Incontri Seminari Laboratori
anno accademico 2000-01

TEATRO

 
 
La compagnia ravennate "Teatro delle Albe" ha portato in scena a Bologna i primi frutti del Cantiere Orlando, progetto pluriennale promosso dalla Biennale di Venezia. Il centro di promozione teatrale "La Soffitta" ne ha ospitato due "movimenti" e un "preludio" laboratoriale al conclusivo "Orlando Innamorato", incontri fra la drammaturgia di Marco Martinelli e antenati illustri quali Ludovico Ariosto, Teofilo Folengo e Matteo Maria Boiardo. Sul palcoscenico del Teatro Testoni (22 gennaio 2001) il primo "movimento": "L’Isola di Alcina. Concerto per corno e voce romagnola" di Nevio Spadoni, interpretato da Ermanna Montanari.
In collaborazione con Link Project la seconda tappa (31 gennaio, 1 e 2 febbraio): Il "Baldus" dei Palotini, giovane generazione delle Albe.

Concerto per Circe romagnola

di Valentina Bertolino
 
 
Assi da palcoscenico, schegge di versi, cocci di personaggi e cataste di oggetti deformati dal tempo: sono gli insoliti materiali del "cantiere Orlando", progetto teatrale che impegna il Teatro delle Albe in assemblaggi e restauri sulle fondamenta letterarie di un ambiguo Cinquecento.
Lo smaliziato sguardo del presente ritocca l’armonioso profilo del Rinascimento alla luce degli accenti passionali dell’Ariosto e degli scarabocchi ironici di Teofilo Folengo: incontrano così la scena le voci ribelli di Alcina, ammaliante insidia per i paladini, e Baldus, dissacrante riflesso dell’ideale cavalleresco.
La prima, novella Circe, rinasce nella campagna ravennate in un passato prossimo, e, ai nostri occhi, in un "concerto per corno e voce romagnola"; una "riscrittura per lampi" ritrae invece il secondo, con un’esuberanza che si divincola da ogni prigionia temporale.
Entrambi frutto di quella "phantasia" che, oggi come allora, confina con la realtà rivelandone le zone d’ombra, sono però ridisegnati secondo sperimentazioni espressive differenti: "L’isola di Alcina" e il "Baldus" sono il risultato di "movimenti" complementari di ricerca, cui corrispondono due generazioni delle Albe, multiforme compagnia romagnola che si ramifica nei percorsi individuali per poi riannodarli in un originale contesto corale.
Il "Concerto" affida così la melodia alla proprietà vocale di Ermanna Montanari, un’Alcina dai toni violenti, aspri o sofferenti, che in questa Romagna al crocevia fra l’immaginario e il reale ha un duplice volto: è qui una donna coinvolta in una vicenda d’amore e abbandono, il cui nome evoca le suggestioni del fantastico ariostesco, sfumando i confini con una dimensione magica.
In una narrazione per frammenti, che ricostruisce l’emozione e non il fatto, Alcina è voce sola, e le sue invettive descrivono la dolorosa esasperazione amorosa che ella condivide con la sorella Principessa, soffocata in un folle mutismo. Il testo si nasconde in oscuri suoni dialettali, e la regia supplisce con un linguaggio parallelo di gesti e oggetti trasfigurati in simboli: un giglio, una cornice, un divano, si inseriscono in una trama di mani che si stringono spasmodiche, si irrigidiscono, si attraggono e si respingono. Sembra un’isola il palco rialzato su cui troneggia la fisicità statica delle sorelle; sono uomini e sono cani quelle creature che mugolano o latrano nella gabbia sottostante, il canile ereditato dal padre…
Se la partitura del concerto affida la melodia alla recitazione, il ritmo è scandito da scatti di luce e buio, da rumori, da note elettroniche e dal corno, che lacera lo spazio come l’emozione il personaggio.
