I concerti e l’etnomusicologia*
Intendo in questo intervento porre all’attenzione un argomento spesso
trascurato dagli etnomusicologi sul piano teorico e metodologico,
sebbene non di rado invece frequentato sul piano concreto della sua
messa in opera. Mi riferisco all’attività, occasionale o continuativa,
di direzione artistica di festival, di realizzazione di concerti o
anche soltanto di presentazione di essi o di redazione di note
d’accompagnamento a produzioni discografiche destinate non solo
all’attività di studio ma anche al mercato. Insomma, mi pare opportuna
una riflessione sui modi e le tecniche della divulgazione, della
fruizione estetica delle musiche di cui ci occupiamo e che siamo
talvolta chiamati a offrire o presentare al pubblico. Tema non
irrilevante sia nel quadro degli studi etnomusicologici che in quello
della funzione sociale e culturale di quegli studi, del nostro lavoro,
nel rapporto con gli altri (i non specialisti, il pubblico, gli
acquirenti delle produzioni discografiche, e i protagonisti degli
spettacoli e delle incisoni prodotte: i musicisti chiamati a mettere in
scena sé stessi in luoghi e situazioni diversi da quelli in cui
normalmente svolgono la loro attività). La questione oggi si pone
all’attenzione con particolare evidenza, e merita forse da parte nostra
una certa attenzione pure per la diffusione che hanno certi fenomeni di
divulgazione anche di un certo rilievo e notorietà: quelli ad esempio
che hanno portato a fama nazionale e sovranazionale – con percorsi e
risultati assai diversi tra loro - tradizioni e repertori come il canto
a tenores o la pizzica salentina, fino ad allora noti solo agli
specialisti e a pochi cultori delle tradizioni locali. Accanto ad un
modo di trasformare in spettacolo le tradizioni locali che a me pare si
fondi sullo svuotamento di senso – non solo lo comporti come effetto
secondario, ma proprio ne sia una necessità fondante – sono stati
praticati e continuano ad esserlo altri modi di proporre al pubblico le
musiche delle tradizioni locali. Viene fatto di chiedersi che senso
abbia, oggi, un concerto o un festival di musiche di tradizione orale.
Quando tutto si trova su cd, si vede in televisione, viene messo in
scena in concerti ipertrofici e spettacolari, magari variamente
rimaneggiato da noti e meno noti interpreti della musica leggera, del
jazz, del rock, del folk revival. Certo, spesso affiancati da qualche
vecchietto di paese, la cui presenza vuol testimoniare l’autenticità
dell’operazione, la continuità col passato, di cui questa roba si vuole
sia la diretta continuazione, o piuttosto la necessaria trasformazione.
Proprio per questo oggi, quando l’accerchiamento culturale appare più
che mai intenso, una rassegna di musica di tradizione ha forse anche
più senso che in passato. Soprattutto perché racconta che le tradizioni
esistono, si perpetuano, si trasformano secondo procedimenti loro
peculiari che poco o nulla hanno a che fare con grandi eventi mediatici
di riduzione di altre culture al modello di comunicazione dominante.
