Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Cimes - Programmi 1999 Teatro

Incontri Seminari Laboratori
edizioni precedenti

TEATRO
1999-2000

Generazione SCENARIO 2000
a cura dell’Associazione Scenario
in collaborazione con ETI
ente teatrale italiano
Bologna, Centro di Promozione Teatrale La Soffitta
5-6 febbraio 2000
 
Il progetto Generazione SCENARIO 2000 ha rappresentato la prima tappa di un percorso destinato a far circolare sul territorio nazionale gli spettacoli nati dalla settima edizione del Premio Scenario.
Un osservatorio di spettatori condotto da Massimo Marino e realizzato nell’ambito del Laboratorio di critica e cronaca teatrale del CIMES ha seguito l’intero progetto, guidando un gruppo di studenti nel percorso di visione degli spettacoli, incontro con gli artisti, elaborazione di materiali critici.
Questa Rassegna critica è il risultato di tale percorso, che è intenzione dell’Associazione Scenario proseguire lungo le prossime tappe del progetto dedicato alla Generazione 2000.
 
UN OSSERVATORIO SUL NUOVO
Incontro a più voci per fare il punto sul progetto Generazione Scenario 2000
di Elisa Orlandi
 
Capire in quale direzione si stanno muovendo le giovani generazioni di teatro, capire anzitutto se si stanno muovendo è una sfida non solo ardua, ma che pare non avere mai un vincitore. C’è chi decreta inesorabile la morte del teatro, poiché non ci sono più maestri in grado di fare scuola, chi con orgogliosa nostalgia rievoca i tumultuosi anni Settanta a cui non è seguito più nulla di veramente innovativo, chi ottimisticamente è convinto che sotto sotto qualcosa di non ben definito cresce, esplora, va oltre…
In questo marasma di opinioni, che nella maggior parte dei casi sembrano più atti di fede che lucide analisi di un presente tutt’altro che cristallino, può essere estremamente importante darsi degli strumenti concreti, per quanto parziali e circoscritti, in grado di sondare un "nuovo teatrale" così difficile da portare a galla.
Con questa vocazione è nato il Premio Scenario, giunto quest’anno alla sua settima edizione. Promossa dall’Associazione Scenario, che dal 1987 vede coinvolti in progetti comuni un soggetto istituzionale come l’Eti e un gruppo di trentuno soci pubblici e privati sparsi in tutta Italia (tra teatri di ricerca, centri di promozione teatrale, teatro ragazzi), questa iniziativa mostra di consolidarsi e di ampliarsi col passare del tempo.
Cardine centrale e costante rimane il ruolo di osservatorio del nuovo. Da sempre, infatti, Scenario lavora nel territorio che precede la formalizzazione della ricerca: accompagna i progetti selezionati dal loro stato embrionale di idea all’esito compiuto dello spettacolo, passando per fasi intermedie che consistono in valutazioni di brevi presentazioni, di studi e in incontri con gli artisti per comprendere i processi creativi e le motivazioni guida. Un’occasione, dunque, non solo per segnalare e valorizzare artisti esordienti o équipe di recente formazione, ma anche per confrontarsi e riflettere su idee e visioni di teatro inedite.
La novità di quest’anno è, invece, il progetto denominato "Generazione Scenario 2000" che si prefigge di seguire le compagnie vincitrici anche dopo l’assegnazione del premio, favorendo, nei mesi successivi, la loro circuitazione sul territorio nazionale e dedicandovi iniziative specifiche di promozione e sostegno. Tra queste è prevista la pubblicazione di un "Quaderno di Scenario" contenente la documentazione dell’intero progetto.
È evidente che l’Associazione è impegnata in un ripensamento della propria struttura e progettualità e questo è stato uno dei temi centrali dell’incontro intitolato "Dopo il Premio" che sabato 5 febbraio ha introdotto due giornate di spettacoli, ovvero il debutto del progetto vincitore e dei tre premi speciali.
La motivazione di fondo, come già detto, resta quella delle origini, ovvero la necessità di una ricognizione sistematica del nuovo e una più attenta risposta alla straordinaria domanda di teatro posta dalle ultime leve del settore. La ristrutturazione investe più che altro le modalità, le iniziative e i mezzi per soddisfare una simile esigenza. Come ha puntualizzato Cristina Valenti (coordinatrice commissione progetto Associazione Scenario) in apertura dell’incontro, il primo passo è in direzione del superamento dell’ormai famigerata divaricazione tra le potenzialità artistiche da un lato e le possibilità materiali, strutturali dall’altro, cosicché il teatro dei giovani, indiscusso portatore di nuovi fermenti e imprevedibili sviluppi, diventi il soggetto privilegiato e dunque la normalità, anziché l’eccezione. Questo, tuttavia, significa cambiare le regole del gioco, creare i presupposti per un ricambio generazionale all’interno di un sistema che tutela il già noto, il già riconosciuto. Luciano Nattino (presidente coordinamento prosa) ha ricordato come tuttora la quasi totalità delle sovvenzioni sia destinata alle stesse compagnie di quindici anni or sono o come la burocrazia ritardi spaventosamente l’elargizione di finanziamenti già approvati; senza contare che la prepotente invasività politica nel settore ostacola e penalizza ulteriormente il professionismo teatrale.
Nell’(eterna)attesa di una riorganizzazione legislativa, non è comunque eludibile un’interazione con gli organi ufficiali: il nuovo necessita di un riconoscimento tanto economico quanto istituzionale per manifestarsi. Ecco allora che la presenza dell’Eti all’interno dell’Associazione si configura come un importantissimo anello di congiunzione. In proposito, Ilaria Fabbri (ETI) ha ribadito che l’Ente, per svolgere questo ruolo, deve misurarsi in continui dialoghi e mediazioni che mantengano aperto il rapporto fra le generazioni teatrali e le dialettiche istituzionali.
La cosa non stupisce affatto se si considera che il Premio Scenario, come ha osservato Massimo Marino (membro della giuria), si pone come un canale in grado di accettare soggetti ai margini delle tradizionali categorie teatrali, formazioni estremamente fluide, non preventivate, in via di una propria definizione. Per capirci meglio, se si eccettua il vincitore del concorso, Patrizio Dall’Argine, che ha alle spalle un iter teatrale ancora "riconoscibile", i destinatari dei premi speciali provengono da percorsi estremamente insoliti: la Compagnia del Lazzaretto Occupato di Bologna, guidata da Giorgio Simbola, è costituita da alcuni membri di sei famiglie di etnia Rom che da nove anni condividono uno spazio comune; la compagnia ravennate Bassini-Bruni assembla per l’occasione artisti di differenti settori performativi e il gruppo napoletano Babbaluck, operante in un condominio sede di un centro sociale, è anch’esso un crogiolo di giovani di diversa estrazione artistica (teatro di strada e di ricerca, teatro partenopeo, arti visive, musica).
Loro per primi, chiamati a dare una testimonianza inerente a questa esperienza, hanno tradito una certa difficoltà a definirsi, a raccontarsi o a formulare aspettative per il futuro (…del resto come dar loro torto: a poche ore dal debutto chiunque avrebbe altre preoccupazioni per la testa!).
E comunque valga a conclusione questo pensiero di Gerardo Guccini (membro dell’osservatorio critico e della giuria): un’iniziativa come il Premio Scenario forse non inciderà in maniera decisiva sul destino delle compagnie che hanno concorso (d’altro canto il nuovo si annuncia in mezzo a mille tensioni ed ostacoli e può contare solo sulle proprie forze per emergere), ma certamente potrà, attraverso gli artisti segnalati, incidere su se stesso, acquistando prestigio e precisando la natura del soggetto che va ad esaminare, che è in definitiva il divenire del teatro.