Si percepisce la ricerca dell’orchestrazione, della compenetrazione costruttiva di elementi drammaturgici diversi secondo principi di equilibrio. Una precisione formale quasi "rinascimentale", e dunque necessariamente minata dall’uso estremo dei mezzi espressivi: suoni acidi e fastidiosi, toni corrosivi, e il dialetto, radice maligna estirpata con cura dall’Ariosto, che con i suoi versi coltivava le prime gemme dell’italiano letterario. Quella stessa radice che, al contrario, Folengo fece attecchire alla base degli antichi pilastri del latino, per incrinare con divertito sguardo polemico gli ideali cristallizzati delle Corti: il "Baldus", secondo "movimento", compie lo stesso processo esprimendosi nella lingua viva, moderna, dei "Palotini", giovane generazione delle Albe.
In un’epica dei contrari, questo anomalo autore faceva nascere a Cipada, piccolo villaggio "oltre il Po", un paladino dal sangue reale, di stirpe francese: ma le premesse per un aureo destino si scontrano con la vocazione godereccia dell’eroe. Secondo il suo "codice d’onore", cerca la rissa, si riempie la pancia e si affoga nel vino, non riconosce nessuna autorità se non quella dei suoi desideri e "combatte valorosamente" per soddisfarli.
Nelle mani dei Palotini la vicenda di Baldus diventa una travolgente accozzaglia di parole, urla, risate, bottiglie che passano di mano in mano arruolando anche il pubblico fra i briganti , compagni d’avventura e piccolo esercito dai valori sovvertiti.
Sembra di assistere a un gioco nato per caso, che si prende sul serio proprio perché ingenuo: sembra che gli attori si avventino sui personaggi come bambini su un giocattolo, e che su di essi riversino la propria natura, gettando sulla scena la realtà che la circonda. Musica, fumo, insulti, gioiose volgarità e una rigorosa etica del disordine sono i cardini di questo gioco tutto al maschile, dove basta una parrucca e il falsetto a ricreare Baldovina, principessa di Francia, o un’armatura per rendere goffe le caricature di arrugginiti rappresentanti del potere.
I fatti sembrerebbero accumularsi orientati da una fantasia libera dai vincoli del testo, se Folengo non lanciasse qualche frecciata dal passato ridefinendo i caratteri del suo paladino, facendogli calpestare le vere bassezze umane, le malignità della corruzione e l’ipocrisia della forma.
Inesauribile l’energia degli attori, che non si risparmiano, correndo, gesticolando, ballando, e che, con la stessa intensità, si fermano per recitare dei versi, guardando estasiati a paradisi di birra.
Serio e ingenuo come un gioco, finisce all’improvviso, lasciando immaginare tutto il caos che il paladino irrequieto si lascerà alle spalle nelle sue ubriacanti peregrinazioni.
Il ritratto di Alcina compariva in un prezioso mosaico di emozioni; Baldo e i suoi compari irrompono senza complimenti. Nella platea dell’ "Isola" regnava il silenzio attento di un pubblico impegnato nella ricerca di una chiave di lettura personale, approfittando magari di quella emotiva, modulata sulla voce della protagonista.
Nel covo di "Baldus", al caos sonoro si aggiungono le risate degli spettatori, coinvolti anche spazialmente: l’azione straripa , e il pubblico la circonda, ma spesso ne viene circondato.
Prendendo le mosse dai classici di un secolo lontano, i due "movimenti" del "Cantiere Orlando" sembrano aver raggiunto poli opposti. Ma questa distanza è la stessa che separava Ariosto da Folengo, la Corte dal Popolino, l’Artificio dalla Natura, l’Ordine dal Disordine: l’uno non esisterebbe se non fosse il negativo dell’altro.
Così Alcina è il tumulto delle passioni confinato nell’interiorità, mentre Baldus è l’anarchia che dissolve la forma: la realtà umana, nel suo presente eterno, conserva il suo duplice volto, incurante dei secoli.
Il Teatro delle Albe coglie il rumore di fondo che accompagna il frastuono dello scorrere del tempo e, con frammenti di "ieri", porta alla luce l’essenza velata dell’ "oggi".
LA FOLLIA DI ALCINA

