Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Suoni dal Mondo 2008


 SUONI DAL MONDO 
festival di musica etnica    XIX edizione   novembre-dicembre 2008  

I concerti e l’etnomusicologia* 

Intendo in questo intervento porre all’attenzione un argomento spesso trascurato dagli etnomusicologi sul piano teorico e metodologico, sebbene non di rado invece frequentato sul piano concreto della sua messa in opera. Mi riferisco all’attività, occasionale o continuativa, di direzione artistica di festival, di realizzazione di concerti o anche soltanto di presentazione di essi o di redazione di note d’accompagnamento a produzioni discografiche destinate non solo all’attività di studio ma anche al mercato. Insomma, mi pare opportuna una riflessione sui modi e le tecniche della divulgazione, della fruizione estetica delle musiche di cui ci occupiamo e che siamo talvolta chiamati a offrire o presentare al pubblico. Tema non irrilevante sia nel quadro degli studi etnomusicologici che in quello della funzione sociale e culturale di quegli studi, del nostro lavoro, nel rapporto con gli altri (i non specialisti, il pubblico, gli acquirenti delle produzioni discografiche, e i protagonisti degli spettacoli e delle incisoni prodotte: i musicisti chiamati a mettere in scena sé stessi in luoghi e situazioni diversi da quelli in cui normalmente svolgono la loro attività). La questione oggi si pone all’attenzione con particolare evidenza, e merita forse da parte nostra una certa attenzione pure per la diffusione che hanno certi fenomeni di divulgazione anche di un certo rilievo e notorietà: quelli ad esempio che hanno portato a fama nazionale e sovranazionale – con percorsi e risultati assai diversi tra loro - tradizioni e repertori come il canto a tenores o la pizzica salentina, fino ad allora noti solo agli specialisti e a pochi cultori delle tradizioni locali. Accanto ad un modo di trasformare in spettacolo le tradizioni locali che a me pare si fondi sullo svuotamento di senso – non solo lo comporti come effetto secondario, ma proprio ne sia una necessità fondante – sono stati praticati e continuano ad esserlo altri modi di proporre al pubblico le musiche delle tradizioni locali. Viene fatto di chiedersi che senso abbia, oggi, un concerto o un festival di musiche di tradizione orale. Quando tutto si trova su cd, si vede in televisione, viene messo in scena in concerti ipertrofici e spettacolari, magari variamente rimaneggiato da noti e meno noti interpreti della musica leggera, del jazz, del rock, del folk revival. Certo, spesso affiancati da qualche vecchietto di paese, la cui presenza vuol testimoniare l’autenticità dell’operazione, la continuità col passato, di cui questa roba si vuole sia la diretta continuazione, o piuttosto la necessaria trasformazione. Proprio per questo oggi, quando l’accerchiamento culturale appare più che mai intenso, una rassegna di musica di tradizione ha forse anche più senso che in passato. Soprattutto perché racconta che le tradizioni esistono, si perpetuano, si trasformano secondo procedimenti loro peculiari che poco o nulla hanno a che fare con grandi eventi mediatici di riduzione di altre culture al modello di comunicazione dominante. Forniscono strumenti per distinguere, per misurare le distanze, per conoscere, anche con un certo dettaglio, le differenze che corrono tra il modo di pensare alla musica di musicisti professionisti romagnoli e musicisti professionisti zingari rumeni, tra pastori del Dodecanneso e pastori siciliani. Microstorie, certo, quantomeno alcune di esse, ma di questo arcipelago di microstorie si compone un panorama musicale assai vasto. Questo e altro, nel suo insieme, è quel che ascolta una enorme quantità di gente: quel che passa attraverso i grandi mezzi di comunicazione certo è assai più largamente condiviso, ma il liscio di Romagna, i saltarelli delle Marche, le sirbe della Romania o i canti contadini del Burkina, nel loro complesso, evocano e direttamente interessano