Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Organizzazione ed Economia dello spettacolo (M-Z)

LENZ RIFRAZIONI (Parma)

www.lenzrifrazioni.it

 

Gruppo di studio: Lisadora Scaglione, Marinella Roncone

La nascita

La fondazione di Lenz Rifrazioni risale al 1985.

Fondazione non significa associazione da un punto di vista legale, è semplicemente la data di nascita, il battesimo di Lenz. Nel novembre dello stesso anno la prima attività aperta al pubblico: non si tratta di un avvenimento teatrale, ma di una mostra espositiva. Questa scelta non è irrilevante, poiché manifesta una vocazione: quella cioè di non sentirsi compagnia teatrale, ma piuttosto formazione artistica. La mostra era organizzata in una casa privata (si trattava, quindi, di uno spazio autogestito) con stanze comunicanti, sita in via Repubblica, in una zona molto centrale di Parma, che fungeva anche da abitazione; per questo il concetto di privacy era totalmente assente.

Maria Federica Maestri parla di formazione e non di gruppo e ci tiene a sottolinearlo, perché per formazione intende un coinvolgimento di tipo "psichico e istintivo" e non un’intimità fisica, quale comporta per lei è l’idea di gruppo. Apparentemente sembrerebbero sottigliezze, dettagli, ma in realtà rivelano l’identità di Lenz: la percezione di appartenere a un campo linguistico più ampio rispetto a quello specificamente teatrale, non limitato cioè alla produzione di spettacoli, ma aperto alla produzione artistica.

L’idea di produrre artisticamente (gennaio-febbraio 1985) è di poco antecedente alla mostra espositiva e segna l’inizio di Lenz. Tre sono le persone che s’incrociano in questo progetto: Maria Federica Maestri, Francesco Pititto e Bruno Stori. Tutti provenienti da esperienze differenti. Maria Federica Maestri, neolaureata Dams, con una conoscenza, quindi, più teorica che pratica e con alle spalle un’esperienza di spettatrice di circa dieci anni ("avevo quattordici anni quando sentii l’aria del teatro come qualcosa da respirare"), era assistente alla regia al Teatro Due di Parma. Bruno Stori era attore allo stabile di Parma e si cimentava anche come drammaturgo. Francesco Pititto, invece, non apparteneva all’ambito teatrale, ma a quello cinematografico e in quegli anni lavorava per la RAI. La sua posizione differente, in qualche modo estranea, la mantiene ancora oggi, con una visione eccentrica rispetto alla realtà, che osserva con occhio cinematografico. Queste diverse visioni sono poi confluite in quella che oggi è l’estetica lenziana, estetica che guarda al teatro da diverse angolazioni.

Pochi mesi dopo la sua nascita, si uniscono a Lenz altre sette-otto persone: una pianista, un fotografo e alcuni giovani artisti. L’eterogeneità è ancora più forte. L’unico attore è ancora Bruno Stori. A questo punto (siamo all’inizio del 1986) si sente il bisogno di una messa in scena.

Lenz nasce da un’esigenza di autonomia, che in quel periodo era vista quasi come necessità (è con gli anni ’80 che emergono molti talenti e famiglie artistiche): necessità di esprimersi liberamente, di non restare chiusi in una struttura predeterminata, di uscire dall’esperienza dell’apprendistato. Voglia, insomma, di nascere. E Lenz nasce prima come spettacolo che come denominazione della formazione. E’ il Lenz di Büchner, infatti, il primo testo su cui lavoreranno (e non a caso si tratta di una novella e non di un testo drammatico), che racchiude in sé due dei "battiti" più forti della formazione: la figura dell’intellettuale e dell’artista come questione da indagare, e il periodo in cui questa figura vive la sua esistenza in modo particolarmente estremo, ovvero il Romanticismo. Ma il testo di Büchner sarà più soggetto che oggetto drammaturgico, nel senso che saranno gli artisti ad essere mossi da questo studio e non viceversa: troveranno qualcosa in cui rispecchiarsi, con cui confrontarsi, un po’ l’interlocutore dei loro interessi e della loro ricerca.

