Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna
Voci dal Festival della Terra delle Gravine
"Risuona nello spazio antistante gli antri l'irritante sensazione della inquieta notte di re Riccardo, la notte che precede la battaglia finale. Tra un pubblico distratto e vociferante e la notte quieta e dolce, aspri rumori giungono dall'orchestra di Tamborrino impedendo il sonno al diabolico re: sono i fantasmi delle sue vittime, ingannate nella vita e adirate nella morte.
Sulla scena, essenziale e scarna, la dolente presenza di re Riccardo incalzato ed offeso dalle forti parole di Anna di Neville: null'altro, ma questo basta per rendere il carattere deciso, l'essenza malefica di un figlio del demonio che di nulla si cura se non dei suoi pretesti e raggiri.
(...) questa interpretazione shakespeariana di Tamborrino riesce a rendere nella povera scena di questo teatro rupestre e con la sola presenza di due personaggi la forza devastante e rovinosa di una storia d'altri tempi, eternata da un poeta d'eccezione. Naturalmente un decisivo ruolo nell'interpretazione di Elena Bucci e Claudio Morganti è dato dalla vincolante presenza della musica che dà ai personaggi ora momenti di riflessione, ora momenti d'ira, sprazzi di lucidi pensieri o accessi di follia sghignazzante ed isterica (...)."
(Marco Larocca)
Un teatro davanti alle bocche di due grandi grotte, gli attori come demoni o fantasmi suscitati dalla caverna infernale. Polvere e musica raffinata che ha mangiato, digerito e trasformato in nuovo sangue e nuova carne la lezione dell'avanguardia, alla ricerca di un incontro con un pubblico molto popolare, che vive in paesi lontani dai circuiti teatrali e dai centri di produzione della cultura, nonni, mamme, papà, bambini in continuo movimento. Tutto questo viene raccontato, a caldo, negli esercizi di recensione dei partecipanti al laboratorio di critica teatrale che ho tenuto al Festival della Terra delle Gravine, Marco Larocca, Morena Tamborrino, Maria Elena Maggi, Cosimo Marzia, Marisa Fazio, Tore Scuro.
Si parte, nell'assolato pomeriggio pugliese del 5 agosto, a bruciapelo: "Avete un'ora, un'ora e mezzo al massimo di tempo per scrivere una recensione del III Riccardo III di Claudio Morganti e Giovanni Tamborrino, lo spettacolo che avete visto ieri sera, o di un altro rappresentato in questi giorni". Avremo tempo di discutere della critica, di cosa è, degli spazi sempre più limitati che ha oggi; affronteremo in seguito il problema di come inventare nuovi strumenti per informare, per fare cultura teatrale, per sviluppare l'arte dello spettatore.
Il primo impatto deve essere con la scrittura, con la necessità di raccogliere le impressioni, i ricordi, e di dare loro un filo efficace, che renda la vita (i colori, gli stupori) dell'evento e apra la strada a una riflessione su di esso.
Su due altri elementi richiamo l'attenzione per le prime prove: l'ambiente umano e naturale (le aspre gravine e grotte di Ginosa, Laterza e Mottola) e il ruolo della musica. Postulato: la recensione deve far capire da quali elementi si genera lo spettacolo e la vita che scorre intorno al momento ritagliato della rappresentazione.
"Lo spettacolo comincerà con qualche minuto di ritardo ma in fondo poco male, lo scenario è di una insospettabile bellezza. Nelle grotte o negli anfratti più impensabili i fari colorati e le candele illuminano particolari di vegetazione o sculture calcaree naturali e non (...) che guidano lo sguardo nell'esplorazione visiva di questa enorme parete rocciosa. Ai piedi della parete un'altra scultura, questa volta metallica, fatta con cerchioni di automobili, ammortizzatori e barattoli collocati in una struttura pensile insieme ai numerosi tamburi (...).
E' indubbia la carica evocativa suscitata dalla musica che, pur non risultando didascalica, ha determinato dei paesaggi sonori vicini allo scenario di guerra ovvero della battaglia finale che Riccardo si appresta a combattere e di quelle battaglie intime e private che il personaggio ha vissuto e delle quali è memore al momento della rappresentazione. Diversi sono stati i momenti in cui la recitazione andava all'unisono con la musica, per imitazione dei suoi ritmi e delle vocalità da essa suggerita. L'attore per questo non è risultato però asservito alla musica; contrariamente ho avuto la percezione che gli attori fossero incastonati con grande naturalezza in questo amalgama di suoni e rumori; questo ha fatto della relazione voce-suono una relazione assolutamente paritaria. (...)"