una porzione di umanità non meno ampia, che pur ove conosca quel che passa la televisione non cessa, ancor oggi, di avere una competenza viva delle tradizioni di casa propria. E la riproposta in concerto costituisce in certo modo di per sé un modello possibile di relazione tra culture: che, di solito, non passa attraverso la mescolanza, la collaborazione tra musicisti di diversi luoghi e che possiedono diversi linguaggi musicali, o la loro appropriazione da parte di professionisti o appassionati estranei a quei linguaggi, ma perché il concerto è, di per sé, momento di mediazione tra occasioni e funzioni diverse del far musica: il mutare di funzione, lo scambiarsi dei medesimi oggetti sonori tra le loro funzioni e occasioni di uso consuete - occasioni rituali, feste pubbliche e private, attività lavorative ecc, - e rito borghese del concerto è terreno concreto e vivo di confronto tra culture diverse. Ma prima di valutare il modo in cui i concerti e le occasioni ad essi legati costituiscono un terreno etnografico di confronto e ricerca mi pare opportuno spendere ancora qualche parola sulle operazioni di cosiddetta “contaminazione”, per ora tanto di moda. Va quantomeno osservato, a proposito del successo di festival in cui bande di ottoni macedoni o suonatori siciliani di zampogna vengono chiamati a suonare accanto a protagonisti del jazz, del rock, della musica leggera, che il ruolo degli uni e degli altri non è simmetrico né paritario: non di fusione né di contaminazione o di incontro si tratta, ma di appropriazione. Non lo dico in termini etici, ma squisitamente musicali: quel che di norma accade in queste occasioni è che i musicisti di diverse tradizioni locali chiamati in scena continuano ad eseguire la propria musica, più o meno indifferenti a quel che accade attorno a loro e a quanto si sovrappone ai suoni da loro prodotti. Del resto spesso i loro strumenti musicali, i loro repertori mal si adattano ad escursioni al di fuori dei propri linguaggi: sono il prodotto di lunghi processi di selezione e di specializzazione in ragione dei quali sono adatti a muoversi all’interno di uno spettro finito e ristretto di possibilità. Certo non funziona per tutti allo stesso modo: v’è differenza ad esempio tra zampogne o oboi popolari che si muovono su rapporti tra suoni precodificati e limitati e fisarmoniche e trombe o clarinetti moderni, che consentono di lavorare con duttilità su successioni diverse. Sebbene spesso le tecniche esecutive che appartengono a tradizioni locali prevedano successioni di gesti standardizzate, che impongono allo strumento percorsi circoscritti. E v’è differenza, ancora, tra non professionisti e professionisti: saxofonisti o clarinettisti zingari dei Balcani, ad esempio, abituati a innovare i linguaggi delle loro tradizioni di riferimento, si adattano al diverso con maggiore duttilità rispetto a zampognari o cantori di estrazione contadina e pastorale. Ma un altro dato merita di esser segnalato: anche tra questi musicisti più versatili, e nel loro tradizionale bacino d’utenza, le escursioni in altri orizzonti musicali e le collaborazioni con musicisti d’altra estrazione per lo più non vengono tenute in gran conto. I prodotti di queste attività non vengono esibiti se non coi visitatori stranieri; in casa di solito i musicisti non tengono neppure i cd che testimoniano delle collaborazioni. Né capita che questi cd si trovino, ad esempio, nei minimarket o nei piccoli negozi musicali di luoghi quali il Kosovo, l’Albania, il Montenegro, la Serbia, la Macedonia: luoghi tutti di pesca intensiva per la world music. I negozietti di questi paesi invece sono ricchi di produzioni di musica locale, spesso di qualità: la gente del posto le altre cose non le compra. La world music è un fenomeno che interessa una piccola parte della borghesia urbana d’Europa occidentale e d’America e non tocca, sul piano della fruizione, il pubblico tradizionale e anche i musicisti delle culture musicali di cui si appropria.