Lo spettacolo Lenz si apre con un cortometraggio (in 16 mm), della durata di circa otto minuti, girato con una troupe molto ridotta (Federica, Francesco e Bruno) nell’architettura di Aldo Rossi del cimitero di Modena. Un’architettura contemporanea come testo spaziale dentro cui si muove un teatro che viene dall’immagine per penetrare nella realtà, nella verità della scena. Questo è sicuramente un momento importante, poiché Lenz non ha più usato in seguito il mezzo cinematografico in senso diretto, come mezzo d’espressione all’interno del teatro. Nella messa in scena (si tratta di un monologo) anche la musica ha un ruolo centrale, infatti, viene elaborata dalla pianista del "gruppo" e suonata dal vivo. La recitazione è affidata a Bruno Stori che, nonostante la sua preparazione accademica, lavora molto sulla parola e sul gesto (elementi centrali nel lavoro lenziano). Un altro aspetto fondamentale è sicuramente la loro posizione nei confronti di questo lavoro: si sentono maturi, non partono, in un certo senso, da zero; il linguaggio sia cinematografico, sia teatrale, della parola è complesso, difficile, stratificato e l’attore è necessario, centrale, ma non è l’unico portatore del linguaggio scenico che si sta creando.

Lo spettacolo viene autoprodotto; è mostrato al pubblico nel marzo del 1986, in una grande stanza che poteva ospitare un massimo di venti, venticinque persone, e viene selezionato per il festival di Santarcangelo del luglio 1986, nella sezione "Segnali di fumo", destinata al teatro emergente. Qui Lenz ottiene un forte successo di pubblico e di critica.

Dice Federica Maestri nel ripercorrere questa esperienza: "Dilato questo tempo iniziale perché tutte le cose che fai dopo sono specchi deformati di quell’inizio, ma tanto deformati da non riconoscerti neanche lì…"

Poco prima di Santarcangelo sono costretti, per avere configurazione legale, a darsi uno statuto. Si costituiscono non come cooperativa, ma come associazione culturale, cercando una formula che li vincoli il meno possibile a una gestione impegnativa sul piano economico, per dare più peso all’idea che sta loro a cuore, e che sintetizzano nella formula: "sei quello che fai" (e non gli utili che produci).

Dall’85 all’87 le attività svolte da Lenz sono di carattere culturale: mostre, cinerassegne (auto)educative, con proiezioni abbastanza insolite e particolari. Lo spazio è sempre quello di Via Repubblica, che lasceranno agli inizi dell’87. E’ uno spazio ormai saturo di immagini, c’è una totale mancanza di privacy, il padrone di casa, poi… insomma tutto ha un suo tempo e quel tempo si era consumato in maniera sia fisica che psichica. Lenz parte, allora, alla ricerca di una nuova sede, che offra la possibilità di lavorare in maniera diversa, dato che la stanza di quella casa limitava moltissimo le attività.

Sempre all’inizio dell’87 sono in cantiere due progetti: Catharina von Siena e I Soldati di Jakob Michael Reinhold Lenz, entrambi mai tradotti in italiano. Questa scelta non è assolutamente casuale. In quel particolare periodo (la nascita) non avrebbero mai lavorato ad un testo quale Amleto, così "consumato" dalla tradizione. Cercano il particolare – spiega Federica – il dettaglio, entrare nella fessura piuttosto che in una visione spazialmente troppo ampia, trovare l’enormità nel piccolo, che diventa motore di grandi pensieri, grandi riflessioni, grandi verità; tutte cose che invece, in un testo così "pesante" quale Amleto, sono strutturalmente già presenti.

Catharina von Siena è un testo incompleto, pertanto la messa in scena è di breve durata. Rivolge lo sguardo sull’estasi, la santità, il terrorismo attraverso l’uso di monologhi e parole dure, pesanti, pungenti… Non ottiene un grande successo, forse proprio per la sua crudezza, ma gira ugualmente in varie piazze. Due anni fa il progetto è stato ripreso. Per quanto riguarda i finanziamenti, Catharina von Siena è uno spettacolo autoprodotto.