di Laura Romasco

Si è parlato di musica inquietante; si è detto che il dialetto romagnolo era ai più incomprensibile, ci tagliava fuori da una piena partecipazione. Non importa. In questo spettacolo hanno - devono avere – un netto predominio i sensi sulla comprensione. Il lavoro drammaturgico di Marco Martinelli lega insieme il mito della maga Alcina a una storia dal gusto popolaresco, molto semplice. È il regista stesso che ce la racconta in un breve prologo prima dell’inizio dello spettacolo.
Siamo in Romagna: Alcina è la figlia maggiore di un uomo appassionato dell’ "Orlando Furioso". Sua sorella minore è la prediletta: per questo la chiamano Principessa. Entrambe destinate a un doppio abbandono: il primo è quello del padre, che come unica cosa lascia loro il suo canile. E poi quello del bellissimo "furistir", che la innamora e poi scompare, improvvisamente così com’era comparso. È subito pazzia per la "principessa"; sarà Alcina a doversi prendere cura di lei, incondizionatamente. Ma anche lei è malata della stessa follia; in paese si dice che si sia presa piacere con lo stesso uomo, all’insaputa della sorella.
Questo ci racconterà Alcina: più che una storia la raffigurazione di uno stato, per noi, questa sera come tutte le altre sere. Un copione che si ripete, per ricordare, per rievocare, come si fa per un rito.
La scena è buia. Alcina e la sorella ci appaiono in un primo lampo di luce; sono sedute su un divano. Sembrano imprigionate da quel divano, così come da una gabbia luminosa intorno a loro. Di nuovo buio. È la musica ad introdurci in uno stato inquieto. Ancora luce. Le intravediamo; c’è un sottile velatino che ispessisce l’idea onirica di ciò che abbiamo davanti ai nostri occhi.
Stavolta c’è anche lui, il bel forestiero. È a torso nudo. Le guarda sedute. Ci guarda. Ha una maschera animalesca. Più tardi capiremo che è uno degli uomini-cani che abitano il piano inferiore della scena, il piano inferno. È il canile. Lo capiamo dai latrati. Ma è anche una sorta di prigione per quegli uomini visti come cani.
E sarà per entrambi l’invettiva di Alcina: per i cani e per gli uomini, che sono come loro, sono falsi, meschini, capaci di ogni bassezza.
Il lavoro sulla voce di Ermanna Montanari crea una musicalità inedita. Le parole vengono plasmate, appena sussurrate e subito dopo gracchiate. È il metro che ci viene dato per misurare la follia che le brucia dentro, quasi volesse nasconderla all’inizio, ma che esploderà in un crescendo finale.
Il "risuonatore-Ermanna" si intreccia alla voce del corno inglese e ai suoni elettronici come fosse un ulteriore strumento. È il terremoto che Alcina ha dentro, quello del quale ci rende partecipi.
Funzione drammaturgica affidata anche alle luci , che colorano la tenda drappeggiata alle spalle delle due attrici, continuamente, passando dal viola al verde acido, da toni scuri alla inondazione di oro quando il drappo verrà sollevato, al momento della rivelazione di Alcina. Le stesse luci che dipingono sul suo volto una maschera innaturale, accentuando inevitabilmente i tratti di follia, ma anche di rabbia, furore, sofferenza.
Principessa è diversa. È come chiusa in una teca di cristallo, dove vive il suo mondo insensato, che ce la mostra in uno stato di purezza, quasi. La calla che ha in mano evidenzia forse proprio questo. È lei che ciba i cani; questi esseri affamati, mai paghi. Che si assomigliano, ma che in fondo sono uno solo: il bello straniero, chiuso in gabbia e consapevole di esserlo. Questo ci riporta alla mente le magia della maga Alcina, che affascinava, innamorava e poi trasformava le sua vittime in pianta o animale.
È un dramma, un vero dramma che colpisce i nostri sensi, e che raggiunge il suo culmine quando lei, Alcina, confessa l’amore per lo stesso uomo, quell’amore che l’ha portata all’istupidimento, nella voglia di perdersi nella nebbia.
 