 

 
GENERAZIONE SCENARIO 2000
LA PAROLA AGLI ARTISTI
di Daniela Turco Liveri
 
Quattro sono stati i vincitori, che dopo aver superato le precedenti tappe del premio, che consistevano nell'elaborazione cartacea del progetto teatrale e la successiva presentazione di venti minuti dello stesso, hanno la possibilità di debuttare con il loro lavoro al teatro San Martino di Bologna.
Scenario è un canale per cui un artista, assumendosi un certo margine di rischio per trasmettere il non preventivato e il non definitivo, può presentarsi. Una sorta di trampolino di lancio, da cui può spiccare il volo solo chi è spinto da una forte vena artistica e si sente capace di affrontare la realtà.
I registi dei diversi lavori selezionati, di cui uno solo è il vincitore del Premio Scenario 2000, mentre agli altri tre è stato assegnato un premio speciale, sono stati attivamente presenti alla conferenza, durante la quale sono intervenuti parlando della loro esperienza e in particolare dei loro spettacoli.
Ha iniziato Giorgio Simbola, ricordando con un po’ di nostalgia la sua terra natale, la Sardegna, e i racconti della nonna quando era bambino. Simbola è interessato al tema dell'emigrazione e lo dimostra concretamente attraverso l'esperienza della compagnia del Lazzaretto Occupato, un’esperienza che egli condivide con altri componenti di sei famiglie emigrate per di più dall'Albania, con le quali convive in uno stabile occupato.
Simbola spiega come sia difficile la condizione di vita di chi tutti i giorni pulisce i vetri ai semafori, o chiede denaro all'angolo della strada. Sono proprio loro gli pseudo attori che interpretano "Com'è fatta la terra di mio padre?" C’è imbarazzo nella compagnia, che non solo non è mai salita su un palco, ma che addirittura non è mai entrata in un teatro.
Gerardo Lamattina, regista della compagnia Bassini-Bruni, già nervoso per problemi tecnici, parla del suo odio, anzi della sua noia per il teatro e soprattutto per la danza, a tal punto che, quasi scommettendo con se stesso, ha preso la regia di un progetto prevalentemente coreografico, stravolgendolo, da filmaker purosangue. "Tangaz": il risultato! Un po’ ballo, un po’ poesia, un po’ attori, un po’ ballerini.
"Inconsciamente non sappiamo perché si fa teatro, inconsciamente diamo senso al nostro modo di lavorare, nessun motivo, nessun senso, è come stare su un filo" questo afferma Sergio Longobardi della Compagnia Babbaluck. Il suo intervento tende a sottolineare insistentemente il modo "non conscio" di lavorare e i segreti motivi che ne stanno alla base. "Core", altro non è che un'esperienza di vita, ma non necessaria né per chi la guarda né per chi la fa.
Come per cavalleria interviene per ultimo il vincitore del premio. Patrizio Dall'Argine spiega la lunga e travagliata storia che ha portato alla creazione di "Contraerea", un lavoro che nella sua evoluzione ha portato lo stesso regista a una maturazione artistica, seppur non definitiva.
"Contraerea" è un monologo che egli intraprende con il suo alter ego, a parer suo, un po' scemo. Nel monologo egli pone due punti su cui arrovellarsi, "un qui", rappresentato da lui stesso e "un là" che corrisponde alla guerra nei Balcani. "Lo spettacolo è finito" sostiene l’autore "ma la prima sarà una sorpresa anche per me!"
 
 
QUANDO LA VITA PICCHIA DURO SIMBOLA CE LA RACCONTA A TEATRO
Conversazione con Giorgio Simbola
di Cristina Vercellone
 
Parlo con uno degli attori albanesi di Giorgio Simbola. "E' da quindici anni che sono in Italia", cerca di spiegare in una lingua che non è la sua. Ziwko sta fumando una sigaretta e sorride. "Sto tutti i giorni ai semafori". In Serbia ha lavorato in fabbrica dieci anni. Era anche impegnato a livello sindacale: lottava per la strenua difesa di quei pochi diritti che là gli operai riuscivano ad ottenere. Adesso tutti rimpiangono Tito e le attività lavorative sono sospese.
Ziwko Milovanovic è venuto qui, ma in Serbia sono rimasti i suoi due figli. Ogni volta che telefona per parlare con loro sono venti mila lire, l'incasso di una giornata al semaforo. Lo chiamano l'uomo dei cento scatti. Non può stare all'apparecchio un minuto in più.
E’ questo il mondo che Simbola riesce a far diventare teatro senza perciò travestirlo o truccarlo. Anzi, la scena restituisce a tutte queste persone quell’umanità, quella bellezza, quella ricchezza di caratteri personali e culture antiche, che gli avvilenti incontri quotidiani che abbiamo con loro ai semafori o per strada sembrano voler negare e cancellare, quasi con rabbia.
Dalla musica al teatro
Giorgio Simbola ha quarant'anni e un passato drammatico. "Sono nato in una famiglia povera del Nuorese - racconta - proveniente a sua volta da una famiglia ancora più povera, con una tradizione endemica di emigrazione alle spalle. Mio padre aveva sei bambini da mantenere". Per lui, la professione teatrale è iniziata con la musica. In casa sua non c'era neanche un disco, ma lui si è impegnato ed è diventato un esperto trombonista. Ancora oggi, per mantenersi, suona con alcune band italiane, soprattutto musica etnica e d'avanguardia. Due universi lontani e incomunicabili?
"No - spiega -. Credo ci sia un legame tra i due generi. Oggi, più nessuno suona le pizziche per guarire un tarantolato e chi lo fa compie un'operazione intellettuale di recupero. Ci sono degli artisti che sentono il bisogno di rifarsi alle origini, guardando in avanti. John Zorn, Don Byron, Trilok Gurtu, ma anche Riccardo Tesi e Trovesi sono dei grandi sperimentatori che hanno ripreso a suonare le musiche della tradizione. Invece del jazz americano utilizzano come base le tarantelle".
E' stato suonando a teatro, guardando le compagnie lavorare, che Simbola ha imparato a fare l'attore e il regista. "Il teatro è più potente della musica - dice -. Ti riporta all'essenza di te stesso".
Il limite della situazione teatrale oggi, secondo il regista, è che si è cristallizzata troppo sulla tecnica. "Ogni persona, secondo me, può essere artista. Il teatro non è esclusiva di una élite. Tutti devono avere la capacità materiale di fare arte. Io ho creduto che fosse possibile fare questo lavoro, a livello professionale, solo a 35 anni. Ancora oggi, quando torno al mio paese, mi chiedono della mia occupazione. "Fai teatro? - dicono -. Sì, teatro, ma per campare cosa fai?". Io mi chiedo perché il figlio del professionista deve avere la possibilità di fare tre mila stage e io, a tredici anni, devo lavorare. Quando parlo con alcuni musicisti, loro mi dicono che no, non hanno avuto problemi. Allora, perché, invece, io devo suonare all'Ipercoop vestito come un cretino per avere dei soldi? Lavorare nel teatro e nella musica è un fatto talmente serio che devi avere una forte passione per farlo. Il colmo, poi, sono i teatri stabili che bruciano miliardi e miliardi ogni anno. Ieri i rom sono entrati per la prima volta nella loro vita in un teatro e sono rimasti senza fiato. A me sono scesi i lacrimoni. Pensa, sarebbero morti senza conoscere il teatro. Se andare di fronte a un palcoscenico e vedere Canale cinque, però, è la stessa cosa, allora il teatro non dovrebbe esistere. Io non sono un teorico o un intellettuale, quando decido di lavorare è perché mi trovo di fronte a situazioni che mi fanno piangere".
Una delle attività preferite dal regista è quella del pugilato. Scopriamo che, nella sua formazione, due libri sono stati fondamentali: "Il teatro e il suo spazio" di Peter Brook e "Teatro e box" di Franco Ruffini.
"Il pugile agisce con immediatezza - spiega -. Quando un boxeur perde sta male fisicamente, deve stare a letto alcuni giorni, pieno di botte. Lo stesso è per un attore o un regista quando "buca" uno spettacolo. A me è successo al Kismet di Bari. Sono stato male per tre giorni: era come se avessi la febbre".
 