I Soldati, invece è un testo più complesso: molti personaggi e cambi di scena. Diventa impossibile, a questo punto, provare nella stanza di via Repubblica e autoprodursi: infatti questo spettacolo è prodotto dal centro teatrale S. Geminiano di Modena (che produrrà in seguito altri tre spettacoli di Lenz). Ma va sottolineato che è la struttura dello spettacolo, l’idea dell’opera, che spinge gli artisti di Lenz a trovare degli spazi nuovi, adeguati. Ottengono, per le prove, l’uso di alcuni magazzini (l’attuale Teatro al Parco, di Parma, dove oggi ha sede il Teatro delle Briciole), ma questo resterà solo un luogo di passaggio, infatti Lenz continuerà a lavorare a Modena, finché lo stress fisico e psichico che ne consegue non costringerà il "gruppo" a cercare uno nuovo spazio a Parma.

Il nuovo spazio

Finalmente nell’estate dell’88 riescono ad avere in subaffitto la palestra adiacente all’attuale spazio di Lenz, ma la convivenza non è delle migliori: la palestra ha degli attrezzi sì, ma sono fissi, stabili; il teatro invece ha degli oggetti di scena che alle volte possono essere ingombranti e fastidiosi per chi di teatro non s’interessa… Per cui il padrone di casa propone al "gruppo" lo spazio a fianco, che è in condizioni pessime, da ristrutturare a loro spese, senza però l’onere dell’affitto per 12 anni (la durata del contratto). Questa nuova situazione (12 anni di contratto!) segna una certa stabilità: "Inizi a dire: vabbè è la mia vita…". Nel dicembre 1988 viene inaugurato il nuovo spazio.

Parte nello stesso anno un nuovo progetto, che li rimanda nel Novecento: il Novecento poetico, della poesia pura, di Majakovskij, cui dedicano un biennio di lavoro. Francesco Pititto scrive il suo primo testo, Pur vivendo sulla terra gli uomini sono barche, che è un verso di Majakovskij, ottenendo il premio Orizzonti/Drammaturgia In-finita, per la drammaturgia realizzata in forma di spettacolo. Il testo, con la regia di Pititto, è messo in scena con un attore cantante, Silvano Pantesco, e una bambina di undici anni. Il lavoro sulla parola, di parola, è ancora più estremo, con una drammaturgia sonora molto elettronica.

Nel frattempo Federica Maestri lavora ad un suo progetto: Passione, che mette insieme una drammaturgia di testi majakovskiani, con un innesto tragico, che è il Prometeo. In scena abbiamo una cantante, un soprano e tre attrici.

Bruno Stori, invece, fa una regia per ragazzi, e in quel momento forse si consuma la prima rottura, perché il suo linguaggio è più "contenutistico", mentre i linguaggi di Federica e Francesco tendono a trovare un punto di confluenza all’interno di un tessuto poetico molto affine, che presenta sì diversità di sguardi, ma la stessa e(ste)tica. Iniziano, quindi, i primi problemi inerenti il modo di fare ricerca: fare teatro popolare? o esplorare un campo non necessariamente comprensibile a tutti?

La fase adulta

Nell’89 inizia quella che Federica Maestri ha definito "la nostra fase adulta", che parte da un progetto su Dostoevskij, che è un altro tassello importante nella loro formazione artistica: una parola non teatrale, ma da tradurre, trascrivere per farla diventare drammaturgia. Federica parla di trasduzione (termine inesistente, neologismo coniato per necessità): non solo un passaggio da un testo originale a un testo pensato per il teatro, ma invenzione di un linguaggio, di una parola per gli attori, per quegli attori che diranno quel testo. Il lavoro di trasduzione tiene conto perciò della soggettività che incarnerà quella parola. Il lavoro su Dostoevskij ha dato maggior rilievo a personaggi secondari, dai quali diversi spettacoli del progetto prendono nome : Ippolit (da L’idiota), Kirillov (da I demoni), dove entra nel "gruppo" Adriano Engelbrecht, Ekaterina (da Delitto e Castigo).

Successivamente Lenz (per esplorare ancora linguaggi diversi) apre una parte del progetto a una nuova formazione di persone. Il progetto si chiama Lenz Rifrazioni Danza (sigla transitoria), e parte con lo spettacolo Non sono così le aquile che si levano alte sopra la terra (da I fratelli Karamazov), che è sostanzialmente uno spettacolo di danza. Questa collaborazione, però, non dura molto, anche perché nel 1989/90 inizia un nuovo percorso, quello su Hölderlin.