La mia prima esperienza di concerti di musiche di tradizione orale si è formata attraverso Roberto Leydi, che è stato docente di etnomusicologia, prima di me, all’Università di Bologna. Leydi è stato fin dagli anni Cinquanta del Novecento uno dei protagonisti – forse il principale artefice – di un modo peculiare di intendere e articolare il rapporto tra attività di ricerca e riproposta in concerto di musiche di tradizione orale. Presentate al pubblico nella maniera più scarna possibile, con quell’estetica sobria e minimalista che contraddistingueva anche altre sue attività pubbliche. Ma quei concerti si nutrivano di uno stretto rapporto tra attività di ricerca etnomusicologica e attività di produzione. In messe in scena di tal fatta non soltanto la cultura dello spettacolo, moderna, borghese, occidentale, incontra quella del rito, della musica funzionale senza piegarla a sé, senza ridurla a scolorito specchio di sé medesima; l’occasione del concerto diviene parte non secondaria della relazione tra i ricercatori e i protagonisti, gli interpreti delle tradizioni, è una parte rilevante di quella “restituzione” di cui accade di parlare ma su cui poco si fa. Non perché costituisca una forma indiretta di pagamento, ma perché compie, rende manifesto un aspetto importante, nella relazione, del ruolo di chi fa ricerca. Cantori e suonatori per lo più sono ben consapevoli del fatto che, nel raccontarsi di fronte al taccuino, al microfono, alla telecamera del ricercatore si consegnano alla storia. “Adesso signuria può scrivere tanto” disse a Diego Carpitella una donna in Puglia negli anni Sessanta, dopo aver cantato per il suo magnetofono. E anche il documento sonoro registrato è il frutto di una contrattazione, di una intesa tra ricercatore e informatore; esso è un’opera chiusa, pronto, appunto, ad essere consegnato alla storia, congelando il contingente, l’estemporaneo in una forma definitiva: “così è, ora e per sempre”. O, per dirla in termini meno altisonanti, cantori e suonatori sanno che il ruolo del ricercatore è, prima di tutto, quello di un traduttore: di chi consegna le conoscenze che gli vengono trasmesse ad una tradizione diversa del sapere, svolgendo, dunque appunto un ruolo di traduzione in diversi linguaggi, in altre forme di pensiero. Il che comporta una inevitabile, necessaria trasformazione dell’oggetto, della quale in diverso modo sono consapevoli entrambe le parti della relazione. La traduzione è il prodotto di un lavoro collettivo; il suo risultato dipende non soltanto dalla qualità delle domande e delle richieste di chi svolge la ricerca, ma anche dalla consapevolezza di chi trasmette ad altri il proprio sapere, dal modo in cui sceglie di farlo, in cui si mette in scena. Il setting, è evidente, determina la rilevanza della relazione di ricerca: tra il modo in cui un musicista si comporta nel corso della sua attività, ad esempio, in una festa o in una cerimonia – che può essere influenzato anche poco o per nulla dalla presenza di osservatori esterni e apparecchiature di ripresa – e una seduta di registrazione in casa o in studio il comportamento relativo di ricercatore e musicista muta parecchio. Sul palco la partecipazione degli attori alla rappresentazione di sé per gli “altri” è esplicita e completa. Il concerto è un terreno concreto sul quale il lavoro di traduzione si compie; i suoi modi, le sue tecniche sono il prodotto di una contrattazione, implicita o esplicita, tra il ricercatore, l’organizzatore o direttore artistico che sia e gli “informatori” divenuti, sul palco, “artisti”. Certo non funziona per tutti – per tutti i concerti, per tutti gli “artisti”, nello stesso modo. V’è grande differenza tra suonatori professionisti o semi-professionisti e non; tra musiche già destinate ad un ascolto pubblico e repertori domestici, tra oggetti sonori che conoscono già una fruizione prevalentemente estetica (ad esempio la musica carnatica o i repertori fasil) ed altri