Forniscono strumenti per distinguere, per misurare le distanze, per
conoscere, anche con un certo dettaglio, le differenze che corrono tra
il modo di pensare alla musica di musicisti professionisti romagnoli e
musicisti professionisti zingari rumeni, tra pastori del Dodecanneso e
pastori siciliani. Microstorie, certo, quantomeno alcune di esse, ma di
questo arcipelago di microstorie si compone un panorama musicale assai
vasto. Questo e altro, nel suo insieme, è quel che ascolta una enorme
quantità di gente: quel che passa attraverso i grandi mezzi di
comunicazione certo è assai più largamente condiviso, ma il liscio di
Romagna, i saltarelli delle Marche, le sirbe della Romania o i canti
contadini del Burkina, nel loro complesso, evocano e direttamente
interessano una porzione di umanità non meno ampia, che pur ove conosca
quel che passa la televisione non cessa, ancor oggi, di avere una
competenza viva delle tradizioni di casa propria. E la riproposta in
concerto costituisce in certo modo di per sé un modello possibile di
relazione tra culture: che, di solito, non passa attraverso la
mescolanza, la collaborazione tra musicisti di diversi luoghi e che
possiedono diversi linguaggi musicali, o la loro appropriazione da
parte di professionisti o appassionati estranei a quei linguaggi, ma
perché il concerto è, di per sé, momento di mediazione tra occasioni e
funzioni diverse del far musica: il mutare di funzione, lo scambiarsi
dei medesimi oggetti sonori tra le loro funzioni e occasioni di uso
consuete - occasioni rituali, feste pubbliche e private, attività
lavorative ecc, - e rito borghese del concerto è terreno concreto e
vivo di confronto tra culture diverse. Ma prima di valutare il modo in
cui i concerti e le occasioni ad essi legati costituiscono un terreno
etnografico di confronto e ricerca mi pare opportuno spendere ancora
qualche parola sulle operazioni di cosiddetta “contaminazione”, per ora
tanto di moda. Va quantomeno osservato, a proposito del successo di
festival in cui bande di ottoni macedoni o suonatori siciliani di
zampogna vengono chiamati a suonare accanto a protagonisti del jazz,
del rock, della musica leggera, che il ruolo degli uni e degli altri
non è simmetrico né paritario: non di fusione né di contaminazione o di
incontro si tratta, ma di appropriazione. Non lo dico in termini etici,
ma squisitamente musicali: quel che di norma accade in queste occasioni
è che i musicisti di diverse tradizioni locali chiamati in scena
continuano ad eseguire la propria musica, più o meno indifferenti a
quel che accade attorno a loro e a quanto si sovrappone ai suoni da
loro prodotti. Del resto spesso i loro strumenti musicali, i loro
repertori mal si adattano ad escursioni al di fuori dei propri
linguaggi: sono il prodotto di lunghi processi di selezione e di
specializzazione in ragione dei quali sono adatti a muoversi
all’interno di uno spettro finito e ristretto di possibilità. Certo non
funziona per tutti allo stesso modo: v’è differenza ad esempio tra
zampogne o oboi popolari che si muovono su rapporti tra suoni
precodificati e limitati e fisarmoniche e trombe o clarinetti moderni,
che consentono di lavorare con duttilità su successioni diverse.
Sebbene spesso le tecniche esecutive che appartengono a tradizioni
locali prevedano successioni di gesti standardizzate, che impongono
allo strumento percorsi circoscritti. E v’è differenza, ancora, tra non
professionisti e professionisti: saxofonisti o clarinettisti zingari
dei Balcani, ad esempio, abituati a innovare i linguaggi delle loro
tradizioni di riferimento, si adattano al diverso con maggiore
duttilità rispetto a zampognari o cantori di estrazione contadina e
pastorale. Ma un altro dato merita di esser segnalato: anche tra questi
musicisti più versatili, e nel loro tradizionale bacino d’utenza, le
escursioni in altri orizzonti musicali e le collaborazioni con
musicisti d’altra estrazione per lo più non vengono tenute in gran
conto. I prodotti di queste attività non vengono esibiti se non coi
visitatori stranieri; in casa di solito i musicisti non tengono neppure
i cd che testimoniano delle collaborazioni. Né capita che questi cd si
trovino, ad esempio, nei minimarket o nei piccoli negozi musicali di
luoghi quali il Kosovo, l’Albania, il Montenegro, la Serbia, la
Macedonia: luoghi tutti di pesca intensiva per la world music. I
negozietti di questi paesi invece sono ricchi di produzioni di musica
locale, spesso di qualità: la gente del posto le altre cose non le
compra. La world music è un fenomeno che interessa una piccola parte
della borghesia urbana d’Europa occidentale e d’America e non tocca,
sul piano della fruizione, il pubblico tradizionale e anche i musicisti
delle culture musicali di cui si appropria.