Il lavoro su Hölderlin mette in discussione la visione estetica della precedente attività di Lenz, e non solo, poiché avere a che fare con un testo quale La morte di Empedocle, significa riflettere sui principi della vita, della morte, su che cosa governi o no l’esistenza del singolo e della collettività, problemi di ordine filosofico, insomma. Il progetto dura quattro anni, uno dei quali dedicato alle tre stesure de La morte di Empedocle, e lascia un segno profondo nell’esperienza lenziana: non sono più bambini, non è più l’inizio. Manca l’elemento spettacolare in questo maestoso progetto. La parola tragica s’impone nella contemporaneità attraverso un gruppo di attori molto giovani, tra cui Sandra Soncini (tuttora attrice della formazione), che non aveva ancora fatto un’esperienza attorale piena, per cui la sua voce non era "elaborata" teatralmente. Sandra è il corpo di Empedocle, un corpo di eroe debole, fragile, il suo è un lavoro sulla caduta, sul salto, sulla perdita. C’è poi una ricchezza di esperienza degli attori che dà l’idea di un diamante dalle mille sfaccettature, nel senso che nessuno è il personaggio.

Nel ’93 Lenz lavora su Edipo il tiranno, dove gli allievi del primo anno del corso di formazione "Pratiche di Teatro" vengono coinvolti durante la rappresentazione (tra di loro c’è Elisa Orlandini – tuttora attrice del gruppo). Da qui s’innesta nella storia di Lenz il progetto di Pratiche di Teatro, che a volte ne definisce il percorso estetico, a volte ne resta ai margini, ma sempre in un rapporto importante.

Edipo il tiranno non si può pensare in un qualunque spazio, il conflitto tragico di Edipo non si può consumare ovunque, si manifesta in un luogo (in questo caso quello della fabbrica).

L’anno successivo lavorano sull’Antigone di Hölderlin. In questo caso si parla di "messa in opera" e non di "messa in scena", forse anche un po’ narcisisticamente, perché si cerca di dare più peso alla sperimentazione originale. Parlare di spettacolo, pensando ad uno studio su Hölderlin, che ha segnato così a fondo la loro esperienza teatrale, sembrerebbe a Lenz – in certo modo – riduttivo. La ricerca va alle parole giuste, alle definizioni adeguate, perché riducendo si rischia di non capire più in che direzione si intenda spingere la sperimentazione. E’ un po’ come avviene per i bambini quando devono individuare il loro rapporto con il mondo: parlano continuamente e soprattutto domandano sempre. Allo stesso modo Lenz (nel periodo della crescita) si chiede quella parola, una parola che sia solo sua, per scoprire, in qualche modo, in che universo si sta muovendo. Il progetto su Hölderlin, infatti non è mai considerato concluso, c’è sempre, è il loro patrimonio genetico, la loro genetica teatrale, nonostante sia qualcosa di molto lontano da quello che oggi è Lenz. Comunque sia "sei quello che fai"… Ma il tempo passa e gli spettacoli cambiano, anche se il fantasma di Hölderlin è onnipresente…

Siamo nel 1994 e Lenz lavora su Kleist. Lo stesso universo, lo stesso territorio, ma un altro mondo. Le parole qui sono scivolamento, soglia, svenimento, sospensione, mentre in Hölderlin sono costruzione e decostruzione estrema, parola pesante. Si trovano nuove chiavi di lavoro. La parola kleistiana non può essere pronunciata allo stesso modo di quella hölderliniana, non funziona. Si scivola in una drammaturgia diversa, un romanticismo diverso, una visione del mondo diversa. E’ un rigore di altro tipo, ma è pur sempre rigore, che cerca di sfrangiarsi nell’emotività degli attori. L’emotività, al contrario, era stata bandita dal lavoro hölderliniano, basato sulla relazione totale con la parola, senza nessuna mediazione psicologica, senza il sentimento legato alla parola o premonitore di essa: la parola che era corpo, corpo dell’attore morente, dell’eroe debole, dell’eroe che si dava alla morte. Ora, invece, è tutto plastico, il linguaggio non è duro, è un borbottio emotivo e sentimentale, altre musiche altri suoni. Il dramma, non la tragedia. E’ forse il primo lavoro in cui c’è anche il divertimento e non solo il dolore della scelta artistica. Inizia a colorarsi la partitura visiva, attoriale e anche scenica.