Bramacieli, solstizio d'estate
Il primo spettacolo che ha realizzato come autore, un paio di anni fa, è "Bramacieli": nella lingua dei calderai, i lavoratori di rame del suo paese, significa "Solstizio d'estate".
Il metodo usato nella costruzione di questo primo spettacolo è identico a quello applicato a "Com'è fatta la terra di mio padre?"
"Parto dal principio dell'evocazione, riporto a galla dei ricordi del passato, poi associo delle immagini, alcune le uso come sottotesto e altre, invece, le faccio emergere sul palcoscenico. Nello spettacolo che avete visto voi ho elaborato dei materiali emersi dalle conversazioni con i miei compagni. Poi io davo delle indicazioni sceniche e montavo il tutto. In "Bramacieli", invece, sono andato indietro, a ripescare nella mia infanzia e nel mio passato di emigrante".
Simbola infatti ha viaggiato una decina d'anni, è stato in Australia, in Israele, dove faceva il camionista, e poi, nel '90, è tornato in Italia. E' arrivato a Bologna e si è messo a fare l'autista per una ditta che collaudava contenitori per gas compressi. Poi sono iniziati i problemi con la casa. Gli hanno dato in affitto un appartamento che era già stato venduto: gli hanno tolto la residenza ed è stato mandato dal comune in un campo nomadi. Questa esperienza riemerge nello spettacolo, insieme all'infanzia in Sardegna. "Quando ero piccolo la vita era regolata da una sorta di codice barbaricino: una serie di norme non scritte che poi sono state devastate dalle leggi italiane e che stanno man mano scomparendo". Il furto di bestiame, per la sua comunità, era un atto di valore.
"La colpa - commenta - era di chi si faceva fregare. C'erano anche delle norme di riparazione: ogni famiglia doveva donare una parte del suo gregge al derubato, ma la colpa restava sua".
Mesina, che era un super ricercato, si faceva tranquillamente fotografare allo stadio. Per quella gente il sequestro è normale. In Sardegna c'è una percentuale di poliziotti più elevata che altrove. I rom sono come i sardi: hanno un forte senso del valore individuale. La persona da rispettare non è quella ricca, ma quella che riesce a portare benessere alla comunità.
Il prossimo spettacolo
Simbola sta già pensando ad un nuovo spattacolo. Infatti è appena morta una donna del Lazzaretto occupato così il regista ha cominciato a raccogliere molti materiali orali, analizzando le reazioni e i sentimenti dei suoi compagni. Studia il serbo e il romki e vuole far rientrare nella rappresentazione i temi dell'infanzia e dell'aldilà. Tra pochi giorni dovrebbero arrivare a Bologna gli operai di una fabbrica serba distrutta dai bombardamenti Nato. "Abbiamo deciso - spiega il regista - dopo varie liti, di fare lo spettacolo e di donare il cachet, nonostante il sacrificio, per la ricostruzione della fabbrica".
Compagnia del Lazzaretto occupato
"Come è fatta la terra di mio padre?"
regia Giorgio Simbola
con gli abitanti di Via del Lazzaretto 17, Bologna
 
 
QUEGLI ATTORI CHE VENGONO DAI SEMAFORI
A teatro le fatiche di vita quotidiana della famiglia di attori del Lazzaretto Occupato
di Cristina Vercellone
 
Con il nuovo spettacolo "Com'è fatta la terra di mio padre?", Giorgio Simbola continua la ricerca sulle tradizioni popolari già avviata nel precedente monologo "Bramacieli". In esso Simbola operava estraendo dalla sua memoria infantile i rituali della Sardegna, ma anche il dramma dell'immigrazione iscritto nel suo Dna da generazioni. Rispetto a ciò si definisce il compito del teatro: portare alla consapevolezza collettiva la tragedia dei poveri: poveri come i pastori nuoresi di cui è figlio, ma poveri anche come i rom con i quali vive da dieci anni.
E proprio insieme agli zingari del Lazzaretto occupato è realizzato questo suo ultimo lavoro che si è aggiudicato il premio speciale dell'associazione Scenario.
Il lavoro non poggia su alcun testo letterario: solo materiali viventi, il dramma quotidiano degli attori costretti a elemosinare ai semafori delle strade.
Ma in ciò è anche il suo limite: questa dura realtà viene spiattellata sulla scena, senza alcuna ulteriore elaborazione drammaturgica. Così invece di guadagnare freschezza, lo spettacolo la perde. Manca lo spessore dei personaggi e gli attori sono semplicemente sul palco a rappresentare se stessi. Dov'è la differenza tra teatro e vita?
Non c'è sviluppo, la performance sembra procedere sempre sullo stesso tono, senza un'idea veramente folgorante.
In realtà l'elemento trainante è la musica composta dalla saxofonista italiana, in scena insieme ad altri suoi compagni d'orchestra: brani jazz fusi con melodie tratte dal repertorio etnico. A Simbola però gli spunti non mancano, i presupposti per un intreccio drammaturgico più maturo ci sono tutti, a partire dai racconti imbastiti su materiali etnici.
Forse il tema della morte e dell'aldilà nella tradizione rom, che è l'oggetto del nuovo spettacolo in preparazione al Lazzaretto occupato, offrirà alla compagnia maggiori possibilità per andare oltre la semplice presentazione dei fatti. Da Simbola ci aspettiamo solo questo, ma ci vuole tempo. Tempo che consenta anche agli attori di superare almeno la barriera della lingua. Per questo non risulta ingiustificato il premio assegnato alla troupe di immigrati.
 
 
SULLA SCENA LA REALTÀ SUPERA LA FINZIONE
Premio speciale al teatro militante di Simbola
di Elisa Orlandi
 
