportage consente di mostrare il processo creativo e ridare la molteplicità dei significati presente nello spettacolo.

Alcuni esempi sono nella rassegna "RaiSat Video Show" in programma al Piccolo Teatro a fine novembre 2000. Video-reportage e video-art provenienti dalle televisioni di molti paesi mostrano che la creatività è in continua evoluzione, che non esiste – e forse è sbagliato immaginarlo – un unico codice per trasferire il teatro in televisione. Questo stesso tentativo è l’obiettivo di un progetto del Piccolo Teatro molto ambizioso. Si chiama "Eurolab" e mira a mettere a disposizione di tutti su internet il nostro patrimonio culturale. Internet ci consente, ancora più dello special TV, di avere una pluralità di percorsi, di avere uno spettatore/utente che sceglie quale percorso seguire.

Il progetto pilota che abbiamo realizzato riguarda l’inizio della Tempesta, dove, in una sequenza di cinque minuti, in un’unica videata internet, si può vedere lo spezzone video della ripresa TV, come è stato modificato il testo dal regista, seguire la musica, i rumori, conoscere come la musica è stata scritta dall’autore (Fiorenzo Carpi), seguirla nel contesto dell’azione e isolare frame, parti dei singoli personaggi.

Questo, secondo noi, è un nuovo percorso possibile, per consentire di far conoscere gli spettacoli a chi non li ha visti.

Pier Luigi Capucci (Docente di Comunicazioni di Massa)

Riguardo al digitale in relazione al cinema, al video, al teatro, anche all’interno di una istituzione come l’università talvolta si tende a considerarne gli effetti in maniera negativa. Non è tuttavia possibile negare come il connubio tra forme digitali – computer animation in particolare – e cinema o video sia sempre più rilevante. Non esiste, per esempio, alcuna produzione hollywoodiana che non subisca interventi digitali, anche solo in fase di post-produzione o in funzione del sonoro. Di fatto, il cinema inizia ad essere colonizzato. La diffusione del digitale è in atto da tempo e, oltre a costituire le fondamenta dei nuovi media, ha già colonizzato varie forme espressive e mezzi di comunicazione tradizionali: la musica (CD-ROM, MP3); il video (sistemi di montaggio, registrazione, effetti speciali, archiviazione…); la televisione (riprese, montaggio, trasmissione); la telefonia (fissa e mobile); la stampa (il digital publishing)...

Da qualche anno anche il cinema è oggetto di colonizzazione da parte del digitale, sia pure con lentezza data l’elevata quantità e qualità di informazioni audiovisive in gioco, che è ancora al limite delle capacità gestionali degli attuali elaboratori. Uno dei limiti maggiori risiede nella grande quantità di dati su cui il computer deve operare per intervenire sulle immagini cinematografiche, la cui qualità è molto elevata. Per dare un’idea dei valori in gioco si può fare un esempio: la realizzazione di un fotogramma di un film come Toy Story ha richiesto circa sette ore di rendering (il processo di calcolo del computer che genera l’immagine definitiva). Considerando che un film ha ventiquattro fotogrammi al secondo moltiplicato per la sua durata, si può avere un’idea del tempo richiesto dalla fase conclusiva di un film di questo tipo, e, si badi, il cinema d’animazione, genere a cui appartiene Toy Story, presenta problematiche di gran lunga più semplici rispetto ad altre tipologie cinematografiche. Esiste tuttavia un trend nella produzione industriale dei processori che raddoppia la potenza di calcolo dei computer in media ogni diciotto mesi – o, che è lo stesso, che la decuplica ogni cinque anni – producendo macchine sempre più adatte all’intervento su immagini di qualità cinematografica, e probabilmente nel giro di qualche anno queste tecnologie saranno disponibili per utilizzi meno esclusivi. Oggi siamo in una fase di transizione, in cui i vantaggi – in primo luogo espressivi ed economici – di questi media iniziano a farsi interessanti, come testimonia la crescita del numero di film che utilizzano, in maniera più o meno evidente, queste tecnologie.

Negli ultimi anni l’industria cinematografica ha iniziato a fare ampio uso del computer sia nella realizzazione delle immagini sia per il sonoro, non solo per gli effetti speciali. In genere siamo abituati a collegare l’idea del digitale alla presenza – si legga invadenza – degli effetti speciali. In realtà, gli effetti speciali non sono solo quelli evidenti, di cui ci accorgiamo: spesso sono quelli di cui non ci accorgiamo, che sono così "speciali", fatti così bene, che sembrano del tutto "naturali", come se il computer non fosse intervenuto. Le più importanti case produttrici di video e film digitali sanno che il migliore effetto speciale, quello più difficile da realizzare e più costoso, è in realtà invisibile, è quello che rende trasparenti le tecnologie.