Marco l’alchimista

di Delia Giubeli

La reazione che si poteva leggere sui volti degli spettatori alla fine della rappresentazione del Baldus era completamente diversa da quella che si era potuta vedere, magari sui volti delle stesse persone, una settimana prima all’uscita del teatro Testoni. Quasi opposta si potrebbe insinuare, proprio perché opposti e, in un certo senso complementari, erano i due spettacoli ideati e diretti da Marco Martinelli. Il primo, L’Isola di Alcina, è un quadro perfetto, nitido, di una follia e un caos interiori alla protagonista interpretata dalla superba Ermanna Montanari. Una tecnica vocale e una mimica facciale che si fondono all’unisono in una melodia di lamenti, grida, parole e frasi lanciate in aria come frecce o solo sussurrate a labbra strette: il tutto arricchito e forse a tratti camuffato da un dialetto ravennate strettissimo, comprensibile solo a una parte della platea, ma che riesce comunque a coinvolgere tutti coloro che decidono di lasciarsi trasportare dalla sua vorticosa musicalità. Perché come lo stesso regista ci svelerà poi, nell’Isola di Alcina non c’è nulla da capire, tutto ciò che lo spettatore deve capire lo racconta egli stesso in un breve prologo, tutto il resto va vissuto ad un altro livello che non è quello della comprensione razionale. Infatti la trama è abbastanza semplice: due sorelle vengono colpite da una doppia sciagura, la morte del padre che le lascia così sole e la partenza, improvvisa come l’arrivo, del forestiero che le aveva amate entrambe. Ma il ruolo di sorella maggiore e l’onore costringono Alcina a non rivelare nulla sulla propria relazione ufficiosa e sul dolore che la tormenta e ad occuparsi della sorella minore Principessa, ingenua e indifesa pupilla del padre, ora smarrita e priva di senno per la fine di un amore invece più ufficiale. Il resto, ovvero lo spettacolo vero e proprio dal punto in cui lo iniziamo a vedere noi, è un crescendo di confidenze, di confessioni, di ingiurie contro gli altri e forse anche se stessa, da parte di Alcina che lentamente ma con la furia di un temporale lascia scrosciare fuori di sé fiumi di odio e di follia ormai da troppo tempo soffocati nelle sue viscere. Un terremoto di parole e passioni rinchiuso in uno spazio scenico limitato da una pedana rialzata, da un divano da salotto e da un fondale che come un muro delimita lo spazio vitale delle due donne : la precisione tecnica quasi maniacale di luci suoni e colori psichedelici che racconta il caos più totale di sentimenti. Nulla è lasciato al caso in questa ricerca spasmodica del "bello perché perfetto" e si può intuire nella sua totalità il lungo e faticoso lavoro svolto dal regista, dagli attori, dal musicista Luigi Ceccarelli e da Vincent Longuemare per il progetto luci.

Di tutto questo il Baldus è l’altra faccia della medaglia, l’immagine speculare, il rovesciamento di causa ed effetto: la struttura lineare e semplice della storia fa da catapulta per un gruppo di giovani scapestrati e agili come gazzelle a correre davanti dietro intorno al pubblico tra schiamazzi e grida di battaglia. Sono gli otto briganti amici di Baldo che lo seguono nelle sue avventure e sventure in nome di un’anarchia di gesti, di risate e di allegria: come Folengo volle allontanarsi dall’Ariosto e dal Bembo dalla ricerca di una lingua uniforme, mescolando latino e dialetti del nord Italia, così i giovani coautori di Martinelli danno corpo a una vera e propria drammaturgia d’avanguardia, testi di allora e parolacce di oggi, monologhi in versi e slang degli adolescenti discotecari dei giorni nostri! Un terremoto vero e proprio di balli urla e corse folli che avvolge e travolge il pubblico in risate più che chiassose, ma pur sempre soffocate dalla voce degli attori. Perché anche se molto giovani e alle prime armi, di veri e propri attori si tratta: lo si percepisce dalla concentrazione che mettono in ogni passo o parola dall’inizio alla fine dello spettacolo, dalla bravura a mantenere un perfetto equilibrio tra confusione di gesti e parole, sia improvvisata che studiata, e pathos nei monologhi poetici del Folengo, perché anche se due di loro sono attori adulti professionisti la differenza si nota ben poco, se non nei pezzi in dialetto di Luigi Dadina. Ma dietro a tutto questo si può notare la presenza di un maestro quale è Martinelli, una mente che non solo guida e coordina le parti di un tutto, ma che più che insegnare osserva, lascia liberi i suoi allievi di esprimersi nel proprio modo e linguaggio e ne trae, "risucchia" come dicono loro, tutto il materiale possibile e immaginabile da mettere in scena, che poi viene rielaborato non solo da lui ma dall’intera squadra "delle Albe". Così come un vero alchimista Marco compone e scompone ogni sostanza a sua disposizione, passa da un estremo all’altro, da materia a caos e da caos a materia per costruire un’architettura completa e solida di quello che è il "Cantiere Orlando", progetto promosso dalla Biennale di Venezia di cui aspettiamo il terzo e ultimo blocco, e di tutta la sua ricerca teatrale come regista.