(Morena Tamborrino)
Leggiamo, smontiamo i primi scritti. Indichiamo strade per svilupparli. Stiamo lavorando in modo sperimentale, nel senso che cerchiamo di riprodurre nell'ambito favorevole di un laboratorio le condizioni del lavoro critico. Il primo compito è quello di "precipitare" la dilatazione della visione normale nella sintesi di un brano di poche righe, elaborato in un tempo limitato. Nei giorni successivi esploriamo altre forme di esercizio: una recensione in due cartelle, all'incirca la misura dei resoconti per i quotidiani; un breve saggio, su uno o più spettacoli o su diversi aspetti del festival.
Ipotesi da verificare: come cambia il modo di scrivere a seconda dell'ipotetico contesto in cui va inserita la recensione (quotidiano, rivista); come muta, di conseguenza, il modo di guardare, di cercare informazioni, di investigare lo spettacolo. Studiamo interviste, presentazioni e recensioni di diverse epoche, apparse su pubblicazioni con finalità, periodicità e lettori differenti. Leggiamo le tendenziose analisi di George Bernard Shaw, alcuni acuti e veloci rendiconti di Gramsci per le edizioni di inizio secolo del quotidiano "Avanti", i programmi di sala prodotti dagli uffici stampa di alcuni teatri, varie riviste, le incursioni di letterati (Flaiano, Garboli) o di studiosi di teatro (Taviani).
Altre condizioni laboratoriali privilegiate che offre questo festival sono date dalla presenza di spettacoli che ricercano modalità di composizione drammaturgica non tradizionali, coinvolgendo in modo determinante nell'elaborazione dell'opera la musica, come nel caso delle "opere senza canto" di Tamborrino, e l'attore. Saranno pertanto utili materiali "d'esercizio" sia Mondo di Carta, uno spettacolo tratto da vari racconti di Pirandello di e con Enzo Vetrano, Stefano Randisi, Marco Sgrosso, Elena Bucci, (in scena anche Marika Pugliatti; collaborazione drammaturgica di Cristina Valenti), sia Barboni di Pippo Delbono, un emozionante lavoro che mette in scena attori ed emarginati alla ricerca di una contaminazione di verità tra arte e vita.
"Rocce, macchia mediterranea e Murge, Shakespeare e teatro sperimentale, pubblico colto e pubblico popolare: tutto questo è il festival; questa manifestazione, alla sua terza edizione, mira al recupero di luoghi rupestri perduti nella memoria della gente e ad una promozione teatrale senza precedenti in una marginale provincia tarantina dove la cultura si è quasi sempre fermata tra i banchi di scuola e le mute pagine dei libri. Con il festival vaghiamo tra i sassi e le rocce della Murgia pugliese, tra grotte scavate nel carparo ed antiche chiese rupestri e ci fermiamo stupefatti ad ammirare i profondi solchi e le ripidissime pareti, frutto di millenarie erosioni, che prendono il nome di Gravine. (...)"
(Marco Larocca)
Gli scritti, man mano che passano i giorni, prendono forma: ricostruiscono non solo gli spettacoli in modi sempre più precisi, mirando a "far vedere" e a "far capire" anche a chi non c'era, ma danno anche conto dei contesti, dei problemi che suscita un tale festival in quei luoghi. Diventano opinioni e discussioni di politica culturale, sul teatro e sui modi di intendere una rassegna estiva.
"(...) A Mottola il festival è stato inaugurato martedì 21 luglio con una parata lungo le vie della città, e bene è riuscito l'intento di Milon Mela nel voler presentare ad un pubblico europeo le antiche tradizioni dell'India (...).
Sabato 25 luglio ore 21.30 nella gravina delle Sette Lampade va in scena Mondo di carta (...). L'opera è stata tratta da Novelle per un anno di Luigi Pirandello, in particolare: "Guardando una stampa", "La tragedia di un personaggio", "La rallegrata", "La casa del Granella" e "Sgombero".
Il personaggio principale è Aureliano Balicci, vissuto tra i libri polverosi di una biblioteca. Ora, cieco, ricorda gli attimi fuggenti e nostalgici che una lettura attenta e silenziosa gli aveva regalato. La voce di Tilde Pagliocchi che legge i suoi libri lo infastidisce, e soprattutto non prova più le stesse emozioni che una lettura taciturna e personale seppe dargli. A questo punto si intrecciano altre novelle. (...)"
(Marisa Fazio)
"Pirandello è sbarcato al Festival delle Gravine e da uomo del Sud si è trovato perfettamente a suo agio tra le pietre della Terra di Mottola. (...)