la cui funzione primaria è altra. E pure tra i professionisti, abituati ad esibirsi in sale da concerto, vi sono differenze anche grandi circa il modo di intendere la musica, il proprio ruolo, il rapporto tra la forma del concerto e le forme che assume il loro far musica in altri contesti. Luigi Lai è un grande interprete del repertorio tradizionale delle launeddas. Quello strumento appartiene alla Sardegna rurale, ad un mondo pastorale, contadino, artigiano. I suonatori di solito affiancavano al mestiere di musicista un’attività artigiana – in genere quella di ciabattino – e occasionalmente dei lavori agricoli. La loro formazione musicale era un’attività intensa e rigorosa, che poteva includere l’apprendimento della notazione. Lai frequentò delle scuole di musica, e imparò anche a suonare la fisarmonica. Emigrato in Svizzera, ha seguito i corsi di un’accademia musicale per imparare a suonare professionalmente il saxofono, strumento dal quale, in un paese straniero, poteva ricavare sostentamento eseguendo musiche da ballo e repertori jazz. Tornato alla Sardegna e alle launeddas, tutto ciò gli è servito ad acquisire mutata coscienza di sé, del proprio repertorio, del rapporto col patrimonio di tradizione, coi maestri del passato e con le trasformazioni recenti, gli influssi esterni. Oggi suonare per il ballo o la processione gli giova a mantenere vitale il rapporto con modi e funzioni originari, ma oggi per lui il concerto è il luogo privilegiato in cui dispiegare la straordinaria padronanza dello strumento e del repertorio formata negli anni. Con un rigore, nell’articolazione della sua parole sulla langue delle launeddas, affinato e nutrito dalle competenze acquisite in altri settori. Jivan Gasparyan non è un suonatore di duduk di tradizione: è il rappresentante emblematico della cultura armena in musica. Insegna il suo strumento in conservatorio, si è esibito sui più importanti palcoscenici del mondo, ha ricevuto riconoscimenti internazionali, ha avuto collaborazioni di rilievo con importanti interpreti di altri generi musicali. La sua frequentazione di festival internazionali, le collaborazioni con altri musicisti hanno comportato esiti assai diversi o addirittura opposti a quelli che hanno comportato per Lai: se questi consapevolmente e orgogliosamente si propone come continuatore della tradizione dei grandi maestri del Campidano (Efisio Melis e Antonio Lara) – e dunque, se pure in altri contesti presta la sua opera per accompagnare cantanti di musica leggera o per collaborazioni con jazzisti, quando si esibisce da solista interpreta con rigore le complesse strutture compositive del linguaggio di tradizione - Gasparyan reinventa un genere musicale adatto a proporsi come bandiera dell’armenità in musica con un consort di duduk – il contralto e il tenore sono una sua invenzione -: così, sulla scorta di quanto ascoltato nei festival da gruppi di folk revival europeo e di musica antica dà vita ad una sorta di “musica rinascimentale armena” del tutto moderna e distante dai linguaggi di tradizione (del resto un suonatore di tamburello di Messina, di famiglia di zampognari e di estrazione urbana e sottoproletaria, nel raccontarmi di essere stato reclutato da un ensemble di musica antica di Catania mi ha detto: “sai cos’è sta musica antica? Come ti posso dire... musica etnica contemporanea”. E aveva ragione lui). Ancora diverso è il caso di Ivo Papasov, virtuoso suonatore di clarinetto rom del sud della Bulgaria assurto a grande fama nazionale e internazionale grazie a funamboliche esecuzioni della musica da feste di nozze, appannaggio in quell’area appunto di gruppi di professionisti zingari. La sua disponibilità ad accogliere elementi di linguaggi musicali allogeni – soprattutto il jazz, ma anche la musica leggera – è lo sviluppo estremo, lo stadio più avanzato di processi di modificazione che appartengono a quella tradizione, votata per sua natura al continuo rinnovamento.