Baldus, nostro contemporaneo

Siamo al Link, locale "underground" di Bologna. Tra lamiere luccicanti, luci coloratissime e cemento, si è svolta la grintosa performance dei "palotini" di Marco Martinelli: uno sguardo contemporaneo al cinquecento di Teofilo Folengo, fra musica hard-core e versi in latino maccheronico, tra "montagne di frittole, cocaina, spinelli" i ventenni di Ravenna si sono destreggiati in una calibratissima esplosione di energia, facendo rivivere ai giorni nostri il Baldus di cinquecento anni fa, trovando una corrispondenza "quasi millimetrica" tra le due epoche, come afferma lo stesso regista-alchimista Marco Martinelli. Alle ore ore 22.30 del 1 febbraio 2001 incontriamo gli attori dello spettacolo Baldus. Riscrittura per lampi da Teofilo Folengo andato in scena a Bologna dal 31 al 2 febbraio 2001.

- Quanto di vostro avete messo nei testi, nella drammaturgia?
A parte i monologhi, i blocchi, tutto il resto è improvvisazione nostra, l’inizio, per esempio, è metà mio e metà di Folengo. La visione inizia con Folengo: "l’enorme montagna, gnocchi, frittole…" "cocaina, spinelli…" l’abbiamo aggiunto noi.
- La musica è vostra?
La musica è stata scelta fra varie cassette del "Number One" di Brescia.
- Da dove nasce il Cantiere Orlando? Vi piace questo progetto? Ve l’ha proposto lui o l’avete scelto insieme?
Noi abbiamo iniziato a lavorare con Jarry per I polacchi . Lavoravamo già con la Non scuola.
Finiti I polacchi c’era già da tempo questo "Progetto Orlando" che va avanti fino a Giugno 2002 quando ci sarà il terzo blocco, l’ultimo. Quindi guidati da Marco siamo stati dentro il progetto orlando.
- Ma eravate più numerosi ne I Polacchi
- Sì, eravamo in 12.
- E gli altri?
Gli altri si sono scelti altre strade
- Comunque avete contribuito a fare anche i testi…qualsiasi cosa venisse fuori da voi…
È proprio la particolarità del lavoro di Marco: lavorare sull’attore; lui succhia dall’attore ciò che può essere utile, si lavora con l’improvvisazione…Marco è come un alchimista! Un succhiatore! Che lavora sull’attore…più materiali gli dai e più Marco riesce a costruire l’architettura di tutto lo spettacolo.
( pausa…Roby, si è offeso ed è scappato perché Delia non l’ha riconosciuto ne L’Isola di Alcina in cui ricopriva la parte di Forestiero!!!)
- Le prove come avvengono?
Ogni lavoro ha un tipo di prove diverso. Per i polacchi abbiamo lavorato per tre mesi tutti i giorni sei, otto, dieci ore al giorno, era proprio intensivo, disciplina "a paletta".
- Era un laboratorio a scuola?
Il primo passo oltre, diciamo. Nel senso che il laboratorio a scuola era due giorni alla settimana.
- Però voi avete cominciato a scuola.
Ma I Polacchi è tutta un’altra cosa! È il primo passo oltre…e poi il Baldus è un altro passo. Marco ci ha chiesto, oltre alla disponibilità, perché ne "I polacchi" all’inizio c’era solo la disponibilità, di lavorare molto di più, nel senso che c’era da portare ancora più materiale su cui poi lui chiaramente ci lavora e ti dice "va bene, non va bene" , anche se alcune cose te le dice anche sul momento: dieci minuti prima (dello spettacolo) ti dice: "No, guarda, facciamo un’altra cosa…" "Ma Marco, sta per entrare la gente…"rispondi tu…ma non c’è niente da fare, è un classico che ti dica una cosa del genere prima di uno spettacolo!
- Perciò vi chiede di improvvisare?
Di improvvisare no, però ti chiede di esserci sempre, cioè, non puoi "smollare", usando un termine calcistico: fino al novantesimo, anzi fino al fischio dell’arbitro…e se l’arbitro fischia al novantadue bisogna star lì fino al novantaduesimo.
- Perché il Cantiere Orlando riprende dei testi così antichi, epici e li rielabora così in un modo attuale, diciamo?