Alla prima di "Com’è fatta la terra di mio padre?" si accede alla suggestiva sala in penombra del Teatro San Martino accompagnati dalle note di quattro musicisti nascosti dietro le gradinate della platea: un brano svagato ma grintoso, che infonde un certo brio e contemporaneamente cala il pubblico in un’atmosfera di luoghi lontani.
Un pubblico, a ben guardare, piuttosto eterogeneo: a parte gli abituali frequentatori di un teatro di tipo alternativo, sono riconoscibili diversi volti già visti qualche ora prima a Palazzo Marescotti (in occasione dell’incontro che ha inaugurato le due giornate di debutti dei vincitori del Premio Scenario), ma soprattutto numerosi ed euforici i parenti, gli amici, o forse solo i conoscenti dei membri dell’esordiente Compagnia del Lazzaretto occupato di Bologna.
Le luci si abbassano del tutto, mentre i musicisti proseguono in una sorta di ouverture, escono allo scoperto, si fanno avanti tra gli spettatori per poi scomparire nuovamente donde erano venuti. L’attenzione si sposta finalmente sulla scena, essenziale al massimo (un tavolo, qualche seggiola), con l’ingresso di un uomo spaesato e stravolto, a cui sono avvinghiati quattro bambini, i suoi figli. Dalle battute amare e allo stesso tempo ironiche che scambia col tecnico luci si evince immediatamente la situazione: quest’individuo è uno dei tanti profughi "illegali" che, in mezzo a mille difficoltà e consapevole di doverne affrontare mille altre, ha lasciato il suo Paese devastato dalla guerra, convinto di andare incontro a un futuro sereno per la sua famiglia.
Questa prima scena, che è un po’ l’antefatto, il prologo, sembra anche essere l’unica in cui è percepibile il desiderio di indagare sull’immaginario e sulle aspettative di chi non per scelta, ma per forza, è costretto a emigrare. Sappiamo che questo era il tema originale del progetto di Giorgio Simbola, ideatore, regista e principale interprete dello spettacolo e sappiamo anche che la sua prospettiva è cambiata col passare del tempo, avendo egli preso coscienza che, arrivati ad un certo punto, non era più possibile parlare di sogni, ma bisognava lasciar spazio a un’impellente necessità di gridare la condizione di malessere che attanaglia l’esistenza di queste persone.
Tutto ciò si riscontra chiaramente nella drammaturgia scenica: quell’ingenua sensazione di certezza, di fiducia e d’illusione che accompagna l’uomo appena sbarcato in terra straniera viene subito abbandonata e il palcoscenico si trasforma in una finestra, in una sorta di "fotogramma fisso" (come il regista ama definire il suo Teatro del Lazzaretto) su una realtà drammaticamente vicina e presente.
Dosando in maniera efficace e pregnante il dato di cronaca e la reazione emotiva, ci viene mostrata la rabbia di un uomo umiliato e risentito che è costretto a scrivere cartelli imploranti un aiuto e trascorrere la giornata sul ciglio di un marciapiede o presso un semaforo; l’impotenza e l’avvilimento di un ragazzo che confessa, come se sottoposto a un interrogatorio, l’estenuante vagabondaggio per le continue istanze di sgombero imposte dalle forze dell’ordine; l’esigenza collettiva di dare sfogo all’aggressività e alle tensioni accumulate scatenando liti tanto furibonde quanto innocue.
Nulla in queste scene è finzione, a cominciare dai protagonisti, che sicuramente non sono attori professionisti, eppure non devono ricorrere a chissà quali tecniche recitative per ottenere la perfetta immedesimazione. E non si tratta di talento innato: sono persone che raccontano se stesse esprimendosi con la lingua che conoscono oppure che non dicono proprio nulla, ma la cui sola presenza ha già un valore, quello della testimonianza e dell’autenticità. Il gruppo, infatti, se si eccettuano Simbola e i quattro musicisti, è costituito da alcuni membri di sei famiglie prevalentemente di etnia rom che da circa nove anni vivono insieme e, come conseguenza, hanno maturato la convinzione che l’arte debba appartenere alla quotidianità, come il mangiare, il dormire, l’abitare.
"Come è fatta la terra di mio padre?", tuttavia, non è costruito soltanto attorno alla cronaca, alla fedele ricostruzione di frammenti di vita. Vi sono anche degli abbandoni a parentesi, se vogliamo, più liriche, che danno voce in modo diretto ed esplicito, alla soggettività dell’ideatore e della compagnia.
È il caso della sequenza (forse fin troppo lunga, nella generale economia dello spettacolo) in cui Simbola propone, rielaborandole, leggende della secolare tradizione rom, come a voler recuperare nella dimensione teatrale le radici di una cultura che sta definitivamente scomparendo, in una realtà quotidiana su cui gravano preoccupazioni ben più impellenti. È anche il caso di altri episodi tratti dalla loro diretta esperienza, ma proposti con espedienti drammaturgici volti a toccare le corde più sensibili dell’animo dello spettatore e dove, sinceramente, il limite tra partecipazione commossa e patetismo affettato si fa sottilissima. Il riferimento è all’ultima parte della rappresentazione: dalla voce di donna fuori campo che narra il suo passato, lasciando intuire che si tratta dell’attuale condizione di due bambine che, nel frattempo, distribuiscono fiori e disegni tra il pubblico, al monologo di Simbola sull’ennesimo dramma di una giovane profuga, privata della possibilità di cure adeguate e morta di leucemia, che solo dall’interno di una bara ha potuto smettere di preoccuparsi dei documenti per tornare in patria.
Con questi due quadri si chiude lo spettacolo, anche se il regista non ha rinunciato all’opportunità di spendere ancora qualche parola sulla realtà tragica di cui è testimone ogni giorno e sull’eccezionalità di quest’evento teatrale per i suoi "attori", la maggior parte dei quali calcava per la prima volta un vero palcoscenico. Forse per questo motivo il lungo e festoso ballo che ha trascinato tutta la compagnia durante gli interminabili applausi finali pareva avere un non so che di liberatorio: che fosse un attimo di congedo dai problemi di sempre o molto più semplicemente la reazione alle tensioni che seguono un debutto teatrale poco importa: quel che si è percepito sono stati, ancora una volta, la spontaneità, l’autenticità e l’affetto che li unisce.
 
 
 
QUESTA TERRA È ANCHE LA MIA TERRA
Considerazioni in margine al teatro-vita di Giorgio Simbola
di Samanta Picciaiola
 
Il teatro entra nella quotidianità.
Per raccontare, testimoniare e denunciare la realtà di sofferenza e di emarginazione di un gruppo di rom vissuta nel cuore della colta e ricca Bologna.
Per rivendicare un modo di fare arte impegnato, militante che molti liquidano come retorico e banale: strada vecchia già battuta da tanta avanguardia novecentesca che sembra aver perduto ormai ragione di essere di fronte al dilagare di un benessere pago e compiaciuto di sé.
Ma a ben vedere le intenzioni non sembrano le stesse né possono esserlo: la realtà italiana è cambiata nell'arco di un cinquantennio, riservando allo sguardo capace di coglierle nuove inquietanti contraddizioni.
E’ proprio tutto dentro tali contraddizioni che va ricercato il teatro di Simbola, le sue intenzioni, le sue urgenze.
Quando chiediamo al regista il perché di una scelta di campo così radicale, risponde che il teatro costituisce per lui un'esigenza di tipo biologico: esigenza di raccontare e di esprimere che può radicarsi solo entro un contesto di vita vissuta, di esperienze e di emergenze.
Emergenze che da tempo condivide con la sua famiglia di attori, occupando illegalmente uno stabile di via del Lazzaretto.
La sua arte nasce nell'incontro di bisogni schiaccianti, di domande senza risposte, di illusioni e di umiliazioni quotidiane.
Di fronte a tutto ciò il teatro si fa tramite di comunicazione, la sua forza risiede nella sua peculiare relazionalità: in scena le emozioni arrivano ad un pubblico forzatamente presente, incapace di nascondersi cambiando canale.
Per questo è necessario riempire i teatri in modo diverso da come avviene ora: Simbola denuncia la vuotezza di un certo teatro fermo alla ricerca formale e ripiegato su se stesso.
Un teatro per intellettuali incapace di creare relazioni significative con il contesto reale in cui si inserisce, rinunciatario nei confronti di qualsiasi esigenza sociale e comunitaria.
A esso Simbola oppone un'istanza che è innanzitutto di tipo etico, ancorchè estetica: la solidarietà.
Solidarietà a una condizione che lega il destino del regista a quello dei suoi attori: la condizione di emigrato che lo stesso Simbola ha vissuto, lontano da una ventina d’anni dalla sua terra di Sardegna, e che non esita a definire come una sorta di deportazione. Deportazione in quanto esito scontato di una situazione di stasi quale si delinea in tutte quelle realtà di povertà, ben presenti al nostro regista, cresciuto in un paesino del nuorese, in una famiglia già profondamente lacerata da precedenti di emigrazione.
Ma anche solidarietà che diviene fusione e commistione di ricordi che prendono corpo sul palcoscenico, andando a costituire i nuclei narrativi della rappresentazione stessa.
Lavorando entro il comune paradigma dell'emarginazione e dell'esclusione Simbola è giunto alla stesura di questo spettacolo. Infatti attraverso il dialogo con i suoi compagni rom, il regista rievoca cammini e desideri, speranze e illusioni, fino a giungere al cristallizzarsi di immagini a partire dalle quali si dipana tutta la rappresentazione e che di essa costituiscono una sorta di sottotesto, di codice nascosto.
Si tratta di un lavoro di scavo interiore, attraverso il confronto costante con gli altri nella quotidianità condivisa della casa occupata.
Di qui la necessità di ricorrere ad una continua pratica della relazione, ad una sorta di training forzato, che il contesto di convivenza della Compagnia del Lazzaretto occupato sperimenta ogni giorno.
Attorno alla dimensione diaristica si costituisce un immaginario comune che può essere portato in scena quale segno esistenziale inconfondibile.
Pertanto il teatro di Simbola riconosce una istanza innanzitutto etica: quella della fedeltà ai contenuti, ovvero agli obiettivi che la ricerca stessa si pone nel momento di ideazione del progetto: un'ideale di trasparenza necessario a ogni opera d'arte che si collochi entro una reale volontà di incisione e modificazione della realtà.
Ma la peculiarità di un'opera come questa, che il nostro regista è riuscito a mettere in scena grazie all'aiuto di attori non professionisti -uomini nella parte di se stessi - è nella volontà di superamento di un intento meramente propagandistico.
Non si tratta di elogiare la poesia del popolo rom come accade in tanta cultura a basso costo circolante oggi, desiderosa solo di esotismo tzigano, ma di recuperare la tradizione della propria comunità, entro un contesto di emarginazione in cui il desiderio di sentirsi accettati porta ad assumere come propria quella che Simbola chiama la cultura dominante.
E' necessario salvaguardare le differenze perché solo a partire da esse possiamo sperare di radicare la nostra identità: restituiamo a un popolo il suo immaginario collettivo, nella sua radicale diversità e alterità.
E pur nella diversità Simbola ritrova un elemento di forte vicinanza con questo popolo, al punto di dichiarare una sostanziale contiguità della tradizione, della cultura e della lingua rom a quella della sua infanzia, che è lingua di un villaggio di ramai della Sardegna.
Con questa rappresentazione si approfondisce il rapporto con la propria terra d'origine, che aveva visto Simbola impegnato in un precedente spettacolo dove i ricordi della propria infanzia riemergevano attraverso il recupero della tradizione pastorale sarda.
Simbola ribadisce con forza il proprio attaccamento a una tradizione archetipicamente rivissuta attraverso il teatro. Tradizione inoltre fortemente vicina a quella dei rom: rommonais è detta la lingua del villaggio di ramai, romschi quella dei gitani.
La radice comune dei due termini richiama la vicinanza dei due popoli, della vita del regista a quella dei suoi compagni-attori.
Così con "Come è fatta la terra di mio padre?" il cerchio immaginario di questo viaggio della memoria si chiude.
 