Nel ’97 inizia il progetto shakespeariano e tutto cambia. Teatralmente rappresenta una crescita. Non più una miriade di persone intorno a un lavoro, c’è una forza centripeta, tutto si riversa all’interno: Shakespeare è questo, Shakespeare si sostanzia attraverso l’attore, per cui bisogna lavorare su questa possibilità, bisogna far nascere in scena Romeo e Juliet.

Romeo and Juliet è un lavoro estremo, basato sulla voce animale, sul corpo bestiale, infatti non ottiene ovunque un forte successo di pubblico.

Con Shakespeare, ancor più che con gli altri lavori, Lenz comincia a porsi il problema del sistema dello spettacolo, e quindi del confronto con un pubblico estraneo a quel tipo di linguaggio: linguaggio arcaico, quasi vicino al primitivo, che passa attraverso un’azione estrema e una realizzazione sonora di ogni parola, che tenta di ritrovare la propria purezza, la propria innocenza iniziale. Restituire testi consumati, quale, appunto, Romeo and Juliet, passati attraverso una cultura popolare, e un utilizzo cinematografico in qualche modo "ibridi", estranei alla loro originarietà: una restituzione che deve avvenire attraverso il confronto con l’originale, un originale "animalato", che passa attraverso le metamorfosi amorose di Romeo e Giulietta, e quindi una lingua quasi gutturale e insignificante.

Il progetto Shakespeare è uno dei più grossi e maestosi della storia di Lenz. Tre sono i capisaldi: Romeo and Juliet, Sogno di una notte di metà estate e Ham-let, ma al contempo ci sono molti innesti, che sfoceranno poi con l’arrivo (in Ham-let) delle due attrici disabili, che tuttora lavorano stabilmente nella compagnia. Questo apparente ribaltamento era già presente sulla mappa: Sara Monferdini e Barbara Voghera entrano naturalmente nella struttura dello spettacolo, portando una marca affine alla loro poetica: lavoro su una lingua "canina", "dentale", "palatalizzata", "linguizzata", "salivizzata"… la lingua grossa dei down diventa carne di Hamlet. Una lingua organica, quindi una parola più profonda, più corposa, più faticosa.

Ma andiamo per gradi. Dopo Romeo and Juliet (fine ’97 inizi ’98) viene messo in scena Sogno di una notte di metà estate (siamo nel marzo del ’98). Pititto cura la drammaturgia e inserisce due elementi innaturali rispetto al testo, innaturali perché originariamente non presenti: una scena del Faust di Goethe e La vita è sogno di Calderón. Entrambi diventeranno due progetti successivi (Faust nel triennio 2000/2002 e La vita è sogno che è un progetto iniziato quest’anno). Ciò è significativo, perché tiene unita un’idea poetica di fondo.

Ricapitolando brevemente: Shakespeare è un altro momento forte nell’esperienza lenziana, come lo è stato Hölderlin, come lo sarà Goethe (e sicuramente anche Calderón). Ci troviamo di fronte a una lingua degli attori che risuoni come un ponte tra l’arcaico e il contemporaneo, una lingua latinizzata, estrema, forte, corposa, alla ricerca, insomma, della parola originaria, pura. Un incontro decisivo che muove la ricerca in questa direzione è quello con Franco Scaldati, poeta e drammaturgo siciliano, che scrive mescolando il dialetto di un quartiere palermitano e una lingua inventata. Federica Maestri e Franco Scaldati s’incrociano in un convegno e l’attrazione nasce da questo innestare, da parte di Scaldati, due piani: quello dell’autoralità e quello dell’attoralità. E’ un incontro-scontro, preliminare a quella che sarà l’entrata in compagnia degli attori cosiddetti "straordinari". Scaldati è un individuo "straordinario", cioè fuori dall’ordinario, con una capacità "sragionante" di costruire parole poetiche, personaggi che dialogano tra l’alto e il basso continuamente, in preda a una follia toccante. Egli, che è "il verbo poetico di se stesso", incarna la figura di Amleto vecchio, nell’Ur-Hamlet. Un confronto tra la parola fredda padana, tra questa palude nordica e le latrine meridionali e il suo sprofondare in altre nebbie, nebbie che non ci sono, nebbie di sole. La sua è una parola oscura, una parola incomprensibile, ma "carnosa, carnale, incarnata". Una lingua astrusa come l’inglese antico, una collaborazione forte, da questo punto di vista, ma difficile. Si tratta di un incontro rispettoso, ma segnato dalla difficoltà di mantenere una propria visione poetica e stilistica della messa in scena e farsi impregnare, nello stesso tempo, da tale magnifica estraneità. Una difficoltà che è anche estremamente formativa. La necessità – spiega Federica Maestri – è quella di marcare una distanza da sé, e quindi, per qualche tratto, si riesce a sprofondare nella poesia altrui e farla propria. Questo distaccarsi da sé permette di vivere qualcosa d’altro rispetto al proprio lavoro e consente anche di non inorgoglirsi solo per ciò che si è e si fa.