Altre considerazioni riguardano cantori e suonatori, professionisti o no, abituati a esercitare la propria attività pressocché esclusivamente all’interno delle proprie comunità. In questo caso l’articolazione del passaggio è più delicata, ed è frutto di una contrattazione, una mediazione tra intenti, funzioni, modi dell’esecuzione musicale. A partire proprio dalla stessa definizione di un brano come oggetto finito, o del concetto stesso di musica. Hatixhe Borlak e Selvinaze Bityqi, le due musiciste rom di Prizren che si sono esibite ieri sera sono alla loro terza presenza a Suoni dal Mondo: la prima volta sono venute due anni fa, assieme ad altri suonatori; poi ancora la settimana scorsa, con un gruppo ampio, e infine, ieri, da sole. Nei giorni intercorsi tra il concerto di sabato e quello di ieri abbiamo registrato l’intero loro repertorio (una decina d’ore di modulazioni ritmiche serrate e rigorose) e lungamente parlato di musica, della loro musica, di feste, di concerti. Risulta ben chiaro, dalla loro esecuzione di ieri, come la costruzione dello spettacolo abbia tenuto in considerazione la diversa competenza del pubblico: che non danza (almeno la maggior parte di esso), ma ascolta; cui in apertura può essere proposta, didatticamente, la sequenza di ritmi come guida all’ascolto. E se il repertorio usato in una festa è quello destinato a quell’occasione, per gente di quella zona, coi nomi di quei protagonisti, sposi, bambini circoncisi, parenti, qui hanno eseguito un brano destinato ai cattolici dei villaggi ad est di Prizren, uno della tradizione turca di città, le musiche dei riti nuziali dei rom di Jakova. Un momento per me significativo in cui un cantore percepì e comprese la diversa destinazione d’uso della sua esecuzione, senza esplicita contrattazione con gli organizzatori, è stato il concerto di musiche lobi del Burkina Faso, a Suoni dal Mondo. A Sigité Cambité, un anziano contadino, era richiesta l’esecuzione di canti di lavoro – poco noti anche alla ricerca etnomusicologica – che per la funzione e per la struttura musicale offrono peraltro interessanti elementi di confronto col blues delle origini. Lui era stupito e imbarazzato, per essere chiamato a invitare della gente ad aiutarlo a zappare ove non v’erano né terra né contadini. Ma nel corso dell’esecuzione, nelle diverse sere in cui si esibì, il suo richiamo divenne canto: pur senza mutare nella sua struttura formale, subì un evidente cambiamento nella performance, con esiti rilevanti, sul piano estetico ed emotivo, sia per lui che per il suo pubblico. Quello del concerto è un luogo sensibile, un momento critico della relazione di ricerca, sul quale mi pare opportuna una seria riflessione di metodo, che certo non pretendo non solo di esaurire, ma neanche di dispiegare per intero in questo intervento. Da qua si parte per una diversa posizione relativa di chi osserva e chi è osservato, chi è produttore e chi si esibisce. La ricerca ne risulta orientata in modo sensibile. Il concerto non è il punto d’arrivo di una relazione di ricerca: può capitare però ne sia una fase significativa. Non è insomma soltanto il prodotto di una ricerca, ma è anche motore di ricerca. Lo è stato, tra le altre cose, il concerto del 1956 per il quale Leydi ha portato a Reggio Emilia, e poi ha ospitato a Milano i cantastorie siciliani Orazio Strano e Ciccio Busacca, con Ignazio Buttitta: e ne è scaturito un contrasto improvvisato tra i due che è un documento assai importante per le ricerche sui cantastorie; lo sono stati i concerti degli anni Settanta e Ottanta che hanno visto a Como e a Milano i grandi interpreti italiani e stranieri della musica delle zampogne o del canto rebetiko, o ancora, assieme, i grandi maestri delle launeddas Burranca, Lai e Porcu.
Da quando, nel 2004, ho assunto la direzione artistica del Festival Suoni dal Mondo – che è un Festival prodotto direttamente da un Dipartimento universitario, dunque segnato per sua natura e collocazione da una stretta relazione tra attività di ricerca e attività di spettacolo – ho inteso marcare sensibilmente questo aspetto, nel solco tracciato da Leydi a Milano, con gli spettacoli promossi dal Piccolo Teatro, le collaborazioni con La Scala e altri enti, e a Como, negli anni in cui dirigeva la parte dedicata alle musiche orali dell’Autunno Musicale. L’edizione 2008 del Festival ha goduto di un European Grant Agreement, finalizzato alla divulgazione in Europa dei contenuti del Festival, nel quadro più ampio della circolazione di cultura all’interno della Comunità. Il contributo ha consentito di il rapporto tra ricerca etnomusicologica  e messa in scena, anche scambiando proposte con musicisti e studiosi di diversi paesi. Gli strumenti scelti per la riflessione e l’intervento sui processi legati al rapporto tra ricerca e spettacolo sono stati molteplici.