 
IL TEATRO MI DA' NOIA
MA IL BALLETTO ANCOR DI PIU'
Lamattina punta alla contaminazione tra le arti
di Daniela Turco Liveri
 
Tutto parte dalla dichiarazione che Gerardo Lamattina ha espresso durante la conferenza di presentazione dei vari artisti, "Dopo il Premio", tenutasi a palazzo Marescotti sabato 5 gennaio.
Lamattina, per prima cosa, confessa la sua noia per il teatro e soprattutto per la danza.
Fatto sta che il lavoro presentato in collaborazione con la compagnia Bassani-Bruni altro non è che una sintesi tra teatro, danza e musica dal vivo.
Il lavoro di collaborazione tra il regista e i vari artisti, danzatori e musicisti, si è basato fondamentalmente sul concetto di libertà.
Ciò ha permesso ai singoli attori di gestire il proprio ruolo e di costruire un'adeguata personalità all'interno dei vari momenti della performance.
Si è trattato come affermano le due coreografe di un lavoro corale: loro sono Selina Bassini e Claudia Bruni, che assumono un ruolo guida per il coordinamento dei ballerini, tutto il resto è affidato alla creatività.
Interessante il fatto che le due coreografe provengano da due scuole formative diverse: la Bassini possiede un passato da ginnasta artistica e ha sempre seguito un percorso di ricerca; al contrario Claudia Bruni, ha una formazione più classica, prevalentemente solistica.
La spiegazione della presenza di due coreografe è da esse subito chiarita: il loro lavoro si basa su una reciproca compenetrazione e un incastro di idee: una innova, mentre l'altra pulisce con il suo tecnicismo, l'una usa troppa dovizia, mentre l'altra scompagina l'eccessivo schematismo.
Obiettivo finale è di portare un gruppo di danzatori a scoprire se stessi.
Il ruolo di distruttore che Lamattina si è assunto, nel momento in cui si è reso disponibile a seguire il progetto, ha tenuto conto della sua esperienza di filmaker.
Dell'originario studio, "L'anacoreta della pioggia", è rimasto ben poco; il regista si è permesso in coerenza con le sue idee sulla danza, di dare al tutto un taglio cinematografico per dare così anche un taglio alla noia, con picchi di esagerazione sparsi qua e là.
Per lui un gesto di danza è un segno della personalità di ognuno, per lui ogni segno è immagine.
Durante le varie coreografie si alternano canzoni e frasi frammentarie, tutte atte a rappresentare situazioni ed esperienze di vita differenti, anche i movimenti dei ballerini talvolta si fanno goffi e ridicoli per sottolineare stati d'animo forti e penetranti.
L'orchestra formata da un terzetto (tastiera e fisarmonica, fagotto e voce, violoncello) aiuta a ricreare talora un'atmosfera da balera, ora quadretti sfocati di una realtà passata; così si susseguono le note di un malinconico tango argentino e quelle più caserecce della musica della Romagna, che in questo caso viene eletta a provincia del mondo.
Significativa è inoltre l'irruzione della memoria sulla scena, ognuno tenta di raccontare frammenti della propria storia ma ciò che ne rimane dalle continue interruzioni di musica e ballo non è altro che ricordi proiettati su uno schermo, frasi smorzate, emozioni segrete e pensieri d'infanzia.
La memoria si allarga fino a diventare una memoria che in qualche caso accomuna tutti nella situazione del presente.
"Che musica Maestro" ricomincia a cantare Selina, tutto ritorna al proprio posto proprio com'era all'inizio; come un circolo infinito la magia si spegne e la vita continua il suo corso sempre uguale.
 
 
Compagnia Bassini Bruni/Tangaz
Coreografie Claudia Bruni e Selina Bassini
Cura degli spazi e coreografie Gerardo Lamattina
Musiche dal vivo eseguite da Federica Maglioni (voce e fagotto), Michele Guidi
 
 
 
(tastiere e fisarmonica), Cecilia Zanni (violoncello)
Interpreti Selina Bassini, Aldo Rendina, Rhuena Bracci, Claudia Bruni, Sergio Scarlatella
 
 
 
APPARENTEMENTE LA ROMAGNA STA BENE
Aporie della provincia romagnola
di Alberto Marchesani
 
"Apparentemente sto bene" è una delle poche, pochissime battute che in Tangaz gli attori e i ballerini pronunciano. Un collage fatto di soggetti smarriti, visioni sfocate, appena percepite e presto sfuggite, un dipinto tragicomico della Romagna falsamente spensierata. Libere associazioni di idee, rimandi blandi, movenze semicomiche per rappresentare un bel ritratto di una provincia, che può essere qualunque provincia. La formazione cinematografica del regista Gerardo Lamattina, laureato appunto in cinema, salta subito agli occhi per il taglio frenetico del montaggio che non lascia un solo momento lo spettatore in balia di quella mortale noia di brookiana memoria. Come lui stesso afferma: il teatro lo annoia molto, ed è da questo presupposto che decide di montare le scene come per accatastamento, un’efficace narrazione frammentata, ponendosi dal punto di vista dello spettatore tipo che a teatro non vuole sbadigliare.
Frenesia, movimento, atleticità, ma anche malinconia e un velato senso di rispecchiarsi all‘interno, tutto questo crea la performance. Una balera in cui i tre ballerini e un attore, assieme al tango e al liscio romagnolo, raccontano se stessi, per farlo però pronunciano una sola frase a testa, da loro stessi scritta. Frasi lapidarie. Spesso di ritorno dall‘infanzia. Sempre fermando la musica, suonata
sul momento da tre abili musicisti. Uno spettacolo che vuole essere estremamente pop, ma che per la sua tensione intensa e introspettiva, risulta andare ben oltre le intenzioni dei suoi ideatori. La provincia romagnola, dietro le balere e i divertimentifici, scopre che le curve della vita riservano infinite sorprese. La compagnia Bassini & Bruni si è formata nel 1997, prende il nome dalle due coreografe che solo un anno dopo si legano col filmaker Lamattina in un proficuo sodalizio.
 