La mia prima esperienza di concerti di musiche di tradizione orale si è
formata attraverso Roberto Leydi, che è stato docente di
etnomusicologia, prima di me, all’Università di Bologna. Leydi è stato
fin dagli anni Cinquanta del Novecento uno dei protagonisti – forse il
principale artefice – di un modo peculiare di intendere e articolare il
rapporto tra attività di ricerca e riproposta in concerto di musiche di
tradizione orale. Presentate al pubblico nella maniera più scarna
possibile, con quell’estetica sobria e minimalista che
contraddistingueva anche altre sue attività pubbliche. Ma quei concerti
si nutrivano di uno stretto rapporto tra attività di ricerca
etnomusicologica e attività di produzione. In messe in scena di tal
fatta non soltanto la cultura dello spettacolo, moderna, borghese,
occidentale, incontra quella del rito, della musica funzionale senza
piegarla a sé, senza ridurla a scolorito specchio di sé medesima;
l’occasione del concerto diviene parte non secondaria della relazione
tra i ricercatori e i protagonisti, gli interpreti delle tradizioni, è
una parte rilevante di quella “restituzione” di cui accade di parlare
ma su cui poco si fa. Non perché costituisca una forma indiretta di
pagamento, ma perché compie, rende manifesto un aspetto importante,
nella relazione, del ruolo di chi fa ricerca. Cantori e suonatori per
lo più sono ben consapevoli del fatto che, nel raccontarsi di fronte al
taccuino, al microfono, alla telecamera del ricercatore si consegnano
alla storia. “Adesso signuria può scrivere tanto” disse a Diego
Carpitella una donna in Puglia negli anni Sessanta, dopo aver cantato
per il suo magnetofono. E anche il documento sonoro registrato è il
frutto di una contrattazione, di una intesa tra ricercatore e
informatore; esso è un’opera chiusa, pronto, appunto, ad essere
consegnato alla storia, congelando il contingente, l’estemporaneo in
una forma definitiva: “così è, ora e per sempre”. O, per dirla in
termini meno altisonanti, cantori e suonatori sanno che il ruolo del
ricercatore è, prima di tutto, quello di un traduttore: di chi consegna
le conoscenze che gli vengono trasmesse ad una tradizione diversa del
sapere, svolgendo, dunque appunto un ruolo di traduzione in diversi
linguaggi, in altre forme di pensiero. Il che comporta una inevitabile,
necessaria trasformazione dell’oggetto, della quale in diverso modo
sono consapevoli entrambe le parti della relazione. La traduzione è il
prodotto di un lavoro collettivo; il suo risultato dipende non soltanto
dalla qualità delle domande e delle richieste di chi svolge la ricerca,
ma anche dalla consapevolezza di chi trasmette ad altri il proprio
sapere, dal modo in cui sceglie di farlo, in cui si mette in scena. Il
setting, è evidente, determina la rilevanza della relazione di ricerca:
tra il modo in cui un musicista si comporta nel corso della sua
attività, ad esempio, in una festa o in una cerimonia – che può essere
influenzato anche poco o per nulla dalla presenza di osservatori
esterni e apparecchiature di ripresa – e una seduta di registrazione in
casa o in studio il comportamento relativo di ricercatore e musicista
muta parecchio. Sul palco la partecipazione degli attori alla
rappresentazione di sé per gli “altri” è esplicita e completa. Il
concerto è un terreno concreto sul quale il lavoro di traduzione si
compie; i suoi modi, le sue tecniche sono il prodotto di una
contrattazione, implicita o esplicita, tra il ricercatore,
l’organizzatore o direttore artistico che sia e gli “informatori”
divenuti, sul palco, “artisti”. Certo non funziona per tutti – per
tutti i concerti, per tutti gli “artisti”, nello stesso modo. V’è
grande differenza tra suonatori professionisti o semi-professionisti e
non; tra musiche già destinate ad un ascolto pubblico e repertori
domestici, tra oggetti sonori che conoscono già una fruizione
prevalentemente estetica (ad esempio la musica carnatica o i repertori