Il lavoro si è realizzato in un ampio spazio scenico a più altezze che la natura aveva messo a disposizione della regia. I cinque attori sono riusciti a dominare questo ambiente non abituale con la stessa carica che avrebbero profuso sulle tavole di un palcoscenico.
Così, con il procedere della rappresentazione, tra le pietre, la scenografia naturale, alla fine, è scomparsa; la roccia aguzza, il sasso sporgente della gravina non sono risultati fattori determinanti o deterrenti per la creazione e il mantenimento di una tensione emotiva che ha tenuto per poco più di un'ora gli spettatori partecipi all'evento.
(...) hanno ripreso vita storie note o meno note di un Pirandello non drammaturgo ma narratore. Sulla scena ne è scaturito un lavoro, un teatro della parola e dell'affabulazione in cui il linguaggio nasce e si libera per raccontare. E bene è stato raccontato, con ammiccamenti accattivanti, interpretato così che l'attore è tornato quello strumento passionale che perfora la crosta della nostra vita che può essere sì reale, ma sempre meno vitale per molti di noi.
Gli squarci delle novelle presentate possono rappresentare il teatro delle occasioni da cui si impianterà il vero teatro del drammaturgo (...).
Due pecche. La prima: lo spettatore se non già a conoscenza del mondo letterario di Pirandello non avrebbe potuto seguire agevolmente l'intreccio dei sei racconti proposti. Un ritmo meno incalzante e più dilatato avrebbe dato la possibilità di una maggiore assimilazione del susseguirsi delle situazioni tratte da novelle diverse. La seconda: un poco di fantasia e un pizzico di buona volontà avrebbero potuto eliminare o sostituire, per rispetto della scenografia naturale, la fila di sedie da cinema in compensato collocate in scena. (...)"
(Cosimo Marzia)
"(...) La musica accompagna Riccardo, lo sostiene, quasi ne diventa l'armatura: un'armatura che gli dà vigore ed allo stesso tempo ne sfuma i contorni rendendolo fantasma come quelli da lui evocati. Ed ecco che il peso dell'armatura scava un solco intorno a Riccardo ed agli spettatori ed il fantasma del re avvolge tutti e coinvolge nel suo delirio non lasciando più vie di scampo. E così ora in scena con Riccardo non c'è più solo Lady Anna che ha ormai tirato fuori tutte le sue maledizioni, ma ci sono tutti gli spettatori che possono finalmente, attraverso l'opera, liberare i loro affanni e dar sfogo a tutto il negativo che hanno dentro.
Ma attenzione, perché non sempre è così: questo accade a Ginosa, dove il pubblico è silenzioso e attento, e dove gli attori sono già alla seconda replica, ma non è così a Laterza, dove il pubblico è rumoroso e dove gli attori vanno in scena con l'ultima prova che risale a qualche mese fa. Quella di Laterza (...) è la classica situazione da teatro di piazza dove troppi sono gli elementi di disturbo e dove completamente sbagliata è la scelta del luogo, giacchè le troppe difficoltà che ci sono per raggiungerlo predispongono negativamente lo spettatore. La stessa novità di utilizzo del posto distrae dallo spettacolo stesso. (...)
Attenti, però, a non pensare che sia sbagliato portare gli spettacoli all'aperto e soprattutto attenti a non svilire l'elemento del recupero del nostro patrimonio di cui Tamborrino e collaboratori si fanno paladini. (...)"
(Maria Elena Maggi)
"(...) Dispiace che il profumo di timo non esiste più, c'è soltanto uno strano odore aspro nell'aria, ed è tutto quello che ha lasciato un incendio di origine dolosa avvenuto qualche settimana fa. Le grotte illuminate da ceri o da luci danno un'immagine nuova a questo scenario naturale qualche volta dimenticato dagli stessi cittadini ma non dall'Amministrazione Comunale, attenta invece a salvaguardarne il valore. Purtroppo, però, a Mottola il festival ha acceso ancora una volta qualche polemica: non manca l'amico incontrato al bar che pensa, utopisticamente, di voler incrementare il turismo con una qualunque sagra della carne, o il banale notabile di paese che, più artisticamente, preferirebbe gustarsi nella fresca estate mottolese la solita ed ennesima opera lirica. Nessuno tra questi è il pretesto migliore per salvaguardare, valorizzare e far conoscere il patrimonio paesaggistico delle gravine. Quello che serve è un originale impatto emotivo, qualcosa di più profondo, e questo è il Festival della Terra delle Gravine!"