 
QUANTA NAPOLI BATTE IN QUESTO "CORE"
La tradizione partenopea nello spettacolo della compagnia Babbaluck
di Samantha Picciaiola
 
"Core": ovvero sono di scena il varietà, Eduardo de Filippo, la tradizione partenopea e i funamboli, in un continuo susseguirsi di quadri, bozzetti e caricature. Ogni tentativo di ricostruzione di uno spettacolo di questo tipo è destinato a infrangersi contro le intenzioni stesse che lo sottendono: fissare in quadri provvisori il flusso di emozioni e sensazioni della vita. Ecco come ce ne parla la scenografa Annapaola Bartolomeo.
Come nasce uno spettacolo come "Core" e quali sono le intenzioni fondamentali che lo animano?
"Core" nasce dal desiderio di armonizzare esperienze diverse quali quelle che i membri della compagnia Babbaluck hanno compiuto prima di approdare qui. In particolare mi riferisco alle differenti attività che ciascuno di noi ha svolto e svolge quali la fotografia, la pittura, la recitazione, l'arte di strada... Si tratta comunque di ritrovare un'armonia tra queste diverse esigenze espressive, non di tentare una contaminazione tra diverse arti.
E' per questa vostra familiarità con le arti visive che "Core" si presenta come una lunga sfilata di quadri e immagini?
Direi di sì, si può parlare di una molteplicità di immagini a cui sono legate tante possibili storie che lo spettatore deve intuire e inventare.
Per questo la Compagnia Babbaluck ritiene fondamentale il rapporto con il pubblico?
Sì, per noi sono gli spettatori, con le loro emozioni e con le loro reazioni, a dare senso e significato a ciò che proponiamo.
Nello spettacolo sono spesso presenti rimandi alla tradizione partenopea: possiamo affermare che essa costituisce il vostro punto di riferimento?
No, non direi punto di riferimento, piuttosto essa costituisce il nostro modo di sentire e di essere, ne siamo impregnati. La nostra poetica si radica sull'incoscienza, non c'è storia all'interno dei nostri spettacoli.
Tutto nasce da un'esigenza puramente comunicativa, dunque?
Sì da un'esigenza espressiva direi, visto che il nostro intento è quello di mettere in scena ciò che parte dalla nostra incoscienza, dal suo flusso continuo.
E' per questo che nel vostro spettacolo prevalgono elementi visivi e auditivi?
Sì, proprio questa esigenza espressiva determina la maggiore presenza di suoni, luci e colori rispetto al parlato. Anche perché il linguaggio visivo e auditivo è dotato di un'universalità sconosciuta al linguaggio verbale, come abbiamo avuto modo di sperimentare negli spettacoli che abbiamo portato all'estero, riscuotendo molto entusiasmo da parte del pubblico.
Secondo te che cosa caratterizza il teatro rispetto alle altre forme artistiche, che cosa lo rende a voi più consono?
Nulla, il teatro ci consente semplicemente una migliore espressione; altri artisti, invece, si riconoscono di più nella danza o nella pittura.
Un'ultima domanda, che cosa ha significato per voi essere premiati da questa edizione di Scenario?
Credo che si tratti di una bella possibilità perché va ad incidere proprio su quell'aspetto che a una compagnia, numerosa come la nostra, manca: l'organizzazione, la possibilità di avere un sostegno concreto alla realizzazione dei nostri progetti. Ci auguriamo che possa costituire un punto di svolta per la nostra compagnia che fino ad ora è sopravvissuta autofinanziandosi e autopromuovendosi, al di fuori di qualsiasi intervento istituzionale.
 
Compagnia Babbaluck
"Core"
regia: Sergio Longobardi
aiuto regia: Emanuele Valenti
con: Nicola Laieta, Sergio Longobardi, Cecilia Muti, Julia Sorano
costumi: Daniela Salernitano
con il lavoro di: Marcella Angrisano, Chicca Bartolomeo, Olivia Bignardi, Alessandro Federico, Carmine Pierri, Alberto Sarcina, Giulia Urciuoli, Marco Zezza.
 
MALEDETTA QUESTA INCOSCIENZA
Una rappresentazione senza capo né coda, immagini sconnesse e prive di ironia
di Jean Claude Capello
 
Cosa scrivere di una rappresentazione fatta di immagini senza alcuna connessione drammaturgica come "Core"? Esistono un gusto estetico e una ricerca poetica che legittimino questa scelta della compagnia Babbaluck?
Di questo lavoro si può dire solo che è inaccettabile e a questo punto bisogna dubitare anche dell’opportunità del premio speciale assegnato ex aequo alla compagnia dall'associazione Scenario.
Già in occasione della presentazione in pubblico dei primi venti minuti dello spettacolo, al festival di Santarcangelo, il gruppo aveva destato più di un dubbio negli spettatori. Allora "Core" grondava di stereotipi della napoletanità riproposti senza eccessivo mordente; oggi, lo spettacolo non è affatto migliorato, è semplicemente più lungo; anzi, alcune intuizioni comiche, tipiche del teatro di strada, che allora avevano reso digeribile la rappresentazione, non bastano più a salvare un lavoro così povero. Un po' di ironia in più avrebbe potuto dare una svolta alla trita trattazione dei materiali proposti. In "Core" abbonda solo l'incoscienza, parola magica con cui il gruppo spiega la propria poetica e la sua non-necessità di fare teatro.
Forse gioverebbe agli attori, nonostante le difficoltà che da sempre affliggono i giovani artisti e la notevole eterogeneità di un gruppo proveniente per lo più da esperienze extrateatrali, tentare di capire cosa stiano facendo realmente e dove stiano andando. Non dovrebbero confondere la freschezza espressiva propria del neofita con quello che loro definiscono incoscienza. Ciò che lo spettatore vede è una articolazione paratattica delle scene assolutamente poco intrigante, ma anche una adesione stanca e macchiettistica ad alcuni fastidiosi stereotipi, scelti a caso fra la contaminazione con le arti visive, le gag da clown e un po' di napoletanità.
 
IN SCENA SOLO UN PO' DI CATTIVO VARIETÀ
Troppa confusione che annoia lo spettatore
di Samantha Picciaiola
 
Si apre il sipario ed è subito un turbinio di colori e luci: tanto ricco da sembrare confuso.
La scena si anima con l'ingresso degli attori che danno il via ad un lungo carosello di gag e sketch: lo scontro-incontro delle valigie di due giovani viandanti, la lite filosofico-quotidiana di marito e moglie ad inizio giornata, l'elogio della "tazzuriella" di caffè napoletana e poi tutto un rincorrersi di tanti piccoli bozzetti, schizzi di vita lontana.
E' impossibile completare l'elenco delle piccole storie contenute dentro uno spettacolo come "Core": nessuno degli elementi presenti in scena si collega agli altri. Non ci sono, né si cercano, disegno organico né uno sviluppo drammaturgico rinvenibile alla fine della visione.
Forse esso si è volutamente smarrito nella mente degli autori presi dal desiderio di far sembrare il tutto volontariamente involontario, in altre parole "incosciente".
Il cartello luccicante di brechtiana memoria che campeggia sulla scena dall'inizio dello spettacolo, sembra successivamente trasformarsi da cometa e rassicurante guida per lo spettatore, in una bussola impazzita: frammenti di storie si accavallano disperatamente e freneticamente.
Dopo la prima mezz'ora di spettacolo l'occhio è assuefatto da tanta abbondanza di colori e costumi e l'orecchio è stordito dalla musica roboante mescolata, non sempre egregiamente, a dir la verità, dai tecnici del suono. Così la noia prende il sopravvento.
Ad attirare l’attenzione rimangono solo le passeggiate degli attori-funamboli sulla scena che si inframmezzano a nuovi seducenti quadretti di banalità quotidiane: foto viventi di famiglia, balletti sensuali, ammiccanti strisce pubblicitarie, tutto può rientrare dentro questo grande contenitore spettacolare.
A ben vedere il modo migliore per parlare di questo spettacolo è quello di abbandonare ogni dimensione spazio temporale, ogni nesso logico, accettando di cedere a un flusso continuo incapace però di catturare veramente colui che guarda.
Forse perché la corrente è troppo debole e si ha l'impressione di voler nuotare in un mare troppo basso: di banalità e di espedienti che ricordano tanto il peggiore varietà.
 