fasil) ed altri la cui funzione primaria è altra. E pure tra i
professionisti, abituati ad esibirsi in sale da concerto, vi sono
differenze anche grandi circa il modo di intendere la musica, il
proprio ruolo, il rapporto tra la forma del concerto e le forme che
assume il loro far musica in altri contesti. Luigi Lai è un grande
interprete del repertorio tradizionale delle launeddas. Quello
strumento appartiene alla Sardegna rurale, ad un mondo pastorale,
contadino, artigiano. I suonatori di solito affiancavano al mestiere di
musicista un’attività artigiana – in genere quella di ciabattino – e
occasionalmente dei lavori agricoli. La loro formazione musicale era
un’attività intensa e rigorosa, che poteva includere l’apprendimento
della notazione. Lai frequentò delle scuole di musica, e imparò anche a
suonare la fisarmonica. Emigrato in Svizzera, ha seguito i corsi di
un’accademia musicale per imparare a suonare professionalmente il
saxofono, strumento dal quale, in un paese straniero, poteva ricavare
sostentamento eseguendo musiche da ballo e repertori jazz. Tornato alla
Sardegna e alle launeddas, tutto ciò gli è servito ad acquisire mutata
coscienza di sé, del proprio repertorio, del rapporto col patrimonio di
tradizione, coi maestri del passato e con le trasformazioni recenti,
gli influssi esterni. Oggi suonare per il ballo o la processione gli
giova a mantenere vitale il rapporto con modi e funzioni originari, ma
oggi per lui il concerto è il luogo privilegiato in cui dispiegare la
straordinaria padronanza dello strumento e del repertorio formata negli
anni. Con un rigore, nell’articolazione della sua
parole sulla
langue delle
launeddas, affinato e nutrito dalle competenze acquisite in altri
settori. Jivan Gasparyan non è un suonatore di duduk di tradizione: è
il rappresentante emblematico della cultura armena in musica. Insegna
il suo strumento in conservatorio, si è esibito sui più importanti
palcoscenici del mondo, ha ricevuto riconoscimenti internazionali, ha
avuto collaborazioni di rilievo con importanti interpreti di altri
generi musicali. La sua frequentazione di festival internazionali, le
collaborazioni con altri musicisti hanno comportato esiti assai diversi
o addirittura opposti a quelli che hanno comportato per Lai: se questi
consapevolmente e orgogliosamente si propone come continuatore della
tradizione dei grandi maestri del Campidano (Efisio Melis e Antonio
Lara) – e dunque, se pure in altri contesti presta la sua opera per
accompagnare cantanti di musica leggera o per collaborazioni con
jazzisti, quando si esibisce da solista interpreta con rigore le
complesse strutture compositive del linguaggio di tradizione -
Gasparyan reinventa un genere musicale adatto a proporsi come bandiera
dell’armenità in musica con un consort di duduk – il contralto e il
tenore sono una sua invenzione -: così, sulla scorta di quanto
ascoltato nei festival da gruppi di folk revival europeo e di musica
antica dà vita ad una sorta di “musica rinascimentale armena” del tutto
moderna e distante dai linguaggi di tradizione (del resto un suonatore
di tamburello di Messina, di famiglia di zampognari e di estrazione
urbana e sottoproletaria, nel raccontarmi di essere stato reclutato da
un ensemble di musica antica di Catania mi ha detto: “sai cos’è sta
musica antica? Come ti posso dire... musica etnica contemporanea”. E
aveva ragione lui). Ancora diverso è il caso di Ivo Papasov, virtuoso
suonatore di clarinetto rom del sud della Bulgaria assurto a grande
fama nazionale e internazionale grazie a funamboliche esecuzioni della
musica da feste di nozze, appannaggio in quell’area appunto di gruppi
di professionisti zingari. La sua disponibilità ad accogliere elementi
di linguaggi musicali allogeni – soprattutto il jazz, ma anche la
musica leggera – è lo sviluppo estremo, lo stadio più avanzato di
processi di modificazione che appartengono a quella tradizione, votata
per sua natura al continuo rinnovamento.