La drammaturgia è scritta da Scaldati, che traduce alcune sequenze della prima stesura di Amleto, e dall’ensemble di Lenz, che fa un innesto arcaico, mediterraneo, tragico sulla figura della regina Gertrude, inserendo quella di Clitemnestra, la regina delle regine. Quindi il rapporto di Amleto con la madre diventa quello di Oreste, nell’Orestea. Lo svolgimento della struttura drammatica, quindi, travalica il testo originale. In scena ci sono due Amleto, uno vecchio, che è lì a non morire, che è quello vigliacco, quello scaldatiano: infatti i suoi eroi non muoiono mai per un’ideale, per una patria, per un principio, ma muoiono "dissanguati da interiorità". Un Amleto riflesso in se stesso, che non interagisce con gli altri personaggi, tantomeno con gli attori, e in questo caso si parla della persona di Scaldati e non del suo Amleto. E’ una persona straordinariamente impenetrabile, un po’ come le sue poesie, oscura. E forse chi ha avuto più problemi a rapportarsi con lui è stata Sandra Soncini, che come Ofelia si è trovata di fronte ad un soggetto che non c’è, perché è altrove. Ma da questa esperienza ha ricavato un forte insegnamento, ha vissuto totalmente nel suo personaggio. E poi c’è un Amleto giovane (Alessandro Sciarroni, attuale attore della formazione), un piccolo Amleto, idiota, rabbioso, in termini nietzschiani un Amleto demente, che si confronta con questa lingua di segni opposti a quella scaldatiana, e diventa finalmente se stesso quando uccide la madre, tuffandosi nella tragedia classica dell’Orestea, trasferendola però in una dimensione diversa, quella di un immaginario contemporaneo.

Con l’Ur-Hamlet iniziano anche le prime forti azioni pittoriche sui costumi, ad opera di Federica Maestri. C’è un abisso tra i costumi scarni, quasi invisibili del periodo hölderliniano e quelli ricchi, intarsiati, ricoperti del periodo shakespeariano, ma con un elemento comune: l’annullamento della persona che è sotto quell’abito-non-abito, sotto quell’involucro, che sovrapponendosi al corpo dell’attore ne svela la nudità, l’essenza. Il costume di Ofelia (anche i più piccoli dettagli) è ingessato, tutto ciò che è bianco ha subìto un processo d’ingessamento-indurimento. Il costume ha qui una forte autonomia. Il costume di Amleto-vecchio è un cappotto ricoperto di rose secche: questo Amleto è una natura morta, un po’ eterna, ma anche un po’ ammuffita. La drammaturgia del costume è sicuramente un aspetto fondamentale per Lenz.

In questo lavoro una componente forte è quella dell’organico: Ofelia che amoreggia con un polipo. Quindi il mostruoso di Shakespeare e nello stesso tempo il naturale con innesti di alimenti: la ricotta che Clitemnestra "vomita" nella bocca del piccolo Amleto-Oreste, il sangue-pomodoro, le cipolle. Un passaggio di nutrimento… In tutto il progetto shakespeariano, ci sono odori e sapori forti, per esempio in Romeo and Juliet abbiamo merluzzi secchi in scena, che diffondono un profumo intenso.