DALL’ARGINE: FACCIO TEATRO PER CAPIRE IL PRESENTE
"La pallottola del cecchino a Sarajevo è come un’auto killer sulle nostre strade"
di Jean Claude Capello e Morena Cecchetti
 
Tu sei mai stato nella ex Jugoslavia?
Sono stato in Croazia due volte. Una volta fu a Sebenic, con il Comitato Emergenza Infanzia e il Teatro delle Briciole. Lì c’era un festival ormai chiuso da diversi anni, e nel ’95, prima dell’operazione Tempesta che avrebbe liberato le Krajne, sai la Krajna di Knin, e le avrebbe liberate definitivamente dai Serbi, grazie al lavoro degli Americani che armarono i Croati con le nuove tecnologie. In un anno avrebbero cacciato via i Serbi da Knin, che poi sono quelli che arrivarono in Kossovo: questa gente è stata profuga due volte. Io sono andato lì a fare questo spettacolo per bambini, e per una settimana ho dipinto con loro dei portoni a Knin.
Sono ritornato in Croazia con la mia donna in moto, quando la guerra era relativamente finita. Ho viaggiato lungo la Costa Dalmata in moto, rischiando lo stesso la pelle dove sono arrivato a Dubrovnic, dove mi sono fermato quindici giorni. Lì sono stato ospite presso delle famiglie e andando un po’ ad intrigarmi, in giro a vedere, raccogliendo delle impressioni che non sono state belle. Sono tuttora luoghi in mano ai militari e alla mafia. Io ho preso molto dai giornali, di mio c’è il mio alter-ego: la forma del sacco è quella del mio personaggio, quello che penso, l’umanità che ci metto dentro. Io non sono stato nei luoghi di cui parlo, ho soltanto preso da libri di giornalisti come Paolo Rumiz, Luca Rastelli, Demetrio Volcic. Loro raccontano, ognuno con un modo proprio, molto più bello rispetto ai poeti o ai filosofi che hanno parlato delle guerre balcaniche come se fossero avvenimenti che non ci appartenessero, ma riguardassero invece solamente i cattivi. I giornalisti sono riusciti a tirare fuori anche della poesia. Ho mantenuto il discorso delle città come luoghi di profumi e, purtroppo, anche di morte…
Il libro di Rastelli l’hai letto prima o dopo il tuo viaggio?
No, no… dopo.
Allora stavi già pensando di fare uno spettacolo sui Balcani?
No, assolutamente. Io ero in un periodo abbastanza strano. Non sapevo cosa avrei fatto nella vita e di teatro non avevo più voglia.
A me ha intristito la Slovenia che in teoria doveva essere quella messa meglio…
La Slovenia è tristissima, invece man mano che arrivi giù, anche se sono stati più devastati, nei villaggi dove ci sono anche i musulmani è un’altra vita, è un’altra cosa. La Slovenia doveva essere la repubblica liberata, ma è senza un’identità. Quella della Jugoslavia era un’altra cosa. Quella nazione era veramente un’utopia: il tentativo stesso di mettere insieme dei popoli che andavano dalla Slovenia fino alla Macedonia era pieno di contraddizioni. La bandiera stessa, che si vede all’inizio, con la stella in centro, ne è il simbolo di questa utopia: rappresentava l’idea di tutte quelle etnie messe insieme e dell'autogestione. In un modo o nell’altro era comunque un modo di stare fuori dai due blocchi, magari di rosicchiare, anche, un po’ di qua ed un po’ di là.
Però nell’infanzia, questa stella dell’autogestione jugoslava mi ha sempre dato qualche cosa, anche solo a livello visivo o simbolico, visto che lavoro per intuizione, quindi attraverso i simboli e gli archetipi. Per questo c’è la palla a cui do il nome di Sarajevo. All’inizio questa palla era soltanto un’entità. Veniva da un racconto di fantascienza che avevo letto, "Il nemico", dove c’è questa palla che è il nemico; Mi è piaciuto anche il fatto di usarne tre di grandezze diverse, che in questo caso rappresentavano i Balcani (Bosnia, Serbia e Croazia).
Quest’estate, quando presentasti i primi venti minuti di Contraerea, mi avevi detto che volevi lavorare con le marionette. Oggi c’è la scena dei soldati e, non so se ti ricordi quando eravamo piccoli, mi hanno ricordato i cartoni animati dell’est europeo, che oggi non si vedono più. Erano tutti fatti in quel modo.
Infatti, la mia Jugoslavia era quella. Fruttino, con i tappini delle bandiere. Spesso i film slavi avevano addirittura delle scene animate in quel modo, con quello stile. Erano bellissimi e a me piacevano molto. Poi studiando è venuto fuori che tutto questo veniva fuori dall’autogestione, dal mettere insieme delle culture diverse, che adesso è moderno.
Che cos’è la Sfinge?
Quella è la morte. Nello spettacolo c’è il discorso dell’essere qui mentre là si scrive la storia. Prima la Sfinge era una sirena e lei l’ho vista come il problema delle comunicazioni, che nonostante vediamo i telegiornali, internet, man mano che le distanze si accorciano, più in realtà sono i vuoti.
E allora, prima di vedere "Guerre Stellari" e "Matrix", mi sono fatto questo campionato delle sirene. Il monologo avrebbe dovuto continuare con i campionati. Il primo finale che avevo scritto era un campionato intergalattico dove mi trovavo a giocare, dopo essere stato battuto dalla Medusa, contro la Sfinge. La Medusa, con il casco blu irto di serpenti, rappresenta la Nato, e vince perché mi è entrata nella testa. Con la Sfinge non c’è più niente da fare, non gareggi neanche. È un simbolo di morte ed è anche il mio doppio, la voglia di restare fuori le guerre… La Sfinge rappresenta anche le domande dalle quali non hai risposte. Inoltre l’ho ricoperta di questa polvere bianca, che per me ha un significato personale.
La sirena è anche il fatto di dire basta: sai quando ti rovini la vita perché vai dietro alle donne. In quel periodo lì io me la sono rovinata più volte, per cui la gara con la sirena significava anche vincere il sesso. La Medusa era i pensieri, quel nido di vipere che hai in testa.
Quel pezzo viene dopo il discorso nel supermercato, quello sulla società civile che vende armi per creare nuovi mercati. Dopo di quello non c’è più niente da dire. La Sfinge è l’Occidente, la globalizzazione, la morte. Perché nel supermercato, quando parlano, non c’è futuro, non è nemmeno più possibile immaginarlo perché non si riesce nemmeno più a sognarlo visto che in un certo senso anche i sogni sono preconfezionati. Non sono così pessimista nella vita, però rispetto alla storia della Jugoslavia sì.
In quel momento c’è la perdita completa della spiritualità, per poi essere disarmato alla fine, riducendosi a fare l’elenco di quello che ti accade nella vita: le ciabatte che mancano, che vai a mangiare una pizza, che devi pagare il bollo della macchina. Questa è la guerra quotidiana.
Parlando della parte più tecnica, nel passaggio dai primi venti minuti al lavoro completo, mi sembra che tu abbia usato lo stesso finale. Se non sbaglio inizia la nuova parte dove tu esci per poi rientrare, poco dopo, come se fossi un profugo.
Esco di scena, perché ci sono gli aeroplani, e rientro con la sacca.
Volevo rincominciare con un risveglio un po’ tossico, per il cloroformio, dicendo alla palla: "Sai una cosa: mi sa che abbiamo esagerato." Cloroformio è una parola che compariva un sacco di volte nei libri che ho usato come fonti: il cloroformio dell’Occidente e dei media. Ho trovato difficile ripartire da lì, perché bisognava farlo piano… Inoltre subito dopo c’è il supermercato che è stata un’intuizione felice, perché ho trovato il modo di dire tante cose, magari solo accennate, per voce di altri personaggi, salvaguardando così la credibilità del mio alter ego, altrimenti alla fine non potevo più giocarlo sulla leggerezza. Questa seconda parte è stata un lavoro di scrittura a tavolino. Dopo ho stravolto le cose, perché a quel punto lì, dopo i primi venti minuti, la questione jugoslava poteva essere un pretesto per fare uno spettacolo e così non andava più bene.
Cos’è che allora ti spinge a fare del teatro?
A me non interessa il discorso della memoria, quanto di codificare il presente attraverso la comunicazione. Cerco di sacrificare il mio corpo sul palco per arrivare a capire qualcosa del presente e di darne una lettura non scontata. I problemi di là sono i problemi di qua: la pallottola del cecchino a Sarajevo può essere un’auto killer che investe qualcuno, può essere una dose di eroina sbagliata… Io mi sento in guerra anche qua, assediato da una società che ragiona troppo poco su se stessa, preferendo ragionare sul suo passato perché così è più facile creare dei prodotti da vendere…
Ho trovato più sostenitori tra i coetanei perché sono più immersi nella contemporaneità di altre persone, fra le quali metto specialmente ai teatranti. Con mio padre, che non ama il teatro, di queste cose ne parliamo spesso, invece chi fa teatro mi sta a dire: "Lì c’è un po’ più energia…". Io lo spettacolo non l’ho fatto per fare una prova d’attore, ma per provare a cimentarmi con la comunicazione, partendo dal reale.
Per quanto riguarda le scenografie?
Sono molto semplici e stanno tutte in macchina. Oggi avevamo anche la familiare, ma di solito mi sposto con una macchina normale. L’obiettivo era proprio che fosse uno spettacolo agile. Spesso, quando giro con gli spettacoli per teatro ragazzi come pittore, scenografo e a volte anche come attore, non si finisce più di montare il camion. Poi magari ti chiedono: "Dai, vieni a fare lo spettacolo qua, sarebbe bello". Si, sarebbe bello, ma poi il costo sale tra trasporto e il montaggio… la mia contraerea era anche rispetto questo andare delle cose, dove uno non ha più nemmeno la libertà di prendersi la macchina e raccontare delle storie. Diciamo che il sistema teatrale mi aveva un po’ stufato e avevo voglia di prendermi questa parentesi, anche se so che purtroppo è solo una parentesi, perché il nuovo lavoro non sarà così.
Questo lavoro è una sorta di punto di partenza di te come autore. L’altro giorno, in conferenza stampa, parlavi, appunto, del prossimo spettacolo. Dicevi che non vuoi più lavorare da solo e vorresti trovare degli interlocutori, immagino a livello artistico, con cui costruirlo.
Sì. Per il prossimo lavoro, ne parlavo oggi con Mirto, ho un’idea per partire un po’ dalle pelli di animali. Come la pelle di mucca messa in scena oggi, e continuare il discorso delle mappe e della geografia. Poi sono incuriosito da questi amici giornalisti, quando cambiano città. Quando cambio città, sono tornato da poco da Lisbona, all’inizio mi sento una belva, sai la storia del ventre di Parigi, dove le strade ti sembrano vive. Voglio partire da una mappa urbana, con gli animali e la pelle umana, prendendo a riferimento un racconto di Borges, l’Aleph, la scrittura del dio.
Inoltre sei anche il regista dello spettacolo…
E’ tutto mio se non fosse per il lavoro tecnico di Mirto Baliani, lui è del ‘77 e io sono del ‘71: è molto più giovane di me, ma è stata l’unica persona che ho trovato a Parma fra i miei colleghi che aveva voglia di mettersi a lavorare su questa cosa, perché diciamolo: Scenario è soprattutto un investimento, non ti pagano. È una cosa che tu fai e poi se vinci bene, perché sarai retribuito.
Esistono allora dei problemi, soprattutto se sei un emergente?
Le difficoltà le sto scoprendo soprattutto a livello giuridico, ad esempio per l’agibilità
del posto. Io ho già fatto spettacoli per strada, in locali… Ma con una sala teatrale è un po’ più difficile, anche se il suo fascino è più grande, perché lì ciò che fai viene letto ai raggi X. Inoltre vorresti anche mangiarci qualcosa, non dico arricchirsi…
 