Questo è un modo di lavorare "Albe": il dare vita alle cose. Folengo, se lo leggi adesso, com’è scritto, è morto, nel senso che è di quattrocento anni fa, comunque senti che ha una vitalità interna. Per l’epoca magari quella che incomincio a dire all’inizio "gli gnocchi, frittole, dorate polpette…" era la fame vera, invece i ragazzi di oggi, le persone di oggi che cos’è che cercano? Al di là della ricchezza, che cos’è? Magari trovare fiumi di cocaina, montagne di spinelli. Roby: allora segnati questa: il lavoro delle Albe è sempre non una messa in scena, ma una messa in vita. Comunque da sempre Marco prende i testi classici: è un lavoro che fa anche con la Non scuola, che è l’insieme di tutti i laboratori che le Albe fanno nelle varie scuole di Ravenna, a cui partecipano più di quattrocento ragazzi. Quindi si prende il testo classico e lo si prende a sassate, lo si distrugge, per ridargli nuova vita, per ridargli la vita che aveva.
- Voi non siete tutti di Ravenna…
Lui è di Castiglione di Ravenna, lui di Torre del Greco…però abitiamo tutti a Ravenna
- Qualcuno vi ha definito "una compagnia teatrale che sta diventando una famiglia d’arte"
Ah! questa tu l’hai letta in Jarry 2000!!!
- Comunque si vede, lavorate così uniti che alla fine lui è come un padre, no?
Che bello! E l’Ermanna è la nostra mamma!(ironico)NO! NO! Questo NO! Ermanna ti chiedo scusa!
- Chi vi fa le luci?
Vincent Longuemare lavora col Kismet, è il light designer, un genio che da ragazzo si è visto tre volte i Sex Pistol dal vivo! È arrivato Marco!
Le domande vengono poste ora a Marco Martinelli, regista dello spettacolo.
- Da cosa nasce il progetto "Cantiere Orlando"?
È nato dalla fascinazione mia e di Ermanna, che avete visto nell’Alcina, per questi poemi del nostro rinascimento. Sono poemi di fantascienza straordinariamente moderni, futuri, non c’è psicologia dentro, ci sono psiche impazzite che schizzano di qua e di là, ci sono paladini che si perdono nei labirinti amorosi, ci sono tre rimbambiti, una narrazione molto potente, reale e fantastica allo stesso tempo, ci piace questo intreccio di realtà e fantasia, gran fantasia!
- Però poi la porti nella realtà più viva, perché anche loro ( i palotini) ci dicevano che questo usare i dialetti è un voler tirare fuori la vita all’interno di questi poemi, che magari leggendoli così con questa lingua arcaica sembrano morti.
In realtà, se vai sotto alla pelle, alla superficie, trovi proprio una grande forza, una grande vitalità. Folengo era il nostro Baldus, noi abbiamo fatto un’opera che uno, se la vede e non sa nulla di Folengo, dice: "Questi hanno raccontato del mondo di oggi!". Ma è la stessa cosa che faceva Folengo del suo mondo: lui raccontava gli sballati, i malandrini, i ragazzi affamati di vita, di vitalità e io l’ho trovato assolutamente contemporaneo, quasi in maniera millimetrica. A parte che in questo lavoro ci sono proprio delle sforbiciate dal poema di Folengo, ci sono proprio delle "rasoiate".
- Hai equilibrato la drammaturgia creata dai ragazzi con la drammaturgia dei testi, ho visto che ci sono cose scritte da loro.
Sono uscite da tante improvvisazioni che abbiamo costruito. Io lavoravo avendo questi due poli così apparentemente lontani: il poema in latino maccheronico di Folengo e tutta l’improvvisazione, tutto il mondo che loro tiravano fuori. Si trattava di costruire un’architettura che tenesse in piedi questi due poli, senza che fossero appiccicati l’uno all’altro, ma che si potessero vivere dentro lo spettacolo come profondamente intrecciati, per cui nella faccia di Roberto, di questo ragazzo della statale 16, tu vedi il Baldus di cinquecento anni fa; è questo che mi piacerebbe che lo spettatore vivesse. Sono ragazzi di oggi e nello stesso tempo c’è dietro di loro una luce che li rende degli archetipi lontani.
- Come fai a tirare loro fuori questa energia?
Molta ne hanno di loro, sono ragazzi, tra l’altro, scelti su uno squadrone.
- Infatti i palotini erano più numerosi.
I palotini erano dodici. Poi qui abbiamo Marco (Mercante ndr) che è stato preso apposta per fare una sorta di legame anagrafico tra Luigi Dadina l’attore che fa il re, che è diciamo un quarantenne, mentre loro sono tutti sui venti, e allora non volevo che ci fosse questo gradino troppo alto. In questo covo dei briganti lui mi fa questo link perfetto, anche per l’uso del dialetto mantovano che è proprio il dialetto di Folengo.