I concerti sono stati trasmessi in streaming. Da ogni luogo d’Europa e del mondo dunque è possibile assistere agli spettacoli, che poi restano accessibili in permanenza sul sito del Dipartimento di Musica e Spettacolo, alla pagina di Suoni dal Mondo. Il che vale sia a rendere fruibili gli spettacoli ad un pubblico potenzialmente illimitato, che a permettere alla gente delle campagne o delle città dei Paesi da cui provengono i musicisti di vedere e ascoltare le proprie tradizioni rappresentate in un luogo diverso e distante da casa propria (e oggi spesso i luoghi di emigrazione, anche distanti dai grandi centri urbani, in regioni povere di rete stradale, sono dotati, non casualmente e non sorprendentemente, di reti telematiche).
Hatixe Korlak e Selvinaze Bytiqi, due suonatrici zingare della città di Prizren, protagoniste, con altri musicisti del Kosovo, dei concerti del 28  novembre e del 2 dicembre, si sono fermate a Bologna una settimana, per registrare in studio l’intero loro repertorio. Ancora, è stato stipulato un accordo con una importante etichetta discografica (Ermitage), dedita finora soltanto alla pubblicazione di repertori classici, la quale apre con la pubblicazione di cd antologici dei concerti di Suoni dal Mondo una collana dedicata alle musiche di tradizione orale. I cd vengono distribuiti in Europa e negli Stati Uniti.
Ancora, ha luogo presso i Laboratori DMS questo convegno, nel corso del quale studiosi provenienti da diversi paesi si confrontano appunto sui problemi del rapporto tra ricerca e concerti. Ci si propone di fondare con questo convegno una rete che coinvolga istituzioni scientifiche di diversi paesi, per condividere proposte di concerti che scaturiscono dalle ricerche condotte da ciascuna di queste istituzioni. Così i suonatori potranno ricevere direttamente le proposte di ingaggio  da ciascuno degli enti partecipanti, fuori dai consueti circuiti della world music e senza necessità di ricorrere all’onerosa mediazione di impresari.
In occasione del convegno vengono presentate, in una nutrita serie di concerti pomeridiani gratuiti e aperti al pubblico, alcune produzioni originali di Suoni dal Mondo. Le tradizioni musicali per quanto possibile vengono presentate al pubblico in una forma vicina a quella dei contesti d’uso originari. Il terreno d’incontro è quello tradizionale della sala da concerto; le modalità d’ascolto sono quelle del concerto. In sala però, oltre al consueto pubblico dei concerti, vi sono spesso, in quantità, immigrati che provengono dai Paesi le cui tradizioni vengono messe in scena sul palco: a loro sono riservati dei biglietti d’ingresso gratuiti. L’interazione tra loro e i musicisti diviene essa stessa spettacolo: mette in scena, vividamente e dal vero, elementi della flessibilità dei ruoli, dell’interazione tra chi ascolta e chi suona propria di molte musiche di tradizione orale.
Da quest’anno, grazie al finanziamento 2008, inizia una collaborazione tra Suoni dal Mondo e Adela Peeva, cinematografa documentarista bulgara di grande notorietà internazionale, autrice di alcuni tra i più importanti documentari sulle tradizioni dell’Europa, soprattutto orientale. Con lei ci si propone di realizzare dei film documentari che diano conto della vita e dell’attività dei musicisti a casa propria. Si intendono raccontare le loro condizioni esistenziali, le attività lavorative, le abitudini e le frequentazioni; si intende mostrare il modo e le occasioni in cui eseguono musica nel loro Paese d’origine, le ragioni di quel far musica, il rapporto tra chi suona, chi danza, chi ascolta o è intento ad altre attività. Si intende insomma, in modo più esteso e più approfondito di quanto sia stato fatto finora, far spettacolo della ricerca, e fare dello spettacolo un nuovo motore per le attività di ricerca.


Nico Staiti
Direttore artistico di Suoni dal mondo

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*Relazione introduttiva al Convegno Internazionale “Dalla ricerca sul campo al concerto”, Bologna, 4-7 dicembre 2008.


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