Ci sono molti altri campi di utilizzo del digitale in campo cinematografico e video, per esempio nella realizzazione di scenografie, processo che consente l’abbassamento delle spese di allestimento per la produzione e permette notevoli possibilità di sperimentazione per il regista. Una scenografia tradizionale deve essere costruita investendo tempo e cifre spesso rilevanti, ma può accadere che quando è conclusa ci siano elementi da sostituire o che venga ritenuta insoddisfacente, il che significa rifarla in parte o in toto. È molto più semplice, veloce ed economico modificare una scenografia digitale, e in più si ha la possibilità di sperimentare in tempi brevi varie soluzioni, dunque producendo, anche solo in base al mero calcolo delle probabilità, soluzioni più efficaci.

Riguardo al video e in particolare alle relazioni che lo legano al digitale, da diversi anni questo connubio ha sviluppato svariate realizzazioni, sia dal punto di vista documentario che dal punto di vista creativo. Va sottolineato che queste applicazioni tendono a diventare sempre più economiche, e ciò significa che i costi delle attrezzature e dei programmi per intervenire digitalmente sui materiali audiovisivi sono in continua diminuzione. A questo si aggiunge il fatto che i programmi utilizzati sono sempre più potenti e facili da usare, il che rende queste applicazioni ormai alla portata degli utenti comuni (il cosiddetto desktop video).

Parlando del video potremmo distinguere due punti di vista. Uno riguarda il supporto, cioè il contenitore (di tipo magnetico, ottico, magnetico-ottico, ecc.) su cui viene registrata, presentata e veicolata l’informazione visuale e acustica (analogica o digitale) secondo vari standard (Videodisc, VHS, S-VHS, Betamax, DVD-ROM, DV, ecc.). Un altro punto di vista, su cui mi soffermerò, è quello di considerare il video nella prospettiva di sistema di produzione e di rappresentazione audiovisiva. L’apporto del digitale all’interno di questo ambito ha delle conseguenze interessanti. Quando si producono video con strumenti come le videocamere – sia analogiche che digitali – si attiva un processo di tipo ottico di registrazione della luce. Nel video succede più o meno come nella fotografia e nel cinema, in cui l’immagine è espressa dalla luce (Roland Barthes, nel suo La camera chiara, definisce la fotografia come "Imago opera lucis expressa"). Si potrebbe quindi, analogamente alla fotografia e al cinema, definire l’immagine video ottenuta da videocamera come un’immagine referenziale, cioè un’immagine che per formarsi ha bisogno della compresenza del reale: l’immagine video non esiste se non c’è qualcosa di reale che riflette e/o produce luce. Senza quel reale, di cui le immagini fotografiche, cinematografiche e videografiche sono emanazione, traccia, prova, non c’è alcuna immagine o narrazione.

Qual è dunque l’apporto del digitale e delle tecnologie informatiche? In primo luogo quello di spezzare questo limite della referenzialità: la possibilità di creare immagini o rappresentazioni che per essere prodotte non richiedono la compresenza del reale, che sono nella mente del creatore e vengono realizzate nell’elaboratore, svincolando di fatto il linguaggio del video dalla dimensione di referenzialità. Mediante l’uso di programmi dedicati è possibile realizzare mondi completamente inventati, senza più la necessità di compresenza del reale. È il connubio tra una forma analogico-referenziale (il cinema, il video, la fotografia) e una forma digitale e non referenziale.

È un processo per certi versi simile al percorso della pittura nella seconda metà del secolo scorso, quando con l’avvento e il consolidamento della fotografia come mezzo di produzione di immagini, la rappresentazione pittorica venne messa in crisi. Per esempio, tra le applicazioni tradizionali scomparve – come nota Benjamin in L’opera d’arte nella sua riproducibilità tecnica – il ritratto miniato. Ne derivò l’astrattismo: per conservare il diritto alla rappresentazione nella produzione delle immagini la pittura intraprese una strada diversa dalla rappresentazione del reale, campo in cui era svantaggiata rispetto alle possibilità della fotografia, iniziando a produrre immagini che, come quelle astratte, sono svincolate dalla presenza del reale nel processo di realizzazione, cosa che invece è un limite invalicabile della fotografia. Dunque, si può dire che in qualche modo l’intervento del digitale "pittorializzi" le immagini videografiche, modificando le rappresentazioni ottenute da videocamera o addirittura sostituendole del tutto, generandole direttamente mediante computer animation e trasferendole sul supporto video senza bisogno di alcuna videocamera.

Il digitale, inoltre, non riguarda solo la dimensione visuale ma anche quella acustica, sonora. E anche qui si può fare la distinzione tra informazioni acustiche referenziali e non referenziali (le prime ottenute registrando eventi acustici dal mondo reale, le seconde producendo questi eventi mediante elaboratore).