- Ma c’è anche un equilibrio perfetto tra il loro slancio e l’insegnamento. Si vede la guida forte di un maestro, che tira fuori un’energia che viene poi indirizzata perfettamente.
Questo è uno spettacolo che, uno che lo vive, che lo vede, a parte che si diverte, ma mentre nell’Alcina la precisione maniacale viene fuori immediatamente, qui uno può anche essere tratto in inganno e pensare che questo sia il frutto di energia, spontaneità, vitalità. Queste ci sono sicuramente, ma lo spettacolo è costruito con la stessa logica dell’Alcina, cioè noi lavoriamo tutti i giorni perché il dettaglio sia costruito alla perfezione, anche in questo "caos", ma è un caos con metodo, e proprio attraverso il metodo il caos diventa più forte. Se noi diamo una forma teatrale alla grande vitalità che abbiamo, allora arriva con potenza, altrimenti si disperde, e tante volte capita di vedere spettacoli dove c’è confusione, dove non c’è un caos organizzato e ordinato. Tutto questo viene costruito senza spegnere la loro furia, anzi, mantenendo sempre un equilibrio vivo tra furia, caos, metodo, follia, architettura, lavoro di alchimia. Lo spettatore molto bravo e sensibile lo coglie questo.
- In questo spettacolo il pubblico è molto coinvolto, mentre nell’isola di Alcina c’è una separazione netta.
Qui siete scese nel canile!
- Volevo chiedere un’altra cosa rispetto all’isola di Alcina, sull’uso del dialetto. A livello sensoriale lo spettacolo è molto forte, perché c’è una grande cura delle luci, delle musiche, anche l’uso della voce di Ermanna è calibratissimo, però non hai mai pensato che il dialetto potrebbe creare una mancanza nello spettatore? Lo spettatore esce dal teatro sapendo che non ha capito qualcosa perché non aveva gli strumenti. Al livello sensoriale arrivano delle forti emozioni…ma si sente che mancano le parole…
Capire a teatro è un falso problema. Tutto quello che c’è da capire nell’Alcina lo dico io nelle quattro parole iniziali. Capite quelle, e quelle si capiscono perché sono in italiano, il resto è da vivere solo ad un altro livello, cioè tutto ti arriva direttamente nella pancia, nel cuore, nel sesso, oppure in qualche cosa di profondo che sta nel cervello, ma che non è la comprensione razionale. E di questo abbiamo la conferma dal fatto che lo spettacolo ci è stato preso a New York, andrà in Olanda, forse in Israele e già una volta che usciamo dalla Romagna appunto, la gente non capisce nulla. Quindi il problema è comprendere a un livello profondo non tanto capire il significato razionale, come davanti a una sinfonia. Davanti a una musica tu non ti chiedi: "ma che cosa vuol dire?" eppure questa musica ti comunica un sacco di cose, un mondo. Tra l’altro un lavoro così ti arriva al cuore indipendentemente dalla comprensione razionale. Un romagnolo che capisce tutto può rifiutarlo, non passa dalla comprensione, passa se tu ti fai travolgere dal terremoto che è la voce di Ermanna coniugata con la musica di Ceccarelli. È un terremoto, quindi puoi dire "no, non voglio questo terremoto", oppure ti puoi lasciare trascinare da questo.
- Quindi tu hai scelto il dialetto romagnolo per la sua musicalità.
No. Il romagnolo è la lingua barbara di Ermanna, è una lingua che non sembra neanche un dialetto italiano, per come lo usa lei a un certo punto diventa greco antico, diventa qualche cosa di arcaico e il modo con cui Ermanna lo fa risuonare nell’Alcina è molto diverso dal modo con cui lavoriamo sui dialetti in questo spettacolo. Lì è usato come una lingua tragica, una lingua che urla una mancanza, manca qualcosa ad Alcina, alla sua vita ,al mondo e lei ce lo grida in quel modo. Qui il dialetto è usato nella maniera opposta, come un gioco linguistico, una capriola del cervello. A me piace andare in entrambe le direzioni, mi piace lavorare sul tragico come sulla sulla farsa assoluta e totale.
Ora Marco Martinelli riunisce i suoi "palotini" per qualche commento allo spettacolo…proprio come fa un allenatore con la sua squadra dopo una partita di calcio.

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