L’ingresso degli attori disabili

Il progetto Shakespeare e l’incontro con Scaldati sono una "cicatrice profonda" nell’esperienza lenziana, dolorosa da alcuni punti di vista, ma sicuramente necessaria. Il lavoro shakespeariano continua con alcuni laboratori di Pratiche di Teatro e con due spettacoli, Ham-let e Macbeth, in cui entreranno gli attori disabili della compagnia. L’incontro avviene tramite la danzatrice e coreografa Lucia Perego (il primo contatto con Lenz è avvenuto con Romeo and Juliet, in cui aveva una parte), che tiene un laboratorio di danza per disabili fisici e intellettivi. Inizia così una collaborazione. Il lavoro è molto duro all’inizio, ma il tempo, che è la grande risorsa di questo tipo di esperienze, porta i suoi profitti. Il tempo serve per confrontare il rapporto corpo-mente, che è quello che normalmente accade in teatro, ma qui è interrotto da grida, silenzi, sofferenze, che bisogna instradare in una direzione diversa, anche di conflitto, ma non patologica e sofferta. C’è, poi, in alcuni attori l’impossibilità di delineare la soglia tra realtà e finzione, quindi si è dovuto lavorare, per circa un anno, sulla frammentazione della fiaba tragica di Amleto, con conseguente accento sui processi di realtà e rappresentazione, a partire, però, da un nucleo molto selvaggio, nel senso di "primitiva scoperta di sé". Infatti anche la cura del corpo ha occupato un ruolo di rilievo e, attualmente, il rapporto di questi attori con la propria fisicità è più equilibrato.

Questi "nuovi" attori, esclusi fino a qualche tempo fa, quindi "freschi", "recenti", non invecchiati dalla storia e dalla tradizione, entrano a teatro portando una fiammata di originalità. Dentro questo universo non c’è un attore, ma l’Attore, l’Attore folle, macchina che non ragiona e nello stesso tempo assoluta: Barbara Voghera. Si stava cercando Hamlet e Barbara è Hamlet. A quel tempo era molto ambigua come persona, non si capiva il suo sesso, pesava molto di più, era sfuggente, non si riusciva in nessun modo a penetrarla, un po’ come avviene per Amleto, ma con un’energia e una possibilità di elaborazioni fisiche e soprattutto vocali fortissime, una grande potenzialità senza limiti, per cui non si riusciva a percepirne la profondità, cioè a comprendere fino a che punto si sarebbe spinta. E c’era anche l’aspetto mnemonico da considerare: avrebbe mai imparato la parte? Alla fine è riuscita in modo davvero strepitoso: non ricorda solo le sue battute, ma anche quelle degli altri attori, i gesti e addirittura le pause… E pensare che non sa che numero di scarpe porti... Insomma Ham-let è stata una tappa importante, da sempre viva nella poetica di Lenz, ma fiorita con questi attori "straordinari" (Scaldati compreso).

L’incendio del teatro

L’incendio del teatro coincide con la messa in scena dell’Ham-let. Un aiuto rilevante, è venuto proprio da questo spettacolo, perché, forse, se non avesse girato per l’Italia, in "carovana", per Lenz sarebbe stato certamente più problematico riemergere.

Quindi si apre una nuova fase, il teatro non c’è più e si capisce quale ricchezza si possieda: non si tratta, ovviamente, di un patrimonio economico, né di una stabilità, visto che non si ha più uno spazio, bensì di una forte passione, che sopravvive anche al fuoco. Non è la struttura che determina, ma sei tu che la determini – scopre Federica – sei tu che dai vita al tuo teatro. E questo avviene non soltanto a livello di pensiero, perché il teatro non è un libro in cui puoi scrivere tutto quello che ti passa per la mente: il teatro è corpo, corpo dell’attore, azione, reazione e interazione, e anche realtà tangibile, economica. Non si può pensare a uno spettacolo senza sapere di quali mezzi si disponga per metterlo in opera. Questo non significa che, se non si possiedono fondi consistenti, lo spettacolo non possa essere lavorato, ma significa sapere in che direzione muovere la macchina teatrale. I costi dell’Ham-let sono stati, infatti, molto bassi. Il che significa che non è solo il budget a determinare uno spettacolo, ma soprattutto la condizione di lavoro.