Altre considerazioni riguardano cantori e suonatori, professionisti o
no, abituati a esercitare la propria attività pressocché esclusivamente
all’interno delle proprie comunità. In questo caso l’articolazione del
passaggio è più delicata, ed è frutto di una contrattazione, una
mediazione tra intenti, funzioni, modi dell’esecuzione musicale. A
partire proprio dalla stessa definizione di un brano come oggetto
finito, o del concetto stesso di musica. Hatixhe Borlak e Selvinaze
Bityqi, le due musiciste rom di Prizren che si sono esibite ieri sera
sono alla loro terza presenza a Suoni dal Mondo: la prima volta sono
venute due anni fa, assieme ad altri suonatori; poi ancora la settimana
scorsa, con un gruppo ampio, e infine, ieri, da sole. Nei giorni
intercorsi tra il concerto di sabato e quello di ieri abbiamo
registrato l’intero loro repertorio (una decina d’ore di modulazioni
ritmiche serrate e rigorose) e lungamente parlato di musica, della loro
musica, di feste, di concerti. Risulta ben chiaro, dalla loro
esecuzione di ieri, come la costruzione dello spettacolo abbia tenuto
in considerazione la diversa competenza del pubblico: che non danza
(almeno la maggior parte di esso), ma ascolta; cui in apertura può
essere proposta, didatticamente, la sequenza di ritmi come guida
all’ascolto. E se il repertorio usato in una festa è quello destinato a
quell’occasione, per gente di quella zona, coi nomi di quei
protagonisti, sposi, bambini circoncisi, parenti, qui hanno eseguito un
brano destinato ai cattolici dei villaggi ad est di Prizren, uno della
tradizione turca di città, le musiche dei riti nuziali dei rom di
Jakova. Un momento per me significativo in cui un cantore percepì e
comprese la diversa destinazione d’uso della sua esecuzione, senza
esplicita contrattazione con gli organizzatori, è stato il concerto di
musiche lobi del Burkina Faso, a Suoni dal Mondo. A Sigité Cambité, un
anziano contadino, era richiesta l’esecuzione di canti di lavoro – poco
noti anche alla ricerca etnomusicologica – che per la funzione e per la
struttura musicale offrono peraltro interessanti elementi di confronto
col blues delle origini. Lui era stupito e imbarazzato, per essere
chiamato a invitare della gente ad aiutarlo a zappare ove non v’erano
né terra né contadini. Ma nel corso dell’esecuzione, nelle diverse sere
in cui si esibì, il suo richiamo divenne canto: pur senza mutare nella
sua struttura formale, subì un evidente cambiamento nella performance,
con esiti rilevanti, sul piano estetico ed emotivo, sia per lui che per
il suo pubblico. Quello del concerto è un luogo sensibile, un momento
critico della relazione di ricerca, sul quale mi pare opportuna una
seria riflessione di metodo, che certo non pretendo non solo di
esaurire, ma neanche di dispiegare per intero in questo intervento. Da
qua si parte per una diversa posizione relativa di chi osserva e chi è
osservato, chi è produttore e chi si esibisce. La ricerca ne risulta
orientata in modo sensibile. Il concerto non è il punto d’arrivo di una
relazione di ricerca: può capitare però ne sia una fase significativa.
Non è insomma soltanto il prodotto di una ricerca, ma è anche motore di
ricerca. Lo è stato, tra le altre cose, il concerto del 1956 per il
quale Leydi ha portato a Reggio Emilia, e poi ha ospitato a Milano i
cantastorie siciliani Orazio Strano e Ciccio Busacca, con Ignazio
Buttitta: e ne è scaturito un contrasto improvvisato tra i due che è un
documento assai importante per le ricerche sui cantastorie; lo sono
stati i concerti degli anni Settanta e Ottanta che hanno visto a Como e
a Milano i grandi interpreti italiani e stranieri della musica delle
zampogne o del canto rebetiko, o ancora, assieme, i grandi maestri
delle launeddas Burranca, Lai e Porcu.
Da quando, nel 2004, ho assunto la direzione artistica del Festival
Suoni dal Mondo – che è un Festival prodotto direttamente da un
Dipartimento universitario, dunque segnato per sua natura e
collocazione da una stretta relazione tra attività di ricerca e
attività di spettacolo – ho inteso marcare sensibilmente questo
aspetto, nel solco tracciato da Leydi a Milano, con gli spettacoli
promossi dal Piccolo Teatro, le collaborazioni con La Scala e altri
enti, e a Como, negli anni in cui dirigeva la parte dedicata alle
musiche orali dell’Autunno Musicale. L’edizione 2008 del Festival ha
goduto di un European Grant Agreement, finalizzato alla divulgazione in
Europa dei contenuti del Festival, nel quadro più ampio della
circolazione di cultura all’interno della Comunità. Il contributo ha
consentito di il rapporto tra ricerca etnomusicologica e
messa in scena, anche scambiando proposte con musicisti e studiosi di
diversi paesi. Gli strumenti scelti per la riflessione e l’intervento
sui processi legati al rapporto tra ricerca e spettacolo sono stati
molteplici.
