Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Culture teatrali 4 - presentazione

Culture Teatrali

Presentazione

La Francia ha giocato un ruolo di assoluto protagonismo nelle vicende che hanno segnato l’esuberante vita del Novecento teatrale, è persino pleonastico ricordarlo. Basterebbe procedere ad una semplice elencazione di personalità: André Antoine, Aurélien Lugné-Poe, Jacques Copeau… già questi primi nomi sono sufficienti ad evocare quel percorso di dimensione europea che, fra gli ultimi due decenni del XIX secolo e i primi tre decenni del XX secolo, ha fatto della regia un progetto di riforma totalizzante della "civiltà teatrale". Una centralità, quella francese, determinata innanzitutto dal fatto che la sua capitale, Parigi, aveva raggiunto nel corso dell’Ottocento una posizione di vero e proprio predominio culturale e industriale nel campo dell’intrattenimento teatrale. L’ansia di rinnovamento estetico, e ancor più di riscatto morale, che ha pervaso tutti i più disparati progetti dei cosidetti "Padri Fondatori" non poteva dunque non attecchire rigogliosamente proprio laddove risiedeva stabilmente il nemico: il teatro commerciale, il Théâtre de l’Argent, come ancora negli anni Cinquanta lo definiva Roland Barthes.

Di fronte a questa possente istituzione, tuttavia, se per gli uomini di teatro è risultato agevole definire se stessi e il proprio lavoro in termini oppositivi, difficile è stato non subirne i condizionamenti, talvolta le lusinghe. Molta storiografia teatrale (in primo luogo proprio quella transalpina) ha a questo proposito insistito sul "moderatismo" degli uomini di teatro francesi, per esempio in confronto ai colleghi russi o tedeschi, e in particolare sulla questione del rispetto della "sovranità" di testo ed autore drammatici. Insieme a un’evidente parte di verità, in questa lettura vi è tuttavia l’ottica semplificata di uno sguardo che non si sforza di vedere i teatri del Novecento nella loro reale dimensione plurima, cioè non più definiti dal solo momento spettacolare, rappresentativo. Il caso di Jacques Copeau è assai esemplare: ridotto all’estetica del tréteau nu e della souveraineté de l’auteur, il suo lavoro ha finito con l’essere scambiato, in diverse letture storiche, per un percorso di retroguardia, quando al contrario sappiamo - grazie soprattutto ai fondamentali studi di Fabrizio Cruciani - che la "sommersa" attività pedagogica iniziata al Vieux-Colombier ha rappresentato un autentico paradigma della ricerca di una nuova dimensione teatrale nel Novecento.

Il dato incontestabile della presenza di una tradition textocentrique particolarmente ingombrante va assunto quindi con maggiore circospezione. Nella Francia degli autori-congegnatori d’intrecci, produttori in serie di meccanismi, ma anche della sempre presente eredità del classicismo, degli alessandrini e delle règles, la rivolta contro l’egemonia della letteratura drammatica è stata oggettivamente più complessa che altrove. Spesso chi è partito lancia in resta contro Sire le Mot (per usare la formula famosa di Gaston Baty) ha finito con lo smentire, nella pratica, i propri stessi proclami, e non pochi sono stati coloro i quali (letterati, per lo più) hanno preteso di demolire lo strapotere della parola a teatro "a colpi di letteratura", con i risultati deludenti che si possono immaginare. L’eccezione dell’irriducibile Antonin Artaud, la cui rivoluzione visionaria è stata vissuta e sofferta in condizioni di quasi completo isolamento, è da questo punto di vista estremamente significativa. Dal progetto riformatore-moralizzatore di Copeau, partito dalle pagine della più che mai letteraria "Nouvelle Revue Française" con l’intento di riconciliare Teatro e Cultura (cultura letteraria, in primis) è scaturita invece la rincorsa ad una tradizione teatrale perduta che non ha tardato ad individuare nell’attore, nelle sue tecniche e nella sua educazione, il proprio centro vitale.