(Marisa Fazio)
Questi scritti sono estratti dai testi finali, frutto di un lungo lavoro di rielaborazione. Una rielaborazione guidata da diverse domande. La prima è stata: di cosa parliamo, oggi, quando parliamo di teatro? E di critica? Come è fatto uno spettacolo, come lo si guarda, come se ne può dare conto? Che non esistano regole certe non è tanto scontato. La critica si basa, molte volte, ancora su una semplice disamina del testo, sul racconto della trama. Ma il teatro va cambiando. Un tempo le recensioni uscivano la mattina successiva alla prima rappresentazione: il critico preparava in precedenza il pezzo, incentrandolo principalmente sull'autore e sul testo, per poi aggiungere in fretta, alla fine della visione dello spettacolo, brevi note sull'interpretazione degli attori e del regista. Ora anche i quotidiani hanno altri tempi; ma soprattutto si è diffusa la coscienza che svariati elementi concorrono a creare a uguale titolo lo spettacolo. E spesso compito del critico diventa proprio quello di osservare oltre ai risultati anche la storia dei processi creativi messi in atto.
Fondamentale diventa, allora, investigare le modalità di "drammaturgia" e di messinscena, inquadrare l'opera non solo nel repertorio di un autore drammatico, ma nel cammino degli artisti che la portano sul palcoscenico.
"Il III Riccardo III prende forma nel 1994. Giovanni Tamborrino scrive una partitura musicale su Studio per Riccardo III, ricalcandone tutti i momenti e convincendo appieno Claudio Morganti. 'E' stato un bell'incontro. Due anime creative in sintonia, ciascuna nel suo mondo, ma vibranti assieme'. Dice Claudio Morganti. Dal 1993 (anno dell'interruzione del sodalizio con Alfonso Santagata, datato 1979: Compagnia Katzenmacher), l'attore e regista ligure s'è dedicato esclusivamente a Shakespeare, da lui stesso definito 'la Bibbia dell'attore' (...).
Anna Neville (vedova di Edoardo, figlio di re Enrico VI, entrambi uccisi da Riccardo III) inveisce contro il folle re, il genio del male, accusandolo dei suoi spietati delitti. Riccardo di Gloucester apparentemente subisce, uscendo, a tratti, dall'atteggiamento difensivo con brevi frasi d'atroce ironia. Coi suoi guizzi nervosi il protagonista-autore Claudio Morganti è il centro energetico di questo lavoro. Ed è lontano dalle mura fortificate del suo immaginifico castello, e dalle tavole di un proscenio. 'Agli attori e ai musicisti chiediamo di abitare il paesaggio e di portare la loro arte al di fuori degli ambienti specialistici, senza però menomarne la sapienza tecnica e l'inquietudine sperimentale. Un dramma delle arti che coinvolga nel ritmo dell'evento diverse forme, tradizioni, tecniche e sensibilità'. E' il Tamborrino-pensiero, in altre parole la filosofia del festival (...)."
(Tore Scuro)
Se i metodi tradizionali d'analisi risultano usurati, come leggere oggi uno spettacolo? Come è possibile dare conto delle intersezioni tra i diversi elementi e operatori che concorrono nella concezione e nella produzione di un lavoro teatrale? Dedichiamo una parte del lavoro a ricostruire una griglia utile per l'analisi critica. Ma ogni astrazione, deduzione, generalizzazione viene fondata su dati concreti e su domande urgenti. Il risultato, imperfetto, provvisorio, può costituire anche uno strumento utilizzabile dallo spettatore che voglia entrare più addentro nelle cose sceniche:
1. La recensione deve presentare lo spettacolo attraverso: il titolo, l'autore, l'anno di realizzazione, altre notizie utili all'identificazione.
Ma gli schemi non bastano. La griglia deve essere interpretata, ogni volta, dalla sensibilità di chi guarda e decide cosa approfondire o tralasciare, anche in relazione a varianti quali la destinazione dell'articolo e lo spazio a disposizione. Fare critica è anche assumere dei punti di vista, scegliere una posizione dalla quale guardare. Può essere oggettiva, distante; oppure seguire più da vicino, pur senza confondersi, gli sforzi degli artisti per delineare nuovi orizzonti di creazione e nuovi ambiti organizzativi (e politici) di azione. Critica come giudizio; critica militante. Con tutte le contraddizioni relative.
La preparazione alla visione di Barboni si sviluppa intorno all'analisi di interviste agli autori e recensioni di questo singolare spettacolo. Si rintraccia l'origine della sua drammaturgia in una crisi del regista-protagonista che decide di confrontarsi sulla scena con i "barboni", con coloro che come l'artista sono fuori dalla norma e mostrano una verità spesso disarmata.