Il digitale dunque consente al video di ampliare il proprio linguaggio includendo immagini e suoni che non provengono dal reale, che sono completamente inventati. Questo arricchimento riguarda sia le capacità di rappresentazione che di narrazione e creazione, contribuendo ad affrancare questo medium dalla sua vocazione documentaria. Può inoltre facilitare l’acquisizione dei materiali utilizzati all’interno degli audiovisivi e soprattutto può estendere, rendendole praticamente illimitate, le possibilità di manipolazione e montaggio delle immagini e dei suoni nelle strutture narrative, nel contempo rendendo queste tecniche più semplici da usare e più economiche rispetto a quelle del passato.

Ci sono infine i settori molto importanti dell’archiviazione dei materiali e del restauro. Di recente introduzione, i supporti basati su DVD (Digital Versatile Disk), di tipo ottico, promettono di mantenere inalterata la qualità dei materiali nel tempo in modo più sostanziale rispetto a tipi di supporto come quelli tradizionali magnetici, consentendo di archiviare audiovisivi in spazi contenuti ed evitandone il degrado. Nel campo del restauro, poiché il video tradizionale utilizza un supporto di tipo magnetico deteriorabile nel tempo, è possibile intervenire per ricostruire le informazioni danneggiate o perdute (per esempio quelle cromatiche).

Alessandro Solbiati (Compositore)

A partire dal 1994, ho realizzato diversi lavori musicali utilizzando il mezzo elettroacustico, mezzo verso il quale precedentemente nutrivo una sorta di diffidenza. Ho lavorato in parecchi studi, in Italia e all’estero, avendo a fianco tecnici differenti, ma con i quali si è quasi sempre stabilito uno splendido rapporto di collaborazione: nei casi migliori le barriere tra tecnica e invenzione si annullano e idee e modalità di realizzazione procedono di pari passo.

Ho così via via verificato le straordinarie possibilità musicali dei nuovi mezzi forniti dall’informatica. Credo peraltro che nel momento storico attuale il percorso della musica "colta" dell’ultimo cinquantennio non debba e non possa avere timore di entrare in contatto con mezzi diversi. Anzi, qualora continuasse a nutrire diffidenze, rischierebbe di sparire completamente dalla coscienza collettiva.

Ritengo sia fondamentale, oggi, entrare in contatto senza alcun timore con le straordinarie realtà comunicative messe a disposizione dalla "modernità". La prima di queste è la radio, mezzo nettamente sottoimpiegato; la seconda è il mezzo elettronico, non visto come alternativa allo strumento acustico (pianoforte, violino…), ma come strumento differente capace di integrarsi con essi; la terza è la contaminazione dei linguaggi, quella disponibilità che consente al compositore di "sporcarsi le mani" – alcuni miei colleghi la considerano ancora tale – e di entrare in contatto col cinema, col teatro, con l’immagine in ogni sua forma.

Il lavoro che presento oggi, il video intitolato Inno, è fino ad ora la mia unica esperienza in questo campo, che peraltro mi interessa sempre di più.

Inizio a parlarne con un’osservazione un po’ particolare: normalmente, nel rapporto musica/immagine, è la prima ad essere applicata alla seconda. La musica viene prodotta per un film, o nasce insieme. In questo mio lavoro, invece, il rapporto è opposto. Si tratta di una produzione radiofonica (quindi solo audio) del 1996 cui è stato sovrapposto nel 2000 un video.

La sua storia, come produzione radiofonica, inizia con una proposta della radio francese che, insieme alla radio spagnola e alla radio tedesca, commissionò nel 1995 ad alcuni compositori europei un lavoro della durata di circa dodici minuti. Un po’ impressionato dalla vastità della platea proposta, mi sentii in dovere di partire da un testo "importante". Così, scelsi uno dei più intensi brani della Bibbia: l’Inno all’Amore dalla I Lettera ai Corinzi di San Paolo. La motivazione di questa scelta era racchiusa proprio nella parola "amore", l’unica al di sopra di ogni barriera, linguistica, culturale e religiosa.

Il testo è il seguente: "Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’amore, sarei come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e possedessi la pienezza della fede, così da trasportare le montagne, ma non avessi l’amore, non sarei nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi l’amore, a niente mi gioverebbe. L’amore è paziente, è benigno l’amore, non è invidioso, […] tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’amore non avrà mai fine".

Un testo straordinario, se considerate che è l’unico caso della tradizione cristiana in cui l’amore viene posto al di sopra di tutto, anche della fede.

L’assidua lettura di tale brano aveva suscitato in me una sorta di percorso narrativo che scaturiva curiosamente da un dato visivo, dalla fantastica raffigurazione di Brueghel della Torre di Babele. Immaginavo infatti, all’inizio, un’immensa folla che in mille lingue ed in mille modi sussurrasse, declamasse, gridasse questo testo, anelando alla sua parola chiave, amore. Da qui doveva iniziare un percorso di chiarificazione e di sublimazione: dal disordinato protendersi verso tale testo ad una sua dizione comprensibile, via via verso un percorso di trasformazione in musica.