Il teatro francese del secolo che si è appena concluso può essere allora un terreno particolarmente fertile per una rilettura storiografica che continui ad andare in cerca degli scarti rispetto ai dati acquisiti, delle contraddizioni che mettono in crisi le certezze apparentemente più consolidate. Senza alcuna pretesa di esaustività, la scelta di figure e percorsi che qui presentiamo ha proprio l’intento di fornire materiali utili a tale scopo. Il caso di Paul Claudel assume una posizione affatto speciale in questo contesto. La figura del grande poeta cattolico è stata infatti a lungo offuscata da un certo pregiudizio ideologico, mentre la sua opera drammatica monumentale è in Italia ancor oggi largamente misconosciuta. Di Claudel proponiamo alcuni testi saggistici - non ancora tradotti o comunque poco noti - che mostrano invece quanto egli sia stato non solo il drammaturgo francese più originale e moderno della prima metà del secolo, ma un intellettuale dotato di straordinaria sensibilità teatrale. Diplomatico di professione, Claudel ebbe l’opportunità di conoscere da vicino e con largo anticipo rispetto ai suoi connazionali molte delle realtà teatrali (o para-teatrali) europee ed extraeuropee che hanno influenzato gli sviluppi più rivoluzionari del teatro del Novecento, in particolare attraverso la riscoperta della dimensione corporea del lavoro dell’attore. A contatto con l’esperienza pedagogica di Émile Jaques-Dalcroze, imperniata sul rapporto ritmo musicale-movimento corporeo, oppure con la grande tradizione giapponese (Bugaku, Bunraku, Kabuki e Nô), scopriamo un Claudel abilissimo nel descrivere con formule talora folgoranti ("Le drame, c’est quelque chose qui arrive, le Nô c’est quelqu’un qui arrive") l’ "esotico" materiale teatrale che gli si presenta di fronte. Ma più ancora è importante notare come la lettura claudeliana si costruisca regolarmente contro le convenzioni mimetico-rappresentative della scena del suo tempo, alla costante ricerca di elementi che avvalorino il suo personalissimo disegno di teatro di poesia. Un disegno che proprio a partire da un profondo (ma consapevole) textocentrisme, da una visione che colloca cioè al centro del fatto teatrale una parola evocatrice, possente, ingombrante, magica, musicale, portò Claudel a immaginare un teatro radicalmente nuovo, non solo in termini letterario-drammatici, ma anche fisici, spaziali, corporei, perché al servizio di tale parola così ricca gli è sempre stato chiaro che occorreva mettere un attore non stereotipato, in grado di "jouer non seulement avec la langue et les yeux, mais avec tout le corps, se servir des ressources infinies d’expression que fournit le corps humain".

Personaggio leggendario ma pressoché sconosciuto è poi Sylvain Itkine, uomo di teatro attivo tra la fine degli Venti e il 1944, anno in cui cadde vittima della violenza nazista. La monografia che pubblichiamo è basata su documenti di primissima mano, e ne ricostruisce la singolare carriera di attore, regista e teorico teatrale. Legato all’ambiente surrealista, amico di Jean-Louis Barrault e di Étienne Decroux, Itkine si situa all’incrocio di molte esperienze vitali del teatro francese dell’entre-deux-guerres: dall’eredità di Copeau che incontrò con l’esperienza nella Compagnie des Quinze diretta dall’ex copiaus Michel Saint-Denis, all’attività militante del teatro agit-prop che esercitò con il Groupe Mars, formazione parallela al più noto Groupe Octobre di Jacques Prévert.