"Martedì 11 agosto Pippo Delbono e la sua compagnia arrivano nella gravine di Ginosa ed è subito caos: non ci sono camerini, non ci sono servizi, e l'accento cade ancora una volta sulle lacune del festival ... possibile che nessuno ci abbia pensato? Può l'artista diventare un troglodita e rinunciare anche al necessario? (...)
Ma i matti di Pippo hanno già dimenticato ed ecco si dà inizio allo spettacolo: c'è tanta polvere lì giù in gravina, i piedi dolgono sotto i sassi senza le scarpe, non s'è neanche notato se c'è la luna (c'era, c'era, e faceva compagnia ad una stella). Gli spettatori sono ammutoliti, oserei dire incantati, e tutti sono travolti da un turbinio di sensazioni che non hanno nulla a che vedere con la pietà: è emozione pura, è compassione pura (nel senso del termine greco... stesso sentimento). Forse perché ci riscopriamo tutti un po' 'barboni' (...)."
(Maria Elena Maggi)
"Danzare nella guerra, ossia la terapia di Pippo Delbono. Caduto in una profonda crisi depressiva, il regista e attore ligure, prende a guardarsi attorno, agli angoli delle strade, ai margini della vita. Nel suo vagabondare, Delbono, umanamente ed artisticamente assistito dall'argentino Pepe Robledo, incontra artisti di strada e disadattati. Con essi ritrova il sorriso, e la voglia di vivere nel quotidiano o danzare nella guerra, che poi è la stessa cosa. Forse. Più si soffre, più si è felici. Fra teatro e strada, prende forma Barboni (...).
La chitarra di Pietro Corso e le poesie di Bernardo Quaranta (morto barbone, ma con una valigia piena zeppa di pensieri vergati su carta straccia) fanno da colonna sonora alla scrittura scenica. (...)"
(Tore Scuro)
"(...) E lo spettacolo nelle sue bolge per lo spettatore distratto poteva divenire veramente infernale: guardando Mister Puma l'elettrico cantante rock scoppiato, la barbona con il suo tesoro fasullo pieno di poesie lette poi al leggio, l'ubriacatura della guerra, il ballo dell'ebrezza delle donne cannone o delle prostitute, il poliomelitico che racconta una delicatissima favola, il duetto con Bobò che interpreta a gesti con l'autore un pezzo di Aspettando Godot, la lotta delle grassone come sul ring di lotta libera, l'ironico grottesco funerale di un clown. (...)"
(Cosimo Marzia)
"(...) le poesie parlano un po' di tutti noi, siamo tutti un po' gatti senza nome, Bernardo Quaranta è tutti noi e tutti noi alla fine avremo il nostro clown dal volto bianco che canterà le nostre lodi o il nostro distruttivo epitaffio che restituirà l'udito a tutti quanti, così come è successo a Bobò che ha strappato un applauso a tutti quanti che incantati dalla compagnia si sono alla fine alzati ad applaudire per svariati minuti i fratelli barboni (...)."
(Maria Elena Maggi)
Questi scritti, come i primissimi, sono stati prodotti a caldo, in poco tempo, a conclusione della settimana di lavoro. Ma è stato percorso un notevole cammino, e si vede. Soprattutto per merito dei partecipanti: ciascuno con motivazioni molto forti, diverse per ognuno. C'era il cronista del giornale locale, il collaboratore occasionale di fogli vari, molti giovani laureandi o laureati (senza lavoro) che seguono ormai da alcuni anni le esperienze di Tamborrino. Essi, in relazione con i problemi che pone questo festival, frutto di una forte volontà artistica ma con pochi finanziamenti e con strutture organizzative precarie, tutte da costruire, hanno iniziato a confrontarsi con il teatro, crescendo anche come intellettuali che fanno cultura lontano dai grandi centri. Notevole è stato l'impegno di tutti, la voglia di porre domande e l'urgenza di ricercare risposte. Segno di vitalità culturale (e politica).
Tanto che la conclusione è stata un'ipotesi per il prossimo anno: uscire dall'ambiente "sterilizzato" del laboratorio e provare a produrre, durante il festival, un foglio di informazione per gli spettatori. Passare dall'esercizio asettico a misurarsi con la realtà in movimento di questa rassegna, di chi con tanta fatica la fa, di chi la guarda, del rapporto con le istituzioni e con i ritardi culturali e organizzativi di un sud che iniziative come questa vogliono profondamente cambiare.
MASSIMO MARINO