 
Come hai scelto le musiche?
Così. (ridendo) Finalmente era un mio spettacolo, così ho scelto delle canzoni che mi piacciono, come ho fatto anche per il manifesto … queste sono le piccole cose un po’ ruffiane…
 
 
 
PALLOTTOLE DI "CONTRAEREA" DAI BALCANI ALL'ITALIA
Il vincitore del premio in scena con le cause del conflitto
di Jean Claude Capello
 
Quando ormai la questione jugoslava sembrava accantonata per più recenti sciagure e relativi scandali, ecco che il teatro offre un’occasione di riflessione su ciò che è avvenuto dall’altro lato dell’Adriatico nell’ultimo decennio. Con bravura attorica e una buona documentazione non allineata alle ragioni ufficiali adottate, Patrizio Dall’Argine, con il suo Contraerea, ci guida in un percorso che vuole offrire una forma di comprensione del presente, trovando un felice equilibrio tra l’esposizione della storia recente e il momento personale, che stempera e allo stesso tempo istituisce un parallelismo con la tragedia della Bosnia.
La trattazione dei materiali, presi da alcuni reporter di guerra, può a tratti ricordare il Paolini dei Diari, ed è su questa falsariga che si articolano l’alternanza delle immagini dei carnefici, mentre lui racconta di come quella terra è sempre stata coattamente multietnica fin da prima dell’Impero Asburgico, alla presenza di un’alterego dell’autore. Egli attraverso momenti assurdi, mostra un quotidiano conflitto minore, lontano dai Balcani, ma che è ugualmente in grado di alienare. Così, come ci ha detto lo stesso Patrizio, il cecchino a Sarajevo può diventare un nostro pirata della strada, mentre le ragioni del primo trovano la propria ottusa giustificazione nello stesso modo in cui i personaggi del supermercato lanciano le proprie facili sentenze, tutti convinti di possedere una propria e valida ricetta ai mali del mondo.
La scenografia ridotta ed essenziale non limita la riuscita dello spettacolo, ma, al contrario, permette all’autore, che ha una provenienza esplicitamente pittorica, di mettere in mostra le proprie capacità senza sacrificare il gusto estetico.
Insomma, tra i finalisti del Premio Scenario, Contraerea è sicuramente il lavoro più compiutamente teatrale. È stato perciò meritato il premio attribuito a questo pezzo, che concilia tanto il risultato artistico quanto l’impegno sociale, non deludendo le attese nel passaggio dagli iniziali venti minuti allo spettacolo finito.
 
Contraerea
di e con Patrizio Dall'Argine
auito alla regia, luce e suono: Mirto Baliani

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