Risale invece agli anni Cinquanta la vicenda storica di "Théâtre Populaire", una rivista militante protagonista di un periodo in cui il teatro fu in prima istanza luogo di scontro ideologico-culturale. Nata accanto al Théâtre National Populaire di Jean Vilar e in linea con il suo disegno di allargamento ed educazione del pubblico, "Théâtre Populaire" se ne staccò velocemente in seguito alla "scoperta" del Berliner Ensemble di Bertolt Brecht. Il brechtisme divenne, per Roland Barthes, Bernard Dort e gli altri redattori, un efficace strumento di lettura dell’intera realtà culturale francese ma anche e soprattutto un’arma, brandita con consapevole dogmatismo, con la quale scuotere l’istituzione teatrale parigina e immaginarne una vera e propria rivoluzione. L’intervista a Bernard Dort sul tema del controverso rapporto intercorso fra Roland Barthes e il teatro, rievoca in qualche modo il clima utopico e passionale di quegli anni, oltre a costituire un piccolo omaggio ad un autorevole critico e storico europeo scomparso da alcuni anni - Dort appunto - che tanto ha amato e frequentato il teatro italiano.

Ancora nell’immediato secondo dopoguerra si situa il significativo caso del primo testo teatrale di un altro gigante del Novecento: Samuel Beckett. Eleutheria, pièce rimasta inedita sino al 1995, fu infatti scritta in francese nel 1947, prima della stesura di En Attendant Godot e prima del pieno e consapevole ingresso dall’autore irlandese nella vita materiale del teatro francese e mondiale. Dall’analisi di questo testo, che Beckett volle caparbiamente tenere lontano dalle stampe e dalla scena, emerge il faticoso lavoro d’elaborazione di una forma drammaturgica che darà i primi frutti maturi con Godot e con Fin de partie, e sul cui portato di novità è forse superfluo dilungarsi. Vediamo cioè Beckett in una fase creativa di enorme interesse storico: quella in cui egli si "allena" corrodendo gli schemi bien faits della drammaturgia d’intreccio e boulevardière, tentando una prima sintesi di varie influenze e tradizioni, da quella pirandelliana a quella degli autori irlandesi del primo novecento, dallo slapstick anglosassone, al music-hall, allo humour noir surrealista.

Riferito all’ultimo decennio è invece il contributo di Patrice Pavis, che traccia un bilancio provvisorio di fine secolo sulla base di un corpus di testi drammatici della più recente produzione francese. L’interesse di un simile esame risiede intanto nel fatto che la gran parte dei lavori a cui si riferisce è sconosciuta al pubblico italiano; in secondo luogo la natura stessa dell’oggetto d’analisi ci riporta al tema introdotto all’inizio: quel textocentrisme di cui la cultura teatrale francese sembra essere ancor oggi largamente permeata. La riflessione di Pavis induce quindi a riconsiderare il tema della scrittura, della parola scritta che cerca di farsi teatro, sotto una luce nuova: quella di un teatro che, non essendo più costretto a rivendicare la propria autonomia nei confronti di un tirannico autore (semmai di un regista con queste caratteristiche…), può porre fra i propri obiettivi quello di reintegrare al suo interno con maggiore "serenità" sempre più stimoli e competenze che vengono da chi lavora manipolando il linguaggio, le voci, quel Sire le Mot contro cui tuonava Baty, per fare poesia. La rassegna dedicata al teatro francese è infine chiusa in modo suggestivo da un intervento "d’autore", il breve ma densissimo testo che Enzo Moscato dedica ad Antonin Artaud. Anche fra i contributi che esulano dal contesto francese si riscontrano inoltre importanti spunti di riflessione che a questo rimandano: in un secondo testo di Moscato su Raffaele Viviani e ancor più nell’articolo che Vito Di Bernardi ha consacrato ai Diari di Nizinskij. Oltre ai precisi riferimenti ai già citati Artaud e Jaques-Dalcroze che il lettore potrà trovare in quest’ultimo testo, vale la pena di ricordare che quei Ballets russes all’interno dei quali spiccò la figura del danzatore e coreografo Nizinskij, hanno rappresentato, fin dall’esordio parigino del 1909, un punto di riferimento imprescindibile per il teatro francese del Novecento.

M.C.


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