I concerti sono stati trasmessi in streaming. Da ogni luogo d’Europa e
del mondo dunque è possibile assistere agli spettacoli, che poi restano
accessibili in permanenza sul sito del Dipartimento di Musica e
Spettacolo, alla pagina di Suoni dal Mondo. Il che vale sia a rendere
fruibili gli spettacoli ad un pubblico potenzialmente illimitato, che a
permettere alla gente delle campagne o delle città dei Paesi da cui
provengono i musicisti di vedere e ascoltare le proprie tradizioni
rappresentate in un luogo diverso e distante da casa propria (e oggi
spesso i luoghi di emigrazione, anche distanti dai grandi centri
urbani, in regioni povere di rete stradale, sono dotati, non
casualmente e non sorprendentemente, di reti telematiche).
Hatixe Korlak e Selvinaze Bytiqi, due suonatrici zingare della città di
Prizren, protagoniste, con altri musicisti del Kosovo, dei concerti del
28 novembre e del 2 dicembre, si sono fermate a Bologna una
settimana, per registrare in studio l’intero loro repertorio. Ancora, è
stato stipulato un accordo con una importante etichetta discografica
(Ermitage), dedita finora soltanto alla pubblicazione di repertori
classici, la quale apre con la pubblicazione di cd antologici dei
concerti di Suoni dal Mondo una collana dedicata alle musiche di
tradizione orale. I cd vengono distribuiti in Europa e negli Stati
Uniti.
Ancora, ha luogo presso i Laboratori DMS questo convegno, nel corso del
quale studiosi provenienti da diversi paesi si confrontano appunto sui
problemi del rapporto tra ricerca e concerti. Ci si propone di fondare
con questo convegno una rete che coinvolga istituzioni scientifiche di
diversi paesi, per condividere proposte di concerti che scaturiscono
dalle ricerche condotte da ciascuna di queste istituzioni. Così i
suonatori potranno ricevere direttamente le proposte di
ingaggio da ciascuno degli enti partecipanti, fuori dai
consueti circuiti della world music e senza necessità di ricorrere
all’onerosa mediazione di impresari.
In occasione del convegno vengono presentate, in una nutrita serie di
concerti pomeridiani gratuiti e aperti al pubblico, alcune produzioni
originali di Suoni dal Mondo. Le tradizioni musicali per quanto
possibile vengono presentate al pubblico in una forma vicina a quella
dei contesti d’uso originari. Il terreno d’incontro è quello
tradizionale della sala da concerto; le modalità d’ascolto sono quelle
del concerto. In sala però, oltre al consueto pubblico dei concerti, vi
sono spesso, in quantità, immigrati che provengono dai Paesi le cui
tradizioni vengono messe in scena sul palco: a loro sono riservati dei
biglietti d’ingresso gratuiti. L’interazione tra loro e i musicisti
diviene essa stessa spettacolo: mette in scena, vividamente e dal vero,
elementi della flessibilità dei ruoli, dell’interazione tra chi ascolta
e chi suona propria di molte musiche di tradizione orale.
Da quest’anno, grazie al finanziamento 2008, inizia una collaborazione
tra Suoni dal Mondo e Adela Peeva, cinematografa documentarista bulgara
di grande notorietà internazionale, autrice di alcuni tra i più
importanti documentari sulle tradizioni dell’Europa, soprattutto
orientale. Con lei ci si propone di realizzare dei film documentari che
diano conto della vita e dell’attività dei musicisti a casa propria. Si
intendono raccontare le loro condizioni esistenziali, le attività
lavorative, le abitudini e le frequentazioni; si intende mostrare il
modo e le occasioni in cui eseguono musica nel loro Paese d’origine, le
ragioni di quel far musica, il rapporto tra chi suona, chi danza, chi
ascolta o è intento ad altre attività. Si intende insomma, in modo più
esteso e più approfondito di quanto sia stato fatto finora, far
spettacolo della ricerca, e fare dello spettacolo un nuovo motore per
le attività di ricerca.
Nico
Staiti
Direttore artistico di Suoni dal mondo
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*Relazione
introduttiva al Convegno Internazionale “Dalla ricerca sul campo al
concerto”, Bologna, 4-7 dicembre 2008.