Anche a livello organizzativo succede un po’ lo stesso. Organizzazione come sinonimo di anti-schematismo, costruire un sistema che contenga la non convenienza, quindi, non lavorare solo per produrre, ma per continuare a formarsi, a ricercarsi e ricercare. Il sistema produttivo come sistema artistico si realizza attraverso collaboratori motivati, con una conoscenza del settore. Non devono essere solo informati sugli aspetti più propriamente burocratici e pratici, ma devono conoscere il linguaggio segnico, scenico, di Lenz. Al laboratorio di quest’anno su La vita è sogno, per esempio, ha preso parte anche il tecnico luci.

Lenz è ancora senza teatro quando, nel 1999, nasce Ur-Faust, in un luogo-non-luogo. Quindi tutto deve essere "autonomo, autoportante, autorevole", nel senso che l’autore c’è, ma senza il suo luogo, che alle volte può essere pericoloso, perché ti isola in una realtà che fuori da esso non esiste. Il dramma dell’incendio ha comunque aperto una possibilità nuova: essere estranei al luogo e viversi come corpo in uno spazio più ampio. Tra l’altro questa situazione nuova ha portato una grossa sorpresa, quella di lavorare al Teatro Farnese, una possibilità che forse Lenz non avrebbe mai avuto se non si fosse bruciato il teatro.

Il progetto Faust si differenzia molto da quello shakespeariano, anche se ne è il prolungamento, infatti Hamlet è uno e non poteva essere altri che Barbara Voghera, mentre la drammaturgia di Faust è "infinita, enorme, sconfinata, cattedrale, in perenne sviluppo e non strettamente legata ad un attore". Qualche mese prima della messa in scena dell’Ur-Faust, lavorano su un monologo di Margrete, e ne nasce uno spettacolo, Margrete appunto. Da questo piccolo frammento di testo seguirà un lavoro imponente della durata di circa tre anni (tuttora in corso). Margrete non è mai terminato, non solo perché è stato ripreso quest’anno, ma soprattutto perché si è riversato in tutto il resto del progetto. L’Ur-Faust ha degli innesti che non fanno parte del testo, uno di questi è Ifigenia, una grande figura mitica contrapposta a quella prettamente drammatica di Margrete, apparentemente bassa, umiliata e offesa. Il testo di Goethe è ricco di sensazioni, non di sentimenti, si tratta di bruciature sensoriali, passioni: il sentimento è relegato alle figure mitiche, ormai morenti (quasi piante), di Bauci e Filemone, che compaiono alla fine dell’Ur-Faust e nel Faust II, qui però verranno bruciati, da tre uomini, nella loro casa perché il terreno deve essere bonificato. Nel testo, a raccontare questo aneddoto sarà uno dei tre sopravvissuti, mentre nella drammaturgia di Pititto saranno i due vecchi a parlare in prima persona, proprio nel momento in cui i rami del loro corpo già pianta sono in fiamme. Ma vivono questo momento insieme fino alla fine, quasi senza sentire il calore che li sta divorando.

Nel suo viaggio, Faust diventa corpo vecchio, morente, questo suo stato è reso scenicamente da una piccola corsia d’ospedale, e dal suo collo pieno di frecce, che significano dolore, fitte di un corpo debole. Mefistofele, invece è forte, passionale, con una potenzialità sessuale che è propria della figura demoniaca. Nel testo si presenta sotto forma di barbone, nello spettacolo sarà un barboncino "sculettante". Margrete è inizialmente vestita di denaro, ad indicare la caduta verso la materialità e successivamente, in un incontro con Faust, ha un abito fatto di pizza: l’amore è, in certo modo, voglia di nutrimento…

Come avviene quasi in tutti i progetti portati avanti da Lenz, anche qui c’è un filo che si riannoda all’esperienza passata: la figura di Ariel, del Sogno di una notte di metà estate, entra nel Faust II, allo stesso modo in cui parti del Faust e de La vita è sogno s’insinuano in questo testo di Shakespeare. Tutte le opere sono legate tra loro da uno stretto rapporto di continuità, fili diseguali s’intrecciano in una tessitura omogenea.

Relazione tenuta nell’ambito del corso di Organizzazione ed Economia dello Spettacolo
29 maggio 2002

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