Ed ecco che dopo la prima fase, composta dal sommarsi di molte voci e molte lingue (albanese, russa, italiana, francese, tedesca e altre), si passa alla seconda, in cui si approda ad una dizione comprensibile del testo nella lingua-koinè dei nostri giorni, ovvero l’inglese. D’altronde, il latino era per San Paolo ciò che per noi oggi è l’inglese. Nella voce parlata inglese, che incomincia ad essere avvolta di suono, si insinua poco a poco, e ad essa poi si sostituisce, una voce bianca che canta un lungo melisma con pochissimi riferimenti al testo. Ad essa subentra infine un violoncello, puro suono ed estrema sublimazione. Tre anni dopo, il Festival Pontino mi suggerì di progettare un lavoro che partisse da una riflessione sulla relazione tra musica e immagine. Mi venne subito in mente Inno ed il suo paradossale trattarsi di una produzione audio che scaturisce però da un’intuizione visiva. Ho così deciso di trasformarmi coraggiosamente in ideatore, regista, autore dello story-board e così via e, con l’aiuto di un manipolo di giovani esperti in iconografia, in videografica, etc. capeggiati dallo splendido amico David Rossato, è nato questo video.

A dimostrare quanto il mio atteggiamento "compositivo" sia stato del tutto simile a quello mediante il quale scrivo musica, accennerò brevemente alla parabola narrativo-formale della produzione video.

Punto di partenza era ovviamente la Torre di Babele di Brueghel, sede simbolica della folla (invisibile) che mormora il testo. Questa immagine pittorica è stata trattata come filo conduttore, come leitmotiv dell’intero video. La Torre è stata resa tridimensionale, vera immensa costruzione esplorabile all’esterno ed all’interno. Ed infatti, nella prima fase, in cui le voci dicono confusamente il testo, si "entra" a più riprese nella Torre, immaginando come suoi interni gli straordinari, fantastici ambienti di alcune carceri del Piranesi, anch’esse realizzate in 3D. Il contrasto desiderato è quello che si viene a creare tra il suono di mille voci e l’esplorazione di uno spazio ostentatamente vuoto.

E tuttavia, a poco a poco, si incominciano ad incontrare differenti volti umani, tratti anch’essi dalla pittura rinascimentale, che vengono via via a comporre una sorta di "sinfonia dell’umano", sotto l’egida di un volto trattato da archetipo, uno straordinario viso di Antonello da Messina quasi sovrapponibile alla Torre, e che guarda verso l’alto con una lacrima sulla guancia, nella quale è stata poi ricostruita la Torre.

Durante la lettura "monodica" e in lingua inglese del testo, nella sua prima parte, quella che io definivo la "pars destruens" ("Se io parlassi… ma non avessi amore… sarei…"), si è indagato uno straordinario quadro di Dürer, un Cristo giovinetto tra i Dottori, con un contrasto ostentato tra la purezza del fanciullo (l’amore) e la saccenza invadente e brutta dei Dottori. Essi possiedono un’erudizione senza amore, e ciò ha generato l’idea di addensare progressivamente questi volti aggressivi e mostruosi intorno al viso di Cristo.

Per la seconda parte del testo, da me definita "pars construens" ("l’amore è…"), ho scelto due volti simbolicamente legati, quelli di Cristo e Giuda dell’Ultima cena di Leonardo. Prendendo spunto da quello stupefacente scritto del pittore, nel quale egli narra come, per uno strano caso, si trovò ad utilizzare lo stesso modello per entrambi i volti, ho creato in questo video una "scandalosa" parentela tra Cristo e Giuda: i loro volti vengono sovrapposti e letti l’uno nell’altro, fino a ritrovare, mediante un gioco di "riprese" del tutto musicale, nel volto di Giuda i labirinti delle carceri, e in quello di Cristo un luminoso esterno della Torre.

Tralascio per brevità la totale descrizione del video, che passa anche attraverso una sorta di girotondo di volti fotografici e "trasparenti" di bimbi attorno a stilizzatissimi crocifissi. Dico soltanto che tutto converge, alla fine, in una "sinfonia delle mani", per sottolineare la fattività dell’Amore proposto da quel testo. E poiché le mani utilizzate, sommate, giustapposte e contrapposte, provengono dagli stessi volti con cui si apriva il video, si viene ulteriormente a creare, nelle mie intenzioni, un gioco della memoria visiva, in cui le immagini che ritornano si comportano come temi musicali che si sviluppano e si variano, per dare unità e direzionalità all’intero lavoro.


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Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna